Giuseppe Conte, Avvocato degli Italiani? Badi a Vincere a Genova_ di Piero Laporta

tratto da http://www.pierolaporta.it/giuseppe-conte-avvocato-degli-italiani-badi-a-vincere-a-genova/

Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio stanno compiendo errori strategici gravi, tuttavia ancora rimediabili, a patto di dare un’immediata sterzata al modo di fronteggiare il crollo del ponte di Genova.

La politica e il potere si reggono su due pilastri: le risorse e il consenso. Quest’ultimo è più fragile del ponte genovese e, come si sa,  mutevole di suo. Esiste tuttavia un elemento che – ben più d’ogni altro – determina repentini mutamenti del consenso: il sangue, la morte di innocenti. Tutte le rivoluzioni cominciarono a causa di guerre con spargimento di sangue innocente, per stragi  di popolazioni inermi o altre analoghe sconcezze.

Da mezzogiorno del 14 agosto, quando crollò il ponte Benetton a Genova, il sangue di 43 innocenti, schiacciati dal calcestruzzo malato è stato come un cannoneggiamento di gente inerme: chiunque sia in buona fede s’è reso conto che negli ultimi venti anni sono state svendute non solo le ricchezze dell’Italia ma anche le vite dei cittadini. Quel crollo è tuttora in grado di scatenare uno tsunami da travolgere e distruggere definitivamente, cancellarli dalla scena politica, il Partito Democratico e Forza Italia, primi responsabili dello sfascio e del crollo dell’Italia. Ebbene, questo governo è stato deviato, frenato prima che lo tsunami si scatenasse.

Mercoledì 15 agosto – il giorno successivo alla catastrofe genovese – 170 migranti erano nelle acque maltesi. Alle 3.40 della notte qualcuno – senza consultare il governo – ha dato uno strano ordine a due unità della Guardia Costiera italiana, affinché intervenisse a 17 miglia nautiche da Lampedusa per caricare i migranti. Circa cinque ore dopo, alle 8.20, è intervenuta nave Diciotti che ha imbarcato 177 migranti, all’insaputa del governo.

Se le due motovedette si fossero dirette – come è stato sempre fatto in casi analoghi – verso Lampedusa in condizioni di sicurezza, si poteva accendere il solito contenzioso con Malta e attendere la composizione da parte dell’Unione Europea. È arrivato invece l’ordine di trasferire i migranti sulla Diciotti e questa, portandosi a Catania, si è messa sotto l’occhio delle telecamere del mondo. È giunta a Catania, senza entrare nei porti di Pozzallo e Augusta, sui quali vige la competenza delle procure di Ragusa e Siracusa, note in passato per posizioni tolleranti verso l’immigrazione. Chi ha consigliato di andare a Catania sapeva che Luigi Patronaggio, procuratore capo di Agrigento, aveva pianificato di recarsi nel capoluogo etneo, per un’ispezione a bordo della Diciotti? All’ispezione è conseguita l’indagine per sequestro di persona, sostenibile proprio dalla procura di Agrigento.

In altri termini, dal giorno successivo al disastro di Genova, le prime pagine, invece di concentrarsi sui 43 morti ammazzati dal ponte crollato, sono state condivise con la Diciotti e Patronaggio. A  partire dal 18 agosto, dopo quattro giorni dal crollo, sfumate le cronache dei funerali, la Diciotti ha cancellato il crollo di Genova.

Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, questo è dilettantismo grottesco, neppure scusabile con l’inesperienza di governo.

Si dirà che il governo non vuole esporsi ad accuse di sciacallaggio. Le accuse di sciacallaggio sono arrivate comunque, intanto però il governo – mettendo in ombra il disastro genovese, a vantaggio della Diciotti – trascura l’interesse dello Stato, trascura l’interesse delle 700 famiglie di sfollati, trascura l’interesse delle famiglie dei 43 morti ammazzati.

Il governo, smetta di autocompiacersi per gli applausi ai funerali. Il governo smetta di lamentarsi per l’indagine a carico d’un suo ministro, mentre nessun indagato risulta dopo il crollo del ponte. Vogliamo scoprire oggi che certa magistratura fa politica? Questo non toglie che si debba agire con la risolutezza imposta dalla situazione e consentita dal potere governativo e politico, più vasto di quanto sia stato dispiegato sinora. Se Patronaggio prevale è solo responsabilità dell’autorità politica, in quanto controparte inerte. Il governo smetta di porre in cima alla sua agenda vicende artefatte come quelle della Diciotti; vicende artefatte a dodici ore dal crollo, facendosi prendere per i fondelli in modo elementare. Il governo proceda piuttosto e senza indugio a nominare un collegio di difensori, costituendosi parte civile e invitando ad associarsi come parti civili le famiglie degli sfollati, quelle dei morti, il comune di Genova e tutti i cittadini e le imprese in qualche modo coinvolti nel disastro.

Solo un gruppo di pressione siffatto può ottenere il risultato di controllare l’operato della magistratura genovese, risalendo alle responsabilità, per esigere risarcimenti non solo da Autostrade, ma da tutti i ministri delle infrastrutture, dai capi di governo e dalle burocrazie corresponsabili del disastro.

La concessione ad Autostrade è uno degli aspetti del problema, ma non è “il problema” nella fase di indagine sulle responsabilità. Alla magistratura genovese l’onere di stabilire se il disastro sia colposo o doloso. Il disastro tuttavia rimane: è un dato di fatto incancellabile, qualunque cosa dicano e facciano i ministri delle Infrastrutture da Antonio Di Pietro a Graziano Del Rio. Il governo ha il dovere verso se stesso, verso lo Stato e verso tutte le vittime, sopravvissute e non, di fare tutto il possibile perché, sotto l’occhio d’un collegio di esperti difensori, il diritto e la giustizia coincidano e siano salvaguardati. Di certo tale salvaguardia non ci sarà se si rimane inerti mentre si fanno affiorare documenti come la lettera – pubblicata da L’Espresso e sequestrata(!) dalla procura – datata 28 febbraio 2018, con la quale la Autostrade avvertiva il ministero delle Infrastrutture e il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova sullo stato critico del viadotto. Deve essere chiaro che tale documento non alleggerisce la posizione di alcuna delle parti in causa, tutt’altro.

Il consenso, come s’è detto, può essere cancellato repentinamente dal sangue, dalla morte di innocenti. Questo può accadere, anzi accadrà senz’altro, per quanti abdichino al dovere di difendere efficacemente quel sangue e quegli innocenti. L’unica vittoria efficace sarà l’individuazione dei responsabili e il risarcimento a loro carico di tutte le vittime del viadotto di Genova. Altro che profughi, Diciotti e Patronaggio. Se ne ricordi chi entrò a palazzo Chigi autonominandosi “avvocato degli italiani”. www.pierolaporta.it

Parole chiave del nuovo corso politico: sicurezza, di Alessandro Visalli

Della parola d’ordine “sicurezza”.

Come avevo scritto nel precedente post sulla parola d’ordine “integrità”, e in quello sulla “onestà”, credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che è diretta alla formazione di un nuovo corpo sociale. I termini che riassumono questo dispositivo discorsivo sono: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”.

Nel suo insieme mi pare fondamentalmente una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio. E, con riferimento al tema della sicurezza, anche e soprattutto a quell’acceleratore che è l’Unione Europea.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

  1. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

Sicurezza’ è una parola che deriva dal non avere. In latino “sine cura”, senza preoccupazione, pervenuto a noi da ‘sinecura’, termine ecclesiastico medievale che si riferiva all’esenzione dalla ‘cura’ delle anime (ovvero ad un beneficio che non imponeva l’obbligo curiale), e successivamente trasposto in ogni occupazione remunerata con poco impegno. La ‘sinecura’ era normalmente un privilegio aristocratico.

Come tale deve averla intesa Tommaso Padoa-Schioppa quando il 26 agosto 2003 sul Corriere della Sera, scrive, lui che viene considerato in quegli anni di sinistra ed è il marito della Spinelli, una difesa a spada tratta delle “riforme strutturali”, arrivando a rigettare l’estensione del privilegio aristocratico anche ai plebei che si era avuto nei trenta anni tra il 1945 ed il 1975. Per lui bisogna, infatti, “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione” (una frase ascrivibile interamente alla tradizione della destra aristocratica e reazionaria); e, continua, in esplicito riferimento alle riforme appena lanciate in Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) ed a pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola, bisogna: “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

Ecco, bisogna avere preoccupazioni, altrimenti si potrebbe pretendere addirittura di essere davvero eguali.

Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.

Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello Stato Sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa-Schioppa arriva ad esprimere in questa direzione una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.

“Sine cura”, senza preoccupazione.

Intorno a questa parola d’ordine si configura la frontiera dell’ultimo scontro tra il mondo per come è, e il tentativo di costruire un ‘popolo’ che rimonti le rovine lasciate dall’angelo della storia (e dai suoi agenti interessati).

Ma mentre bruscamente si sposta l’agenda pubblica (attraverso politiche simboliche di impatto, ma di scarsa effettività per ora, come quelle sulla sicurezza personale e l’immigrazione dalla destra leghista, e quelle sul lavoro debole che dovrebbe ‘abituare alla povertà’, come disse Taddei, o sul reddito di cittadinanza) verso la protezione con lo stesso gesto politico si individua anche una conformazione di questo ‘popolo’. Perché se su parole come ‘onestà’ e ‘integrità’ (quest’ultima in misura minore, per effetto della polarità multiculturale) possono trovarsi quasi tutti, sull’estensione alla plebe del privilegio di essere ‘sine cura’, si trova – se si fa sul serio – solo quest’ultima, e su altre accezioni del termine ‘sicurezza’ (quelle autoritarie e fondate sull’inasprimento del controllo a protezione della proprietà) si trovano, invece, altri. La differenza tra aristocrazia e plebe passa per come si trattano questi conflitti.

Bisogna da considerare, infatti, che le politiche di protezione e sicurezza, al loro meglio (quando non sono solo nascondimento demagogico, come pure possono essere e spesso sono), implicano un riconoscimento, un prestare ascolto e offrire dignità a chi da solo, individualmente, non è in grado di darsi ‘cura’. Al loro peggio implicano una estensione del controllo sociale sensibile alla differenza di classe e volta a consolidarla.

Ma qui passa la contraddizione di cui parlavamo in “Diversioni”, le due forze al governo guardano a ‘popoli’ diversi e tendono ad articolare il solito discorso interclassista degli ultimi quaranta anni, pur cercando di aggirare alcune delle sue necessarie conseguenze.

La parola d’ordine “sicurezza”, come le altre, nella sua accezione di protezione come in quella di controllo, contribuisce dunque alla costruzione della posizione populista del governo e delle due diverse forze che lo compongono. Qui bisogna capirsi, perché se si perde di vista che si tratta di una costruzione retorica, volutamente vaga, si rischia che “catturi” il parlante ed anche l’ascoltatore. Ma, anche ove ciò accada, il “fondo” delle problematiche nella loro materiale fatticità non si dissolve per il fatto di non essere nominato; le fratture costitutive continuano ad operare dietro le spalle. Queste sono dotate di una propria logica, attraversano diagonalmente i corpi sociali, creano meccanismi di creazione/cooptazione subalterna, strutture di collaborazione ed espulsione. Si presenta quindi, comunque in particolare attraverso parole e politiche così potenti nel catturare il consenso e determinare delle nuove equivalenze sociali ed opposizioni (la creazione immediata del ‘popolo di Genova’, unito contro alcuni tanto quanto speranzoso di ricevere attenzione e protezione da altri) l’ombra dell’accomodarsi al possibile e più semplice “populismo di sistema” (che abbiamo visto nella rapida parabola renziana) la cui matrice non è esterna al corpo dei possibili ‘popoli’, ma, inscritta, e che nella sua potente e concreta egemonia, cattura e pervade già il “senso comune” senza essere ‘innocente’; questa soluzione, capace di ripresentarsi inaspettata, è in effetti, in altre parole, costituita ed intrappolata nelle strutture e nelle cornici funzionali alla produzione e riproduzione degli assetti che creano le diverse socialità. La mancata tematizzazione e ricerca di un punto di connessione e compromesso verbalizzato (e dunque democraticamente conformato) della base plurale e contraddittoria tra le due forze al governo può favorire questo esito.

A titolo di esempio l’egemonia neoliberale sui due temi indica che l’immigrazione deve essere lasciata del tutto libera, mentre la sicurezza garantita con mezzi di polizia, due posizioni entrambe costruite per avvantaggiare il ceto dominante dell’assetto sociale della “grande moderazione” (rentiers, ceti garantiti e proprietari, capitale finanziario e produttivo internazionalizzato). Se ci si posiziona, però, su una struttura meramente reattiva, incapace di andare alla radice dei problemi posti dalla fatticità del reale lo sforzo controegemonico, apparente, dei populismi di destra, in quanto mimetico dei mondi vitali che vengono a scontro con le ondate immigratorie in modo dissimetrico, predicherebbe chiusura radicale su linee nazionali e ancora più controllo di polizia.

Offrire, invece, autentica “sicurezza” implicherebbe la ridefinizione del senso comune in modo aderente ai problemi per come questi si realizzano sul campo e per come determinano pressioni dalle quali proteggere. La linea dovrebbe essere piuttosto di proporre l’avanzamento del valore della “responsabilità” (sia verso i cittadini sia verso gli immigrati) che la società deve assumere, e per essa il sistema istituzionale ed economico, nella gestione dell’epocale fenomeno dell’immigrazione. Non si possono accogliere indiscriminatamente persone, affidandole alle proprie sole forze ed al mercato, senza assumere per esse la responsabilità di garantire lo stesso set di diritti sostanziali che va garantito a tutti. Dunque, lungi dal prevedere una rincorsa verso il basso, per via di competizione tra poveri (che scatena anche la spinta alla protezione con mezzi repressivi ed apre un inseguimento senza fine), bisogna che si faccia un grande investimento, commisurato alle risorse mobilitabili, per garantire una vita dignitosa. Per tale via nella stessa mossa limitare i nuovi arrivi in base ad una programmazione, sensibile ai doveri umani, ma non cieca alle conseguenze, e investire queste ultime, facendosene carico, con un programma guidato dal pubblico ed adeguatamente finanziato. Se si fa diminuirà anche la necessità di protezione senso della securizzazione.

Da una parte (“onestà”) abbiamo dunque la ripresa della sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, ed il richiamo implicito a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane.

Dall’altra troviamo la parola d’ordine polisemica della “sicurezza”, declinata come protezione ben calibrata all’altezza dei problemi enormi che l’occidente in questa fase ha davanti (in USA, oggi, l’equivalente della popolazione di Italia, Francia e Spagna insieme, vive solo perché riceve i “food stamp”), e infine troviamo il desiderio di “integrità”, che lavora a distinguere e caratterizzare il corpo sociale della democrazia dall’imperiale sopraffazione da parte del meccanismo del governo sistemico, incardinato nel governo a più strati europeo che abbiamo di fronte.

Si tratta per intero, sia chiaro di operatori, significanti vuoti con il linguaggio di Laclau, che contengono il rischio di maggiore violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), potendosi tradurre in moralismo escludente, esclusione e sicurizzazione, nazionalismo, ma tracciano una via di uscita concreta dall’ambiente neoliberale nel quale siamo cresciuti negli ultimi anni.

Mettere in equilibrio questo grande tema di protezione e sicurezza, ben inteso, con l’integrità e con l’onestà nel senso detto potrebbe, insomma, rappresentare un reale avanzamento.

Qualcuno dovrebbe farsi avanti e prendere questa torcia, prima che si spenga.

parole chiave del nuovo corso: identità, di Alessandro Visalli

Della parola d’ordine “sicurezza”.

Come avevo scritto nel precedente post sulla parola d’ordine “integrità”, e in quello sulla “onestà”, credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che è diretta alla formazione di un nuovo corpo sociale. I termini che riassumono questo dispositivo discorsivo sono: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”.

Nel suo insieme mi pare fondamentalmente una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio. E, con riferimento al tema della sicurezza, anche e soprattutto a quell’acceleratore che è l’Unione Europea.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

  1. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

Sicurezza’ è una parola che deriva dal non avere. In latino “sine cura”, senza preoccupazione, pervenuto a noi da ‘sinecura’, termine ecclesiastico medievale che si riferiva all’esenzione dalla ‘cura’ delle anime (ovvero ad un beneficio che non imponeva l’obbligo curiale), e successivamente trasposto in ogni occupazione remunerata con poco impegno. La ‘sinecura’ era normalmente un privilegio aristocratico.

Come tale deve averla intesa Tommaso Padoa-Schioppa quando il 26 agosto 2003 sul Corriere della Sera, scrive, lui che viene considerato in quegli anni di sinistra ed è il marito della Spinelli, una difesa a spada tratta delle “riforme strutturali”, arrivando a rigettare l’estensione del privilegio aristocratico anche ai plebei che si era avuto nei trenta anni tra il 1945 ed il 1975. Per lui bisogna, infatti, “lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione” (una frase ascrivibile interamente alla tradizione della destra aristocratica e reazionaria); e, continua, in esplicito riferimento alle riforme appena lanciate in Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda 2010, davanti al Bundestag) ed a pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola, bisogna: “attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

Ecco, bisogna avere preoccupazioni, altrimenti si potrebbe pretendere addirittura di essere davvero eguali.

Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”.

Simili frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale liquidazione dello Stato Sociale, dei diritti di dignità e protezione che rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa-Schioppa arriva ad esprimere in questa direzione una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi: “il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.

“Sine cura”, senza preoccupazione.

Intorno a questa parola d’ordine si configura la frontiera dell’ultimo scontro tra il mondo per come è, e il tentativo di costruire un ‘popolo’ che rimonti le rovine lasciate dall’angelo della storia (e dai suoi agenti interessati).

Ma mentre bruscamente si sposta l’agenda pubblica (attraverso politiche simboliche di impatto, ma di scarsa effettività per ora, come quelle sulla sicurezza personale e l’immigrazione dalla destra leghista, e quelle sul lavoro debole che dovrebbe ‘abituare alla povertà’, come disse Taddei, o sul reddito di cittadinanza) verso la protezione con lo stesso gesto politico si individua anche una conformazione di questo ‘popolo’. Perché se su parole come ‘onestà’ e ‘integrità’ (quest’ultima in misura minore, per effetto della polarità multiculturale) possono trovarsi quasi tutti, sull’estensione alla plebe del privilegio di essere ‘sine cura’, si trova – se si fa sul serio – solo quest’ultima, e su altre accezioni del termine ‘sicurezza’ (quelle autoritarie e fondate sull’inasprimento del controllo a protezione della proprietà) si trovano, invece, altri. La differenza tra aristocrazia e plebe passa per come si trattano questi conflitti.

Bisogna da considerare, infatti, che le politiche di protezione e sicurezza, al loro meglio (quando non sono solo nascondimento demagogico, come pure possono essere e spesso sono), implicano un riconoscimento, un prestare ascolto e offrire dignità a chi da solo, individualmente, non è in grado di darsi ‘cura’. Al loro peggio implicano una estensione del controllo sociale sensibile alla differenza di classe e volta a consolidarla.

Ma qui passa la contraddizione di cui parlavamo in “Diversioni”, le due forze al governo guardano a ‘popoli’ diversi e tendono ad articolare il solito discorso interclassista degli ultimi quaranta anni, pur cercando di aggirare alcune delle sue necessarie conseguenze.

La parola d’ordine “sicurezza”, come le altre, nella sua accezione di protezione come in quella di controllo, contribuisce dunque alla costruzione della posizione populista del governo e delle due diverse forze che lo compongono. Qui bisogna capirsi, perché se si perde di vista che si tratta di una costruzione retorica, volutamente vaga, si rischia che “catturi” il parlante ed anche l’ascoltatore. Ma, anche ove ciò accada, il “fondo” delle problematiche nella loro materiale fatticità non si dissolve per il fatto di non essere nominato; le fratture costitutive continuano ad operare dietro le spalle. Queste sono dotate di una propria logica, attraversano diagonalmente i corpi sociali, creano meccanismi di creazione/cooptazione subalterna, strutture di collaborazione ed espulsione. Si presenta quindi, comunque in particolare attraverso parole e politiche così potenti nel catturare il consenso e determinare delle nuove equivalenze sociali ed opposizioni (la creazione immediata del ‘popolo di Genova’, unito contro alcuni tanto quanto speranzoso di ricevere attenzione e protezione da altri) l’ombra dell’accomodarsi al possibile e più semplice “populismo di sistema” (che abbiamo visto nella rapida parabola renziana) la cui matrice non è esterna al corpo dei possibili ‘popoli’, ma, inscritta, e che nella sua potente e concreta egemonia, cattura e pervade già il “senso comune” senza essere ‘innocente’; questa soluzione, capace di ripresentarsi inaspettata, è in effetti, in altre parole, costituita ed intrappolata nelle strutture e nelle cornici funzionali alla produzione e riproduzione degli assetti che creano le diverse socialità. La mancata tematizzazione e ricerca di un punto di connessione e compromesso verbalizzato (e dunque democraticamente conformato) della base plurale e contraddittoria tra le due forze al governo può favorire questo esito.

A titolo di esempio l’egemonia neoliberale sui due temi indica che l’immigrazione deve essere lasciata del tutto libera, mentre la sicurezza garantita con mezzi di polizia, due posizioni entrambe costruite per avvantaggiare il ceto dominante dell’assetto sociale della “grande moderazione” (rentiers, ceti garantiti e proprietari, capitale finanziario e produttivo internazionalizzato). Se ci si posiziona, però, su una struttura meramente reattiva, incapace di andare alla radice dei problemi posti dalla fatticità del reale lo sforzo controegemonico, apparente, dei populismi di destra, in quanto mimetico dei mondi vitali che vengono a scontro con le ondate immigratorie in modo dissimetrico, predicherebbe chiusura radicale su linee nazionali e ancora più controllo di polizia.

Offrire, invece, autentica “sicurezza” implicherebbe la ridefinizione del senso comune in modo aderente ai problemi per come questi si realizzano sul campo e per come determinano pressioni dalle quali proteggere. La linea dovrebbe essere piuttosto di proporre l’avanzamento del valore della “responsabilità” (sia verso i cittadini sia verso gli immigrati) che la società deve assumere, e per essa il sistema istituzionale ed economico, nella gestione dell’epocale fenomeno dell’immigrazione. Non si possono accogliere indiscriminatamente persone, affidandole alle proprie sole forze ed al mercato, senza assumere per esse la responsabilità di garantire lo stesso set di diritti sostanziali che va garantito a tutti. Dunque, lungi dal prevedere una rincorsa verso il basso, per via di competizione tra poveri (che scatena anche la spinta alla protezione con mezzi repressivi ed apre un inseguimento senza fine), bisogna che si faccia un grande investimento, commisurato alle risorse mobilitabili, per garantire una vita dignitosa. Per tale via nella stessa mossa limitare i nuovi arrivi in base ad una programmazione, sensibile ai doveri umani, ma non cieca alle conseguenze, e investire queste ultime, facendosene carico, con un programma guidato dal pubblico ed adeguatamente finanziato. Se si fa diminuirà anche la necessità di protezione senso della securizzazione.

Da una parte (“onestà”) abbiamo dunque la ripresa della sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, ed il richiamo implicito a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane.

Dall’altra troviamo la parola d’ordine polisemica della “sicurezza”, declinata come protezione ben calibrata all’altezza dei problemi enormi che l’occidente in questa fase ha davanti (in USA, oggi, l’equivalente della popolazione di Italia, Francia e Spagna insieme, vive solo perché riceve i “food stamp”), e infine troviamo il desiderio di “integrità”, che lavora a distinguere e caratterizzare il corpo sociale della democrazia dall’imperiale sopraffazione da parte del meccanismo del governo sistemico, incardinato nel governo a più strati europeo che abbiamo di fronte.

Si tratta per intero, sia chiaro di operatori, significanti vuoti con il linguaggio di Laclau, che contengono il rischio di maggiore violenza (di fronte al ‘freddo’ governo liberale), potendosi tradurre in moralismo escludente, esclusione e sicurizzazione, nazionalismo, ma tracciano una via di uscita concreta dall’ambiente neoliberale nel quale siamo cresciuti negli ultimi anni.

Mettere in equilibrio questo grande tema di protezione e sicurezza, ben inteso, con l’integrità e con l’onestà nel senso detto potrebbe, insomma, rappresentare un reale avanzamento.

Qualcuno dovrebbe farsi avanti e prendere questa torcia, prima che si spenga.

servizi di leva: si o no?, di Fulvio Gagliardi

tratto da facebook https://www.facebook.com/fulvio.gagliardi.1/posts/10215138279764390

Servizi di leva: si o no?
di recente ho letto varie opinioni sull’argomento, Soloni che erano a favore o contro con vari forbiti argomenti.
Prima di dire ciò che penso vorrei riportare quanto scritto da un soldato di leva del gruppo alpini Udine Sud.

“Era il 1992 e avevo 20 anni quando è arrivato il momento della fatidica chiamata alle armi. Un disastro!!!
Avevo già un lavoro e la fidanzata, quindi solo il pensiero di perdere un anno della mia vita lontano dagli affetti e dal mondo lavorativo mi sconvolgeva. I primi giorni non sono stati facili e arrivare a sera con serenità non era una cosa contemplata dagli istruttori della caserma. Tra alti e bassi il primo mese era passato e da quel momento il mio servizio militare è diventato una parte importante della mia vita. In un solo anno ho avuto la possibilità di partecipare ad esperienze meravigliose e indimenticabili che hanno contribuito a costruire l’uomo che sono oggi. Ovviamente non tutti i ragazzi sono stati così fortunati da passare un anno costruttivo (infatti molti hanno passato un anno in attesa senza svolgere alcun compito), ma sono sicuro che in ognuno quell’anno abbia lasciato un segno. A sostegno della mia esperienza vi propongo un messaggio che girava a Trento in occasione dell’ultima adunata nazionale. Ad ognuno di voi trarne le conclusioni.
-Al netto di tutte le sterili (politiche) polemiche voglio esprimere il mio sentire verso il corpo degli Alpini del quale ho fatto e faccio parte. Posto che aborrisco ogni forma di violenza, sia fisica che psicologica, e ritenendo le armi una di queste forme, il mio anno di appartenenza al Gruppo Artiglieria da Montagna Belluno è stato il mio svezzamento alla vita. Ho capito il valore dell’acqua quando dovevo percorrere 30 km a piedi sotto il sole cocente con una sola borraccia nel mio zaino da 30 kg.
Ho capito che quando avevo fame, una gavetta di pasta scotta pallidamente condita era una bontà da leccarsi i baffi, sperando in un bis.
Ho imparato a tacere, ascoltare e parlare solo quando venivo interpellato e al contempo pronunciare, scandire bene le parole per non essere frainteso.
Ho capito che per comandare bisogna saper obbedire.
Ho capito che il mio prossimo da amare non aveva necessariamente sembianze umane; il mio mulo, gli alberi che cingevano e proteggevano la piazza d’armi, il fiume Fella che costeggiava la caserma…tutti miei prossimi.
Ho capito che “Frà” significa fratello, anche se il mio cognome era diverso e anche se non gli somigliavo per niente.
Ho imparato a rispettare la Montagna, il suo silenzio e i suoi abitanti, flora o fauna che fossero.
Ho imparato a tener duro e raggiungere la meta prefissata a tutti i costi.
Ho capito che quello in difficoltà potevo essere io e che per chiudere il cerchio dovevo aiutare chi lo era più di me.
Ho visto che la neve poteva nascondere insidie ma anche i primi bellissimi fiori d’inverno.
Ho sentito sulla mia pelle e nel mio profondo che “l’unione fa la forza” non è solo un proverbio.
Ho imparato a rispettare e capire la Natura, sentendomi parte di essa fino all’ultima stilla di sangue (se spezzi quel ramo deve servirti per sopravvivere altrimenti lascialo dov’è).
Ho sentito quanta felicità mi può dare la piggia incessante e battente che cade sul mio corpo dopo 3 ore di cammino con 40 gradi all’ombra e provare altrettanta felicità sentendo un raggio di sole che mi scalda in una gelida giornata d’inverno.
Ho capito che il valore di un Uomo non si misura con denaro, potere, fama e successo, ma solo con la sua umanità.
Oggi (ma da qualche anno a questa parte) ho capito che se non avessi passato quell’anno Alpino sarei sicuramente un Uomo peggiore.
Questo …e molto di più.”

Ecco cosa sente uno che ha fatto il servizio di leva e come è cambiato: è difficile raggiungere gli stessi risultati in qualsiasi altro modo.
Riflettendo ho un’altra considerazione da sottoporre:
E’ vero che limitandoci agli scenari attuali basta un esercito di specialisti, ma…se davvero fossimo coinvolti in una guerra seria pensate che sia ipotizzabile lasciarla ai soli specialisti mentre tutti gli altri se ne stanno con le mani in mano?
Io credo di no! Allora verrebbero chiamati alle armi tutti gli altri, impreparati, grassi e ignavi cittadini da addestrare in fretta e furia, se mai ce ne sarebbe il tempo.
Che ne pensate?
Vale la pena di creare un vero cittadino e per di più saper che se mai dovesse servire (speriamo mai) sarebbe già parzialmente pronto?
Cosa fanno gli svizzeri? Oltre che addestrarlo nella leva lo richiamano ogni tanto con regolarità per un aggiornamento…
Riflettiamo su quanto detto prima di affermare frettolosamente che basta un esercito di soli specialisti!
Evidenzio che io che dico questo sono stato nel genio aeronautico, il massimo in tema di specialisti….

Ma dove vanno i marinai?, di Piero Visani

Sulla differenza tra potere e governo, un caso illuminante. Con una precisazione; le quinte colonne del potere nel Governo_Giuseppe Germinario

Ma dove vanno i marinai?

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       Tra il 1990 e il 1993, la mia attività di supporto alla comunicazione dell’istituzione militare trovò un per me insperato supporto nel generale Goffredo Canino, all’epoca Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, che mi diede prova di condividere sinceramente e fattivamente la mia visione radicalmente ostile alle geremiadi sui “soldati di pace”. La cosa non sfuggì a un ambiente profondamente penetrato dalle culture dominanti (da quella cattolica della Comunità di Sant’Egidio a quella delle Sinistre, più forti di quanto comunemente si pensi all’interno degli ambienti militari) e partì non appena possibile la controffensiva, che si concluse con il famoso caso di “Lady Golpe”, Donatella Di Rosa.
       Chi l’aveva promossa era perfettamente a conoscenza del forte senso dell’onore del generale Canino, che con quel caso non c’entrava in alcun modo, ma che sicuramente avrebbe messo a repentaglio la sua personale carriera per difendere l’onorabilità dell’istituzione militare. E fu esattamente quello che egli fece, dando le dimissioni per difendere la reputazione di alcuni suoi sottoposti ingiustamente accusati dal potere politico e dalla canea mediatica.
       Si trattò di un’operazione da manuale, da parte di chi voleva togliere di mezzo Canino, condotta con spregiudicatezza e lucido senso dell’obiettivo da cogliere. Alla fine, infatti, fu aperta la strada a uomini in uniforme che avevano una visione molto diversa da quella di Canino o erano comunque disposti a legare l’asino dove voleva il padrone…
       Sorrido perciò nel vedere almeno una parte del nuovo governo gialloverde alle prese con un vertice della Guardia Costiera che sta sviluppando una politica del tutto opposta, sulla questione dell’emigrazione, a quella dell’esecutivo, senza che – per ora e credo ancora per molto – una sola testa venga fatta metaforicamente volare. Come ho scritto, ho visto teste – in ambito militare – volare per molto meno, talvolta anche per una sola parola o una dichiarazione di troppo. Qui invece si stanno accumulando atti ostili alla politica del governo in materia di immigrazione e – che la si condivida o meno – lo spoils system è uno strumento assolutamente legittimo in democrazia. Ma una parte consistente della classe politica italiana ancora non ha compreso che “il potere logora chi non ce l’ha” e alcuni di loro, anche se per il ventennio del centrodestra hanno creduto di averlo, non hanno capito niente e oggi, semmai, capiscono ancor meno. Così, se è vero che il PD ha perso qualsiasi credibilità a livello di opinione pubblica, ha saputo piazzare tutti i suoi uomini negli apparati dello Stato e li usa, oh se li usa, mentre altri credono di governare. Che ingenui…!
 
                                                                Piero Visani

parole chiave del nuovo corso: onestà, di Alessandro Visalli

Della parola d’ordine “onestà”.

https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-onesta.html

Le attuali forze che reggono il governo stanno articolando un discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che sono diretti alla formazione di un nuovo corpo sociale: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”. Visto con lo sguardo del partecipante, necessariamente parziale, ed in corso di eventi, sembra una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio.

Si dice “populismo” intendendo proprio questa aspirazione alla ricerca di un senso, ed alla ricostruzione (rischiando il pastiche) del paesaggio ormai distrutto al passaggio dell’angelo. In questa direzione, anche se in modo del tutto inconsapevole, e probabilmente profondamente contraddittorio, le due forze al governo pongono a ben vedere sotto accusa lo stesso iper-capitalismo (e non solo la sua forma finanziarizzata), la cui logica, e da sempre, predilige ed esalta le passioni, tra queste proprio le meno sociali come l’egoismo, ed esalta vuoti obiettivi come l’efficienza, prediligendo una razionalità meramente oggettivante e funzionale. Attraverso i suoi necessari effetti de-socializzanti, e la disseminazione di perdenti (ovvero di “inefficienti”), il capitalismo sostenuto acriticamente da troppi e troppo a lungo, nell’illusione della ‘fine della storia’, ha alla fine scavato sotto i propri piedi aprendo la fase propriamente rivoluzionaria che si sta avviando (e che sembra accelerare). Questa fase è interpretata in modo più efficace e naturale dalle culture di destra, o da culture che si formano fuori della tradizione della sinistra trattenuta dal feticismo del progresso e dal suo bias per la modernità.

Le forze che sono al centro di questi eventi sono avvantaggiate in forma decisiva perché si muovono da quel lato rovescio della democrazia, ineliminabile ma insieme per sua struttura esterno, che è la contro-politica, la sfiducia organizzata. Da quella “democrazia della sorveglianza” che in questi ultimi anni ha rappresentato la strategia di maggiore successo per gli outsider (e talvolta anche per insider, o divenuti tali). La sinistra, invece, per lo più si è schiacciata sul lato manageriale e sulla democrazia dei tecnici (e per tale quasi sempre oppone i suoi argomenti completamente fuori tema).

Invece la fase rivoluzionaria, o se si preferisce costituente (nel senso che riforma la costituzione materiale, innovandola), che si apre e i cui esiti sono imprevedibili, sembra riaffermare, a fronte della anomia promossa dalla tecnica, il vincolo sociale e con esso il corpo della nazione e lo Stato che la dovrebbe rappresentare. Siamo su temi e inclinazioni per certi versi anti-liberali, e con buona ragione, essendo il liberalismo fondato su una promessa di arricchimento individuale che resta tradita in questa fase (rinvio al classico di Hirschman del 1975, “Le passioni e gli interessi”).

La “onestà”, è dunque una delle parole di ordine di maggiore polisemicità di questa nuova costellazione. Certamente in Italia ha una tradizione che può essere anche riletta da sinistra (nella fase aperta dal fallimento del ‘compromesso storico’ e nel discorso sulla differenza e sulla austerità proposto da Berlinguer in parte per ragioni tattiche sul finire degli anni settanta), ma nella sua articolazione contemporanea più che altro rinvia alla mobilitazione dell’ “etica della vergogna” (cfr. Ruth Benedict, 1946) ed al biasimo sociale verso chi sfrutta e distrugge il vincolo sociale, chiamandosene fuori. Questa sanzione collettiva per i comportamenti individualisti, e per la logica da free-rider, indipendentemente dalla presunzione di efficienza e rinnegando qualsiasi argomento della “mano invisibile”, segnala una drastica inversione di fase ed il richiamo a più profonde strutture di socializzazione percepite come più umane. Del resto il capitalismo si dovrebbe reggere su una interiorizzata “cultura della colpa” individuale, che fa pena a se stessa, e che è stata invece inesorabilmente erosa e neutralizzata dalla secolarizzazione. Oggi quindi il capitalismo ha perso i legami che lo potevano ancorare al bene pubblico e che gli erano esterni (cfr. Adam Smith “Teoria dei sentimenti morali”). Dal fallimento della logica dell’incentivo, in assenza di freni interni, l’enfasi sulla “onestà” sembra riportare ad una civiltà basata su consenso e biasimo, premio (Dragonetti, “Delle virtù e dei premi”, 1766, cit in Luigino Bruni, “Il mercato e il dono”), onore.

Una civiltà che prevede quindi anche la pubblica gogna cui è andato soggetto nel funerale delle vittime del ponte a Genova l’attuale segretario del Pd, simbolo del disonore. Una civiltà molto più “calda” del “freddo” liberalesimo, e certamente anche più violenta.

Una fase costituente si può prendere in molti modi, uno dei peggiori è quello che scelse, davanti al meraviglioso e terribile spettacolo, certo anche molto ingiusto, della rivoluzione francese, Edmund Burke in “Riflessioni sulla rivoluzione in Francia”.

Mi auguro che si abbia la forza di non ripetere il suo errore.

J’ACCUSE, di Augusto Sinagra e UNO SGUARDO DAL PONTE, di Pierluigi Fagan

Due testi lucidi e nel contempo emotivamente significativi. La gravità di quanto è successo del resto non può che sollecitare pulsioni e considerazioni all’altezza. Sono una sentenza senza appello alla vecchia classe dirigente, ma anche un monito a quella emergente_Giuseppe Germinario

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J’ACCUSE, di Augusto Sinagra

Il crollo del ponte di Genova con i suoi circa 60 morti (39 trovati e circa 20 ancora dispersi) è una tragedia nazionale che potrebbe tradursi in qualcosa di traumaticamente positivo. Ho ascoltato ignobilità che mai avrei pensato potessero uscire da bocca umana. Una per tutte: ci si preoccupa del calo in borsa di Atlantis ma non ci si è preoccupati dei piccoli risparmiatori di Banca Etruria dei Boschi o di Banca Veneta di Zonin. Ho ascoltato infamie sulle cause del crollo mentre vi sono le foto che le attestano. Ho ascoltato putride giustificazioni di quella banda di pescecani dei Benetton e dei loro complici. Ho appreso cose che ignoravo: un contratto di concessione che viene secretato come se dovesse essere tutelato un segreto militare o preservata una esigenza di sicurezza nazionale! Ho appreso di quel tale Gros Pietro che da Presidente dell’IRI poi diventa Presidente di Atlantis. Ho appreso di un tale Del Rio, medico e politico fallito, che Ministro delle Infrastrutture, non da seguito a ben due interrogazioni parlamentari del Sen. Rossi che denunciava il cedimento dei giunti, e lui si occupava dello jus soli. Ho appreso che in modo furtivo (come i ladri di notte) nella finanziaria 2017 si inserisce una proroga della concessione ai Benetton vent’anni prima della scadenza come originariamente prevista. Sapevo della legge last minute che subordina la perseguibilità della appropriazione indebita, ancorché aggravata per l’ammontare, alla querela di parte. E ora ne capisco il perchè: si trattava e si tratta di proteggere la cricca di Rignano dalla malversazione dei fondi Unicef destinati ai bambini affamati dell’Africa. Potrei continuare ancora ma lo schifo mi monta in gola. Ecco, io accuso una classe politica e di governo a tutti i livelli e senza distinzioni di Partiti, ignobile, fradicia e corrotta, che dal 1992, in esecuzione di un preordinato disegno criminoso, ha devastato l’Italia riducendola da quinta potenza economica mondiale a Paese del terzo mondo. Assumo, per quel poco che conto, la difesa di più di cinque milioni di poveri e ad essi anch’io voglio dare voce.
Accuso il figlio di Bernardo Mattarella il quale non ha trovato di meglio da dire (più o meno) che “gli italiani hanno diritto a infrastrutture sicure”. Il figlio di Bernardo Mattarella non ha trovato di più e di meglio da dire. Egli sproloqia quando parla di “far west“! Per lui uccidere per dolo eventuale e per volgare ruberia, circa 60 persone non è far west. Il figlio di Bernardo Mattarella non è molto acuto ma non è stupido. Lui che difende il pareggio di bilancio, l’euro, questa Unione Europea che fa solo schifo, che promuove l’invasione africana assieme al suo omologo Bergoglio, che costa miliardi di euro all’anno, si è chiesto con quali soldi andrebbero messe in sicurezza n Italia le strutture per renderle sicure? Chi dice queste cose si pone moralmente sullo stesso piano di chi ha provocato quei morti. Il problema non è revoca della concessione, esproprio, inadempienze contrattuali o altre cabale giuridiche. Il problema è un altro ed è quello di ricostruire lo Stato, e prima dello Stato la morale è la coscienza nazionale. Per professione e per convinzione sono sempre stato un legalista ma ora non più (se penso solamente al paventato pagamento di una penale di venti miliardi di euro agli assassini).
Ora non più. Non basta più la regola giuridica o la regola democratica. Occorre altro. Occorre un rivolgimento delle coscienze, un rivolgimento fisico, un fatto rivoluzionario. La rivoluzione non è illegittima in sè stessa. È l’esito che ad essa dà legittimità.
Genova per tanti motivi è una città simbolo. È la città dello scoglio di Quarto. È la città dell’Uomo di Staglieno. Ma è anche la città del ragazzo di Portoria.
A questo mio atto di accusa aggiungo l’auspicio e l’invito che gli italiani sian tutti Balilla come il ragazzo di Portoria: prendiamoli a sassate, facciamoli scappare, mettiamoli in galera e che siano Tribunali veramente popolari a giudicare questa feccia di uomini che ci hanno derubato dei soldi e del futuro, che ci hanno offesi e vilipesi, che ci hanno tolto una Patria.

Augusto Sinagra

UNO SGUARDO DAL PONTE, di Pierluigi Fagan

La metà delle famiglie che ha avuto lutto nei fatti di Genova, ha rifiutato i funerali di stato. La giuria popolare ha già emesso la sentenza: i ponti non debbono crollare, per nessuno motivo, se lo stato vuole privatizzare le responsabilità di gestione dei suoi/nostri beni, allora noi privatizziamo il nostro lutto. La sfera pubblica, comunitaria, è definitivamente infranta, popolo e stato, popolo e politica sono su due monconi di territorio opposti, oggi divisi dal ponte spezzato.

La frattura sembra ripercuotersi a tutti i livelli, anche tra popolo e costruttori dell’opinione che si rivelano esser parte organica di un potere che ha fallito clamorosamente. Quando si arriva a fallire, non si può pretendere dal fallito quell’intelligenza la cui mancanza è proprio la causa del fallimento. Richiedere l’osservanza dei tempi del diritto costituito, invocare il “dramma” delle ripercussioni su i mercati ed il diritto l’impresa, invocare la responsabilità su i messaggi che s’inviano a gli ”investitori esteri”, indicare a giudizio l’impreparazione della nuova classe politica lì da poco più di due mesi, omettere informazioni che comunque tracimano dalle fonti alternative, sono tutte ennesime conferme delle ragioni che hanno portato la fallimento: la perdita di contatto col senso comune.

Sul piano formale, l’attuale governo sta certo dando l’impressione di non esser esperto e del resto se è “nuovo” davvero e non riciclato o lavato con Perlana, difficile possa esserlo. Ma nel gioco di chi butteresti dal pilone, il popolo non sceglie il non esperto in gestione del dramma del ponte spezzato, ma l’esperto che non ha evitato che il ponte si spezzasse, la sostanza prevale sulla forma, ovvio per il senso comune, meno ovvio per chi ha privatizzato anche il senso.

La drammaturgia metaforica a questo punto potrebbe invocare anche l’immagine del “Sipario strappato”, l’ennesimo brutto spettacolo di quel dietro le quinte in cui personaggi pubblici della politica, s’intrecciano col potere dei soldi che distorce l’interesse pubblico in favore dei loro diritti di élite autonominata ed autogiustificata. Cose che per altro si sanno e si sanno da secoli non da mesi o anni, ma cose che si tollerano sino a che viene garantito lo standard minimo delle strutture di convivenza. Far crollare un ponte rompe quel contratto di sopportazione.

Forse solo la coincidenza con la festività ferragostana ha evitato di trovare tra le vittime anche il testimonial di un ultimo aspetto del dramma, la “Morte di un commesso viaggiatore”, quella figura che vive ai più bassi livelli della costruzione sociale intelaiata di scambi, scambi che presuppongono collegamenti e quindi ponti e sogni, sogno di poter scalare il telaio per darsi migliori condizioni di possibilità. Willy, il commesso viaggiatore anti-eroe del sogno americano tratteggiato nel dramma milleriano, scoperto di non poter più guidare la macchina per esercitare il suo lavoro e quindi privato dell’illusione di poter guidare il suo sogno, cerca un posto fisso ma non c’è nulla di fisso in quel sogno che diventa incubo. Quello che per lui diventa incubo è il sogno di qualcun altro che prospera proprio perché nel sistema non c’è nulla di fisso, tutto è flessibile meno il presupposto: qualcuno deve guadagnarci. Se non sei in grado di oscillare anche tu, i tuoi sogni e la tua famiglia, non servi, sei un servo che non serve. Willy quindi si suiciderà con la sua macchina per dare alla famiglia i proventi dell’assicurazione sulla sua vita che, svuotata del sogno, si affloscia su se stessa priva di senso.

Arriviamo così al ponte Morandi immortalato dalla copertina della Domenica del Corriere di fine anni ’60, alla rete autostradale e ferroviaria italiana che allora venne stesa per dar corpo al sogno del miracolo economico. Sogno, miracolo, costruzione sociale che ormai ha più di sessanta anni e sbiadisce nel ricordo, ricordo che svanisce con la morte stessa di coloro la cui anagrafe porta la data ultima a progressiva scadenza. L’Italia non ha un sogno, non spera più nei miracoli, non è in grado di fare progetti condivisi, litiga con se stessa, ha perso la sua consistenza comunitaria. L’onda lunga dei rancori verrà, nelle prossime settimane e mesi, alimentata da tutti coloro la cui vita dipende dalla circolazione in una città ed in un’area geografica che -privata della connessione- rallenterà, s’ingolferà, gripperà. Col ponte spezzato, si spezza il contratto silenzioso tra popolo ed élite, tra sogno e realtà, tra presente e futuro. E’ il momento di guardarci urgentemente negli occhi e trovare un nuovo tessuto il cui senso non potrà che esser condiviso da molti per reggere l’intera comunità, in tempi che si mostrano sempre più difficili.

[L’immagine è copiata da una vista ieri nella mia timeline che però non riesco più a ritrovare, mi scuso con l’autore/trice]

Genova: il senso di una tragedia, di Gennaro Scala

Tratto da facebook https://www.facebook.com/gennaro.scala/posts/10215642869896194

Quanto accaduto a Genova non è una tragedia dovuta al Fato, ma non è soltanto un disastro collettivo dovuto a colpevole incuria di imprese dedite esclusivamente al profitto, anzi a superprofitti dell’ordine di miliardi di euro annui, grazie all’appropriazione indebita delle autostrade costruite con i soldi della collettività. Il disastro di Genova è una vicenda esemplare del principale conflitto in corso nelle società occidentali. Innanzitutto bisognerebbe chiedersi cosa centrano i Benetton con le autostrade. Essi sono noti come venditori di indumenti ben acchittati, ma spesso scadenti, che vendono (o meglio vendevano, perché sono in crisi da anni) in tutto il mondo. Ma le magliette, i maglioni o i giubbotti, sono solo un complemento della merce principale venduta dai Benetton, che potremmo definire una ideologia-merce, gli United Colors of Benetton, attraverso cui i “giovani di tutto il mondo” si ritroverebbero accomunati nel vacuo culto dell’apparenza. Soffermiamoci un attimo su questa ideologia: al di là dell’apparente opposizione di immagine rispetto alla Hitlerjugend composta da schiere di giovani repliche di un medesimo prototipo biondo, con gli occhi azzurri e i capelli a spazzola, qui abbiamo giovani di tutti i colori, ma al di là della apparente opposizione abbiamo la medesima violenza esercitata sull’essere umano con cui viene separata identità e differenza, il cui libero gioco da vita alle società umane. Se la Hitlerjugend era una separazione tra dell’identità dalla differenza che trasforma la prima in sameness (medesimità), la gioventù benettoniana, o come la vorrebbe il potere globalista, è una separazione della differenza dall’identità, che svalorizza la differenza, nei ben noti manifesti pubblicitari della Benetton, questo ha la pelle chiara, quella scura, quell’altro olivastra, quello ha il ciuffo, quella ha i capelli ricci, quell’altro ha i capelli lisci, hanno magliette di tanti differenti colori , ma sono tutte differenze apparenti che nascondono la mancanza di differenze effettive.
E’ questa funzione ideologica svolta nel potere globalista occidentale che ha conferito ai Benetton gli agganci che hanno permesso loro di appropriarsi delle autostrade (e degli aereoporti). Potere globalista che si sta rivelando fallimentare, causando una continua perdita di posizione nell’arena globale delle società occidentali, tanto sul piano politico che economico, a cui si presenta come sola alternativa un pericolosissimo avventurismo militare. Il potere globalista devasta le società occidentali, ne accresce il disordine, accellerandone il declino: ne è un esempio il trasferimento di risorse attraverso il controllo delle autostrade i cui profitti invece di essere utilizzati per la manutenzione o per gli investimenti vengono dirottati in direzione del rafforzamento del potere globalista. Il globalismo è una degenerazione che andrebbe combattuta a fondo tanto dalle classi dominanti che non si rassegnano al costante declino occidentale, tanto dalle classi non dominanti che non si rassegnano alle devastazione delle condizioni di vita causate da questo potere.

Benetton

Qualcuno si è chiesto che fine fanno i superprofitti che Autostrade per l’Italia realizza in regime di monopolio assoluto sfruttando il controllo delle autostrade italiane costruite con i soldi pubblici (e che utilizza minimamente per la manutenzione, v. precedente articolo da me postate dell’Intellettuale dissidente). Non è un caso che è uno dei principali azionisti sia la famiglia Benetton, una azienda che ha fatto del globalismo una bandiera. Certo non siamo in grado di seguire il circuito che percorrono questi capitali, ma è certo che vanno a rafforzare, anzi sono parte, di quella “finanza globale” che non è solo controllo dei capitali, ma controllo attraverso i capitali di industrie e asset strategici. Quella finanza che sta devastando le società costruite nel dopoguerra e a cui sarebbe ora di porre un freno prima che le distruggano del tutto. Per cui sono molto apprezzabili le parole del ministro Toninelli e speriamo che tenga fede alla parola data di revoca delle concessioni per grave inadempienza degli obblighi di manutenzione

l’universo di Moncalieri, di Piero Visani

A poche settimane dall’episodio goliardico, con il suo epilogo grottesco, del lancio di uova ai danni di sei abitanti della cittadina, tra i quali l’atleta di colore Daisy Osakue, un piccolo affresco dell’ambiente nel quale trovano alimento le campagne sul presunto razzismo dilagante nel nostro paese_Giuseppe Germinario

testi tratti da http://derteufel50.blogspot.com/2018/08/luniverso-moncalieri.html

http://derteufel50.blogspot.com/2018/07/testimonianza-da-moncalieri.html

Testimonianza da Moncalieri

       Abito da circa 14 anni in una frazione collinare del Comune di Moncalieri. L’esistenza di una banda di dementi specializzata nel lancio a sorpresa di uova era già nota alla popolazione e alle forze dell’ordine locali; lanci del genere si erano già verificati e il tutto, secondo la nota logica italica, si era concluso con il solito e totalmente assolutorio “sono ragazzi!”.
       Quei “ragazzi” che avevano già colpito altra gente (poveri bianchi, figli di un dio minore…), hanno colpito più gravemente una giovane atleta italiana di colore, ed è scattata la canea. Il gesto abominevole compiuto da questi teppistelli si commenta da sé, ma si commentava anche prima, quando la loro vittima era un pensionato Fiat o  una vecchia signora resa ancora più pallida dall’impossibilità di permettersi una vacanza grazie alla forza dirompente dell’euro e al livello davvero confortante delle pensioni minime
       C’è una guerra in corso – questo è fin troppo evidente – e da polemologo mi permetto di dire a tutti i contendenti: mai sbagliare i propri obiettivi…

L’universo Moncalieri

       Ci vivo dal 1978, anno del mio matrimonio, a Moncalieri. In due abitazioni diverse. Ho conosciuto da vicino la storia e la cronaca di questa città alle porte di Torino, con la quale non ha soluzione di continuità.
       Conosco la borghesia collinare, i suoi riti e le sue scempiaggini, la sua abissale incultura, la propensione alle alleanze con i potenti di turno, siano essi democristiani poi diventati forzitalioti o comunisti poi diventati piddini.
       Conosco tante altre piccole storie, non tutte e non solo di criminalità meramente politica ma comune, che è meglio non raccontare e anzi fingere di non sapere, onde evitare problemi.
       Conosco i circoli sportivi elitari e  no, le tirate sull’antifascismo e le vacanze (a spese pubbliche…?) nelle più rinomate aree del mondo, spesso descritte con abbondanza di particolari in lunghi pomeriggi oziosi nei bar di tali circoli.
       Non mi interessa e non mi è mai interessato nulla di tutto questo. Ho vissuto e vivo tuttora da “esule in patria”, non per ragioni ideologiche, ma precipuamente etico-estetiche.
       Quello che non ho mai sopportato, neanche un po’, è il falso egalitarismo accompagnato da uno stucchevole moralismo; le feste nelle ville sulla collina accompagnate dai provvedimenti a tutela dei campi rom, tutti “casualmente” dislocati solo in aree dove vivono proletari e diseredati, non certo in prossimità di aree residenziali elitarie; lo stucchevole antifascismo di maniera “che fa fin e impegna nen“, per dirla nell’abominevole vernacolo locale.
       Mi ha sempre fatto sorridere questa falsità esibita e soddisfatta, che veniva (e viene) tirata fuori ogni volta che c’è qualche schifezza, grande o piccola, da coprire. Lo “schermo antifascista” usato da gente che – politicamente e umanamente – è solo un po’ più reazionaria e codina di Vittorio Emanuele I, il sovrano che tornò a Moncalieri, nel 1814, esibendo orgogliosamente una parrucca incipriata tipica di chi era rimasto a prima della Rivoluzione Francese. Ecco, a Moncalieri e a Torino, all’Ancien Régime e alle nostalgie per il medesimo sono rimasti in molti, si credono “de sinistra” e sono solo un po’ più reazionari di Vittorio Emanuele I e della sua corte. Ma non diteglielo, si offenderebbero a morte… “La verità” – diceva un grande filosofo sardo che a loro dovrebbe essere ben noto e pure ideologicamente molto caro (quanto meno in teoria) – “è sempre rivoluzionaria”. O no?
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