Stati Uniti, il rattoppo peggio dello sbrego_con Gianfranco Campa

Il declino di un paese e la degenerazione di un conflitto politico si notano spesso più dal carattere grottesco di episodi secondari che dalla drammaticità dei grandi eventi. E’ lo spettacolo che ci sta offrendo la campagna elettorale in Virginia. Sino a poche settimane fa l’esito appariva scontato, del tutto a favore del candidato democratico. Non è più così. E alla pochezza e goffaggine del candidato si è aggiunto la scarsa influenza dei big della politica, a cominciare da Obama, nel condizionare il giudizio degli elettori; l’azione di uno di essi, niente meno che il presidente Biden, appare addirittura controproducente. L’esito delle elezioni in Virginia rischia di condizionare pesantemente il comportamento di tutti i rappresentanti del Congresso i quali, schierati nel partito democratico, devono però tener conto della importante quota di elettorato fedele a Trump che li ha votati. Un domino che rischia di trasformare un presidente smarrito in un’anatra zoppa già all’inizio del suo mandato. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Mafia, società e uomini dello Stato. Spunti dalle “considerazioni del Generale dei Carabinieri Mario Mori”

Dal 26 al 29 ottobre il quotidiano “Il Riformista” ha pubblicato un memoriale del Generale dei Carabinieri, ex-comandante del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), Mario Mori a seguito della sua assoluzione definitiva dalle gravissime accuse di “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Una macchia indelebile, una nemesi crudele che avrebbe potuto colpire il generale e tutta la squadra che, sotto la guida dei giudici Falcone e Borsellino, era riuscita ad arrestare il capo di “Cosa Nostra” Totò Riina; quell’arresto avrebbe dovuto essere solo una tappa di un filone di indagine che mirava a scoprire e colpire la fitta trama di legami costruite dalle associazioni mafiose con gli ambienti imprenditoriali e delle pubbliche amministrazioni. Con l’assassinio di Falcone e Borsellino, la repentina chiusura delle inchieste nelle principali procure siciliane e i processi a carico dei singoli componenti dell’intera squadra, nel frattempo disciolta, impegnata in indagini così delicate, quell’arresto così clamoroso e promettente si rivelò in realtà l’annuncio dell’epilogo di una vicenda appena agli albori e conclusasi con la beffa, da vedere quanto determinata da coincidenze o da calcolo politico, di una possibile fine ignominiosa dei protagonisti sopravvissuti di quell’azione di indagine giudiziaria. L’assoluzione clamorosa del generale Mori, sia pure ormai attesa, ha goduto dei riflettori del sistema mediatico per non più di un paio di giorni. Meriterebbe ben altra attenzione. Il memoriale sembra cadere nell’ombra del dimenticatoio nel momento stesso della sua uscita. Si fa fatica addirittura a reperire copia fisica del quotidiano che ha ospitato il documento. Una volta terminata la pubblicazione e attesi e rispettati i diritti di esclusiva detenuti dal quotidiano, i blog di “Italia e il mondo” e del “corriere della collera” di Antonio de Martini hanno deciso di pubblicare a loro volta il testo con l’auspicio che siano numerosi i siti editoriali disposti a diffondere il memoriale. Nella loro linearità le considerazioni del generale Mori offrono numerosi spunti di riflessione, di azione politica ed anche di politica giudiziaria riguardo alla natura delle organizzazioni mafiose, alla rappresentazione agiografica del potere mafioso come minaccia ed antitesi al potere dello Stato, alla natura stessa del, per meglio dire dei poteri giudiziari i quali più che indipendenti, si rivelano essere autonomi e partecipi a pieno titolo delle dinamiche politiche e di potere, anche le più profonde ed oscure. Rappresentazione appunto agiografica che nella loro immagine più lineare sono offerti come corpi estranei, in quella più sottile sono evidenziati solo nel loro aspetto di poteri autonomi con la funzione militare ad oscurare il resto. E’ il terreno di pascolo sul quale per decenni si sono nutriti i cosiddetti “professionisti dell’antimafia”, così bene inquadrati da Leonardo Sciascia. Se i classici ambiti di azione legati alla droga e ai traffici illeciti, pur clamorosi nelle loro dimensioni, contribuiscono a rafforzare questa rappresentazione limitativa del potere mafioso, la sua implicazione diretta e fondamentale negli appalti e nelle attività imprenditoriali lascia intuire e intravedere una ben altra natura riguardo ai suoi legami con i centri di potere e alle dinamiche di conflitto, collusione e compenetrazione nella società e negli apparati statali. Prospettive “inedite” che dovrebbero vellicare la curiosità dell’opinione pubblica e di chi ha il potere di intervenire. Sarebbe il modo migliore di cercare di uscire dalla commedia degli inganni e di rendere onore e giustizia a quei funzionari che si sono esposti a mille pericoli e che hanno rischiato invece di finire nell’onta, non solo nell’oblìo. Con i nostri mezzi alquanto irrisori cercheremo di offrire il contributo possibile alla chiarezza. Una chiarezza che dovrebbe ormai essere cristallizzata anche in qualche nome e cognome, per quanto di persone ormai attempate_Giuseppe Germinario

Considerazioni

Nelle interminabili discussioni con critiche, originate dall’attività operativa del ROS dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in quella via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti. Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nella proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa. A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”. Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: “ … Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni 2 espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella ( moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito.” Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: “ … La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio”. A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boos e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali. Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva 3 constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada. Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questa sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco. Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale. Molti, però, mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai 4 ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco. Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singole aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, ad un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perchè sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti. Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. 5 Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco. Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: “ … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …”; e proseguendo: “Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica … ” Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino. Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e sopratutto dove questa poteva portare, perchè alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il ROS. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater),attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “ quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati ed investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. 6 Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992. Nel periodo compreso tra le due stragi si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente: . 19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dott. Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza; . 25 giugno 1992, Paolo Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il cap. De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal ROS il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del Cap De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta; . 12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale; . 13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti; . 14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Paolo Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al CSM da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Guido Lo Forte era tra i presenti); . 16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Paolo Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Carlo Vizzini, il dott. Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Giovanni Falcone. Il dott. Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dott. Roberto Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Palo Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dott. Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Giovanni Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo; . 19 luglio 1992, al primo mattino, il dott. Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta; . 22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti; 7 . 14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano. Sulla base di questa sequenza di fatti ed alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Paolo Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dott. Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di: .. spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (Giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Paolo Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani; .. commentare l’affermazione fatta da Giovanni Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”; .. chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dott. Giammanco sul cap. De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti; .. smentire eventualmente le dichiarazioni di Angelo Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dott. Giammanco. Infine mi piacerebbe conoscere perchè le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della DDA di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Paolo Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento. Si tenga poi conto che queste dichiarazioni, si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avv. Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi dalla Procura di Palermo, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso ad un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dott. Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dott. Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo. Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere 8 ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al cap. Giuseppe De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest‘ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dott. Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti: . a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei così detti ” quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale; . a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse del Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Pietro Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato; . a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Salvatore Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica. In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del cap. De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale. Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dott. Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: . “ … Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione”. Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del cap. De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (TAV). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario. Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della TAV, con la funzione di 9 eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (ATI) aggiudicataria del complesso dei lavori. In breve, il nostro uomo, il sedicente ing. Varricchio, in realtà il t. col. Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre percento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geom. Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del ROS. Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi , imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi ed imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori. All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine. ***** Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati ad una serie di conclusioni: . il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti; . il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale; . stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Antonio Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Paolo Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dott. Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal cap. De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura; . l’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Giovanni Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dott. Felice Lima, e seppure stroncata con la 10 stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici; . le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese; . alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni; . io e Giuseppe De Donno siamo vivi perché la morte di Paolo Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente. ***** A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che, per attività così delicate, si possano verificare singoli episodi di contrasto, frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria. I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di ” bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state 11 condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo. Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta.

https://corrieredellacollera.com/2021/10/29/concluso-il-caso-mori-si-riapre-il-caso-mori/#comments

https://leorugens.wordpress.com/2021/10/30/de-martini-non-dice-mai-fesserie-in-politica-estera-vediamo-dove-va-a-parare-con-la-vicenda-di-mori/

Perché le rivolte in Medio Oriente falliscono?_ Di  Hilal Khashan

Perché le rivolte in Medio Oriente falliscono?

I governi della regione hanno escogitato un sistema per schiacciare qualsiasi seria richiesta di cambiamento.

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Le rivolte del 2010-11 contro i regimi arabi autocratici hanno sbalordito il mondo. Gli oligarchi al potere nella regione erano noti per reprimere sistematicamente anche le più piccole manifestazioni di malcontento pubblico. Quando la rivolta in Tunisia si è verificata nel dicembre 2010, si è diffusa quasi istantaneamente, dal Marocco sull’Oceano Atlantico al Bahrain sul Golfo Persico. Commentatori politici stupiti hanno parlato dell’ascesa della tigre sunnita dormiente e dell’alba della democrazia in tutta la regione. Ma l’euforia non durò a lungo. Il Deep State arabo, con la sua macchina di coercizione e la sua rete di alleati locali, ha represso le proteste e schiacciato ogni tentativo di rovesciare i regimi. L’ingerenza straniera e la mancanza di una visione condivisa da parte degli attivisti arabi hanno anche contribuito a garantire che i disordini pubblici non avrebbero minacciato la sopravvivenza del regime.

primavera araba
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Macchinario di coercizione

Tra gli anni ’30 e ’60, organizzare un colpo di stato di successo in Medio Oriente era relativamente facile. Anche un piccolo gruppo di ufficiali dell’esercito potrebbe rovesciare un regime; avevano solo bisogno di comandare truppe sufficienti per impadronirsi del palazzo presidenziale o reale, del ministero della difesa e del ministero delle comunicazioni per controllare le articolazioni del sistema politico. In Iraq ci sono stati sei colpi di stato negli anni ’30, uno (un fallito golpe filo-nazista) nel 1941 e molti altri negli anni ’50 e ’60. La Siria ha visto tre colpi di stato nel 1949 e più negli anni ’50 fino al 1970. L’Egitto e la Libia hanno avuto rispettivamente un colpo di stato nel 1952 e nel 1969.

Ma nel 1970, l’era della sovversione del governo terminò, tranne che in Sudan, che subì un colpo di stato nel 1989. I governanti militari arabi avevano finalmente imparato come prevenire i tentativi di rovesciamento rafforzando la loro presa sull’esercito e sulla società. In Egitto, gli ufficiali che organizzarono il colpo di stato del 1952 istituirono il Consiglio del Comando Rivoluzionario sotto la guida di Gamal Abdel Nasser. Negli anni successivi divenne più sofisticato, adottando il titolo di Consiglio Supremo delle Forze Armate. In Siria, il presidente Hafez Assad ha epurato l’esercito e posto in posizioni di comando colleghi ufficiali alawiti, che controllavano le forze armate e nominavano funzionari leali per controllare il sistema politico. In Iraq, Saddam Hussein, salito al potere con un colpo di stato del 1968, ha eliminato brutalmente tutta l’opposizione all’interno del partito Baath al potere alla fine degli anni ’70 e ha fatto affidamento esclusivamente sul sostegno degli arabi sunniti della sua città natale di Tikrit per mantenere il controllo. Come altri governanti arabi, Saddam creò una forza speciale, chiamata Guardia Repubblicana, che divenne la componente più potente e fidata dell’esercito. In Libia, Moammar Gheddafi, che ha rovesciato la monarchia nel 1969, ha creato i reggimenti di Gheddafi per prevenire controcolpi e rivolte religiose militanti.

In Iran, dopo aver ispirato la Rivoluzione Islamica nel 1979, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini non si fidava dei militari e ordinò che i suoi massimi comandanti fossero giustiziati e molti altri licenziati. Khomeini mise in dubbio la lealtà dell’esercito, che aveva abbandonato lo scià dopo aver ucciso migliaia di manifestanti in quello che divenne noto come il Black Friday nel settembre 1978. Khomeini concentrò quindi la sua attenzione sulla formazione di un’unità d’élite delle forze armate chiamata Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica come così come la milizia Basij, un ramo dell’IRGC – entrambi responsabili della difesa del regime dalle minacce esterne e interne.

I governanti della regione avevano stretto un patto con la loro gente: il governo avrebbe provveduto ai bisogni di base del pubblico in cambio della loro disponibilità a rimanere fuori dalla vita politica. Ai cittadini sono stati essenzialmente promessi alloggi a basso costo, alimenti di base sovvenzionati, cure mediche gratuite e istruzione attraverso il college. Coloro che non hanno accettato l’accordo, tuttavia, hanno subito una punizione severa. In questo modo, sono stati costretti a consentire ai regimi di mantenere il potere ultimo virtualmente incontrastato.

I regimi repubblicani arabi hanno anche stabilito solide alleanze interne per aiutare a contenere eventuali disordini potenziali. In Siria, Hafez Assad ha cooptato la classe imprenditoriale sunnita a Damasco e Aleppo e ha dato loro mano libera nella gestione dell’economia. Ha messo sunniti in posizioni di governo di primo piano, anche se sotto l’occhio vigile dei lealisti alawiti. Suo figlio Bashar ha portato avanti la sua eredità, cooptando le tribù arabe sunnite nella regione di Jazeera per tenere a bada i curdi e dare legittimità al suo regime. Ha anche liberalizzato l’economia siriana e ha collaborato con la classe imprenditoriale sunnita. In Egitto, il presidente Hosni Mubarak ha permesso alle forze armate di essere coinvolte nell’economia. La firma degli accordi di Camp David nel 1978, la fine della guerra con Israele e l’assassinio del presidente Anwar Sadat da parte delle truppe dell’esercito rinnegate convinsero Mubarak a occuparsi dell’esercito con questioni economiche per evitare che tramasse per rovesciarlo. Anche in Arabia Saudita, il regime ha chiuso un occhio davanti agli ufficiali che intraprendono opportunità di affari e guadagnano commissioni. In Iran, gli ayatollah hanno gareggiato con la business class dei bazar senza sfrattarli dal mercato. Hanno anche introdotto sussidi alimentari, anche se l’economia ha sofferto a causa delle sanzioni statunitensi.

Negli ultimi anni, tuttavia, la stagnazione economica della regione ha ridotto la gamma dei sistemi di welfare del governo per la maggior parte dei paesi del Medio Oriente, portando spesso a disordini pubblici. I regimi hanno compensato la loro ridotta capacità di provvedere alle loro popolazioni aumentando il loro uso di tattiche coercitive a livelli senza precedenti.

Paesi potenzialmente instabili
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Opposizione divisa

I leader autoritari della regione – siano essi repubblicani, monarchici o rivoluzionari islamici – hanno distrutto le società civili dei loro paesi, trovando varie giustificazioni per la loro repressione dell’opposizione. I leader arabi e iraniani hanno accusato le voci dissenzienti di agire per conto dell’imperialismo occidentale e del sionismo. Dopo la schiacciante sconfitta dell’Egitto nel 1967, Nasser represse tutte le critiche, affermando che nessun individuo dovrebbe distrarsi dagli sforzi per liberare il territorio occupato. In Iraq, Saddam ha ritratto i dissidenti sciiti come agenti iraniani. Poi, quando le milizie filo-iraniane hanno preso il potere dopo l’invasione statunitense nel 2003, hanno respinto le richieste dei sunniti di un equo accordo di condivisione del potere, definendoli agenti degli Stati Uniti, del sionismo e dei movimenti islamici radicali.

Allo stesso tempo, le forze di opposizione non sono riuscite a presentarsi come un blocco unito. In Iran, i riformisti articolano programmi diversi. In Iraq, coloro che chiedono il cambiamento attraversano lo spettro politico per includere comunisti, nazionalisti, gruppi arabi sunniti tradizionali e sadristi, sostenitori del religioso sciita anticonformista iracheno Muqtada al-Sadr. Sadr è in disaccordo con le milizie filo-iraniane, ma è anche attento a non inimicarsi Teheran, suggerendo che molti movimenti sciiti sono sostenuti dall’Iran.

Poco dopo l’inizio della rivolta siriana, i gruppi contrari al regime hanno iniziato a organizzarsi in Europa e in Turchia, tenendo numerosi incontri lì per cercare di concordare una nuova forma di governo per sostituire il regime di Assad, se fosse crollato. Alla fine, non sono riusciti a mettersi d’accordo su nulla. In Egitto, i movimenti che hanno partecipato alla rivolta per rovesciare Mubarak avevano poco in comune. Ciò ha spianato la strada ai militari per facilitare l’elezione del candidato dei Fratelli Musulmani Mohammad Morsi, in modo che potesse accelerare la sua eventuale estromissione. L’esercito era intenzionato a sbarazzarsi di lui, credendo che la sua visione del mondo fosse incoerente con la sua visione dell’Egitto. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha radunato tutti i movimenti della società civile contro Morsi nel luglio 2013 e lo ha rovesciato. Ha poi messo a tacere questi movimenti, ribellandosi ai liberali e ai laici.

Inizialmente, sembrava che la rivolta in Tunisia fosse l’unica riuscita negli stati arabi. A tempo debito, tuttavia, anche questo non è riuscito a innescare alcun vero cambiamento. Le forze politiche emerse nel Paese dopo la caduta del governo del presidente Zine El Abidine Ben Ali si sono rafforzate, togliendo spazio politico a Ennahda, primo partito a formare un governo dopo le proteste. Alla fine, la politica tunisina ha raggiunto un’impasse e il pubblico è diventato disincantato dalla politica di partito. Anche il presidente politicamente indipendente, Kais Saied, ha seguito un percorso che assomigliava a quello dei precedenti governanti autocratici.

Intervento Straniero

L’ultimo fattore che ha portato alla fine delle rivolte arabe è stata l’ingerenza straniera. In Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti erano allarmati dalla caduta di Mubarak e dall’ascesa della Fratellanza. Dopo che Morsi fu rovesciato, diedero ad Abdel-Fattah el-Sissi miliardi di dollari per sostenere il suo regime. In Siria, gli Stati Uniti, Israele e gli Emirati Arabi Uniti non volevano vedere il crollo del regime di Assad. In effetti, le loro politiche in Siria differivano poco da quelle di Russia e Iran, il cui sostegno ha assicurato che il governo di Assad rimanesse al potere. In Libia, gli attacchi aerei della NATO hanno distrutto la macchina militare di Gheddafi, ma l’ingerenza straniera di Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Turchia ha mantenuto il paese diviso e in subbuglio. Nello Yemen, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno contribuito a sconfiggere una rivolta e poi hanno intrapreso una guerra contro i ribelli Houthi, che inizialmente hanno abilitato prima di rivoltarsi contro di loro. Le probabilità sono che lo Yemen sarebbe scivolato nell’anarchia anche senza l’intervento straniero, ma i suoi vicini arabi hanno certamente aggiunto benzina sul fuoco. In Bahrain, la maggioranza sciita oppressa ha guidato una rivolta nel febbraio 2011, che è stata sedata dai sauditi. Hanno distorto le richieste di equità e giustizia dei bahreiniti presentandole come parte di uno stratagemma iraniano per destabilizzare il paese.

La regione è lungi dall’essere pronta per insurrezioni di successo e le comunità politiche con un senso di visione nazionale devono ancora emergere. La risoluzione dei problemi interstatali in sospeso della regione, come le questioni curda e palestinese, deve precedere qualsiasi cambiamento interno. Comprensibilmente, i paesi aspirano a usare le proprie capacità economiche e tecnologiche per esercitare la propria influenza. Tuttavia, l’ideologia politica avvolta nel determinismo religioso è una ricetta per perpetuare il conflitto e bloccare le prospettive di sviluppo economico e politico.

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Il passato impensabile: per una narrativa europea critica, di Hans kundnani

Un articolo interessante nell’individuare alcuni  de”i punti ciechi” dell’universalismo europeista; molto meno nel tentativo generico di riproporlo. Si tratta comunque di un dilemma attualmente irrisolvibile per vari motivi: per il peccato originale costitutivo della Unione Europea, nato come conseguenza di una sconfitta e di una occupazione militari; per l’inesistenza di una nazione europea e di una formazione egemonica interna ad essa capace di plasmare una sufficiente identità ed una missione comune. Un universalismo quindi figlio di una abdicazione ad un ruolo autonomo piuttosto che di una vocazione imperialista. Da sottolineare anche che i residui impulsi veterocolonialisti presenti in Europa posero freni alla costruzione europea, in particolare alla CED (Comunità di Difesa Europea) sponsorizzata dagli americani, piuttosto che incentivarne la costruzione. Uno dei motivi che indussero alla tiepidezza di Francia e Gran Bretagna verso la CED fu appunto che avrebbero dovuto indebolire pesantemente il proprio complesso militare nelle colonie, una volta constatata la trazione statunitense della costruzione europea e la priorità strategica riservata al nemico sovietico. Giuseppe Germinario

Come Luuk van Middelaar ha recentemente sostenuto in una discussione con Pierre Manent per Le Grand Continent , l’Europa ha bisogno di una “storia”. Tale narrazione, che lega il presente al passato, secondo van Middelaar, è sia “il carburante di qualsiasi forma di organizzazione politica” sia anche una “bussola” di cui l’Europa ha bisogno per “guidare la sua azione sulla scena internazionale”. “Senza una storia”, ha scritto, “non sai dove stai andando, da dove vieni, non hai criteri per giudicare un’azione o per decidere cosa fare. In altre parole, senza una narrazione, l’Europa – con cui van Middelaar intende presumibilmente l’Unione europea – mancherebbe sia di una direzione che di una fonte di energia.

Mi sembra che questo appello piuttosto disperato a una narrazione sia esso stesso sintomatico di un problema in Europa. Dopotutto, una volta l’Unione aveva una narrativa abbastanza avvincente basata sull’idea di un “modello europeo”, incentrato sull’economia sociale di mercato e sullo stato sociale. È stato un discorso basato su una reale offerta ai cittadini europei di una qualità della vita e di un senso di solidarietà. È importante notare, tuttavia, che questa era un’idea dell’Europa e di ciò che rappresenta, facendo attenzione a non definirla in relazione a un Altro. Piuttosto, si basava su un rapporto speciale tra Stato, mercato e cittadini che aveva prodotto crescita economica e coesione sociale, in altre parole un modello civico.

Tuttavia, nell’ultimo decennio questo modello è stato svuotato della sua sostanza ed è diventato meno credibile. Mentre l’Unione, guidata dalla Germania, ha lottato con una serie di crisi, a partire dalla crisi dell’euro nel 2010, ha cercato di diventare sempre più “competitiva”, il che, in pratica, ha portato al ricorso all’austerità e alle riforme strutturali. In questo contesto, c’è stata anche una reazione populista contro il modo di governo tecnocratico rappresentato dall’Unione. È a causa della perdita di credibilità di questa narrazione precedente, incentrata su un modello socio-economico e sulle modalità di governo dell’Unione, che i “pro-europei” hanno finito per cercare di definire l’Europa in termini culturali – realizzando ciò che ho proposto chiamare la svolta di civiltà del progetto europeo .

Questo cambiamento si può osservare anche nell’evoluzione dell’idea, portata avanti in particolare da Emmanuel Macron, di una “Europa che protegge”. Quando usa per la prima volta il termine, dopo essere stato eletto presidente nel 2017, lo intende in senso lato nel senso di protezione contro le forze di mercato. Macron vuole riformare la zona euro e creare un’Europa più redistributiva; in un certo senso è un’idea di centrosinistra. È solo dopo che il cancelliere Angela Merkel ha respinto – o meglio semplicemente ignorato – le sue proposte di riforma della zona euro, che reinventa questa idea di “Europa che protegge” dandole un sapore culturale. Sotto la pressione dell’estrema destra in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno, ciò da cui oggi si cerca di proteggere i cittadini europei sembra essere meno il mercato che l’islamismo.

Questa richiesta piuttosto disperata di una narrazione è essa stessa sintomatica di un problema in Europa.

HANS KUNDNANI

La maggior parte degli “europeisti” è cieca a questo pensiero di civiltà che si insinua nel progetto europeo – e talvolta volontariamente, perché se ne ammettessero l’esistenza, dovrebbero criticare gli altri “europeisti”. Ciò che distingue van Middelaar dagli altri è che ne è un attivo sostenitore. Fa esplicitamente “appello a una storia più lunga, a una civiltà più ampia per aprire l’immagine di sé dell’Europa”. In altre parole, vuole che l’Europa si consideri un quasi-stato di civiltà; van Middelaar non vede alcun problema a questo riguardo nel ragionamento in termini di Huntington. Al contrario, tenderebbe a pensare che questo sia esattamente ciò di cui l’Europa ha bisogno.

L’Unione come distillato della storia europea

Van Middelaar afferma che l’Europa deve riscoprire la sua storia pre-1945, dalla quale si è “tagliata fuori”. Invidia il modo in cui i leader americani, cinesi e russi sono capaci, secondo lui, di porsi come “portavoce di una storia lunghissima” e di “incarnare contemporaneamente la modernità del loro Paese facendo riferimento a un passato. “. Ritiene che i leader europei siano incapaci di farlo perché immaginano che la storia europea su cui possono fare affidamento – cioè la storia dell’Unione stessa – “è iniziata solo con la Dichiarazione Schuman del 1950.

L’argomento del rifiuto da parte dell’Europa della propria storia, che anche l’onorevole van Middelaar ha avanzato in un altro articolo all’inizio di quest’anno, non è privo di fondamento. L’anno 1945 è spesso visto nell’immaginario collettivo come una sorta di “anno zero” europeo, il momento in cui l’Europa ha posto fine alla sua disastrosa storia di conflitti e ha ricominciato da capo. A partire dalla creazione della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA), la storia ci dice che gli europei hanno trasformato le relazioni internazionali in Europa per rendere impossibile la guerra tra stati-nazione e in particolare tra Francia e Germania – è l’idea dell’Unione Europea come progetto di pace. Questo spiega perché molti “europeisti” pensano che l’Altro dell’Europa di oggi è il proprio passato – come afferma Mark Leonard.

Tuttavia, se è vero che i “filoeuropei” vedono l’inizio dell’integrazione europea come una rottura con la storia dell’Europa prima del 1945, anche su questa storia si sono costantemente affidati, tanto per legittimare che con una funzione di pathos. In particolare, invocano costantemente l’Illuminismo, che sarebbe alla base dei “valori europei” difesi dall’Unione, e figure come Erasmus, il cui nome designa il programma di scambio studentesco finanziato dall’Unione che ha vocazione a creare “élite pro-europee”. Ma invocano anche figure più problematiche della storia europea – basti pensare al Premio Carlo Magno, ad esempio, assegnato in nome dell’incarnazione di una visione medievale dell’identità europea, sinonimo di cristianesimo e definita in opposizione all’Islam.

Quindi, affermare, come fa van Middelaar, che “l’Europa si è tagliata fuori dalla sua storia” è troppo semplicistico. Al contrario, i “pro-europei” vogliono avere entrambe le cose quando si tratta della storia del continente – e il modo in cui “dimenticano” la storia europea è molto più specifico di quanto afferma van Middelaar. I “pro-europei” vogliono davvero tagliarsi fuori da quelle che considerano le parti più oscure della storia europea, in particolare il nazionalismo – e vedono l’integrazione europea come un’espressione di questo rifiuto. Ma vedono anche l’Unione come l’incarnazione di ciò che è buono nella storia europea, in particolare le idee dell’Illuminismo. In altre parole, immaginano l’Unione come la soluzione di una storia europea distillata – o, per dirla in altro modo, come il prodotto delle proprie lezioni.

L’Europa come sistema chiuso

L’aspirazione a distillare il meglio della storia europea non è di per sé negativa. Il problema, tuttavia, è che quando “pro-europei” come van Middelaar cercano di farlo , si basano generalmente su una visione idealizzata e semplicistica della storia europea. In particolare, tendono a immaginare l’Europa come un sistema chiuso, ovvero come una regione con una propria storia autonoma, separata dalle altre regioni. Riduce la storia europea a una narrazione lineare che va dall’antica Grecia e Roma all’Unione europea, al cristianesimo e all’Illuminismo. Ignora le numerose influenze esterne esercitate sull’Europa, in particolare quelle dell’Africa e del Medio Oriente.

Peggio ancora, così come questo approccio esclude la presenza della non-Europa all’interno dell’Europa, esclude anche quella dell’Europa nella non-Europa, cioè le interazioni degli europei con il resto del mondo al di là dei confini geografici dell’Europa. Tuttavia, l’incontro degli europei con le popolazioni dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe dal XVI secolo in poi ha chiaramente modellato cosa significasse “essere europei”. Fu durante questo periodo che apparve una nuova versione moderna dell’identità europea, più razziale che religiosa, in altre parole, meno sinonimo di cristianesimo che di bianchezza. La stretta relazione tra questi due termini – “europeo” e “bianco” – è chiaramente visibile nel contesto coloniale.

Così come questo approccio esclude la presenza della non-Europa all’interno dell’Europa, esclude anche quella dell’Europa nella non-Europa, cioè le interazioni degli europei con il resto del mondo al di là dei confini geografici dell’Europa.

HANS KUNDNANI

Una delle conseguenze di questa tendenza dei “pro-europei” a vedere l’Europa come un sistema chiuso è il modo in cui, fin dall’inizio, il progetto europeo si è basato esclusivamente sull’apprendimento delle lezioni “interne” del mondo. – ovvero ciò che gli europei si sono fatti gli uni agli altri, e in particolare i secoli di conflitti interni al continente culminati nella seconda guerra mondiale. La narrativa ufficiale dell’Unione non ha quasi mai tentato di trarre le lezioni “esterne” della storia europea, cioè di ciò che gli europei hanno fatto collettivamente al resto del mondo. Dalla metà degli anni Sessanta, L’Olocausto è stato anche sempre più integrato nella narrativa ufficiale dell’Unione – Tony Judt ha persino sostenuto che la memoria dell’Olocausto è diventata il “biglietto d’ingresso europeo contemporaneo”. Ma il progetto europeo non è mai stato informato allo stesso modo dalla memoria del colonialismo.

Questa tendenza a vedere l’Europa come un sistema chiuso porta anche a un resoconto distorto delle idee universaliste che i “pro-europei” credono di difendere e di come sono state propagate al resto del mondo. La rivoluzione haitiana è un buon esempio. Per lungo tempo è stato cancellato dalla storia delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo. Eppure, come mostra la storiografia recente, era molto più vicino alla realizzazione delle aspirazioni universaliste dell’Illuminismo rispetto alle rivoluzioni americana o francese. Pertanto, la storia della diffusione dei moderni valori europei basati sull’Illuminismo nel resto del mondo deve includere il modo in cui i non europei hanno combattuto contro gli europei in nome di questi valori.

Una storia seria dell’Europa deve essere onesta anche sull’Unione stessa, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra la fase iniziale dell’integrazione europea e la decolonizzazione. Non solo questi due fenomeni coincidevano – quando fu firmato il Trattato di Roma nel 1957, la Francia era nel bel mezzo della sua brutale guerra coloniale in Algeria – ma anche, come hanno dimostrato Peo Hansen e Stefan Jonsson, l’integrazione europea è stata concepita in parte come un mezzo per il Belgio e la Francia per consolidare i loro possedimenti coloniali nell’Africa occidentale. In altre parole, lungi dall’essere un progetto postcoloniale, figuriamoci anticoloniale, l’integrazione europea fa parte della storia del colonialismo europeo. È quello che si potrebbe chiamare il “peccato originale” dell’Unione europea.

La storia della diffusione dei moderni valori europei basati sull’Illuminismo nel resto del mondo deve includere il modo in cui i non europei hanno combattuto contro gli europei in nome di questi valori.

HANS KUNDNANI

Un passato “utilizzabile”

Questo ci porta alla questione dell’obiettivo del “racconto” che van Middelaar vuole sviluppare. Si tratta di adottare un atteggiamento più trasparente e onesto sulla storia reale dell’Europa e della stessa Unione? O si tratta piuttosto di creare miti capaci di solidificare un “noi” in nome del quale i leader europei potrebbero parlare, come sembra suggerire van Middelaar? Il tentativo di strumentalizzare la storia e creare un passato “utilizzabile” è ciò che ha sostenuto la costruzione della nazione europea del XIX secolo. Ciò che van Middelaar sembra voler fare è replicare questo progetto a livello dell’Unione – in altre parole, costruire una regione piuttosto che una nazione – nel 21° secolo.

L’importanza di queste domande sull’identità è in parte spiegata dal fatto che le società europee ora hanno molte più persone con origini in altre parti del mondo rispetto all’Europa. Si potrebbe quindi pensare che l’obiettivo politico di una narrativa europea dovrebbe essere quello di migliorare la coesione sociale nelle società ora multiculturali. La visione più complessa della storia europea che ho proposto – quella in cui l’Europa non è vista come un sistema chiuso e dove sono riconosciute le sue interazioni, buone e cattive, con il resto del mondo – aiuterebbe a compiere questo sforzo.

Ma ciò che interessa davvero all’onorevole van Middelaar è qualcos’altro. La ragione per cui pensa che l’Europa abbia così tanto bisogno di una narrazione è in realtà più esterna che interna. Vuole che gli europei creino un’agenzia europea per agire – “agire e […] difendere gli interessi in quanto europei” – in un mondo in cui l’Europa è sempre più minacciata. In questo senso, le sue argomentazioni sono tipiche degli attuali dibattiti di politica estera europea che vertono su “autonomia strategica”, “sovranità europea” e Handlungsfähigkeit , ovvero “capacità di agire”, ovvero potenza europea. Ma se questo è l’obiettivo di creare una narrazione, la tendenza sarà inevitabilmente quella di semplificare e distorcere la storia europea, in breve, di creare miti..

Particolarismo e universalismo

In fondo, la questione più interessante – ma anche più difficile – sollevata dalla discussione tra van Middelaar e Manent riguarda il rapporto tra particolarismo e universalismo nell’idea di Europa. Gli europei hanno sempre considerato universali le proprie idee e i propri valori – che tuttavia sono emersi in circostanze specifiche della storia del continente. Era anche la base dell’idea di una “missione civilizzatrice” europea. Questa missione civilizzatrice è stata un elemento straordinariamente continuo nella storia dell’idea di Europa, anche se il suo contenuto è cambiato nel tempo da una missione religiosa a una razionalista, razzializzata, poi, nel dopoguerra e nel postcoloniale periodo, a una missione tecnocratica.

Molti “pro-europei” semplicemente non riconoscono la tensione tra particolarismo e universalismo e quindi sostengono che non c’è alcun problema nel considerare i “valori europei” come valori universali. Van Middelaar riconosce che questo è troppo facile – ad esempio, riconosce come, durante il periodo medievale, “europeo” e “cristiano” fossero “quasi intercambiabili”. C’è quindi qui una sorta di riconoscimento di ciò che Paul Gilroy chiamava “la particolarità che si nasconde sotto le pretese universalistiche del progetto illuminista”. La questione, però, è come risolvere questo complesso rapporto tra particolarismo e universalismo nell’idea di Europa – come “posizionarsi di fronte all’universale”, per dirla con le parole di van Middelaar. .

Se i valori europei di oggi sono radicati nelle idee illuministe, come affermano i “pro-europei”, la sfida è capire l’eredità di tali punti ciechi nel loro stesso pensiero.

HANS KUNDNANI

Un modo per farlo è abbandonare del tutto ogni aspirazione all’universalismo e adottare una sorta di relativismo. Vi alludono alcuni analisti di politica estera europea, che si considerano realisti . Esortano gli europei a perseguire semplicemente i loro interessi particolari – comunque li definiscano – e ad abbandonare ogni aspirazione a diventare un ” potere normativo ”  . »Che revisiona la politica internazionale a immagine dell’Unione. In un mondo anarchico in cui l’Europa è sempre più minacciata, sostengono che gli europei dovrebbero rinunciare all’idea di fare ciò che è bene per il mondo intero e semplicemente fare ciò che è bene per loro. In altre parole, propugnano una sorta di europeismo spudorato.

Né Manent né van Middelaar arrivano a tanto. Entrambi sembrano volere che gli europei abbraccino, o rivendichino, una sorta di particolarismo, ma da una prospettiva di civiltà piuttosto che realistica. Ad esempio, van Middelaar vuole che gli europei possano parlare della “peculiarità del loro modo di vivere” come pensa che facciano gli americani e dice che non dovrebbero “cancellare” le origini cristiane di questo modo di vivere. Ma allo stesso tempo, non sembra nemmeno voler rinunciare all’idea dell’universalismo europeo: ripete che i valori elencati nell’articolo 2 dei trattati europei sono valori universali. Non è quindi chiaro come concili particolarismo e universalismo.

Invece di ripiegare su narrazioni di civiltà e creare miti sull’Europa, un modo migliore per risolvere il dilemma sembra piuttosto adottare un approccio più critico alla storia europea – e alla storia dell’Unione stessa – come un passo verso un universalismo veramente universale. Un tale approccio segue generazioni di pensatori, molti dei quali provengono da tradizioni radicali antimperialiste e nere, che hanno cercato non di rifiutare le aspirazioni universaliste ma di realizzarle. In particolare, implica confrontarsi con la storia dell’Europa in tutta la sua complessità, comprese le sue interazioni con il resto del mondo e i modi in cui l’Europa non è stata all’altezza della sua retorica universalista.

Implica anche un approccio più critico alla storia dell’Illuminismo rispetto a quello di molti “pro-europei” che invocano l’Illuminismo ma sembrano ignorare le complessità della loro storia. Come ha dimostrato Susan Buck-Morss1, sebbene il contrasto tra libertà e schiavitù fosse al centro del pensiero illuminista, “i filosofi illuministi europei insorsero contro la schiavitù , tranne dove essa esisteva letteralmente “. Rousseau, ad esempio, non aveva nulla da dire sul codice nero che, ad Haiti e altrove, teneva gli esseri umani in catene reali piuttosto che metaforiche. Se i valori europei di oggi sono radicati nelle idee illuministe, come affermano i “pro-europei”, la sfida è capire l’eredità di tali punti ciechi nel loro stesso pensiero.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/10/26/le-passe-impense-pour-un-recit-critique-europeen/?mc_cid=7fd03f228e&mc_eid=4c8205a2e9

PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI

L’articolo, sintetico ed efficace di Riccardo Scarpa pubblicato dall’Opinione del 21 ottobre 2021, sulla “deriva oligarchica” di elezioni cui partecipa all’incirca il 40% degli elettori, induce a qualche ulteriore riflessione.

La prima: è sicuro che qualsiasi regime politico, anche non democratico, si regge (anche) sul consenso dei governati. Questo può desumersi laddove siano monarchie ed aristocrazie da vari “indici”. Il principale dei quali è l’obbedienza, il non dissenso (o il dissenso parziale e contenuto). In quelli democratici c’è un “indice” in più, peraltro numerico: le elezioni. Se il corpo elettorale è svogliato e renitente, significa quello che Scarpa ha ben espresso: che è un’oligarchia, non di diritto, ma di fatto. E che una democrazia che suscita tanta indifferenza sia in buona salute è difficile sostenerlo: anche perché fino a qualche decennio fa nella deprecata “prima repubblica” eravamo abituati a percentuali di partecipazione al voto almeno doppie.

In secondo luogo: siamo abituati a distinguere tra democrazia e liberalismo. Ci sono state nella storia democrazie poco o punto liberali e stati liberali poco (o punto) democratici. Tra cui il Regno d’Italia, almeno fino al suffragio universale maschile (1913). Ciò non toglie che democrazia e liberalismo, facili a distinguersi concettualmente, si siano per lo più accompagnati nella storia. Anche un regno del XIX secolo, in cui votava il 5% (o anche meno) dell’elettorato maschile era più democratico di una monarchia del settecento, quando non c’erano votazioni né rappresentanza (in senso moderno) dei governati.

Com’è noto uno dei pensatori liberali cui si deve la più accurata distinzione tra libertà degli antichi (a un dipresso = democrazia) e libertà dei moderni (sempre a dipresso di prova – liberalismo) è Benjamin Constant nel discorso “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”. Constant sostiene che nelle antiche polisScopo degli antichi era la divisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una medesima patria; questo essi consideravano la libertà. Scopo dei moderni è la sicurezza nelle gioie private, ed essi chiamano libertà la garanzie accordate da parte delle istituzioni a tali gioie” mentre nella società moderna “serve a tale libertà, un’altra organizzazione rispetto a quella che poteva andar bene alla libertà antica…all’interno del tipo di libertà di cui noi siamo gelosi, più l’esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà tempo per dedicarci ai nostri interessi privati, più la libertà ci diverrà preziosa. Da ciò deriva, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da sé”; onde il sistema rappresentativo è essenziale alla libertà dei moderni.

Ma c’è un rischio, sostiene il pensatore svizzero “Poiché da ciò che la libertà moderna differisce rispetto all’antica deriva la minaccia di un pericolo di specie differente. Il rischio a cui sottostava la libertà antica era che, attenti ad assicurarsi solo la partecipazione al potere sociale, gli uomini cedessero a poco prezzo i diritti e i godimenti individuali. Il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico. I depositari dell’autorità non mancano di esortarci a far ciò. Essi sono così ben disposti a risparmiarci ogni tipo di pena, eccetto quella di obbedire e pagare”. E ambedue, l’obbedire e il pagare gli italiani hanno sopportato nella seconda repubblica, assai più che nella prima. Ma non è solo questo l’inconveniente: più grave, perché la partecipazione è necessaria alla libertà politica: “La libertà politica, sottoponendo a tutti i cittadini, senza eccezioni, la considerazione e lo studio dei propri più sacri interessi, aumenta il loro spirito, nobilita i loro pensieri, stabilisce tra di loro una sorta di uguaglianza intellettuale che fa la gloria e la potenza di un popolo. Osservate come una nazione si rafforza non appena un’istituzione le consente l’esercizio regolare della libertà politica”, quella libertà che in Italia è temuta come la peste dall’establishment. Tant’è che si vota il meno possibile e, quando lo si fa, si contraddice alle indicazioni dell’elettorato. Per cui dopo un elogio della partecipazione e del patriottismo, Constant afferma che “Ben lungi, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, occorre piuttosto, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro” perché “Occorre che le istituzioni si occupino dell’educazione morale dei cittadini. Nel rispetto dei loro diritti, avendo riguardo della loro indipendenza, senza ostacolare le loro occupazioni, esse devono comunque consacrare l’influenza di cui dispongono alla cosa pubblica, chiamare i cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni, e formandoli in tal modo, per mezzo della pratica, a queste elevate funzioni, donar loro al contempo il desiderio e la possibilità di adempierle”. E questa consapevolezza dello “Stato rappresentativo” come sintesi di democrazia e liberalismo è patrimonio comune dei liberali successivi, a partire da Orlando, Mosca, Croce.

Per cui opporre democrazia e liberalismo significa depotenziare complessivamente la sintesi politica; estraniare i cittadini dallo Stato e ridurli a meri sudditi (privati). Far combattere la democrazia con la libertà vuol dire indebolire lo Stato: cioè proprio quanto vogliono i poteri forti, non democratici e assai poco liberali.

Teodoro Klitsche de la Grange

Sudan, perché il colpo di stato?_di Bernard Lugan

Al di là dei commenti speciosi e superficiali dei media, gli eventi in corso in Sudan sono l’esatta ripetizione di quanto accaduto in Egitto tra il 2011 e il 2013.

In Egitto, lasciando defluire il corso dell’ondata della “primavera araba”, l’esercito ha deposto il maresciallo Mubarak, cedendo apparentemente il potere ai civili. Pensando di aver vinto, il presidente Morsi ha poi commesso diversi errori politici sotto l’occhio vigile dell’esercito che ha lasciato il movimento rivoluzionario a dividersi. Poi, nel 2013, di fronte all’esasperazione della popolazione a causa della penuria che era stata in gran parte organizzata da loro, l’esercito ha ripreso il potere. Alla fine della “primavera araba”, chiusa la parentesi civile, il generale al-Sisi era dunque succeduto al maresciallo Mubarak… ( vedi a questo proposito il mio libro Storia dell’Egitto dalle origini ai giorni nostri ).

In Sudan, nel 2019, l’esercito ha dovuto affrontare a sua volta una grande protesta popolare. Non volendo affrontare direttamente la folla, lasciò che quest’ultima cacciasse dal potere il generale Omar al-Bashir. Ma, proprio come in Egitto, ha mantenuto il controllo del gioco attraverso la creazione di un Consiglio sovrano presieduto dal generale al-Burhane e un governo di transizione, composto per metà da soldati e da civili,  presieduto da Abdallah Hamdok.

Come in Egitto, l’esercito ha lasciato che la situazione degenerasse mentre spingeva la componente civile del governo all’errore. Questo è stato tanto più facile per lui in quanto il paese è in bancarotta da quando l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011 lo ha privato di circa il 75% delle sue entrate petrolifere. Il debito pubblico è colossale, le carenze apocalittiche e, come se non bastasse, il polmone del Paese che è Port Sudan sul Mar Rosso, collegato a Khartoum da una ferrovia, vera arteria vitale del Paese, è regolarmente bloccato dall’insurrezione dell’etnia Bedja che vive nell’entroterra.

Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, giudicando il momento favorevole a salvaguardare gli interessi dell’esercito, il generale al-Burhane ha preso formalmente il potere che già esercitava in gran parte tramite il Consiglio di Sovranità. Il momento era cruciale perché la componente civile dello Stato minacciava doppiamente i suoi interessi:

– Economicamente perché, come in Egitto, qui, in Sudan, sono le forze armate i veri attori economici del Paese.

– Giudiziariamente a causa dei crimini commessi durante la guerra in Darfur. Crimini che hanno portato l’ex presidente Omar al-Bashir ad essere incriminato dalla Corte penale internazionale. Tuttavia, la componente civile del governo ha acconsentito alla sua consegna a questo tribunale; decisione che molti militari hanno visto come un insulto. Ma anche come una minaccia perché tutti gli alti ufficiali dell’esercito sudanese hanno partecipato a questi terribili eventi.

La forza dell’esercito sudanese è paragonabile a quella dell’esercito egiziano? Se è così, come in Egitto, dopo il teatro delle ombre civile, un generale sarà quindi succeduto a un generale …

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono. Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro) di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

 

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono.
Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro)

di Davide Gionco
24.10.2021

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana? I redditi, al netto dell’inflazione, sono inferiori a quelli del 1990; la disoccupazione è in aumento: la povertà è in aumento; le imprese falliscono; i nostri giovani emigrano; chi resta non si sposa e non fa figli, perché il futuro è troppo incerto.
Chi ci governa ci prende in giro, decantando una strabiliante ripresa del 6,1% nel 2021, dopo che nel 2020 il PIL era sceso del -8,9%.
2020 100 x (1-0,089) = 91,1%
2021 91,1 x (1+0,061) = 96,7%
Significa che in due anni il PIL è sceso di (100-96,7) = -3,3%.
Un disastro in un paese già provato da 20 anni di politiche di austerità.

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana?
La risposta è semplice e coincide con la risposta alla domanda: cosa fare per
aumentare la redditività delle imprese, garantendo nello stesso tempo maggiori profitti per il proprietario e migliori retribuzioni per i dipendenti?
1) Abbassare le tasse sugli utili di impresa
2) Abbassare le tasse sui redditi dei lavoratori
3) Mettere più soldi nelle tasche dei clienti, affinché facciano più acquisti
Siccome molte imprese lavorano come fornitori dello stato, dobbiamo aggiungere anche:
4) Aumentare gli investimenti pubblici

L’abbassamento delle tasse sugli utili di impresa lo si può fare riducendo le aliquote. Le imprese avranno più soldi per fare fronte ai nuovi investimenti, oltre che per remunerare l’attività.
Lo stesso dicasi per l’abbassamento delle aliquote di tassazione dei redditi, che consentiranno di aumentare la remunerazione netta dei lavoratori, i quali, a loro volta, avranno più soldi da spendere per le loro necessità, come clienti, il che farà aumentare la produzione delle imprese ed i loro utili. Anche una riduzione dell’IVA sortirebbe l’effetto di ridurre i prezzi di acquisto di beni e servizi e, quindi, di aumentare le vendite, con vantaggio delle imprese e dei loro dipendenti. L’aumento di produzione porterà evidentemente anche a nuove assunzioni.
L’aumento degli investimenti pubblici (manutenzione del territorio, delle strade, degli edifici pubblici, nuove opere, nuovi servizi, ecc.) porterà ad un aumento delle commesse per i fornitori, con nuove assunzioni di personale e maggiore redditività per le imprese.

Fino a qui ci arrivavamo tutti… La domanda che sorge spontanea è: dove trovare i soldi per far quadrare il bilancio di uno stato che taglia le tasse ed aumenta gli investimenti?
Stando alla narrativa dell’informazione “mainstream” non è possibile creare denaro “dal nulla”, motivo per cui nessun governo al mondo si permette di abbassare le tasse e di aumentare gli investimenti per far crescere la propria economia. I più informati sanno che in realtà non è così, perché in paesi che dispongono di una propria banca centrale, come ad esempio gli USA che nel 2020 hanno fatto un deficit di bilancio del 15% sul PIL, totalmente finanziato da nuove emissioni di dollari della Federal Reserve (FED), che hanno appianato le mancate entrate fiscali e gli stimoli per la crescita del governo Trump.
L’informazione “mainstream” continua a supportare gli
inutili tentativi dei vari governi che, da quasi 30 anni, tentano di far ripartire l’economia mantenendo il bilancio in sostanziale equilibrio (se non in attivo). Per contro alcuni economisti di stampo keynesiano, in genere ignorati dai mass-media, richiamano l’importanza per uno stato di disporre di una propria banca centrale in grado di finanziare i deficit di bilancio del governo, necessari per rilanciare l’economia in tempi di crisi. Nel caso dell’Italia, quindi, la soluzione prospettata da questi economisti è l’uscita dall’Eurozona, con il ritorno alla lira e nazionalizzazione della Banca d’Italia.

In realtà la soluzione al problema della crescita economica potrebbe essere, per entrambe le “fazioni”, molto più semplice di quanto immaginiamo.
Per comprendere la soluzione dobbiamo prima di tutto comprendere come funziona una moneta. E’ qualcosa che non si insegna a scuola e, da quanto ho avuto modo di leggere sui testi utilizzati nelle facoltà di economia, neppure agli studenti di economia.

Il funzionamento di una moneta è molto semplice: c’è una centrale di emissione, c’è un meccanismo che ne garantisce la circolazione (per lo scambio di beni e servizi e per il risparmio) e c’è una centrale di ritiro finale, al termine della circolazione.


Funziona cosi per tutte le monete:

Moneta

Centrale di emissione

Meccanismo di circolazione

Centrale di ritiro

Euro

BCE che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a BCE i titoli in scadenza

Dollaro

FED che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a FED i titoli in scadenza

Sesterzio

Imperatore Augusto conia monete

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse all’imperatore

Credito bancario

Banche che fanno credito

scambio beni e servizi

rimborso alle banche del mutuo

Titoli di stato

Tesoro

aste dei titoli, mercato dei titoli

Tesoro paga i titoli in scadenza

Bitcoin

Software crittografico

soprattutto riserva di valuta

convertibilità in dollari/euro

Ticket restaurant

Sodexo li vende a imprese

buono sconto ristorante

Sodexo li converte in euro e paga il ristorante

Fiche del casinò

Casinò

Pagamenti partita di poker

Casinò li converte in euro

Solo una nota tecnica per chi non lo sapesse: oggi i nuovi euro creati dalla BCE vengono messi in circolazione acquistando titoli di stato emessi dal Tesoro. Quando i titoli arrivano alla scadenza, la BCE incassa dal Tesoro il capitale in euro più gli interessi ed emette nuovi per euro per acquistare i nuovi titoli . Lo Stato usa una parte della raccolta fiscale (centrale di ritiro) per pagare gli interessi in euro sui titoli in scadenza, mentre la quota capitale viene finanziata principalmente da nuove emissioni.

La centrale di ritiro garantisce è ciò che garantisce la spendibilità certa di una moneta. Ad esempio in Albania è obbligatorio pagare le tasse in lek, quindi il popolo abanese effettua la maggior parte dei pagamenti in lek, sapendo di poterli certamente spendere per pagare le tasse (centrale di ritiro).
In Italia non è vietato fare pagamenti in dollari. Se un turista straniero ci paga in dollari, li accettiamo solo perché siamo sicuri di poterli convertire in euro, con cui siamo sicuri che potremo pagare le tasse. Se non fossero convertibili, non li accetteremmo.
L’esistenza della centrale di ritiro fa sì che quella moneta assuma valore anche (e soprattutto) per lo scambio di beni e servizi, la cui produzione, se ci pensiamo bene, è il
valore economico reale (valore di utilità), mentre la moneta ha solo un valore giuridico e finanziario.

Ritornando all’obiettivo della sovranità monetaria, nulla vieta allo Stato di costituire una nuova centrale di emissione di moneta e di creare una propria centrale di ritiro, al fine di dare origine ad una nuova moneta.
Ad esempio l’economista Nino Galloni propone di emettere delle stato-note parallele all’euro. I trattati europei vietano ad altri soggetti di emettere euro (che in fatti ha
nno il segno © del copyright), ma non vietano affatto di emettere altre forme di moneta. Se può farlo, ai sensi delle leggi italiane, la Sardex SpA, se lo possono fare con il Bitcoin e con le fiche del casinò, evidentemente anche lo Stato ha il potere giuridico di farlo. Nulla glielo vieta.
A quel punto, basta creare il meccanismo di ritiro, che potrebbe essere la possibilità di pagare le tasse in quella valuta, ed il gioco è fatto.

La mia opinione sulle stato-note è che, pur essendo una soluzione legittima e tecnicamente funzionale, queste potrebbero suscitare sospetti negli italiani, convinti dell’esistenza di una moneta “di serie A”, l’euro, ed di una moneta “di serie B”, le stato-note, per la sola circolazione interna. Per mettere in atto tale soluzione servirebbe una adeguata campagna di informazione a riguardo.

Una soluzione alternativa la potremmo trovare già nella tabella sopra esposta. Fra le varie monete citate abbiamo incluso anche i titoli di stato. Di per sé le teorie economiche odierne già comprendono i titoli di stato nella massa monetaria “M3”, il che significa che i titoli sono una forma di moneta. L’Italia ha ceduto alla BCE la centrale di emissione e di ritiro finale della moneta-euro, ma non ha ceduto ad altri la centrale di emissione e di ritiro dei titoli di stato.
I titoli sono una forma di moneta che ha delle
regole per cui oggi viene utilizzata solo come strumento di risparmio: oggi spendo 1000 euro per acquistare dei titoli, fra 5 anni converto gli stessi titoli in 1025 euro, mantenendo il valore capitale e guadagnando 25 euro di interessi.
Ma se lo Stato decidesse, cambiando le
regole, di iniziare a pagare (in tutto o in parte) i propri fornitori ed i propri dipendenti in titoli di stato (a tasso zero) e se lo Stato accettasse che le tasse vengano pagate (centrale di ritiro) anche in titoli, oltre che in euro, allora in Italia potremmo usare come forma di moneta per lo scambio di beni e servizi direttamente i titoli di stato, senza il bisogno di emettere nuovi titoli da convertire in euro.

Effettivamente ciò che genera il debito pubblico, che ad oggi costituisce un ingombrante fardello per noi italiani, non è l’emissione di titoli in sé, ma è il contratto che lo Stato stipula al momento in cui vende i titoli in cambio di euro, impegnandosi a rimborsare il capitale in euro più gli interessi.
Ma se i titoli vengono usati per pagare beni e servizi ai fornitori ed ai dipendenti dello Stato, il debito è già saldato nel momento dello scambio lavoro/titoli, non c’è alcun impegno a convertirli in euro non si genera alcun debito pubblico.
I lavoratori useranno i titoli per pagare le tasse (centrale di ritiro) e lo Stato, una volta ritiratili, potrà distruggere i titoli al termine della loro circolazione, prima di emetterne di nuovi.

Il vantaggio di questa soluzione è che lo Stato potrebbe emettere sostanzialmente “dal nulla” una maggiore quantità di titoli per coprire il deficit di bilancio, potendo di conseguenza attuare le riforme necessarie per la ripresa economica del paese (riduzione delle tasse, investimenti, ecc.), il tutto senza generare più debito pubblico.

Naturalmente non si può creare ricchezza dal nulla semplicemente stampando banconote o titoli. La ricchezza viene prodotta dai lavoratori che producono beni e servizi. Ma la maggiore disponibilità di denaro in circolazione consentirà, finalmente, di creare nuove opportunità di lavoro per i disoccupati, consentirà di fornire loro una formazione professionale, consentirà di fare investimenti in ricerca, in infrastrutture, rendendo più produttivi i lavoratori ed aumentando la ricchezza di tutti.
Ovviamente l’emissione di titoli dovrà essere commisurata alle necessità economiche del Paese, dato che una emissione eccessiva potrebbe causare dei fenomeni inflazionistici non desiderabili. Non intendiamo affrontare in questa sede la questione dell’inflazione per eccesso di moneta.

In uno scenario del genere l’euro potrebbe continuare a circolare per gli scambi con gli altri paesi europei, per i pagamenti dei turisti stranieri. Lo Stato potrebbe tranquillamente accettare anche gli euro per il pagamento delle tasse, ma non avrebbe bisogno di euro per finanziare le proprie spese sul mercato interno. Gli euro incamerati dallo Stato potranno essere utilizzati per pagare eventuali fornitori stranieri o per regolare il tasso di cambio che, inevitabilmente, si creerà fra i titoli italiani e l’euro.

In conclusione, abbiamo spiegato come gli obiettivi di benessere economico dell’Italia siano certamente perseguibili con una semplice riforma del sistema di emissione, di circolazione (basterebbe una piattaforma elettronica di scambio) e di ritiro dei titoli di stato.
La permanenza nell’attuale situazione di moneta unica fuori dal controllo pubblico non potrà che continuare ad aggravare la situazione di declino e di impoverimento dell’Italia.
La soluzione “tutto-e-subito” di una uscita secca dell’Italia dall’Eurozona, pur se tecnicamente ineccepibile, dovrebbe fare i conti con obiettive difficoltà politiche, sia in Italia, sia a livello europeo.
Una soluzione “pragmatica” di riforma del debito pubblico come sopra illustrato, introdotta con la necessaria gradualità, consentirebbe invece di risolvere rapidamente le disfunzionalità dell’euro-moneta-unica, con vantaggi economici e politici per tutti.

“L’America ha nostalgia della guerra fredda”, di Emmanuel Todd

“L’America ha nostalgia della guerra fredda”

Emmanuel Todd il 14 ottobre 2021Lo storico Emmanuel Todd fa un clamoroso ritorno con una conferenza in cui contrappone la società americana a quella russa (14 ottobre 2021). Mostra cifre di supporto che il più malato non è quello che pensi. Vede anche su scala planetaria, anche nei nostri paesi, la fine della democrazia e la sua sostituzione con sistemi oligarchici (appropriazione del potere da parte di una minoranza).

La sua conferenza davanti all’associazione Dialogo franco-russo è disponibile sul web. Ecco il riassunto per i lettori di Herodote.net.

Tutto è iniziato con lo stupore dello storico per la “russofobia” che ha conquistato gli Stati Uniti. Nel 1989 i sondaggi davano, dopo 45 anni di “guerra fredda” , il 62% di buone opinioni rispetto all’URSS. Nel 2021 siamo al 22% delle buone opinioni sulla Russia, come se Putin fosse più repressivo di Stalin, Krusciov e Breznev messi insieme… o più minaccioso di Xi Jinping, il nuovo uomo forte cinese.

Emmanuel Todd spiega questa aberrazione con il fatto che gli Stati Uniti hanno nostalgia della Guerra Fredda, che gli ha permesso di dominare il mondo come nessun’altra potenza prima, oltre a offrire alla sua classe operaia un miglioramento senza precedenti delle loro condizioni.

Questa “nostalgia di giorni felici”  (!) non è priva di fondamento…

Nel suo primo libro del 1976 ( The Final Fall , Robert Laffont), Emmanuel Todd predisse l’implosione dell’URSS alla luce dell’aumento della mortalità infantile , prova di una società in via di disgregazione (un popolo può fare qualsiasi cosa a sostegno dei suoi leader tranne che mette in pericolo i suoi figli).

Oggi, quando la Russia viene presentata come un paese alla deriva, cosa osserviamo? Che la mortalità infantile sia più bassa in questo Paese (4,9 decessi di bambini sotto un anno per mille nascite) che negli Stati Uniti (5,6). Non è tutto. L’aspettativa di vita è in aumento in Russia, pur essendo ancora bassa, mentre è in calo negli Stati Uniti dall’inizio del 21° secolo nonostante la spesa sanitaria straordinariamente elevata (16,5% del prodotto interno lordo contro meno del 12% nei normali paesi avanzati) .

La causa è l’epidemia di oppiacei e l’alcolismo nelle popolazioni operaie (bianche) delle aree dismesse. Questo calo è correlato all’aumento del tasso di suicidi (14,5 per 100.000 abitanti contro probabilmente 11,5 in Russia). Queste morti “riflettono la distruzione della classe operaia americana” , ha detto Emmanuel Todd. Sottolinea al confronto la “  stabilità”  del sistema sociale russo, nonostante un tenore di vita molto più basso: “Se si confermano queste tendenze, significa che il modello sociale russo si sta avvicinando al modello europeo e che gli Stati Uniti sono allontanandosi dal modello dell’Europa occidentale” .

Lo storico guida il punto con il tasso di carcerazione: “  Nel 2016 avevamo 655 incarcerati ogni 100.000 abitanti negli Stati Uniti e solo 328 in Russia. Questo è il tasso più alto del mondo, non è una società normale! “ Questa incarcerazione di massa colpisce specificamente la minoranza nera. È l’altro lato del malessere americano con la cattiva sorte fatta ai lavoratori.

Alla luce di questi indicatori demografici, che parlano più forte degli indicatori economici, e come specialista dei sistemi familiari , Emmanuel Todd analizza la democrazia americana e la sua trasformazione dalla seconda guerra mondiale. Confessa la sua paura che gli Stati Uniti, per i quali nutre un incontenibile affetto, conoscano il destino dell’URSS in una riedizione di The Final Fall.

Il razzismo nel cuore della democrazia americana

In origine, gli Stati Uniti non erano predisposti a diventare e rimanere una grande democrazia. Come la società inglese da cui provengono, sono caratterizzati da un modello familiare di tipo “nucleare assoluto”  : è la famiglia limitata alla coppia e ai loro figli, questi ultimi che escono di casa da adulti senza avere la certezza dell’eredità . Questo modello differisce dalla famiglia nucleare del Bacino di Parigi, dove l’eredità è necessariamente condivisa tra tutti i figli, così come dallo stesso modello inglese temperato da un’aristocrazia dove l’eredità va al maggiore. 

Il risultato è una società molto individualista e diseguale negli Stati Uniti, che porta alla concentrazione delle fortune e all’eventuale avvento di un’oligarchia (governo di minoranza). Se il Paese ha evitato questo, lo deve alla presenza sul suo suolo di amerindi e soprattutto neri discendenti di schiavi africani.

Queste sono sia la vergogna che il collante della democrazia americana. Come Alexis de Tocqueville due secoli fa, tutti capiscono che se ne vergognano. Ma il cemento?…

Quando ottennero l’indipendenza nel 1783, gli Stati Uniti contavano quattro milioni di abitanti, di cui 700.000 schiavi africani . I promotori dell’indipendenza erano essi stessi piantatori della Virginia che possedevano molti schiavi. Per motivi di coesione sociale, hanno designato i neri come portatori della differenza umana, un modo per cancellare le differenze di classe tra i coloni. Così hanno la cittadinanza limitata alle persone bianche libere ( ” persone bianche libere” ) dal Naturalization Act del 26 settembre 1790. È l’unico evento di cittadinanza basato sul colore della pelle nel mondo moderno!

Non stupiamoci. La democrazia ha bisogno di uno spaventapasseri per pensare a se stessa come una comunità unita e per funzionare, come ha osservato Emmanuel Todd in un precedente saggio. Gli ateniesi potevano così cooperare ignorando le loro differenze sociali perché avevano la soddisfazione di dominare insieme schiavi e metic. Più vicino a noi, sotto la Terza Repubblica, la sinistra riuscì a instaurare la democrazia invitando tutti i francesi alla comunione nel “dovere di civilizzare le razze inferiori” (Jules Ferry).

In questo modo, attraverso l’individualismo sfrenato, il culto della libera impresa e appoggiandosi a risorse naturali pressoché illimitate, gli americani arrivarono a metà del XX secolo a produrre oltre il 40% della ricchezza mondiale rappresentando solo il 6% della popolazione umana. .

L’URSS, il miglior nemico dell’America

Gli Stati Uniti sono diventati una superpotenza senza combattere, a differenza dell’antica Roma o dell’Inghilterra vittoriana! Si sono certamente impegnate in molte guerre ma sempre contro avversari insignificanti . L’unico avversario alla loro misura era la Germania, ma l’affrontarono solo in agonia, nel 1918 e nel 1944. Dopo la seconda guerra mondiale, riuscirono a mettere le mani sulla potenza industriale della Germania (11,6% dell’industria mondiale nel 1929). grazie al sacrificio di venti milioni di sovietici. “Il controllo americano sulla Germania sono le armi russe!” » scherza Emmanuel Todd.

Veniamo al paradosso fondamentale della potenza americana: deve il suo culmine (e il suo crollo) alla minaccia sovietica, da Stalin a Breznev, senza che i due nemici si scambiassero mai colpi. Emmanuel Todd insiste: “Il potere russo è stato associato a un grande momento di benessere nella vita degli Stati Uniti, con una classe operaia prospera, l’ascesa di uno stato sociale , la  piena occupazione, un keynesismo che va da sé, di un’America globalmente responsabile con il Piano Marshall. […] La competizione russa è stato il momento più bello della storia americana. “

Fu per evitare che la Grecia fosse travolta dalla ribellione comunista che gli Stati Uniti ebbero l’idea del Piano Marshall nel 1947. Fu per legare la Germania Ovest al blocco occidentale che promossero la creazione della CECA nel 1950 (European Coal and Steel Community), al culmine della Guerra Fredda (vittoria di Mao in Cina, invasione della Corea , golpe a Praga, blocco di Berlino, ecc.). La costruzione dell’Europa è come la NATO il frutto della guerra fredda; non sarebbe mai successo senza la minaccia sovietica.

È anche per cancellare l’umiliazione inflitta da Mosca con il lancio dello Sputnik che gli americani hanno intrapreso la conquista dello spazio, anche camminando sulla Luna . Infine, ultimo ma non meno importante , Washington ha promosso lo stile di vita americano in tutto il mondo libero con tutti i lati seducenti del soft power  : Coca-Cola, Hollywood, James Dean, West Side Story , American Motors, Lewis, ecc.

Con raddoppiata energia, Washington trascinò Mosca in una corsa agli armamenti che i sovietici non potevano vincere. Seguì un crollo dell’URSS e la sua implosione graduale grazie alla moderazione di Mikhail Gorbaciov . Tutti hanno visto lì il definitivo trionfo della democrazia americana e il pensatore americano Francis Fukuyama ha guadagnato la fama annunciando La fine della storia  !

L’America vittima del suo trionfo

Oggi, al termine della sua riflessione sugli Stati Uniti iniziata nel 2002 ( Dopo l’Impero ), Emmanuel Todd non è lontano dal dire, in opposizione a Fukuyama e ad imitazione di Orazio  : “la Russia sconfitta ha sconfitto il suo fiero vincitore”  !

Il paradosso nasce innanzitutto dal fatto che l’ideologia “progressista” veicolata dai comunisti ha alimentato la lotta dei neri americani per la loro emancipazione. I governanti americani dovevano necessariamente trattenere i loro colpi contro Martin Luther King e altri, salvo squalificarsi nella loro lotta contro l’URSS condotta in tutto il mondo in nome dei diritti umani e della libertà…

Ma, garantendo l’uguaglianza formale dei diritti ( Civil Rights Act ) e l’abolizione della “Jim Crow” leggi nel 1960 , neri americani inferto un colpo fatale per ciò che ha reso il collante della democrazia americana, il loro. Scaffalature! A che serviva la solidarietà tra le classi sociali quando i bianchi non avevano più nulla da difendere?

Seguì il disfacimento del welfare state e nel decennio successivo gli economisti della scuola di Chicago, raggruppati attorno a Milton Friedman, riuscirono a imporre le loro idee contro quelle di Keynes. Era il trionfo del neoliberismo , secondo il quale i profitti degli azionisti fanno la prosperità delle aziende e la felicità delle persone. In nome della quale i governi hanno deregolamentato le leggi sociali e le tutele per i lavoratori. Hanno anche incoraggiato le aziende a delocalizzare le fabbriche in paesi a basso salario, con tutte le conseguenze che vediamo oggi e sulle quali non ci soffermeremo.

Così, l’emancipazione dei neri americani, di cui nessuno si lamenterà, ha portato alla crisi della democrazia americana. Oggi si tratta di poter ”  definire una coscienza collettiva indipendentemente dalla questione razziale  ” , ha detto Todd La cosa è desiderabile. È possibile? Questa è un’altra domanda che lo storico affronta con avidità.

L’impossibile ritorno al passato

La fissazione americana per la Russia potrebbe essere spiegata dal desiderio inconscio di tornare ai “giorni felici” della Guerra Fredda. Ma logicamente, è contro la Cina che gli Stati Uniti dovrebbero dirigere le proprie forze se quest’ultima ha i motivi aggressivi che le vengono attribuiti. In questo caso, avrebbero tutto l’interesse a stringere un’alleanza contro di essa con la Russia, nello stesso modo in cui Nixon si riallacciava spettacolarmente a Mao nel 1972 per contrastare Breznev!

Se invece la Cina, fedele ai suoi duemila anni di storia, si preoccupa solo di proteggersi, allora gli americani potranno inseguire a loro piacimento i russi con la loro vendicatività. Senza profitto per nessuno perché le società sono cambiate e non si tornerà alla democrazia imperiale del dopoguerra come dimostra Emmanuel Todd.  

– L’istruzione primaria, la chiave per la democrazia

Tornando indietro nei secoli, lo storico osserva che la democrazia è stata ovunque resa possibile dall’alfabetizzazione di massa. Questo fu acquisito molto presto negli Stati Uniti, come osservò Tocqueville negli anni ’20 dell’Ottocento.

È stato acquisito in Russia prima della prima guerra mondiale con metà dei coscritti in grado di leggere e scrivere. Questo lo spiega, cioè la spinta rivoluzionaria che portò alla caduta dello zarismo con la Rivoluzione del febbraio 1917 . Sul perché questa rivoluzione democratica sia stata fuorviata dai bolscevichi nell’ottobre 1917 , al punto da generare uno stato totalitario di estrema ferocia, la spiegazione sta forse nel sistema familiare caratteristico della vecchia società russa…

Secondo le categorie sviluppate da Emmanuel Todd, la famiglia russa, a differenza di quella nucleare americana, è di tipo comunitario, con un patriarca circondato dai figli, dalla nuora e dai figli. Si tratta di un modello strettamente egualitario, con anche un alto status delle donne e la pratica dell’esogamia (matrimonio al di fuori del clan), in cui si contrappone al modello comunitario del mondo arabo-musulmano. Si trova in paesi come la Cina o regioni come il Limosino, insomma in tutti i luoghi che hanno accolto favorevolmente l’ideologia comunista!

A questo modello familiare in crisi all’inizio del XX secolo, il comunismo autoritario potrebbe presentarsi come un modello alternativo (rigorosa uguaglianza tra tutti e sottomissione a una figura patriarcale).

In tutto il mondo, quindi, l’alfabetizzazione di massa ha preceduto e consentito l’avvento della democrazia. Ma per fortuna non ci siamo fermati qui. Le società sviluppate del dopoguerra hanno sperimentato un rapido aumento dell’istruzione superiore. Da questo bene risultava un male con la comparsa di una nuova divisione sociale tra i colti “più alti” (Bac + 3, 4 o più) e gli altri.

– Istruzione superiore, morte della democrazia

Emmanuel Todd, in modo molto intuitivo e senza pretese, stima che il 25% della popolazione sia la soglia istruita “superiore” dalla quale la società è frammentata.

Il fenomeno è facile da capire: nell’Ottocento, quando i diplomati in Francia si contavano a portata di mano, un autore come Victor Hugo doveva scrivere in una lingua accessibile a tutti se voleva vendere anche un po’ di libri. Inutile dire che ci riuscì meravigliosamente ( Les Misérables circolava così di mano in mano anche nelle officine). Oggi, qualsiasi plumitif non ha più questo vincolo. Può gergare a piacimento con la certezza che troverà abbastanza lettori tra i colti “superiori” . Quindi non ha più paura di mostrare il suo disprezzo di classe per l’istruzione “inferiore” .

Questa frammentazione sociale fa ingrassare il cavolo della classe dominante che gioca con essa per deviare a suo profitto il sistema elettorale e appropriarsi del potere. I francesi lo sanno meglio di chiunque altro dal referendum fallito del 2005; è fuori questione aspettare le elezioni per un cambio di politica. Questo fenomeno è globale ed Emmanuel Todd lo vede con risentimento come la morte della democrazia: “Oggi il buon concetto di confronto tra paesi non è democrazia. Adottiamo l’ipotesi che tutti i sistemi oggi siano de facto oligarchici. Ciò che differenzia i russi e i cinesi dall’occidente è che sanno di trovarsi in una non democrazia oligarchica” .

Trascrizione gratuita della conferenza di Emmanuel Todd (14 ottobre 2021) a cura di André Larané

Stati Uniti e Cina, schermaglie di una partita complessa_Con Gianfranco Campa

Il confronto tra Cina e Stati Uniti assume caratteristiche sempre più complesse. Siamo ancora alle schermaglie, alla esibizione dei muscoli punteggiata qua e là da punzecchiature moleste da parte di protagonisti dalle spaventose riserve di potenza. Il palcoscenico eè pericolosamente affollato da protagonisti, tutti impegnati a difendere ed acquisire nuove posizioni, ma molto meno acquiescenti, rispetto allo scenario europeo, nei confronti dei due principali protagonisti. Come se non bastasse tutti, in particolare i centri decisori di Cina ed USA devono agire in funzione dei problemi e delle dinamiche politiche interne tutt’altro che agevoli da domare all’interno di formazioni sociali sempre più magmatiche pur se soggette a strumenti di controllo sempre più pervasivi. Ne risulta un intreccio, trasversale agli stessi paesi in competizione, di legami e conflitti tra centri di potere e di influenza ancora in gran parte sommerso e illeggibile da rendere imprevedibile la stessa dinamica dei conflitti in corso. Giuseppe Germinario

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POLONIA E CAVILLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

POLONIA E CAVILLI

Il riaccendersi della vertenza tra Polonia ed UE, a mio avviso, sposta di poco la questione che indicavo ai lettori de “L’Opinione” negli articoli del 30 settembre e del 19 novembre dell’anno passato: che l’espressione “Stato di diritto”, di cui all’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea, è altamente polisemica, essendo considerati da un lato “Stati di diritto” ordinamenti assai differenti; dall’altro il concetto relativo allo stato elaborato da tanti pensatori in nodo non univoco. Ricordavo, per evitare al lettore il “catalogo di Laparello” delle concezioni e degli autori, quanto se ne può leggere nell’attenta voce “Stato di diritto” nel “Dizionario del liberalismo” scritto da Anna Pintore che, stante la non-univocità del termine e del concetto “nessuna trattazione del tema può essere neutrale”; con la conseguenza che, proprio perciò, la formula “ha goduto fin dalla sua nascita di apprezzamento pressoché universale, al punto da segnare oggi una strada senza alternative: uno Stato che non incarni questo modello deve essere considerato legittimo ed indegno di obbedienza”. Quindi indeterminato da un lato, e perciò utile per giustificare misure sanzionatorie (se non aggressive): la connotazione lasca è ideale per sfornare pretesti.

Quale esempio, scrivevo che “nella procedura Ue d’infrazione alla Polonia è stata contestata la limitazione all’indipendenza dei giudici polacchi dopo le innovazioni degli ultimi anni… Tuttavia negli USA tutti i giudici della Corte Suprema, e molti di quelle “inferiori” sono di nomina (o elezione) politica, ma pare assai difficile sostenere che gli USA non sono uno Stato di diritto, ma anche che quel modo di nominare comprometta gravemente lo Stato di diritto”. E così si potrebbe proseguire, non solo per la Polonia (v. sul punto le “infrazioni” sulla libertà e l’educazione sessuale) ma anche per la procedura d’infrazione all’Ungheria.

Ma non risulta che Montesquieu, Gneist, Orlando, Constant (ecc. ecc.) abbiano usato come criterio per discriminare gli Stati di diritto da quelli che non lo sono le preferenze sessuali, il contenuto dei sussidiari e così via. Il pericolo è che, a forza di calcare la mano su profili irrilevanti o poco rilevanti si perdano di vista quelli essenziali (allo Stato di diritto), come avviene da decenni soprattutto in Italia tra l’indifferenza dei mass-media di regime. Solo coll’emergenza pandemica è stato dibattuto pubblicamente che alcune delle misure non erano proprio in linea né col concetto del Rechtstaat ed ancor più con i principi e le disposizioni della nostra Costituzione. Due pensatori di valore come Agamben e Cacciari sono stati messi alla gogna per aver sostenuto che obbligo del green pass nei luoghi di lavoro fa a pugni (tra l’altro) con il principio costituzionale “lavorista” (v. art. 1 Costituzione).

Piuttosto che alla paglia nell’occhio degli altri, faremmo bene a pensare alle travi nel nostro.

Teodoro Klitsche de la Grange

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