Ucraina 34a puntata_equilibrio precario_con Max Bonelli e Stefano Orsi

Comincia a farsi sentire l’effetto delle massicce forniture militari all’Ucraina e dell’addestramento fornito a buona parte delle sue riserve. Nessun conflitto, specie se protratto, presenta un andamento lineare delle operazioni. E’ un continuo adeguamento in corso d’opera delle tecnologie, delle tattiche e, nelle situazioni di crisi, delle stesse strategie. Un adeguamento che comporta confronti e conflitti interni ai centri decisori degli opposti schieramenti. L’aspetto più rilevante è il crescendo dell’impegno occidentale. Il paradosso è che entrambi gli schieramenti, in particolare i mentori occidentali dell’uno e i leader dell’altro concordano di fatto nel sostenere una guerra di lunga durata e di logoramento, convinti che sia l’avversario destinato ad esaurirsi e impossibilitati politicamente ad una retromarcia. Sul piano politico e delle forze in campo sono ancora i russi a disporre di più carte. Tutto dipenderà, però, dalle strategie di gioco e dalla motivazione. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Giornata nera per le VVS russe: il “Gruppo aereo speciale” distrutto in un’imboscata, di SIMPLICIUS THE THINKER

Giornata nera per le VVS russe: il “Gruppo aereo speciale” distrutto in un’imboscata

Una breve nota sugli acronimi: alcuni hanno usato RuAF per descrivere l’aeronautica militare, anche se ciò descrive più accuratamente le Forze armate russe. Altri chiamano l’aeronautica militare VKS, ma nella traslitterazione russa sta in realtà per Forze Aerospaziali Russe, sotto le quali opera l’aeronautica militare, ma che comprende anche le forze missilistiche e spaziali. L’aeronautica da sola è solo la VVS.

Oggi la Russia ha perso due Mi-8, un Su-34 e, secondo quanto riferito, un Su-35. Tutti e nove i piloti sono stati uccisi. Tutti e nove i piloti sono stati uccisi. Probabilmente due nel Mi-8, tre nel Mi-8MTPR1 (pilota, copilota e operatore della suite EW), due nel Su-34 e uno nel Su-35.

Questi quattro mezzi aerei costituivano il cosiddetto “gruppo aereo speciale”, in quanto operavano insieme come un’unica unità su un obiettivo di missione coordinato. Uno dei Mi-8 aveva probabilmente un ruolo di recupero, specificamente inviato come mezzo per recuperare i piloti abbattuti per precauzione, l’altro era un Mi-8MTPR1 avanzato, che è una piattaforma elettronica / EW. Il ruolo del Mi-8MTPR1 è quello di fornire disturbo elettronico e copertura per il Su-34, il cui ruolo era quello di lanciare attacchi aerei, probabilmente sotto forma di nuove FAB-500M-62 UMPC “planning” o di bombe a caduta. Il ruolo del Su-35 in questo gruppo aereo speciale è quello di fornire copertura aerea contro potenziali minacce aeree ostili, cioè i caccia nemici.

Il Mi-8MTPR1 è armato con la famosa suite elettronica russa Rychag-AV, di cui ho già parlato in precedenza. È una delle due suite principali, insieme al sistema Vitebsk L-370 o “President-S”, che i Ka-52 russi utilizzano di solito. Il sistema Vitebsk è più che altro una contromisura attiva che rileva i missili AD o le minacce “lock on” e tenta automaticamente di disturbarli elettronicamente (con metodi laser e radio) e di inviare contemporaneamente razzi/esca per deviare la minaccia.

Il Rychag, invece, è una suite di disturbo EMF a più lungo raggio. Qui potete vedere uno dei moduli jammer Rychag L187A cerchiato in rosso:

Video di questi moduli in azione qui:

https://twitter.com/RALee85/status/1537571053563781122 (e un altro in fondo al thread).

Dall’articolo linkato, ecco una descrizione:

Il sistema EW Rychag-AV (Aviatsyonnyi Vertolotnyi, aviotrasportato per elicottero; Rychag-AVE è un derivato per l’esportazione) sopprime i radar di controllo del fuoco dei sistemi missilistici terra-aria (SAM) nemici disturbandoli. In questo modo, fornisce protezione a un gruppo di aerei d’attacco, elicotteri o droni amici. Il sistema può anche disturbare i radar dei velivoli nemici, offrendo così protezione non solo ai mezzi aerei amici, ma anche aiutando a difendere le truppe di terra amiche che, in alcuni scenari, potrebbero subire un attacco aereo.

All’interno dell’elicottero sono presenti anche stazioni di controllo per la suite EW:

E una pubblicità per la suite:

Quindi, in sintesi: volano insieme, il Mi-8MTPR1 disturba le difese aeree nemiche a distanza, il Su-34 lancia le bombe, il Su-35 pattuglia per assicurarsi che nessun mezzo ostile si avvicini e il Mi-8 posteriore si limita a sostare per precauzione per esfiltrare rapidamente eventuali piloti abbattuti in caso di abbattimento.

Il nemico ha teso un’imboscata ed è riuscito ad abbattere un intero gruppo aereo speciale nella regione di Bryansk.

▪️The Gli elicotteri da guerra elettronica Mi-8MTPR-1 con i dispositivi Rychag-AV, utilizzati per disturbare i sistemi di difesa aerea e le stazioni di guida degli aerei nemici, sono andati persi. Il loro compito è quello di interferire con gli attacchi di missili antiaerei e aerei a una distanza di oltre 150 km. Ma oggi gli elicotteri EW sono stati inviati troppo vicini al confine.

▪️Apparently, il Mi-8MTPR-1 copriva gli attacchi del bombardiere Su-34 con “bombe intelligenti” su obiettivi nemici nella regione di Chernigov, e il caccia Su-35 forniva copertura aerea.

Questo incidente ci ha fornito il primo sguardo approfondito su come la Russia lancia i suoi attacchi a lungo raggio. È più sofisticato di quanto molti pensassero e non si riduce ai soli Su-34 che lanciano bombe a caso, ma c’è un intero sistema di copertura.

Quindi, la domanda principale è: cosa è andato storto? Se queste unità Rychag dovrebbero bloccare l’AD, cosa è successo esattamente?

Nessuno lo sa. Naturalmente una possibilità è che l’elicottero sia stato colpito per primo, il che ovviamente renderebbe gli altri bersagli molto più facili da colpire. Ma prima chiariamo alcune cose.

Per quanto riguarda le persone che si chiedono perché volassero così in alto, quando il nome del gioco in questi giorni è volare basso sotto la copertura radar. Secondo i requisiti della missione, questa missione richiede di volare in alto, perché ovviamente il Mi-8MTPR1 per disturbare gli AD nemici deve essere abbastanza alto da rilevare questi sistemi AD, che a loro volta possono rilevarlo, e quindi si tratta di decidere chi scatta per primo. I sistemi di disturbo non sono perfetti. Nessun sistema sul pianeta è completamente sicuro o a prova di errore. Abbiamo visto numerose volte il sistema Vitebsk sui Ka-52 respingere con successo i Manpad, alcuni video mostrano addirittura un Ka-52 che perde diversi Manpad in questo modo.

Ma nessun sistema è perfetto perché tutto dipende dalle condizioni specifiche di un incontro. Ci sono piccoli “punti ciechi” e altre cose del genere in ogni sistema, a seconda del suo orientamento e dei vari parametri di altezza, distanza, ecc.

Per quanto riguarda gli altri aerei, ovviamente anche loro dovevano trovarsi in alto, perché se il compito del Su-34 era quello di lanciare bombe in planata, queste possono essere lanciate solo da un’alta quota, in modo da avere molto spazio per “planare” mentre allungano le gambe fino a 30-50 km, o qualunque sia la loro portata massima. È chiaro che si tratta di un’operazione in un’area in cui la Russia opera spesso e ritiene che l’AD a lungo raggio sia stato soppresso o inesistente.

Innanzitutto stabiliamo dove sono stati abbattuti questi velivoli:

Per lo più intorno alla città di Klintsy, nella regione di Bryansk, proprio di fronte a Chernigov, in Ucraina. La regione dista circa 90 chilometri da Chernigov e più di 260 chilometri da Kiev. In breve, si trova in un’area molto pericolosa e abbastanza vicina alla zona di massima concentrazione di AD degli Emirati Arabi Uniti, ovvero Kiev.

Quindi, cos’è stato a colpire il velivolo? La mia prima reazione – come quella di molti – è stata che si trattava di sabotatori DRG armati di Manpad che si erano infiltrati nella regione di confine russa vicino a Bryansk, a causa del fatto che i velivoli sono caduti tutti in territorio russo. Tuttavia, dopo che sono emersi ulteriori fatti, questo sembra un colpo abbastanza classico di un sistema a medio-lungo raggio, molto probabilmente un BUK ucraino. Tuttavia, ci sono alcuni problemi importanti per l’ipotesi BUK che menzionerò in seguito. Innanzitutto, alcune prove fondamentali:

I piloti sono stati tutti uccisi, senza possibilità di espulsione. Questo non accadrebbe con i Manpad perché spesso sono molto più deboli (testate molto più piccole) e fanno abbastanza danni da bruciare i motori o tagliare un’ala, ma non da distruggere catastroficamente l’aereo all’istante. In genere danno ancora la possibilità ai piloti di eiettarsi.

Il video che mostra i relitti dei Su-34 in caduta sembra mostrare l’intera parte anteriore dell’aereo completamente distrutta, il che probabilmente può essere dovuto solo a una testata piuttosto potente e sicuramente non a un manpad.

Ci sono ora video che mostrano che i Mi-8 russi continuano a volare in questa regione vicino al luogo dell’abbattimento, ma ora stanno abbracciando il terreno, volando appena sopra i tetti. Se la minaccia fossero i Manpad, farebbero il contrario, perché volando a più di 15k piedi andrebbero oltre il raggio d’azione dei Manpad (o anche più in basso per alcuni di loro). Questo sembra implicare che si stiano nascondendo sotto la copertura radar dei sistemi a lungo raggio.

Infine, abbiamo la foto di uno dei rotori del Mi-8, perforato da schegge di frammentazione. La maggior parte dei sistemi AD utilizza la frammentazione, anche se le dimensioni dei frammenti colpiti sembrano indicare più i BUK che i piccoli frammenti Manpad:

Quindi, quello che sembra essere successo è che l’Ucraina abbia in qualche modo nascosto un sistema AD molto più vicino al confine russo, tenendolo offline mentre imparava la routine e le rotte del gruppo d’attacco russo attraverso l’osservazione o l’aiuto dei sistemi C4ISR statunitensi. Poi, una volta che il gruppo d’attacco è decollato e si è diretto verso di loro, avrebbero dovuto accendere il loro sistema radar solo molto brevemente per designare l’obiettivo e lanciarlo.

Questa è una spiegazione del modo in cui hanno potuto superare i sistemi di disturbo Rychag del Mi-8MTPR1. In fin dei conti, il Rychag è gestito da un operatore EW umano che deve prima rilevare gli oggetti e tirare le leve, girare le manopole e così via, presumibilmente per ottenere un bersaglio e leggere quali canali/bande emettere per disturbare il bersaglio. Non si sa esattamente quanto tempo possa richiedere questo processo, ovviamente potrebbero avere delle preimpostazioni per i sistemi conosciuti nell’area. Per esempio, se sanno che nell’area ci sono degli S-300, potrebbero avere già attivo il preset della banda di disturbo degli S-300. Quindi ci sono diverse possibilità di questo tipo, che l’operatore possa aver impiegato un momento o due per rilevare e mettere a fuoco il sistema, ma dato che il BUK (o un altro AD) aveva già una conoscenza avanzata dell’approccio dello Special Air Group, gli operatori del BUK avrebbero avuto bisogno di ancora meno tempo per lanciare.

Questa è solo una possibilità/teoria. Potrebbe essere sbagliata, e ci sono molti altri modi in cui sarebbe potuto accadere.

Per esempio, una teoria promulgata è che l’Ucraina abbia teso un’imboscata a questo gruppo con Mig-29 armati con i nuovi missili americani a lungo raggio Aim-120 Amraam. Questi missili sono fantasiosi e avanzati, ma il problema è che non importa quanto siano potenti i missili se il radar dell’aereo è il collo di bottiglia più debole. Il radar del Mig-29 è tristemente scarso rispetto a quello del Su-35 russo che era in volo. Sono stati realizzati molti video di confronto, ma la disparità è qualcosa di simile: il Su-35 con il suo famoso radar Irbis-E può rilevare il Mig-29 a circa 250-400 km, mentre il Mig può rilevare il Su-35 solo a 60-120 km al massimo, più o meno.

Ma alcuni hanno ribattuto dicendo: “Ma gli AWAC americani hanno probabilmente fornito la designazione del bersaglio per il Mig armato di Amraam!”.

Il problema è che, come ho spiegato molte volte in precedenza, la portata massima dei radar AWAC è di 450 km, e forse di oltre 600 km per i giganteschi bersagli volanti come gli orsi Tu-95. Ciò è dovuto alla semplice scienza degli orizzonti radar e della curvatura della terra.

Come si può vedere sopra, l’area di abbattimento è a circa 650 km e oltre dalla posizione più vicina possibile dell’AWAC. È molto improbabile che possa vedere così lontano e, se lo facesse, è ancora meno probabile che possa fornire dati di aggancio effettivo del bersaglio a quella risoluzione/distanza. È molto più probabile che i radar di Kiev lo abbiano rilevato, dato che alcune varianti di S-300 possono rilevare fino a oltre 250-300 km, solo che i missili non possono agganciarsi a quella distanza. E la distanza da Kiev ai luoghi dell’abbattimento, se ricordate, era di circa 260 km.

L’unico problema con la teoria dei BUK è che i luoghi dell’abbattimento potrebbero essere al di fuori della portata realistica di un BUK, o almeno al limite fisico. Un radar BUK può rilevare fino a 80-120 km, ma il suo raggio d’azione è di circa 45 km al massimo. La distanza da Klintsy al confine ucraino da sola è di 80 km, anche se ci sono piccoli lembi di terra che distano esattamente 45 km:

Inoltre, va detto che il Su-34 è stato abbattuto molto più vicino, a soli 10-15 km dal confine o giù di lì, ma gli altri sono apparsi vicino a Klintsy.

In definitiva, è un po’ un mistero, come si può vedere dalle spiegazioni di cui sopra, ci sono forti ragioni per cui non può essere stato nessuno dei potenziali sistemi. Il BUK ha un raggio d’azione troppo corto, i Manpad sono improbabili a causa dei profili di danno, l’IRIS-T e altri sistemi occidentali sono troppo a corto raggio – ad esempio, il raggio d’azione dell’IRIS-T è solo di circa 15-20 km o meno. I Patriot sono sistemi molto grandi, probabilmente solo a Kiev, che è ben oltre il loro raggio d’azione. È altamente improbabile che possano contrabbandare un Patriot fino al confine con la Russia, poiché non è neanche lontanamente mobile come quasi tutto il resto della lista.

Vediamo cosa hanno da dire altri esperti. Ecco Rybar:

A favore della versione di un possibile attacco da parte dei caccia dell’aeronautica ucraina al gruppo dell’aviazione russa c’è il fatto che i MiG polacchi trasferiti alle Forze Armate dell’Ucraina sono stati modernizzati.

Indossano le prime modifiche dei missili aria-aria a medio raggio AIM-120A/B/C (possono trasportare missili con una gittata fino a 70 km).

#Russia Ucraina

@rybar

Ancora una volta, la nostra versione (https://t.me/rybar/47008) sull’uso dei caccia AIM-120 da parte dell’Aeronautica Militare per le imboscate è solo una versione.

La versione secondo cui dal lato del nemico è stato tirato su un sistema di difesa aerea direttamente al confine, che ha risposto al fuoco ed è tornato a casa, è molto più pessimistica e non voglio crederci dalla parola “assolutamente”.

Rybar cita articoli come questo, che mostrano come gli Stati Uniti avessero preso in considerazione l’installazione di sistemi a lungo raggio come l’Aim-120 Amraam sugli aerei ucraini. E sembra che i Mig polacchi appena trasferiti abbiano subito alcune modifiche importanti.

Ciò è particolarmente pertinente alla luce del fatto che proprio oggi pare sia stato confermato che il recente attacco a Lugansk è stato effettuato da più missili Storm Shadow, dal momento che sono stati rinvenuti detriti che li collegano direttamente:

Quindi, dal momento che i jet ucraini sono stati modificati per sparare gli avanzatissimi Storm Shadow, non è da escludere che siano stati modificati anche per sparare gli Aim-120.

Il problema principale di questa teoria, come ho detto, è che è estremamente difficile credere che un Mig-29 possa tendere un’imboscata a questi mezzi, compreso un Su-35, dato il suo raggio d’azione radar molto più corto; e il radar non è qualcosa che può essere scambiato o “aggiornato”. Naturalmente, è possibile che siano stati utilizzati diversi Mig e che il Su-35 si sia trovato in una posizione in cui le sue spalle erano rivolte verso di loro, il che potrebbe aver dato loro un’apertura. Ottenere informazioni avanzate dal C4ISR occidentale, ad esempio, avrebbe potuto permettere ai Mig di stare bassissimi, di abbracciare il terreno mentre avanzavano verso il gruppo aereo speciale, e poi di alzarsi in volo proprio nel momento in cui il gruppo aereo aveva sganciato le munizioni e si stava “girando”, per tendere un’imboscata da dietro. Tutto questo poteva essere trasmesso ai Mig direttamente tramite i sistemi di rete occidentali. In precedenza ho pubblicato un video che mostrava uno di questi sistemi, il Nettle, che mostrava un jet da combattimento russo tracciato dall’Ucraina su un tablet in tempo reale:

VIDEO LINK.

Anche se ho detto che gli AWAC sono probabilmente fuori portata, ci sono alcune possibilità molto più esotiche.

Per esempio, la distanza tra Klintsy e la Lettonia è di soli 450 km o meno, solo che non ho mai visto AWAC operare lì prima d’ora, anche se è possibile. Altre possibilità di tracciamento includono qualche forma di satellite (molto meno probabile, più difficile) o anche i radar VHF “Over The Horizon” che hanno portate di migliaia di chilometri. Questi non sono in grado di fornire soluzioni per il blocco del bersaglio, ma forse hanno una risoluzione sufficiente per tracciare la posizione generale di una risorsa e tracciare i suoi movimenti su una mappa digitale in rete.

Una visione interessante e intelligente:

MG R: “Il recente abbattimento dell’aereo russo è stato un test della potenziale capacità di portare sistemi occidentali più avanzati nel conflitto, come mezzo per sostenere la fornitura di F-16 e/o JAS 39. A quanto pare, hanno manipolato gli ordigni NATO di ultima generazione affinché venissero sganciati da uno dei Mig 29 donati. Sono intenzionati a testare IRIS-T, Meteor, AIM-9x block II, AIM-120D e SM-6. La Marina vuole anche spingere i complessi missilistici CAMM/SM-3. Lo Storm Shadow è un altro esempio di questo.

È un bel pensiero, ma come ho detto, il collo di bottiglia non sono i missili di fantasia, ma il radar del Mig in grado di superare il Su-34 / Su-35. Inoltre, c’è un video sfocato di uno dei missili che ha colpito il Mi-8 e, sebbene sia al rallentatore e sia difficile dirlo, non sembra che il missile si avvicini all’ipersonico. Si dice che l’Aim-120 vada a più di 4 Mach, mentre i BUK e altri sono più lenti. Quindi questo è solo un altro attacco contro il Mig-29 con la teoria degli Amraams.

Il canale di un pilota di elicottero militare russo arrabbiato (autotradotto):

Mettere gli “assi” (Mi-8 MTPR) nella zona dell’LBS a 50 km di distanza (+ perché nella regione di Bryansk passa quasi lungo il confine) è semplicemente un’idiozia dell’esercito! Non ho altre parole. O forse chi ha preso una tale decisione, il 15° mese del NWO, pensava che ci fossero dei papuani con dei bastoni? No! Non papuani! E per quanto riguarda il fatto che i crest conoscono già quasi per nome i comandanti degli “assi” (taccio sulle zone in cui volano e sull’orario di lavoro), il loro numero e il luogo di impiego, allora bisognava essere completamente avulsi dalla realtà per mandare lì gli MTPR.

Sul fatto che le creste abbiano tali informazioni, non è “forse”, è “è”, e questo è un fatto. E io lo so perché sono al piano di sopra! Perché chi ha “impostato” il compito non lo sapeva, non dirò nulla. O lo sapeva? Ma: “volano lì, tutto va bene e tutto andrà bene ora. Perché hai avuto un momento-29 lì? Patriota? Sì, sono tutte stronzate” – o era così?

Gli MTPR, che non possono proteggersi in alcun modo e la cui altezza minima di lavoro è ben lontana dai 30m o addirittura dai 100m, dovrebbero essere installati nelle zone di regolazione ad almeno 100-150km dalle LBS! È il minimo! Questa è la verità comune!

Ragazzi del volo eterno! Non dimentichiamolo! Né voi né i “nostri” figli…

Quello che sembra dire è che i Mi-8MTPR1 dovrebbero operare dottrinalmente a 100-150 km dalla zona, non a 50 km dal confine ucraino. Posso solo supporre che questo significhi che la suite elettronica Rychag-AV può bloccarsi a distanze così elevate e non ha bisogno di trovarsi proprio sul confine. Egli afferma inoltre che l’intelligence ucraina conosce i nomi di ogni singolo pilota, le loro rotte e così via, cosa che posso affermare essere probabilmente vera, dato che anche Bellingcat e co. hanno dimostrato di sapere tutte queste cose.

Nota di DDGeopolitics Channel: sembrerebbe quindi che sia stato usato un qualche tipo di munizione molto speciale [cioè qualcosa con capacità precedentemente segrete e non annunciate che in qualche modo non viene registrato a bordo degli aerei russi come un blocco missilistico], o più probabilmente c’è stato un lancio massiccio di missili assistito da altri mezzi. Se ne saprà di più nelle prossime settimane. Come per l’attacco di Makeevka, come per l’HIMARS. La Russia non ha mai accettato stoicamente le perdite senza cambiare nulla.

Alla fine, si tratta di un attacco senza precedenti perché è l’abbattimento di un intero gruppo aereo in territorio russo. E per di più in profondità nel loro territorio. Come ha scritto un analista, “la prossima volta li abbatteranno direttamente all’aeroporto di Sheremetyevo”.

Il canale ufficiale FighterBomber (legato all’aviazione russa) ha scritto su Telegram:

Non ci sono state perdite della nostra aviazione come quelle di oggi dal marzo dell’anno scorso”.

Il giornalista ucraino Anatoly Shariy scrive:

Anatoly Shariy: “Ho informazioni assolutamente precise sul fatto che ciò che sta accadendo con gli aerei russi in un futuro molto prossimo inizierà ad accadere con le navi marine”.

In definitiva, un’imboscata aria-aria è la più sensata, semplicemente perché è difficile credere che un BUK/S-300/ecc. sia stato portato di nascosto fino al confine russo. E anche in questo caso, un BUK non può arrivare così in profondità, come spiegato in precedenza.

È semplicemente difficile credere che i Mig-29 superino i Su-34/35 russi, ma ovviamente è possibile, dato che tutto dipende dall’abilità e da vari altri parametri, come un attacco furtivo da dietro, dopo che il gruppo aereo russo si era girato e stava tornando a casa. Per quanto improbabile, sembra meno improbabile delle altre alternative, ma è difficile dirlo con certezza.

Al momento in cui scriviamo, l’aviazione strategica russa (bombardieri) sta decollando per quelli che probabilmente saranno attacchi di rappresaglia. Aggiorneremo la prossima volta quando saranno note ulteriori informazioni.

https://simplicius76.substack.com/p/black-day-for-russian-vvs-as-special?utm_source=post-email-title&publication_id=1351274&post_id=121215957&isFreemail=false&utm_medium=email

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È prematuro concludere che la Polonia abbia sostituito il ruolo della Germania nella guida della politica estera dell’UE_di ANDREW KORYBKO

È prematuro concludere che la Polonia abbia sostituito la Germania nel ruolo di guida della politica estera dell’UE

ANDREW KORYBKO
9 MAG 2023

La Polonia ha un’importanza senza precedenti al giorno d’oggi, ma la Germania continua a controllare la politica estera dell’UE. Ciò che è cambiato nell’ultimo anno, tuttavia, è che Berlino ha finalmente deciso di salire sul carro russofobico di Varsavia nel tentativo di guidare questa tendenza. I suoi politici hanno deciso di farlo per promuovere nel modo più efficace gli interessi nazionali del loro Paese, così come li intendono ora in questo nuovo ambiente. Il Cremlino deve riconoscere con urgenza questa realtà e formulare la politica di conseguenza.

L’ultima serie di analisi del Valdai Club per RT

Il direttore del programma del Valdai Club, Andrey Sushentsov, ha appena pubblicato su RT un articolo che spiega “Come i “nuovi” membri orientali dell’UE hanno preso il controllo del blocco”. Si tratta della terza analisi sulla Germania da parte di esperti del Valdai in due settimane, dopo quelle di Fyodor Lukyanov e Timofey Bordachev, che trattavano rispettivamente di “Come il Partito Verde ha trasformato la Germania in un Paese dell’Est” e di “Gli Stati Uniti stanno umiliando la Germania, e i russi sono profondamente delusi per la mancanza di spina dorsale delle élite di Berlino”.

Il filo conduttore che lega la serie di articoli è che la Germania ha perso la sua posizione di leader nella formulazione della politica estera dell’UE dall’inizio dell’operazione speciale della Russia. Lukyanov attribuisce questo fenomeno alla sproporzionata influenza politica esercitata dai Verdi radicali allineati agli Stati Uniti, Bordachev incolpa direttamente l’ingerenza degli Stati Uniti, mentre Sushentsov sostiene che la responsabilità è da attribuire alla rapida ascesa regionale della Polonia, alleata degli Stati Uniti. Come si può notare, tutte e tre le spiegazioni, in un modo o nell’altro, sono riconducibili agli Stati Uniti.

Critiche costruttive delle menti più brillanti della Russia

Per quanto perspicaci siano le analisi di questi esperti, ognuna di esse è tuttavia incompleta. Lukyanov non ha affrontato il ruolo della rapida ascesa regionale della Polonia, Bordachev sminuisce l’impatto a lungo termine del nuovo approccio regionale della Germania alla Russia (indipendentemente da ciò che c’è dietro), mentre Sushentsov ha concluso prematuramente che la Polonia ha già sostituito il ruolo della Germania nel guidare la politica estera dell’UE. Le analisi dei primi due esperti sono già state criticate a lungo in modo costruttivo nelle seguenti risposte:

* “Il nuovo ruolo anti-russo della Germania è parzialmente dovuto alla competizione regionale con la Polonia”.

* “La Russia deve ancora una volta prepararsi a una prolungata rivalità con la Germania”.

Il presente articolo intende quindi criticare costruttivamente la valutazione di Sushentsov per integrare le risposte sopra citate, il cui scopo è quello di articolare in modo esaustivo un’interpretazione contraria dell’attuale ruolo della Germania nella formulazione della politica estera dell’UE. Questa risposta in particolare sostiene che la sua conclusione secondo cui la Polonia avrebbe sostituito il ruolo della Germania in questo ambito è prematura, evidenziando al contempo alcune lacune nella spiegazione fornita nel suo articolo.

La fallacia ideologica delle élite occidentali

Per cominciare, Sushentsov ha ragione nell’osservare che “il conflitto mostra l’emergere di un nuovo equilibrio di potere in Europa”, guidato dalla rapida ascesa regionale della Polonia, ma è rispettosamente fuori strada nell’insinuare che questo avrebbe potuto essere evitato se l’UE non si fosse espansa a est. Il modello economico tedesco non è stato costruito solo sul carburante russo a prezzi accessibili, come ha giustamente osservato, ma anche sull’accesso ai mercati emergenti dell’ex blocco orientale, tra i quali quello polacco è di gran lunga il più grande in questa parte d’Europa.

La securizzazione dei legami con la Russia, storicamente determinata da questo Paese e dai suoi partner baltici, li ha spinti a dare priorità all’integrazione nell’UE a guida tedesca e nella NATO a guida statunitense, strutture egemoniche occidentali complementari che si sono espanse verso est parallelamente l’una all’altra. Berlino le ha accettate per motivi economici, mentre Washington è stata motivata da fattori militari, che sono serviti entrambi a far progredire la loro comune visione del mondo unipolare liberale-globalista, descritta nei due collegamenti ipertestuali precedenti.

L’Europa centrale e la Cina hanno screditato la visione liberale-globalista del mondo

Di rilievo per questo articolo è la convinzione dogmatica dell’ideologia dell’inevitabile erosione delle identità etno-nazionali a favore di quelle sovranazionali, come l’associazione con l’Europa o con l’Occidente in senso più ampio, ma questo assunto è stato screditato dalle tendenze socio-culturali interne in Polonia e negli Stati baltici. Questi Paesi si sono mossi nella direzione opposta, facendo dell’identità etno-nazionale il pilastro dei loro Stati post-comunisti, pur continuando a integrarsi in quelle strutture politico-militari sovranazionali.

Questo è simile a ciò che è accaduto dopo che l’Occidente ha integrato la Cina nelle sue strutture economiche sovranazionali come l’Organizzazione Mondiale del Commercio. I loro leader pensavano che questo avrebbe inevitabilmente portato all’integrazione politica del Paese nel loro previsto ordine mondiale liberal-globalista, ma la Cina ha mantenuto il pilastro economico della sua statualità post-rivoluzionaria, proprio come la Polonia e gli Stati baltici hanno mantenuto l’identità etno-nazionale dei loro Stati post-comunisti. Entrambi i progetti di costruzione della nazione sono quindi falliti.

L’influenza delle tendenze russofobiche e del multipolarismo finanziario

Di conseguenza, ognuno di loro ha cercato di portare avanti gli interessi allineati con i rispettivi pilastri dei loro Stati all’interno delle strutture in cui si sono integrati con successo. La Polonia e gli Stati baltici hanno spinto la russofobia all’interno dell’UE-NATO, mentre la Cina ha spinto il multipolarismo finanziario all’interno dell’OMC. Ognuno di essi ha finito per avere un successo strepitoso, anche se in gran parte dovuto a circostanze al di fuori del loro diretto controllo: la guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina e la crisi finanziaria del 2008.

Non è compito di questo articolo spiegarne le origini, ma la presente analisi si occupa della prima, mentre la seconda è dovuta principalmente alla dilagante finanziarizzazione dell’economia globale. La guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina ha creato il contesto narrativo in cui la Polonia e gli Stati baltici hanno potuto spingere con successo la russofobia in Occidente, mentre la crisi finanziaria del 2008 ha creato le condizioni in cui la Cina ha potuto spingere con successo il multipolarismo finanziario nel Sud globale.

La russofobia e il multipolarismo finanziario sono stati quindi abbracciati da molti in Occidente e nel Sud globale, il che ha messo in moto una serie di eventi in rapida evoluzione che hanno rimodellato le politiche di paesi diversi da quelli che erano stati i primi responsabili di queste tendenze. Ciò ha portato la Germania, economicamente pragmatica e amica della Russia, a formulare una grande strategia russofoba, proprio come l’Arabia Saudita, detentrice del dollaro e alleata degli Stati Uniti, sembra pronta a formularne una basata sul multipolarismo finanziario.

I ruoli di Germania e Arabia Saudita nell’ordine mondiale emergente

In ciascuno di questi due esempi, coloro che in precedenza erano molto indietro rispetto a queste tendenze hanno cercato di recuperare il tempo perduto e di svolgere un ruolo di primo piano in esse, da quando hanno capito che non si può tornare allo status quo precedente alla guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina e alla crisi finanziaria del 2008, rispettivamente. La tendenza russofoba di cui sono responsabili la Polonia e gli Stati baltici non può essere sostenuta senza la Germania, così come la tendenza al multipolarismo finanziario della Cina non può avere successo senza l’Arabia Saudita.

Entrambi avrebbero preferito mantenere tutto com’era per quanto riguarda i legami economici tra Germania e Russia e quelli finanziari tra Arabia Saudita e Stati Uniti, ma ognuno di loro riconosce anche che le circostanze al di fuori del loro controllo sono responsabili del cambiamento di questi legami. Berlino si è avvicinata molto agli Stati Uniti, mentre Riyadh si sta avvicinando molto alla Cina, poiché ognuna di queste superpotenze è responsabile dell’avvio delle tendenze russofobiche e del multipolarismo finanziario che hanno ridisegnato questi assi.

Simbiosi strategica tra Germania-Polonia e Arabia Saudita-Cina

Gli Stati Uniti sono responsabili della guerra per procura NATO-Russia che ha portato la russofobia della Polonia e degli Stati baltici a diventare la norma in tutto l’Occidente, mentre la Cina è responsabile del radicamento della de-dollarizzazione in tutto il Sud globale nel decennio e mezzo successivo alla crisi finanziaria del 2008. La Polonia è ancora il maggior beneficiario dei programmi economici dell’UE a guida tedesca, mentre il petroyuan, da cui dipendono i piani di multipolarità finanziaria della Cina, non può avere successo senza il sostegno saudita.

Invece di sfruttare queste relazioni per frenare queste tendenze, la Germania e l’Arabia Saudita hanno deciso di svolgere ruoli di primo piano in ognuna di esse, poiché hanno concluso che non è possibile tornare allo status quo precedente ed è quindi nel loro interesse nazionale non essere lasciati indietro. La Germania ha quindi deciso di guidare il contenimento della Russia in Europa, le cui origini spirituali nel continente risalgono più recentemente alla Polonia e agli Stati baltici, alleati degli Stati Uniti, mentre l’Arabia Saudita è pronta ad accelerare la de-dollarizzazione guidata dalla Cina.

Spunti analitici

Da queste osservazioni si possono trarre diversi spunti analitici per quanto riguarda il ruolo della Germania nel guidare la politica estera dell’UE, su cui tre esperti del Valdai Club si sono già espressi per RT nell’arco di appena mezzo mese. In primo luogo, la cosiddetta “fine della storia” che l’élite liberal-globalista a guida tedesca dell’UE e americana della NATO si aspettava dopo il 1991 non si è realizzata nemmeno all’interno dello stesso Occidente, come dimostra la priorità data dalla Polonia e dagli Stati baltici alle politiche etno-nazionali.

In secondo luogo, lo status di queste politiche come pilastro degli Stati post-comunisti di questi Paesi li ha influenzati a spingere i relativi interessi politici all’interno delle strutture egemoniche occidentali in cui si sono integrati con successo. In terzo luogo, la guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina, scoppiata per ragioni al di fuori del loro controllo, ha creato il contesto narrativo all’interno del quale la Polonia e gli Stati baltici hanno potuto spingere con successo la russofobia in tutto l’Occidente, come hanno già cercato di fare per decenni.

In quarto luogo, la sequenza di eventi che ne è derivata ha portato altri Paesi, come la Germania, a concludere che è impossibile ripristinare lo status quo precedente e a cercare quindi di salire sul carro dei vincitori per perseguire i propri interessi nazionali, così come i politici li intendono ora in questo nuovo ambiente. E in quinto luogo, lungi dal cedere il controllo della politica estera dell’UE alla Polonia, la Germania sta attivamente competendo con essa per stabilire quale delle due possa contenere più efficacemente la Russia in Europa.

Riflessioni conclusive

Applicando la visione di cui sopra all’ultima serie analitica del Valdai Club per RT, tre delle menti più brillanti della Russia possono essere criticate in modo costruttivo per quanto segue: Lukyanov ignora il ruolo della Polonia, Bordachev minimizza quello di politica interna e Sushentsov esagera il ruolo della Polonia. Tutti hanno ragione nel ricondurre questa tendenza agli Stati Uniti, ma faticano a valutare con precisione il ruolo della Polonia e l’influenza che ha avuto sui politici tedeschi.

La Polonia ha un’importanza senza precedenti oggi, ma la Germania continua a controllare la politica estera dell’UE. Ciò che è cambiato nell’ultimo anno, tuttavia, è che Berlino ha finalmente deciso di salire sul carro russofobico di Varsavia nel tentativo di guidare questa tendenza. I suoi politici hanno deciso di farlo per promuovere nel modo più efficace gli interessi nazionali del loro Paese, così come li intendono ora in questo nuovo ambiente. Il Cremlino deve urgentemente riconoscere questa realtà e formulare la politica di conseguenza.

La Russia deve ancora una volta prepararsi a una prolungata rivalità con la Germania

ANDREW KORYBKO
27 APR 2023

Prima la comunità degli esperti russi abbandonerà le speranze di un riavvicinamento con la Germania, prima il Cremlino potrà promulgare le politiche appropriate per contenere questa minaccia latente prima che sia troppo tardi.

I massimi esperti russi Fyodor Lukyanov e Timofey Bordachev hanno pubblicato su RT due analisi consecutive sulle relazioni del loro Paese con la Germania, che suggeriscono entrambe un certo wishful thinking. Il primo è stato criticato in modo costruttivo in questa sede, in quanto ha omesso di menzionare la competizione regionale della Germania con la Polonia come fattore alla base del suo nuovo ruolo anti-russo. Al secondo, invece, si risponderà nel presente pezzo che si rivolgerà anche alla comunità degli esperti russi in generale.

L’estate scorsa, il Presidente Putin ha messo in guardia gli analisti del suo Paese dall’indulgere in pensieri velleitari, parlando al personale in servizio e ai veterani del Servizio segreto estero (SVR) in occasione del centenario della fondazione della struttura da parte dell’URSS. Ha consigliato che “l’analisi deve essere realistica, obiettiva e basata su informazioni verificate e su un’ampia gamma di fonti affidabili. Non si deve indulgere in pensieri velleitari”, che è esattamente ciò che si deve tenere a mente riguardo alle relazioni della Russia con la Germania.

Nel loro insieme, gli articoli di Lukyanov e Bordachev lasciano intendere che i legami potrebbero migliorare nel caso in cui i Verdi non influenzassero la formulazione della politica estera del Paese. Se è vero che la destra e la sinistra tedesche condividono la necessità di migliorare i legami con la Russia per ripristinare l’accesso affidabile del Paese all’energia a basso costo, che ha costituito la base del suo modello economico di grande successo per decenni, non si può dare per scontato che una delle due guiderà la Germania a breve.

Invece di sperare che questo scenario si realizzi nel prossimo futuro, la Russia deve prepararsi ancora una volta a una rivalità prolungata con la Germania. A differenza degli anni Trenta, questa non è predestinata a sfociare in un’altra guerra mondiale, ma evoca effettivamente le sfumature della guerra per procura nazi-sovietica in Spagna quando si tratta del crescente ruolo militare di Berlino nella guerra per procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina. Gli esperti russi dovrebbero considerare questo sviluppo come un punto di svolta nelle relazioni bilaterali con la Germania.

Non si può tornare indietro dopo quello che Berlino ha appena fatto, poiché la sua leadership ha chiaramente segnalato alla Russia che si considera davvero in una Nuova Guerra Fredda con Mosca sul futuro dell’ordine mondiale emergente ed è disposta a uccidere indirettamente i russi in Ucraina per far avanzare la propria agenda. Il Cancelliere Scholz è un “leader debole”, esattamente come ha valutato Bordachev nella sua analisi per RT, ma il manifesto che ha svelato negli Stati Uniti all’inizio di dicembre a nome della sua burocrazia permanente dovrebbe essere preso sul serio.

È stato analizzato a lungo qui, ma può essere riassunto come la Germania che finalmente dichiara le sue ambizioni egemoniche, già percepibili durante l’era della Merkel. A metà marzo, il segretario del Consiglio di sicurezza nazionale russo Nikolai Patrushev ha dichiarato che “per anni la Casa Bianca ha controllato [l’ex cancelliere] Angela Merkel”, il che ha indotto a rivalutare la sua eredità dopo che molti, sia nella comunità degli Alt-Media che in quella degli esperti russi, l’avevano erroneamente considerata amichevole.

La sua candida ammissione, all’inizio di dicembre, che gli accordi di Minsk erano solo un espediente per riarmare Kiev in vista di un’offensiva finale contro il Donbass sostenuta dalla NATO, ha dimostrato che la Germania ha sempre cospirato contro la Russia, ma la sua stretta relazione con il Presidente Putin ha fuorviato il Cremlino. È comprensibile, col senno di poi, che la comunità di esperti russi abbia creduto alle sue operazioni di influenza ad alto livello, ma i pezzi di Lukyanov e Bordachev suggeriscono che essa è ancora aggrappata alle speranze di un riavvicinamento.

Con il massimo rispetto per entrambi, si tratta di esperti razionali che faticano a riconoscere che i loro colleghi tedeschi non vedono più le relazioni con la Russia come reciprocamente vantaggiose, ma come un peso per ragioni ideologiche e geopolitiche. Il primo si riferisce alla loro visione del mondo liberal-globalista, completamente in contrasto con quella conservatrice-sovranista della Russia, i cui dettagli possono essere letti nei precedenti collegamenti ipertestuali, mentre il secondo è stato trattato nella precedente risposta a Lukyanov.

La visione del mondo polarmente opposta della Germania e la competizione regionale con la Polonia per l’influenza sull’Europa centrale e orientale (CEE), in particolare sull’Ucraina ma anche sulla Bielorussia, rendono inevitabile la sua prolungata rivalità con la Russia. Tutto si è già spostato troppo avanti su questa traiettoria per essere invertito, soprattutto dopo che Scholz ha presentato il suo già citato manifesto egemonico all’inizio di dicembre, che può essere considerato come una promulgazione della prolungata rivalità della Germania con la Russia nella politica ufficiale.

Non si può tornare indietro dopo che il proverbiale Rubicone è stato appena attraversato, e aggrapparsi alla speranza che tutto possa presto cambiare è solo un meccanismo di coping per coloro che sono ancora sotto shock dopo ciò che è appena accaduto. Invece di rimanere nella fase di negazione o di attribuire tutto a un singolo partito politico, gli esperti russi devono riconoscere con urgenza questo stato di cose, approvato dalla burocrazia permanente della Germania. Poiché la Germania si sta preparando a una prolungata rivalità con la Russia, quest’ultima non ha altra scelta che fare altrettanto.

Di conseguenza, la Russia dovrebbe porre la Germania nella stessa categoria degli Stati Uniti e del Regno Unito, percependola come un rivale interminabile invece che come un possibile partner. Tutti e tre funzionano come parti complementari dell’egemone liberal-globalista che si contende il dominio del mondo nella nuova guerra fredda. A meno che non si verifichi l’evento del cigno nero dell’assunzione del cancellierato da parte dell’AfD o di Die Linke, che l’élite al potere in Germania cospirerà con i suoi alleati anglo-americani per fermare con le buone o con le cattive, questa è la “nuova normalità”.

Qualsiasi segnale di dissenso interno dovrebbe essere ignorato dagli esperti russi, poiché è molto improbabile che rappresenti una tendenza emergente. I gestori della percezione della Germania potrebbero addirittura maliziosamente ritrarli per fuorviare Mosca, soprattutto se le sue agenzie di intelligence valutano che i politici rimangono illusi sulla possibilità di un riavvicinamento, come suggeriscono gli ultimi articoli di Lukyanov e Bordachev, il che potrebbe ritardare ulteriormente la formulazione di una risposta appropriata da parte del Cremlino.

In prospettiva, si prevede che la rivalità russo-tedesca definirà il fronte europeo della nuova guerra fredda, in particolare la sua dimensione ideologica, dal momento che entrambi sposano visioni del mondo completamente diverse. Attualmente, le ambizioni continentali della Germania sono in parte tenute sotto controllo dall’ascesa della Polonia come Grande Potenza nello spazio CEE, ma la potenziale sconfitta del partito di governo “Diritto e Giustizia” (PIS) alle elezioni di quest’autunno potrebbe trasformare il Paese in uno Stato cliente se l’opposizione sostenuta da Berlino andasse al potere.

Anche se il PIS manterrà la sua posizione di leader, indipendentemente dal fatto che entri in coalizione con il partito anti-establishment Confederazione, la Germania rimarrà il principale rivale della Grande Potenza russa in Europa per le ragioni geopolitiche e ideologiche che sono state spiegate in questa analisi. Quanto prima la comunità di esperti russi abbandonerà le speranze di un riavvicinamento con la Germania, tanto prima il Cremlino potrà promulgare le politiche appropriate per contenere questa minaccia latente prima che sia troppo tardi.

Il nuovo ruolo anti-russo della Germania è in parte dovuto alla competizione regionale con la Polonia

ANDREW KORYBKO
25 APR 2023

Le motivazioni ideologiche e le oscure reti di influenza degli Stati Uniti sono sufficienti a spiegare il passaggio della Germania da primo partner della Russia in Europa a uno dei suoi principali avversari. L’ultima analisi di Fyodor Lukyanov, esperto russo di primo piano, avrebbe probabilmente beneficiato dell’inserimento di una dimensione geopolitica per quanto riguarda la competizione regionale della Germania con la Polonia.

Il presidente del Consiglio per la politica estera e di difesa e direttore di ricerca del prestigioso Valdai Club Fyodor Lukyanov, le cui posizioni lo rendono uno dei principali influencer politici russi, ha osservato nella sua ultima analisi per RT che “il Partito Verde ha trasformato la Germania in un Paese dell’Est”. Secondo Lukyanov, “la Germania si è ora spostata verso una posizione convenzionale dell’Europa orientale (nei confronti della Russia), così come in precedenza era stata un pilastro del normale posizionamento dell’Europa occidentale”.

Lukyanov ritiene che ciò sia principalmente attribuibile all’influenza che i Verdi stanno esercitando sulla grande strategia della Germania, alla quale, a suo dire, vengono ora promesse ulteriori garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti in cambio dell’abbandono del precedente pragmatismo e dell’autonomia economica strategica nei confronti della Russia. Questa è una spiegazione ragionevole di come gli Stati Uniti abbiano affermato con successo la loro egemonia, precedentemente in declino, sul leader de facto dell’UE, ma c’è dell’altro, con tutto il rispetto per questo esperto.

Le motivazioni ideologiche e le oscure reti di influenza degli Stati Uniti possono spiegare solo in parte il passaggio della Germania da primo partner della Russia in Europa a uno dei suoi principali avversari. L’analisi di Lukyanov potrebbe trarre vantaggio dall’inserimento di una dimensione geopolitica nella competizione regionale della Germania con la Polonia, la quale intende ripristinare la sua “sfera d’influenza”, da tempo perduta, e persino ampliarla. A tal fine, nell’ultimo anno la Polonia ha enfatizzato la minaccia tedesca all’Europa centrale e orientale (CEE).

Ha sfruttato la percezione della visibile riluttanza di Berlino, fin dall’inizio dell’operazione speciale della Russia, a svolgere un ruolo di primo piano nella conseguente guerra per procura della NATO lungo le linee di Varsavia e degli Stati baltici, per temere che la Germania potesse essere segretamente in combutta con il Cremlino. Dopo aver fatto leva su ricordi storici estremamente delicati legati al Patto Molotov-Ribbentrop, la Polonia è stata in grado di esercitare la massima pressione sulla Germania affinché abbandonasse il suo precedente pragmatismo nei confronti di Mosca.

I fattori precedentemente identificati dell’ideologia liberal-globalista e dell’influenza oscura degli Stati Uniti hanno fatto sì che il timore a somma zero di alcuni politici tedeschi che la Polonia sia pronta a sostituire l’influenza del loro Paese sui Paesi dell’Europa centrale e orientale nel corso di questo conflitto abbia portato al previsto pivot anti-russo degli Stati Uniti. Se non fosse stato per i due fattori sopra citati, questo stesso timore non sarebbe stato messo in atto, ma si può anche dire che questo timore ha influenzato la politica che questi due fattori hanno influenzato.

Invece di esserci due ragioni primarie per cui la Germania ha iniziato il suo pivot anti-russo, ce ne sono in realtà tre, con le prime due che Lukyanov ha identificato che hanno una relazione simbiotica con la terza che è stata introdotta in questa analisi. I timori geopolitici nei confronti della Polonia hanno portato alla preventiva creazione di un quadro di contingenza che è stato poi messo in atto grazie a catalizzatori ideologico-influenzali interconnessi. Se uno di questi fattori non fosse stato presente, probabilmente la Germania non avrebbe fatto perno sulla Russia.

Per stessa ammissione dell’ex Cancelliere Merkel, è ormai noto che Berlino non ha mai avuto alcuna intenzione di rispettare gli accordi di Minsk, cercando invece di sfruttarli per riarmare Kiev in vista di un’offensiva finale contro il Donbass. Ciò dimostra che la Germania ha cercato di espandere la propria influenza fino alle regioni più lontane della CEE per tutto questo tempo, ma questo grande obiettivo strategico è stato bruscamente messo in discussione dall’operazione speciale della Russia e dal ruolo di primo piano che la Polonia si è assegnata nel combattere la guerra per procura della NATO.

Nonostante i fattori ideologici e di influenza che già esercitavano un’influenza sulla politica tedesca all’inizio di questo conflitto, non erano abbastanza potenti da soli per far sì che la Germania giocasse un ruolo uguale a quello della Polonia. I politici potrebbero aver pensato, a torto, che sarebbe finita in poche settimane o al massimo in un mese, scommettendo così che fosse meglio mantenere una politica relativamente più pragmatica nei confronti della Russia, nonostante la sua adesione alle richieste di sanzioni degli Stati Uniti.

È stato solo dopo che è apparso evidente che il conflitto si sarebbe probabilmente protratto nel tempo che hanno iniziato a valutare se cambiare la loro posizione assumendo un qualche ruolo militare in risposta all’immensa pressione di competere con la Polonia per i cuori e le menti nella CEE. Dal punto di vista degli Stati Uniti, era utile incoraggiare queste dinamiche per evitare di dipendere troppo dalla Polonia come primo partner europeo dopo la fine del conflitto e per far sì che la Germania rovinasse i suoi legami con la Russia.

La confederazione de facto annunciata da Polonia e Ucraina dopo il viaggio del presidente Duda a Kiev a fine maggio 2022 ha fatto temere alla Germania che il suo vicino potesse batterla nella competizione per diventare il più importante partner dell’Ucraina dopo il conflitto. Questo sviluppo, unito alle crescenti pressioni di soft power esercitate dalla Polonia nei Paesi dell’Europa centrale, ha fatto sì che la Germania prendesse finalmente in considerazione un ruolo maggiore in questa guerra per procura, culminata con il manifesto egemonico del Cancelliere Scholz, presentato negli Stati Uniti lo scorso dicembre.

Tutto ciò che è seguito riguardo al crescente ruolo della Germania come Grande Potenza anti-russa può essere collegato a quel precedente manifesto, che è stato analizzato a lungo nel collegamento ipertestuale incorporato per quei lettori intrepidi che desiderano saperne di più. Questa grande strategia non sarebbe stata condivisa con il pubblico se non fosse stato per la confluenza di fattori ideologici, di influenza e geopolitici, dimostrando così l’importanza di tutti e tre e in particolare dell’ultimo.

Tornando all’analisi di Lukyanov, essa è ovviamente molto perspicace, ma rimane incompleta in quanto manca il fattore polacco, che spiega perché gli altri due hanno portato alla fine dell’anno scorso a una svolta antirussa della Germania e non subito dopo l’inizio dell’operazione speciale. In ogni caso, la sua conclusione che la Germania è oggi uno dei principali oppositori della Russia è significativa perché si può intuire che rifletta le opinioni dei suoi colleghi influenti in materia di politica, il che non lascia presagire nulla di buono per il futuro dei legami bilaterali.

https://korybko.substack.com/p/its-premature-to-conclude-that-poland

https://korybko.substack.com/p/russia-needs-to-once-again-brace

https://korybko.substack.com/p/germanys-new-anti-russian-role-is

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OLAF SCHOLZ: L’ALTRA EUROPA GEOPOLITICA_di Olaf Scholz

Il discorso del cancelliere tedesco Olaf Scholz, qui tradotto, tenuto il 9 maggio al Parlamento Europeo, preceduto da un saggio-manifesto sulla rivista statunitense “Politico” a dicembre, anch’esso a suo tempo tradotto, rivela sostanzialmente due aspetti più volte rimarcati su questo sito: in Europa le spinte all’autonomia e all’indipendenza politica, sia pure flebili, esistono ma non riescono a trovare una espressione politica compiuta e matura; l’attuale compagine governativa tedesca, di fatto il ceto politico nella sua quasi totalità, si pone comunque agli antipodi di questa aspirazione. Li si coglie in ogni punto di questo discorso nel momento in cui:

  • definisce imperialistica la politica estera russa, quando il suo carattere prevalente è nazionalista. Un carattere alimentato soprattutto dalla natura espansionista della NATO, ben assecondata dal processo di allargamento della Unione Europea e dagli atti di aperta discriminazione delle popolazioni russe rimaste intrappolate nei nuovi stati scaturiti dall’implosione della Unione Sovietica;
  • ripropone una funzione ancillare alla Unione Europea quando definisce nella mera regolazione e normazione in punta di diritto dei rapporti e delle relazioni internazionali, siano esse di natura economica che diplomatica, la ragione di esistenza delle istituzioni europee, delegando con ciò ad altri la riserva di potenza necessaria a supportare autorità ed autorevolezza; una riproposizione della coltre di ipocrisia tesa che ha coperto per decenni la reale ragione d’esistenza della UE, consistita nello scindere il nesso tra forza e diritto e nel nascondere con sempre più ridotta efficacia sotto l’aura della forza propria del diritto la propria condizione di sudditanza.

Aspetti, quindi, dalle implicazioni politiche ormai evidenti e stridenti con una postura dignitosa nell’attuale contesto geopolitico. 

Di fatti, dopo qualche timido tentennamento iniziale, il leader tedesco non fa che traslare pedissequamente il peccato d’origine e la ragione d’esistenza antisovietica e filostatunitense della Unione Europea in quella antirussa, per meglio dire russofobica.

Una vera e propria, formale abdicazione da un ruolo autonomo compiuto, mai realmente considerato ed acquisito in questi ottanta anni.

Tre sono gli obbiettivi politici posti da Scholz:

  • l’accelerazione del processo di allargamento della UE, in particolare nei Balcani e ai confini della Russia. Il risultato sarà quello di accompagnare il ben più importante e strategico allargamento della NATO all’ulteriore indebolimento politico di una Unione incapace di formare un polo politico autonomo realmente coeso, magari più ristretto, però più efficace; in grado, quindi, di aggregare o quantomeno influenzare il resto del continente senza cercare contrapposizioni forzate con la Russia e la Cina;
  • una maggiore coesione ed efficacia decisionale interna con il voto a maggioranza in politica estera, di difesa e di immigrazione. L’assenza della rivendicazione di una politica industriale e finanziaria comune, come pure il mancato inserimento del contenzioso commerciale con gli Stati Uniti la dice lunga sul reale afflato unitario del suo proclama. Riguardo alla politica estera, la vera natura della UE, ossia la mancanza di una visione statuale unitaria del continente, emerge dal continuo strattonamento sulle priorità da definire e sull’assenza di definizione politica unitaria rispetto ai tutti e quattro i quadranti geografici che contornano il continente. Una definizione cui non si può pervenire con un voto a maggioranza, ma con una sintesi unitaria che al momento e nel futuro solo gli Stati Uniti sono in grado di garantire. Quanto alla politica di difesa e di sviluppo del complesso militare-industriale europeo, parlano da soli l’assenza di citazione dei progetti industriali comuni europei e il veto tedesco alla proposta francese di garantire all’industria europea l’esclusiva delle forniture ai propri eserciti;
  • il ripristino e il mantenimento della apertura e della cooperazione globale. Delle due l’una: siamo alla totale incomprensione della nuova fase geopolitica e geoeconomica verso cui ci si sta avviando nell’aspettativa illusoria del ritorno agli antichi fasti che hanno consentito alla Germania di lucrare copiosamente sulla propria posizione ancillare verso gli Stati Uniti e sub-egemonica in Europa; oppure siamo alla riproposizione di una funzione messianica e universalista del liberalismo occidentale, di fatto a guida statunitense, contrapposta anche fisicamente nelle varie parti del globo ai poli in formazione in un contesto multipolare ormai esplicitamente riconosciuto dallo stesso Scholz. Si tratta certamente, con questa considerazione, di allettare con un miraggio la stessa Cina per allontanarla dalla crescente tentazione di una alleanza stretta con la Russia capace di attrarre larga parte del mondo circostante. Lo sguardo di Scholz è però rivolto soprattutto all’interno dell’Europa. La sua visione ecumenica tende a contrastare l’emersione di rivali interni, in particolare la Polonia, con il corollario dei paesi scandinavi da una parte e dei paesi baltici e la Romania dall’altra, altrettanto e più congeniali agli attuali disegni statunitensi, i quali paesi hanno fondato sul nazionalismo straccione le proprie profferte di fedeltà atlantica.

L’ambizione ancillare di Scholz, della sua compagine e di gran parte della opposizione politica è certamente fondata. Posta di fronte ad un bivio, la Germania ha scelto la strada più facile ed apparentemente meno impegnativa. Tra il recupero dei cocci della sua sfera di sub-influenza nel vicinato e la prospettiva di rapporti più intensi con Russia e, presumibilmente, Cina ha scelto la prima pur di non contrariare l’attuale leadership statunitense. Con questo ha posto una pietra tombale sul timido tentativo di impostare una propria politica di influenza sull’Europa Orientale e la Russia, naufragata miseramente e tragicamente a cavallo degli anni 80/90 con l’assassinio di Herrhausen e Roewedder. Sholz dovrà passare, però, per il nodo scorsoio del campo d’azione geopolitico più ristretto e competitivo e per le crescenti e rapaci richieste, di fatto un vero e proprio saccheggio, esatte dagli Stati Uniti, ben lontane dai lauti margini concessi nei gloriosi trenta (quaranta) anni succeduti al secondo conflitto mondiale. Il nostro corre il rischio da un lato di agevolare la formazione di un cappio in grado di stringere il proprio paese da ovest con il Regno Unito, da Nord con gli scandinavi, da est con Polonia e soci e di alimentare dall’altro le rivalità interne al continente anche tra i paesi più importanti. L’esito prevedibile consisterà nell’innescare una gara convulsa al riconoscimento del proprio ruolo ancillare verso la nazione egemone; Giorgia Meloni e il suo governo ne sono l’ultimo esempio. La leadership statunitense sino a quando sarà in grado di tenere le redini e condurre il gioco, riuscirà a contenere e ricondurre ai propri disegni ambizioni e rivalità; dovesse implodere rischieremo il ritorno a scenari tragici già vissuti due volte nel secolo scorso, ma in condizioni peggiori di disfacimento. Buona lettura, Giuseppe Germinario

OLAF SCHOLZ: L’ALTRA EUROPA GEOPOLITICA
Scholz sta diventando il nuovo think tank del continente? Nel suo discorso al Parlamento europeo del 9 maggio, il Cancelliere tedesco ha proposto una formulazione alternativa dell’Unione geopolitica, opposta a quella di un’Europa potenza immersa nel mito della civiltà. Lo traduciamo e lo commentiamo riga per riga per la prima volta.
AUTORE PIERRE MENNERAT

Il discorso di Olaf Scholz per la Giornata dell’Europa prosegue una serie di interventi iniziata a Praga nel settembre 2022 e guarda già alle prossime elezioni europee del 2024. Questo discorso commemorativo non è una dichiarazione politica generale, ma ci permette di cogliere alcuni dei punti chiave della politica europea della coalizione tricolore in carica dal novembre 2021: il Cancelliere elogia l’Unione e ne presenta anche una concezione specificamente tedesca.

Si tratta indubbiamente di una volontà di “occupare spazio” in Europa e di sottrarre al presidente francese – indebolito dalla crisi sociale in Francia – una forma di leadership nell’agenda. Lo stile non è dissimile da quello di Emmanuel Macron. Come lui, Olaf Scholz fa largo uso di riferimenti, mescolando citazioni politiche (Robert Schuman e Willy Brandt) e letterarie (Paul Valéry e Oscar Wilde) per arricchire il suo discorso.

Il Cancelliere pronuncia un discorso che è una variante dello slogan socialdemocratico “L’Europa è il nostro futuro”, messo in prospettiva rispetto alla frattura civile rappresentata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Tuttavia, l’Europa che Scholz descrive non deve essere una “potenza vecchio stile”, ma deve essere “aperta” – geograficamente ai nuovi Stati membri, economicamente agli accordi di libero scambio e all’innovazione, e geopoliticamente all’alleanza transatlantica.

Signora Presidente,

Signore e Signori,

Vi ringrazio per l’opportunità di parlare con voi in questo luogo speciale oggi, nella Giornata dell’Europa. Sono onorato e commosso dal vostro invito. Mi onora perché voi, deputati liberamente eletti, rappresentate 450 milioni di europei – i cittadini d’Europa.

E mi commuove perché il 9 maggio è l’unica risposta valida per il futuro alla guerra mondiale scatenata dalla Germania, al nazionalismo distruttivo e alla megalomania imperialista.

Oggi, 73 anni fa, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman propose di creare una nuova “Europa organizzata e viva”.

All’inizio c’era la collettivizzazione del carbone e dell’acciaio, i beni che per decenni erano stati utilizzati per produrre armi, armi che i nostri nonni e bisnonni hanno messo gli uni contro gli altri. Il sogno dei padri e delle madri d’Europa era quello di porre fine a questa uccisione reciproca. Per noi questo sogno si è avverato: la guerra tra i nostri popoli è diventata inconcepibile, grazie all’Unione Europea e per la felicità di tutti noi.

Ma se vi guardate intorno, vedrete che questo sogno non è una realtà in tutti i Paesi europei. A costo di molte vittime, gli ucraini difendono ogni giorno la loro libertà e democrazia, la loro sovranità e indipendenza contro la brutalità dell’esercito russo invasore, e noi li sosteniamo in questo.

I padri e le madri dell’Europa hanno già attribuito all’Europa una missione che va ben oltre la pacificazione dei suoi confini. Per loro era ovvio: l’Europa ha una responsabilità globale, perché il benessere dell’Europa non può essere separato dal benessere del resto del mondo.

La Dichiarazione Schuman afferma: “Questa produzione”, cioè il carbone e l’acciaio, “sarà offerta al mondo intero senza distinzioni o esclusioni, per contribuire all’innalzamento del tenore di vita e allo sviluppo di opere di pace. L’Europa sarà in grado, con maggiori mezzi, di perseguire uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano.

Lo “sviluppo del continente africano” era allora contrapposto allo sfruttamento coloniale perpetrato dall’Europa sul nostro vicino continente.

Ecco perché affrontare le conseguenze del colonialismo deve essere parte integrante di ogni partenariato con i Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Un partenariato che scarti la visione eurocentrica del passato. Un partenariato che non si limiti a proclamare l’uguaglianza, ma la metta in pratica. Costruire tali partenariati è più importante che mai.

Nell’Unione vivono 450 milioni di cittadini, forse 500 milioni dopo il prossimo allargamento. Si tratta solo del 5% della popolazione mondiale. In Asia, Africa e Sud America stanno emergendo nuovi pesi massimi economici, demografici e politici – un successo, tra l’altro, della divisione del lavoro tra Paesi e continenti che ha fatto uscire dalla povertà un miliardo di persone. Non si accontenteranno di un mondo bipolare o tripolare, e giustamente. Per questo sono convinto che il mondo del XXI secolo sarà multipolare – e lo è già da molto tempo.

Cosa significa questo per noi in Europa? “L’Europa diventerà”, per citare lo scrittore francese Paul Valéry, “ciò che realmente è: un piccolo promontorio del continente asiatico?”. Non possiamo trovare la risposta a questa domanda guardando al passato. Vivere nel passato significa aggrapparsi al ricordo nostalgico della potenza mondiale dell’Europa, illudersi con l’illusione nazionale di essere una grande potenza. Ma anche coloro che avvertono costantemente il declino dell’Europa non vincono il futuro, soprattutto perché sottovalutano la capacità dell’Europa di trasformarsi e di agire.

Lo abbiamo dimostrato più volte nelle crisi degli ultimi anni e nel presente. Ricordiamo solo come abbiamo superato lo scorso inverno insieme, in solidarietà e unità con i nostri partner in tutto il mondo.

Ma ne traggo tre lezioni:

Primo: il futuro dell’Europa è nelle nostre mani.

Secondo: più rafforziamo l’unità dell’Europa, più facile sarà assicurarci un buon futuro.

E terzo: ciò di cui abbiamo bisogno ora non è meno, ma più apertura e cooperazione.

Per garantire che l’Europa abbia un buon posto nel mondo di domani, non al di sopra o al di sotto di altri Paesi e regioni, ma su un piano di parità con loro, al loro fianco.

Il discorso si apre con una panoramica commemorativa della storia dell’Unione come risposta all’imperialismo e al nazionalismo guerrafondaio. Inoltre, Scholz presenta la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) come un progetto concepito fin dall’inizio con una vocazione esterna e una responsabilità per il mondo extraeuropeo, citando la Dichiarazione Schuman che assegnava alla CECA il compito di “sviluppare il continente africano”. Il contesto coloniale di questa dichiarazione non sfugge a Olaf Scholz, che tuttavia sostiene che il lavoro dei “padri e delle madri d’Europa” è un antidoto alle illusioni di grandezza e implica oggi la ricerca di partenariati tra pari. In ogni caso, l’Europa non può più permettersi di essere una potenza mondiale dominante, ma deve essere un attore con un’influenza globale positiva.

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Un’Europa geopolitica
Perché questo accada, l’Europa deve cambiare. Abbiamo bisogno di un’Europa geopolitica, di un’Europa allargata e riformata e infine di un’Europa lungimirante. Vedo il Parlamento europeo come una forza trainante e un alleato in tutto questo. Prendiamo la creazione di un’Europa geopolitica. Willy Brandt ne sottolineò la necessità esistenziale qui al Parlamento europeo cinquant’anni fa. “L’unificazione dell’Europa”, scriveva nel vostro libro degli ospiti, “non è solo una questione di qualità della nostra esistenza. È una questione di sopravvivenza tra giganti e nel mondo incrinato di nuovi e vecchi nazionalismi.

Il Parlamento europeo ha sempre agito secondo questa massima e per questo gli sono molto grato. Lo fate quando onorate il potere della legge e quando ricordate a tutti noi che l’Europa può essere ascoltata solo quando parla con una sola voce. La brutale guerra d’invasione della Russia contro l’Ucraina ci ha mostrato proprio di recente quanto ciò sia necessario, e di conseguenza, dopo questa infame violazione della pace internazionale, l’Unione si è riunita come raramente prima. Questa esperienza ci porta alla fondazione di un’Europa geopolitica, come ho proposto durante la mia visita all’Università Carlo di Praga la scorsa estate.

Ciò include un coordinamento molto più stretto dei nostri sforzi di difesa e la costruzione di un’economia di difesa integrata in Europa. Il Fondo europeo per la pace, l’acquisto congiunto di munizioni per l’Ucraina, la più stretta cooperazione tra i nostri Paesi in materia di difesa aerea, la nostra bussola strategica, la stretta collaborazione tra l’Unione e la NATO: sono tutti passi positivi che dobbiamo approfondire e accelerare.

Ora dobbiamo gettare le basi per la ricostruzione dell’Ucraina. Naturalmente, questo richiede un capitale politico e finanziario a lungo termine. Ma è anche una grande opportunità, non solo per l’Ucraina, ma anche per l’Europa nel suo complesso. Un’Ucraina prospera, democratica ed europea è la risposta più chiara alla politica imperialista, revisionista e illegale di Putin.

L’Europa deve anche ottenere buoni risultati nella competizione internazionale con le altre grandi potenze. Gli Stati Uniti restano il più importante alleato dell’Europa. Ciò significa che saremo alleati migliori per i nostri amici transatlantici quanto più investiremo nella nostra sicurezza e difesa, nella nostra resilienza civile, nella nostra sovranità tecnologica, nella sicurezza degli approvvigionamenti, nella nostra indipendenza dalle materie prime critiche. Il nostro rapporto con la Cina è giustamente descritto dal trittico “partner, concorrente, rivale sistemico”, anche se la rivalità e la competizione sono indubbiamente aumentate. L’UE se ne rende conto e sta reagendo. Sono d’accordo con Ursula von der Leyen: il nostro motto non è “de-coupling”, ma “intelligent de-risking”!

Come a Praga in settembre e alla Sorbona in gennaio durante la commemorazione del 60° anniversario del Trattato dell’Eliseo, il Cancelliere ha adottato l’idea di una “Europa geopolitica”. Tuttavia, riprendendo questo concetto, gli ha dato un significato “più tedesco”, dove non si tratta tanto di autonomia quanto di efficienza. I suoi principali elementi concreti riguardano aspetti logistici ed economici: l’integrazione dell’industria europea della difesa, l’acquisto congiunto di armi e munizioni per Kiev, gli aiuti per la ricostruzione dell’Ucraina. Per quanto riguarda i progetti strutturanti di questa Europa geopolitica, Olaf Scholz cita il progetto di difesa aerea europea, lanciato nell’ottobre 2022 dalla Germania all’insaputa della Francia, ma ancora una volta omette di menzionare lo SCAF e il MGCS. Anche la concezione delle alleanze del Cancelliere tedesco rimane fondamentalmente atlantista: la sua Europa geopolitica esiste solo nella NATO, dove è un partner migliore per gli Stati Uniti. Per Olaf Scholz, tuttavia, il mondo non è né “bi-” né “tripolare”, ma multipolare. La delicata questione dell’allineamento all’uno o all’altro polo è quindi sostituita da quella della necessaria diversificazione di alleanze e accordi. Per quanto riguarda la Cina, il Cancelliere tedesco sostiene la formula del “de-risking” promossa dalla Commissione europea, un’opzione meno radicale del “de-coupling” che egli rifiuta.

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I Paesi del Sud globale sono nuovi partner di cui prendiamo sul serio le preoccupazioni e gli interessi. Per questo è fondamentale che l’Europa si impegni con forza e solidarietà per la sicurezza alimentare e la lotta alla povertà, che mantenga le promesse fatte sulla protezione internazionale del clima e dell’ambiente.

E, poiché anche questa è una questione geopolitica dell’Europa, è più che ragionevole concludere nuovi accordi di libero scambio: con il Mercosur, il Messico, l’India, l’Indonesia, l’Australia, il Kenya e in prospettiva con molti altri Paesi, accordi equi, che incoraggino anziché ostacolare lo sviluppo economico dei nostri partner! Equo significa, ad esempio, che la prima lavorazione delle materie prime avvenga in loco, non in Cina o altrove. Se ancoriamo queste idee alle nostre relazioni commerciali, diamo anche un importante contributo alla diversificazione delle nostre filiere produttive.

L’Europa deve guardare al mondo, perché se continuiamo a negoziare per anni nuovi accordi di libero scambio senza risultati, saranno altri a dettare le regole, con standard ambientali e sociali più bassi.

Un’Europa allargata e riformata
L’anno scorso abbiamo preso una decisione centrale sulla forma dell’Europa geopolitica. Abbiamo scelto un’Europa più grande. Abbiamo detto ai cittadini dei Paesi dei Balcani occidentali, dell’Ucraina, della Moldavia e, in prospettiva, anche della Georgia: voi appartenete a noi. Vorremmo che diventaste membri della nostra Unione europea. Non si tratta di altruismo, ma di credibilità e senso economico. Si tratta di garantire la pace in Europa dopo il cambiamento epocale causato dalla guerra di aggressione della Russia. L’Europa geopolitica sarà giudicata anche in base alla misura in cui manterrà le promesse fatte ai suoi vicini più prossimi. Una politica di allargamento mantiene le sue promesse, in primo luogo nei confronti degli Stati dei Balcani occidentali, ai quali abbiamo fatto balenare la prospettiva dell’adesione negli ultimi vent’anni. Naturalmente, il processo di normalizzazione tra Serbia e Kosovo e le riforme nei Paesi candidati devono continuare. Naturalmente, dopo il coraggio politico della Macedonia del Nord, il suo processo di ammissione deve progredire rapidamente. Tali progressi devono essere onorati da parte nostra, altrimenti la politica di allargamento perderà il suo appeal e l’Unione perderà la sua influenza e il suo peso.

Siamo onesti: un’Unione allargata deve essere un’Unione riformata.

Va sottolineato che l’allargamento non deve essere l’unico motivo di riforma, ma l’obiettivo. Sono lieto che il Parlamento europeo stia lavorando su proposte di riforma istituzionale, comprese quelle che non si fermano al Parlamento stesso. Continuerò a lavorare in seno al Consiglio europeo per garantire che queste idee vengano accolte.

C’è molto da fare: più decisioni del Consiglio a maggioranza qualificata in politica estera e fiscale. Continuerò a impegnarmi per convincere i cittadini di questo e vi ringrazio per l’ampio sostegno dei vostri ranghi. Vorrei dire agli scettici: l’unanimità, l’accordo al 100% su tutte le questioni non crea la massima legittimità democratica. Al contrario! È la persuasione, la lotta per costruire maggioranze o alleanze che ci contraddistingue come democrazia, la ricerca di compromessi che rendano giustizia anche agli interessi delle minoranze. Questo è il nostro concetto di democrazia liberale!

Le riforme europee auspicate dal Cancelliere sono simili alle proposte francesi sotto diversi aspetti. A livello istituzionale, Olaf Scholz rimane favorevole all’estensione del voto a maggioranza qualificata. Il Cancelliere si definisce in più occasioni un alleato del Parlamento europeo in seno al Consiglio europeo e promette di difendere le loro proposte. Per quanto riguarda la riforma del diritto europeo in materia di asilo e migrazione, esorta le istituzioni europee e gli Stati membri a compiere rapidi progressi. Tuttavia, un punto ricorrente nei discorsi europei di Olaf Scholz rimane la richiesta di maggiore apertura commerciale, che lo differenzia da Emmanuel Macron, più critico nei confronti della globalizzazione. Nella tradizione della Repubblica Federale, il Cancelliere vede questi accordi di libero scambio “equi” come fattori di stabilità, di diffusione del progresso socio-economico e di creazione di nuove alleanze nel resto del mondo.

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Mi sembra inoltre essenziale per il futuro rimanere fermi sul rispetto dei principi democratici e dello Stato di diritto, e so che una grande maggioranza di voi è qui con me. Perché non sfruttare l’imminente discussione sulle riforme dell’UE per incoraggiare la Commissione europea ad avviare un processo di violazione dei trattati ogni volta che i nostri valori fondamentali di libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e protezione dei diritti umani vengono violati?

Questo discorso è caratterizzato da un forte sostegno all’allargamento, insistendo su un calendario e su rapidi progressi per onorare le promesse fatte dopo l’invasione dell’Ucraina. Per Olaf Scholz, l’urgenza è nei Balcani, dove chiede impegni seri per mantenere il ritmo del riavvicinamento. L’allargamento “non è altruistico”, ma al contrario un interesse ben compreso e un’opportunità “di buon senso economico”. Tuttavia, il Cancelliere non ha menzionato l’iniziativa francese per una comunità politica europea.

L’impressione di un confronto di vedute con il presidente francese è stata tuttavia accompagnata da un apparente riavvicinamento tra Berlino e Parigi, con un aumento degli eventi bilaterali: La presenza del ministro degli Esteri Annalena Baerbock a Parigi il 9 e 10 maggio, la visita di Emmanuel Macron al collegio elettorale di Olaf Scholz a Potsdam prevista per il 6 giugno – che ricorda il viaggio di François Hollande da Angela Merkel a Rügen nel maggio 2014, per discutere già allora della guerra in Ucraina) -, prima della prima visita di Stato di un presidente francese in Germania dal 2000, dal 2 al 4 luglio.

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Un’Unione aperta al futuro
Signore e signori, vorrei aggiungere un elemento che ho appena citato. Noi europei dobbiamo essere aperti al futuro senza esitazioni. Questo significa affrontare i problemi che ci hanno ostacolato per anni e che rendono così facile per altri Paesi dividerci e metterci l’uno contro l’altro.

Penso, ad esempio, al nostro rapporto con la migrazione dei rifugiati. Certo, dobbiamo trovare una soluzione all’altezza della domanda di solidarietà europea, ma non possiamo aspettare che questa solidarietà scenda su di noi come lo Spirito Santo. L’Europa, come disse Robert Schuman 73 anni fa, si concretizza in realtà concrete, in una “solidarietà di fatto”. Per questo motivo sostengo con forza che i progressi compiuti sulla riforma del diritto d’asilo europeo dopo lunghi e difficili negoziati devono essere resi permanenti prima delle elezioni europee. Il vostro accordo su una posizione negoziale per parti centrali della riforma il mese scorso è stato un passo molto importante in questa direzione. Ora dobbiamo completare questo lavoro con tutte le nostre forze.

Siamo uniti dall’obiettivo di gestire e organizzare meglio la migrazione irregolare, senza tradire i nostri valori. Tuttavia, possiamo trarre molti più vantaggi di prima: in molti luoghi d’Europa c’è bisogno di manodopera, anche da Paesi extraeuropei. Se colleghiamo saldamente queste opportunità di migrazione regolare con il requisito che gli Stati di origine e di transito riprendano anche coloro che non sono autorizzati a risiedere qui, tutte le parti possono trarne vantaggio. A ciò si aggiungono le misure per un’efficace difesa delle frontiere, come abbiamo deciso al Consiglio europeo di febbraio. In questo modo, aumenterà l’accettabilità di un’immigrazione intelligente, mirata e controllata nei nostri Paesi e saremo in grado di indebolire gli sforzi di chi fa politica con la paura e il risentimento.

Aprirsi al futuro significa anche affrontare quella che probabilmente è la sfida più importante del nostro tempo. Mi riferisco alla trasformazione dei nostri Paesi e delle nostre economie verso la neutralità climatica. La prima rivoluzione industriale è iniziata in Europa. Perché non avere l’ambizione che anche il prossimo grande cambiamento sia influenzato dall’Europa, per il bene di tutti?

L’apertura auspicata da Scholz si esprime anche nell’espressione “aperti al futuro”, che il Cancelliere utilizza tre volte. Egli individua due grandi progetti per l’Europa: a breve termine, la gestione equa e intelligente dei flussi migratori e, a lungo termine, la trasformazione ecologica delle nostre economie.

Anche se espone in termini abbastanza chiari la visione tedesca di un’Unione che sia soprattutto al servizio del benessere economico e svincolata da ambizioni di potere, il discorso non è strettamente polemico. Così il Cancelliere ha evitato alcuni temi caldi che sono comunque essenziali a livello europeo: i dibattiti sui criteri di bilancio, la politica industriale e l’atteggiamento commerciale da adottare nei confronti degli Stati Uniti.

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Non è necessario che vi spieghi le opportunità che questa trasformazione offre all’Europa. È importante che i cittadini dei nostri Paesi le percepiscano nella loro vita quotidiana. Per esempio, perché il prezzo dell’elettricità da fonti rinnovabili sta scendendo, perché ci sono abbastanza stazioni per auto e camion elettrici, perché si stanno creando nuovi posti di lavoro per il futuro nel settore dell’energia, nel settore dei microchip, perché stiamo sviluppando e commercializzando in Europa le tecnologie di cui il mondo intero ha bisogno per la transizione ecologica. Dare forma a questo cambiamento con ambizione e non lasciare indietro nessuno: questo è il grande progetto per il futuro dietro il quale noi europei dovremmo ora riunirci.

Conclusione
Come disse Oscar Wilde: “Il futuro appartiene a coloro che riconoscono le possibilità prima che diventino ovvie”, e non appartiene certo ai sogni nostalgici e revisionisti di gloria nazionale e di potere imperialista. Gli ucraini stanno pagando con la vita questa follia del loro potente vicino. 2200 chilometri a nord-est di qui, a Mosca, Putin sta ora facendo sfilare i suoi soldati, i suoi carri armati e i suoi missili. Non lasciamoci impressionare da una tale dimostrazione di forza. Restiamo fermi nel nostro sostegno all’Ucraina, finché sarà necessario! Nessuno di noi vuole tornare ai giorni in cui in Europa vigeva la legge del più forte, in cui i piccoli Paesi dovevano sottomettersi ai grandi, in cui la libertà era un privilegio di pochi e non un diritto fondamentale di tutti. La nostra Unione Europea, unita nella sua diversità, è la migliore garanzia che questo passato non tornerà, ed è per questo che il rumore di Mosca non è il messaggio di questo 9 maggio, ma il nostro messaggio: il passato non trionferà sul futuro. E il futuro – il nostro futuro – è l’Unione europea.

https://legrandcontinent.eu/fr/2023/05/10/la-geopolitique-europeenne-ouverte-dolaf-scholz/

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PAPERINO COMINCIA A DUBITARE, di Antonio de Martini

PAPERINO COMINCIA A DUBITARE
I 22 paesi appartenenti alla LEGA ARABA ( Algeria, Arabia Saudita, Bahrein, Isole Comore, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Gibuti, Giordania, Iraq, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Mauritania, Oman, Palestina, Qatar, Somalia, Sudan, Tunisia, Yemen.) hanno deciso all’unanimità e comunicato al mondo intero che la Siria – sospesa nel novembre 2011- “é stata invitata a riprendere il suo posto in seno all’organizzazione e alle sue derivazioni e agenzie. A far data dal 7 maggio 2023.”
L’Arabia Saudita che ospiterà la prossima riunione a Riad il 19 p.v. Ha già comunicato di aver invitato ufficialmente il presidente Bashar el Assad..
Dieci dei 22 paesi citati hanno , in qualche forma, partecipato alla guerra non convenzionale lanciat dagli Stati Uniti, UK, Francia, Turchia, Canada contro la piccola Siria.
IL fatto che dodici anni dopo tutti i paesi arabi e la Turchia abbiamo rinunziato al progetto mentre gli Stati NATO -occidentali facciano finta di nulla é la migliore dimostrazione della falsità della impostazione generale ( “ La Siria é governata da una piccola minoranza che prevarica il paese da mezzo secolo” e amenità consimili ) data da tre governi USA.
Il mondo arabo torna unito , La Siria é l’incontestabile vincitrice dello scontro e ha dimostrato che l’intero popolo ha difeso l’indipendenza del paese contro una coalizione.
Dopo l’errore della Guerra afgana ( 20 anni) e di quella di Siria ( 13 anni), ora attendiamo l’esito della guerra che la NATO ha mosso , sempre viscidamente, alla Russia tramite l’Ucraina.
Poi, alla narrativa e capacità di analisi geopolitica degli USA e caudatari, rimarranno a credere solo Pippo e Pluto.

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UNA CIVILTA’ IN CRISI (1/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (1/2). Chiariamo prima il punto di vista del nostro discorso. Il nostro punto di vista è storico, osserviamo l’oggetto civiltà, quella occidentale nello specifico, dal punto di vista del corso storico. L’argomento è vasto e complesso e soffrirà delle riduzione ad un post.
Questa civiltà che si fa nascere coi Greci duemilasettecento anni fa, è stata per più dell’ottanta-per-cento del suo tempo, un sistema per lo più locale ed interno. Per il resto, dal XVI secolo in poi, nel periodo che chiamiamo moderno, il sistema ha avuto un big bang inflattivo che si è esteso a livello planetario, non già cooptando al suo interno spazio, popoli e natura, ma sottomettendoli o sfruttandoli. Va precisato che a noi qui non interessa proferire alcun giudizio morale, ci interessa solo l’analisi funzionale. In questi cinque secoli, la civiltà occidentale si è sovralimentata potendo alimentare il suo piccolo interno con un relativo dominio su un molto più grande esterno, ha potuto contare cioè su vaste e ricche condizioni di possibilità.
All’interno di questo frame temporale detto moderno, di cinque secoli, la civiltà occidentale è cambiata nel profondo. A livello di composizione, ha visto una migrazione interna del suo punto centrale che dal Mediterraneo greco e poi romano, è passato prima alla costa europea nordoccidentale, poi ha saltato la Manica ambientandosi in Inghilterra (poi Gran Bretagna, poi Regno Unito), poi ha saltato l’Atlantico ambientandosi nel Nord America. Si potrebbe anche dire che provenendo da una zona che per sua natura geografica è iperconnessa (Europa, Asia, Medio Oriente, Nord Africa), si sia progressivamente isolata prima continentalmente, poi insularmente, poi finendo addirittura in una terra al riparo di due vasti oceani. L’isolamento geografico è però valso la facoltà di dominare lo spazio circostante senza rischiare troppo una controreazione come si è sempre verificato nelle dinamiche espansive degli imperi-civiltà terrestri.
A livello di bilancio energetico (qui in senso termodinamico in senso allargato), una regione del mondo ha progressivamente dominato gran parte del mondo, ha enormemente dilatato il suo spazio vitale.
Tali condizioni hanno permesso alla originaria parte europea della civiltà, di frazionarsi in piccoli stati. Europa ha una media di territorio/popolazione per Stato molto al di sotto della media mondiale. In Europa c’è un numero di stati all’incirca pari a quelli dell’intera Asia o Africa stante che il suo spazio è quattro o tre volte più piccolo. Per altro, tale comparazione non è neanche del tutto corretta poiché sono stati proprio gli imperi europei a frazionare per propri interessi imperial-coloniali sia lo spazio asiatico che africano che chissà quali altre dinamiche avrebbero avuto se lasciati liberi di esplorare il proprio spazio di possibilità. Questa strana partizione localista europea ha dato segni di evidente squilibrio sistemico per ben due volte nel secolo scorso, accelerando il processo di migrazione del centro di civiltà nell’isola britannica e poi nell’isola continentale nordamericana.
Questi “Stati” ognuno con un suo popolo detto “nazione”, si sono sempre più ordinati con un sistema doppio di tipo economico-politico. Sul piano economico, gli occidentali hanno elaborato un sistema sovralimentato per materie ed energie per lo più prese dall’esterno. A tale sovralimentazione materiale, hanno affiancato altre due sovralimentazioni immateriali. La prima fatta da denaro creato dal nulla che anticipa il valore che poi si pretende venga restituito (estinguendo il debito dell’anticipazione) rilasciando una eccedenza detta profitto. Tale profitto si è accumulato o reinvestito per alimentare nuovi cicli. La seconda fatta dall’enorme sviluppo di conoscenze, saperi e pratiche tecniche e scientifiche. Materie, energie, denaro e conoscenze sono finite dentro una macchina produttiva-trasformativa. Questa macchina, attraverso il lavoro umano, è diventata il cuore ordinativo di queste società, ogni produttore è anche consumatore. Dalla macchina sono usciti due flussi, uno dei prodotti o servizi venduti al mercato per ottenere la restituzione del capitale iniziale più il profitto, l’altro di rifiuti o di lavorazione o di consumo.
Sul piano politico, l’ordinamento è stato creare un sistema originale nelle forme ma non poi così tanto nella sostanza che abbiamo chiamato, impropriamente, democrazia o in vena di sprezzo per la logica linguistica (ossimori): democrazia di mercato. La sostanza è quella solita di ogni civiltà da cinquemila anni ovvero il fatto che una parte minore (Pochi), domina e governa con alterne fortune una parte maggiore (i Molti). L’originalità, che più che democratica va detta repubblicana, è stata che i Molti hanno avuto (per altro solo da qualche decennio di questi cinque secoli), la facoltà di esprimere una qualche gradimento o meno per il tipo di interpreti del formato che non è stato mai messo in discussione.
La “crisi” nella quale è entrata la civiltà occidentale, è data dalla più o meno improvvisa restrizione di tutte queste condizioni di possibilità contemporaneamente. Per questo la si chiama “crisi sistemica”. In un sistema, lo stato di crisi comunque generato è sempre la crisi di tutte le sue parti e relative interrelazioni.
L’assetto per il quale questo sistema minore di occidentali ha potuto dominare un ben più ampio spazio per sovralimentarsi, oggi non si dà più e sempre meno si darà nell’immediato futuro. C’è una logica storico-demo-fisico-culturale sotto questa nuova impossibilità, non è argomento oggetto di volontarismo o discussione, è un fatto ineliminabile. Restringendosi sempre più lo spazio delle possibilità esterno, si va screpolando la tenuta interna del sistema.
Nei fatti, il centro americano-anglosassone ha una sua logica e dinamica tendenzialmente divergente dallo spazio europeo. A sua volta, questa Europa che ha una precaria ontologia geografica e geostorica, risulta un sistema debolissimo, anziano, iperfrazionato, viziato con una strana convinzione post-storica che ha pensato che il nuovo ordine fosse appaltabile ad una pura dinamica (mercato) in luogo di una statica (stato poi più o meno dinamico). Una sorta di ontologia dei flussi tutta forma e niente sostanza. Quella antica sindrome del pensiero occidentale per la quale queste genti pensano che poiché una cosa può esser pensata questo la rende esistente (nota come sindrome dei Cento talleri) e funzionante nel concreto.
La parte economica del suo ordinamento ha perso l’esclusività essendosi oggi replicata in tutto il mondo. Inoltre, a differenza di questo “resto del mondo”, l’Occidente ha già prodotto tutto ciò che gli serviva e da tempo continua a produrre cose che non servono più a niente se non a tenere in stentata vita il sistema. Infine, l’Occidente continua ad avere molti bisogni che però non evade perché non sono trasformabili in merci e prestazioni.
Ma in più, qui si verifica che il grande big bang iniziato a metà XIX secolo come cascate di invenzioni generative (vapore, meccanica, fisica, chimica, sanitaria, elettronica), nella seconda metà del Novecento ha prodotto solo il campo ICT che oggi si prova a declinare anche nel bio. Tant’è che s’è data per persa la produzione materiale rifugiandosi in uno stanco sogno immateriale di tipo finanziario che ha fatto perdere al cuore della macchina produttiva la sua funzione ordinativa sociale (lavoro, redditi). Alcuni pensano ciò stato un errore anche perché la nozione di errore comporta la reversibilità. Purtroppo, non c’è alcuna reversibilità, si poteva e doveva gestire il problema diversamente (globalizzazione scellerata), non c’è dubbio, ma il fondo della dinamica di perdita dell’impeto produttivo tradizionale era ed è irreversibile.
Sebbene gli stessi occidentali si ritengano “materialisti” forse non è a tutti chiaro quanto “vale” l’ICT o il NBIC (nano-bio-info-cognitivo) rispetto al tradizionale produttivo propriamente materiale.
La parte politica è diventata il sottosistema che ha concentrato in sé tutte queste dinamiche restrittive tentando di assorbirle senza gestirle. Ne è conseguito il disfacimento della forma presuntamente democratica in favore di un repubblicanesimo privatizzato ovvero la perdita di ogni nozione propria di res pubblica.
La breve analisi ci porta in dote questo penoso elenco di severe problematiche: a) rapporti tra Occidente e Mondo; b) rapporti interni ad Occidente (sfera anglosassone e continentale); c) inconsistenza degli Stati-nazione europei e della forma sistemica che gli europei hanno pensato di darsi in questi ultimi sessanta anni; d) fine ciclo storico di vita dell’economia moderna per il solo Occidente; e) tragedia delle forme politiche interne gli stati occidentali.
Tutte le problematiche convergono infine nella società in cui e di cui tutti viviamo. (1/2)

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Gli intellettuali e FB, di Vincenzo Costa

Gli intellettuali e FB
Un caro amico, ma di quelli proprio cari che si conoscono da almeno trent’anni, dice di non accettare dibattiti su FB, che i luoghi del dibattito sono altri: libri, articoli, etc. Premesso che la libertà di ognuno è insindacabile e che l’amicizia viene prima di ogni giudizio politico, resta che questa tesi è – secondo me- aristocratico-reazionaria, per diverse ragioni che investono la nozione stessa di cultura nel mondo della vita mediatizzato:
1) la filosofia europea inizia nelle piazze, che corrispondono a quella piazza virtuale che è oggi FB e gli altri social. Socrate poteva anche non andarci.
2) i social hanno mille limiti e altrettanti pericoli, ma sono ormai l’ambiente entro cui si muovono i flussi culturali.
3) quel criterio esclude dalla circolazione del senso tutti, lo limita a quattro gatti. Alla fine per partecipare al dibattito bisigna aver letto per anni la Logica di Hegel e tutto Adorno in tedesco.
4) i social sono un potente correttivo all’intellettualismo, come lo sono le lezioni per gli studenti. Mentre tra studiosi si fa in fretta a perdersi dietro a intenzionalità, contraddizione dialettica etc. nei social e a lezione non puoi bleffare: devi essere chiaro, per cui rappresentano un luogo di pulizia concettuale.
5) la circolazione delle idee e la riflessività sono cambiata nelle società contemporanee, avvengono per “diffusione” (qui sono oscuro, vero, ma credo si capisca): i concetti si diffondono come un’epidemia, attraverso criteri di rilevanza dettati dalle urgenze del presente.
6) ovviamente i social non sono un luogo privilegiato. Senza libri, articoli, luoghi deputati a discussioni più a grana fine saremmo più poveri, ma i social sono sorgente genuina di nuove idee, permettono lo scambio e la circolazione del senso tra mondo della vita e sistema culturale, e senza di essi questa circolazione si interrompe e il sistema culturale diventa autoreferenziale e inutile.
7) quell’idea è difensiva: ha paura dell’esposizione, di rischiarsi nel fuoco della piazza. Alla fine crea una nicchia di significato, in cui si riconosco gli adepti, e così concetti tutt’altro che definiti e che forse sono scemenze senza capo né coda diventano categorie interpretative della realtà.
8 ) c’è molta molta spocchia in quella posizione, della serie: non discuto con voi merdacce, se volete leggete i miei libri. Ecco, questo proprio no, questo è- per come intendo io la cultura e la sua funzione- inaccettabile.
9) alla base c’è forse l’aristocratismo Francofortese, la sua incapacità di comprendere la nozione di cultura popolare, ma questo richiederebbe davvero se non un libro almeno una serie articolati di post.
10) la verità è che FB è faticoso, se si cerca di usarlo come luogo di circolazione del senso, e certo ognuno di noi è già gravato da tante cose. E tuttavia, dato il sistema mediatico esistente, rappresenta l’unico spazio di intersoggettivita’ discorsiva, l’unico luogo di incontro e di scambio di idee. Poi chiaro che ci sono momenti in cui diviene necessario prendersi delle pause, ma questo deriva solo dai limiti di tempo e di energia.

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Africa, prima la politica_di Bernard Lugan

In Africa, a sud del Sahara, la costruzione degli Stati precoloniali era basata sull’etnicità.
Quando hanno portato a gruppi multietnici, in genere non hanno avuto successo.
Di fatto senza futuro. I controesempi sono rari: l’entità dei Toucouleur e alcuni imperi musulmani nati dalla jihad, esempi che hanno avuto successo.
Imperi musulmani nati dalla jihad, che sono stati in effetti dei parziali “agglomeratori” o “coagulatori” etnici.
Oggi, a sud del Sahara, con le tre eccezioni di Botswana, Lesotho ed Eswatini (ex Swaziland), tutti e tre monoetnici e dove quindi c’è confusione o osmosi tra etnia, nazione e Stato, non esiste un unico gruppo etnico, nazione e Stato, non c’è stata coagulazione etnica da nessuna parte.
L’Etiopia fa eccezione per la sua profondità storica, ma il divario etnico è così profondo che non è stata egualmente in grado di raggiungere lo stesso livello di coesione.
Le divisioni etniche sono così profonde da minacciare permanentemente la sua coesione, come ha appena dimostrato l’ultima guerra in Tigray.
Gli attuali sviluppi politici, che avvengono attraverso un rifiuto sempre più marcato del “modello democratico occidentale”, dimostrano che il futuro è in un sistema in cui la rappresentanza dei gruppi piuttosto che degli individui. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale perché, in ultima analisi, sono i fondamenti filosofici delle società democratiche “occidentali” a essere messi in discussione.
Ma la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana dipende da questo, e non può più essere messa in discussione. La posta in gioco è la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana, che non può più continuare a determinarsi secondo questi imperativi morali stranieri che la stanno lentamente uccidendo?

IL QUADRUPLICE PROBLEMA POLITICO
DELL’AFRICA

Nel 1968, Georges Balandier scriveva che: “(…) i nuovi Stati africani [hanno] il compito di realizzare rapidamente e allo stesso tempo (rivoluzioni) che la storia aveva scaglionato nel tempo [devono] reintegrarsi in una società che si è organizzata al di fuori di loro […]”. Questa osservazione evidenzia chiaramente i problemi politici che l’Africa indipendente dovette affrontare.

I quattro problemi principali che l’Africa deve affrontare sono:
1) La questione della trasposizione delle istituzioni politiche occidentali che ha causato il caos in Africa.
La ragione di ciò è che in Africa, dove l’autorità non è condivisa, l’autorità non è condivisa; si è proceduto senza alcuna preventiva creazione di contro-poteri con la conseguenza che la modalità di rappresentanza e di associazione al governo dei popoli minoritari li ha condannati dalla matematica elettorale ad essere esclusi dal potere per l’eternità.
2) L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa perché, in un caso, l’ordine sociale si basa sugli individui e nell’altro sui gruppi. Tuttavia, il principio “un uomo, un voto”,
vieta di prendere in considerazione l’unica realtà politica africana, che è la comunità.
3) Gli Stati sono gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali che sono alla base delle vere radici umane.
4) I confini tracciati dalla colonizzazione sono sconosciuti e spesso incomprensibili. a livello locale. È importante rendersi conto che nell’Africa antica, i territori dei popoli
e che non si usciva dalla propria casa per entrare subito nella casa del vicino.
Tra i nuclei nucleari territoriali esistevano vere e proprie “zone cuscinetto”, che a volte si spostavano, appartenenti a nessuno dei due. In alcuni casi, questi spazi potevano essere attraversati da entrambe le parti da una parte o dall’altra. Altrove, erano il dominio degli spiriti in cui ci si poteva avventurare solo sacrificando a loro.
Le frontiere hanno anche distrutto, in modo irrimediabile, l’equilibrio interno delle grandi aree di allevamento dove la millenaria transumanza è stata interrotta dalla suddivisione degli spazi.
I confini hanno anche fatto sì che le persone siano state tagliate fuori da queste linee di demarcazione artificiali. Altrove, la colonizzazione ha altrettanto artificialmente riunito un mondo che era stato frammentato in numerose entità etniche, tribali o di altro tipo, addirittura di villaggio, al fine di renderle amministrativamente coerenti, ma che non avevano alcuna vocazione a diventare Stati.
Gli ex colonizzatori erano ben consapevoli di questi quattro
problemi nell’Africa sud-sahariana. Ecco perché, per tre decenni, dal 1960 al 1990, la priorità è stata costruire o rafforzare gli Stati. Poiché bisognava bruciare le tappe, gli Stati africani che erano emersi dalle divisioni coloniali hanno preso la “scorciatoia autoritaria”.
Per questo motivo, di norma, il partito unico si identificava con lo Stato che doveva essere essere creato. I particolarismi etnici erano allora combattuti e persino negati come potenziali fattori di divisione e indebolimento dell’edificio statale emergente.
Questa realtà ha dominato per tutto il periodo della “guerra fredda”, che per l’Africa corrispondeva al periodo della sua indipendenza.
Durante questa sequenza di confronto ideologico, la priorità per entrambi i blocchi è stata quella di mantenere le loro posizioni in Africa e quindi lo status quo politico era ricercato attraverso regimi forti su cui entrambe le parti potevano contare.
Poi, negli anni Novanta, dopo la scomparsa del blocco sovietico e di fronte ai fallimenti dell’Africa in campo politico, economico e sociale, la questione del potere è stata sollevata.
Nel 1990, in occasione della Conferenza franco-africana di La Baule, il presidente François Mitterrand affermò che l’Africa indipendente era fallita per mancanza di democrazia, e condizionò l’aiuto francese all’introduzione di un sistema multipartitico.
Il continente è stato quindi sottoposto a un vero e proprio “diktat democratico” che ha portato alla caduta del sistema o alla sua ridefinizione e, di conseguenza, all’indebolimento degli Stati che erano stati costruiti con tanta fatica.
Il risultato è stato che in tutta l’Africa francofona il crollo del sistema monopartitico ha portato a una cascata di crisi e guerre, con il multipartitismo che ha aggravato la situazione. Il sistema multipartitico ha esacerbato l’etnismo e il tribalismo che erano stati contenuti e incanalati dal partito unico.
partito. Il risultato è stato il trionfo dell’etnomatematica elettorale, con la vittoria delle etnie più numerose sulle meno numerose.
Il principale problema politico che l’Africa sud-sahariana deve affrontare è in definitiva chiaro. A non lasciare che le forze motrici della storia africana, non riuscendo a ritrovare il dinamismo perso con la colonizzazione.
Si tratta di trovare un modo istituzionale per permettere la convivenza etnica in modo che i popoli più numerosi non siano automaticamente i detentori di un potere matematico scaturito dalle urne.
La soluzione potrebbe quindi essere cercata in un sistema in cui la rappresentanza vada ai gruppi e non più ai singoli. Ma perché ciò avvenga, sarebbe importante ripudiare il sistema occidentale basato sul principio democratico di “un uomo, un voto”.

LE RAGIONI DEL FALLIMENTO DI SETTE
DECENNI DI “SVILUPPO

Più di settant’anni di politica di “sviluppo” si sono tradotti in un totale fallimento in Africa per tre ragioni principali; tutte e tre legate alla proiezione di ideologie “occidentali” su un corpo sociale che è antropologicamente impossibilitato ad assorbirle”.
Le tre ragioni principali sono
1) Il primato dato all’economia.
In tutti i modelli proposti o, più precisamente, imposti all’Africa sud-sahariana, l’economia è sempre stata messa in primo piano. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, con l’obiettivo di integrare l’Africa nell’economia globale, hanno cercato di costringere i paesi africani alla deregolamentazione, alla privatizzazione e alla liberalizzazione.
I veri problemi del continente non sono fondamentalmente economici, ma politici, istituzionali e sociologici. Il primo errore di questo mezzo secolo perduto è quindi quello di avere sempre dato la priorità all’economia, come hanno fatto e continuano a fare tutti i progetti di sviluppo, mentre ci troviamo prima di tutto di fronte a un evidente problema politico.
2) Il rifiuto di prendere in considerazione la nozione di differenza.
Le nostre definizioni universalistiche ci impediscono, anzi ci vietano, di vedere l’evidenza della differenza. Gli africani non sono poveri europei dalla pelle scura. Ed è perché il corpo sociale africano non è quello dell’Europa o dell’Asia, che l’innesto non è avvenuto.
Come se un giardiniere che insiste nell’innestare un albero di prugne su una palma si stupisce che nonostante le montagne di fertilizzante versate su di esso, la sua operazione non riesca.
Le ricette utilizzate in Asia e altrove hanno fallito in Africa semplicemente perché abbiamo un caso comprovato di incompatibilità delle colture. Quindi non è continuando ad affogare gli africani negli aiuti e nei sussidi che alla fine finiranno per assomigliare agli europei, agli asiatici o agli americani.
3) Il presupposto democratico.
Durante gli anni Novanta si è ipotizzato che lo sviluppo fosse fallito a causa della mancanza di democrazia.
Di conseguenza l’Africa è stata sottoposta a un vero e proprio “diktat democratico”.
Il risultato è stata la matematica elettorale, con il potere automaticamente assegnato
ai gruppi etnici più numerosi, che ho definito etno-matematica.
In Africa, dove la questione preliminare non è economica ma politica, gli esperimenti costituzionali importati sono quindi falliti. Non sono al passo con le realtà continentali, non permettono ovviamente ai diversi gruppi etnici che compongono gli Stati risultanti dalle divisioni coloniali di convivere in un’armonia sociale che integri le nozioni contraddittorie di unità di destino e di rispetto delle differenze.
Infatti, in Africa, l’autorità non è condivisa e l’idea di contropotere è sconosciuta.
In queste condizioni, gli Stati emersi dalla decolonizzazione non sono stati in grado di inventare uno strumento di rappresentazione o di associazione dei popoli minoritari.
Tolti dal potere, questi ultimi non hanno altra scelta che sottomettersi o ribellarsi.
Tra sottomissione o rivolta, nozioni che non sono molto portatrici del potenziale di fusione nazionale.
È per questo che i giovani Stati africani non sono stati in grado di trasformarsi in nazioni come avevano postulato gli ex colonizzatori.
Il fallimento era stato addirittura previsto e come avrebbe potuto essere altrimenti?
Costruiti entro confini artificiali che imprigionano popoli diversi senza un passato comune,
questi Stati non sono altro che gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali
che sono il fondamento delle vere radici. Inoltre, l’idea di nazione non è una realtà.
L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa, poiché in un caso l’ordine sociale è basato sugli individui e nell’altro sui gruppi.

Tuttavia, il principio europeo-americano di “un uomo, un voto”, vieta precisamente di prendere in considerazione la grande realtà politica africana costituita da gruppi (etnie, tribù, clan o stirpi).
La soluzione non è ovviamente economica e non comporta un nuovo e inutile aumento degli aiuti. Non è nemmeno sociale o sanitaria, perché l’auspicabile miglioramento delle condizioni di vita non affronta le cause del disastro.

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Onestà: Cosa ci guadagno?_di AURELIEN

Onestà: Cosa ci guadagno?
Prima di tutto, fare molto male.

AURELIEN
10 MAG 2023

Molto tempo fa, in un contesto politico e sociale molto lontano, stavo affrontando un brutale processo di selezione per individuare un gruppo di giovani idonei a concorrere per i Top Jobs nel settore pubblico del Regno Unito, ai tempi in cui esistevano i Top Jobs, in cui valeva la pena averli e in cui le persone che li ricoprivano erano degne di rispetto ed emulazione.

A un certo punto, sono stato intervistato da quel tipo di vecchio e saggio funzionario pubblico in pensione che non esiste più e che mi ha posto una serie di domande standard, una delle quali era: “Che cosa rende un buon funzionario pubblico? Ho dato una risposta altrettanto standard, se ricordo bene, elencando le ovvie qualità di competenza, neutralità, discrezione e una serie di altre cose che non sono più apprezzate.

“Non hai dimenticato una cosa?”, mi chiese con aria interrogativa. Devo aver avuto un’aria un po’ smarrita, perché ha subito aggiunto. “Intendo l’integrità”.

“Lo davo per scontato”, risposi: una risposta che, se all’epoca era perfettamente ragionevole, oggi sarebbe probabilmente accolta con derisione e incomprensione. Quella risposta non mi impedì di vincere il concorso (non che alla fine mi sia servita a qualcosa), ma la piccola vignetta mi ha accompagnato per tutta la vita, mentre assistevo, prima dall’interno e poi dall’esterno, alla distruzione del servizio pubblico nella maggior parte dei Paesi occidentali, e in particolare alla fine della presunzione che l’integrità sia la sua caratteristica fondamentale. (È per questo che la parola “servizio” è stata usata nel suo senso tradizionale, non nel senso moderno di prendere soldi dalle persone per rimuovere un ostacolo che avete messo sulla loro strada).

Naturalmente, il servizio pubblico di qualsiasi Paese è inserito in un contesto più ampio e dipende da movimenti politici più grandi. Sappiamo tutti quali sono stati, dopo l’abolizione della società da parte di una certa M. Thatcher, e non ha senso in questa sede lamentarsi ancora una volta della disastrosa caduta degli standard della vita pubblica nella maggior parte degli Stati occidentali, e della trasformazione del servizio pubblico in un’altra via per fare soldi. Voglio affrontare un punto piuttosto diverso e più interessante: cos’è che promuove l’onestà e l’integrità in primo luogo, e cos’è che la distrugge? La seconda è forse più facile da rispondere, ma la prima è più interessante, anche perché credo che la nostra società non capisca più il significato e l’importanza della domanda, e ancor meno la risposta. Ecco quindi un tentativo di spiegare la corruzione e la disonestà e perché sono diventate un grande problema nelle società occidentali.

Per iniziare, invochiamo di nuovo l’ombra di Max Weber. Weber scrisse notoriamente di “burocrazia”, codificando di fatto la moderna concezione di essa come sistema decisionale razionale, prevedibile e gerarchico. Per il nostro scopo, però, voglio concentrarmi su un aspetto particolare, quello dell’onestà. Weber disse molto chiaramente che il servizio pubblico è una “vocazione”. (Usava il termine tedesco Beruf). Egli distingueva molto chiaramente il servizio pubblico da “una fonte da sfruttare con rendite o emolumenti, come avveniva normalmente nel Medioevo” (e in seguito, si potrebbe aggiungere). La lealtà del funzionario non era verso un individuo, ma verso una funzione e verso valori culturali impersonali, e questa lealtà è ricompensata con la sicurezza del posto di lavoro, a differenza delle epoche precedenti in cui i favoriti potevano essere nominati e licenziati a piacimento del sovrano. C’è, almeno idealmente, una totale separazione tra gli interessi privati dell’individuo e le esigenze del lavoro, proprio come tra lo stipendio del funzionario e il denaro pubblico che potrebbe passare per le sue mani.

Come illustra Weber, non è sempre stato così. Tradizionalmente, individui ambiziosi (anche se non necessariamente talentuosi) si contendevano posti di lavoro lucrativi sotto il patrocinio del sovrano o di qualche figura subordinata. Così, dopo un sacco di intrighi e di leccapiedi, potreste ottenere il posto di Assistente del Controllore del Commercio in una città su un fiume, responsabile della riscossione dei dazi doganali. Poiché il vostro lavoro potrebbe scomparire la settimana successiva, fareste ogni sforzo per guadagnare il più possibile dalla vostra posizione, attraverso tangenti ed estorsioni. In sostanza, prima del XIX secolo, il governo era quasi completamente privatizzato: persino gli eserciti erano spesso ciò che oggi chiameremmo Compagnie Militari Private, con reggimenti che passavano dal servizio di un sovrano all’altro. Perché questo cambiamento? Ci sono innanzitutto una serie di ragioni puramente meccanicistiche. Una di queste è che la modernizzazione dello Stato richiedeva di fatto la sua professionalizzazione. La modernizzazione poteva essere frenata per un po’, come nella Francia pre-rivoluzionaria, ma alla fine gli Stati moderni avrebbero trionfato su quelli premoderni. Una seconda ragione fu l’ascesa al potere politico di una classe media liberale, che chiedeva leggi e procedure chiare e inequivocabili per regolare il commercio e una burocrazia onesta per farle rispettare. (C’è un’enorme ironia nascosta in questo sviluppo, su cui torneremo).

Ma la vera ragione, a mio avviso, è nascosta nella parola “vocazione”. Questa parola, che deriva dal latino vocare “chiamare”, è correlata a “vocale”, “vocabolario” e ad altre parole simili. In inglese moderno diremmo “calling”, che è una traduzione letterale. Ora, i sacerdoti di tutte le religioni si sono generalmente sentiti “chiamati” al sacerdozio, ma in alcune tradizioni il concetto ha anche una dimensione secolare. Soprattutto nella tradizione protestante, con la sua enfasi su un rapporto diretto e non mediato tra Dio e l’individuo, una “vocazione” era effettivamente un’istruzione da parte di Dio sul ruolo che dovevate svolgere in una società, e che avreste fatto bene a seguire. Weber ha erroneamente identificato questa vocazione protestante con l’ascesa del capitalismo: oggi diremmo che fu piuttosto la nuova classe mercantile a trovare favorevoli certi tipi di protestantesimo e ad adottarli, ma Weber aveva ragione a indicare una relazione tra le due cose.

Una vocazione è qualcosa che non si fa per denaro e da cui non ci si allontana. Promuove la serietà della vita e la dedizione a obiettivi che vanno oltre la propria prosperità e il proprio successo. Anche se la credenza nella religione formale cominciò a indebolirsi, queste abitudini mentali resistettero e divennero parte dell’arredamento intellettuale di molte società, soprattutto nel Nord Europa. Ma ci furono anche esempi paralleli. In Francia, ad esempio, la Repubblica, con la sua etica ferocemente laica, era l’equivalente di una vocazione religiosa e molti giovani brillanti seguivano la vocazione di insegnante, spesso una figura isolata e impopolare in un villaggio di campagna, perennemente in lotta con il curato locale, che predicava che l’istruzione era contro la volontà di Dio. All’altro capo del mondo, in Giappone, con la sua tradizione confuciana e il ritorno della capitale nella città imperiale di Edo (Tokyo), sembra essersi sviluppato un ethos simile. Ma che si tratti dei postumi della religione, della superiorità confuciana degli studiosi rispetto ai mercanti, del senso di servizio nei confronti di un re o di un imperatore, del disprezzo per il “commercio” o di una mezza dozzina di altre cose, una mentalità di servizio a un bene più grande, e in ultima analisi al pubblico, aveva preso piede in molti Paesi quando Weber scrisse il suo studio sulla burocrazia. È stato questo ethos – spesso vagamente monastico e leggermente puritano – a sostenere lo sviluppo economico e politico dell’Occidente. In modo piuttosto diverso, l’Unione Sovietica ha funzionato così bene solo grazie a una cultura molto forte di servizio (spesso non retribuito) al Partito, che ha iniziato a disintegrarsi verso la fine, a favore della corruzione e del carrierismo. Anche i Talebani, e in misura minore lo Stato Islamico, erano rispettati per la loro relativa onestà in un mare di corruzione.

In tutto questo, naturalmente, manca qualcosa: l’ego. Più precisamente, non si entrava nel servizio pubblico per diventare ricchi, potenti o famosi. La tradizione in molti Paesi era quella di essere piuttosto distaccati, di evitare di esprimere opinioni forti e di dare priorità al lavoro svolto rispetto a qualsiasi ricompensa personale. Il carrierismo palese tendeva a essere disapprovato. Per definizione, tutti i funzionari pubblici, tranne quelli più anziani, erano anonimi: il ministro poteva ricordarsi di ringraziare l’autore di un discorso particolarmente apprezzato, ad esempio, ma poteva anche non farlo. Sebbene esistano molte varianti, la ricerca della ricchezza, della fama e dello status da un lato, e la responsabilità di mandare avanti il Paese dall’altro, erano delimitate abbastanza chiaramente l’una dall’altra, a volte anche da leggi. Molto occasionalmente, venivano introdotte persone dall’esterno, il sistema di gabinetto continentale di consiglieri personali confondeva queste distinzioni ai vertici, e al momento del pensionamento gli alti funzionari potevano eventualmente andare a lavorare nel settore privato, ma si trattava di sfumature.

La caratteristica principale di queste organizzazioni, anche al di sopra della competenza e della buona gestione in generale, era l’integrità, senza la quale i governi non possono funzionare. Ma l’integrità era una cultura e non, criticamente, un insieme di regole. Ricordo di essere stato sorpreso, da giovane funzionario pubblico, dall’attenzione minima prestata ai controlli formali e alle misure anticorruzione. Ma in quasi tutti i casi si trattava di affrontare un problema che quasi non esisteva, in parte per motivi culturali e in parte per motivi pratici, sui quali tornerò. Nei decenni successivi si è assistito sia a un massiccio aumento dei controlli formali sia a una crescente tendenza alla corruzione, e nessuno si sorprenderà di sapere che il primo ha largamente preceduto il secondo.

La creazione e il mantenimento di un settore pubblico onesto è quindi una cosa misteriosa, che dipende in larga misura da concetti che ci sembrano obsoleti o addirittura reazionari: essi possono includere, a seconda dei casi, la solidarietà di gruppo, il rispetto per la tradizione, il rispetto per la gerarchia e l’esperienza, il servizio a un’ideologia politica, il disgusto per l’ambizione personale, l’identificazione con una causa superiore. Soprattutto, come sarà evidente, non hanno alcun legame con l’ideologia liberale che ha dominato il pensiero dell’ultima generazione, anzi sono antitetici a essa.

Rimaniamo su questo pensiero per un momento. Il liberalismo riguarda esclusivamente l’individuo: anche una società liberale riguarda una società di individui e il modo in cui bilanciare i loro interessi contrastanti. Il liberalismo è il perseguimento razionale dell’autonomia individuale e della libertà finanziaria, senza tener conto delle conseguenze per gli altri e con le sole limitazioni specificamente prescritte dalle leggi. Inoltre, il liberalismo considera lo Stato un fastidio e idealmente vorrebbe che le sue funzioni fossero ridotte al minimo assoluto di protezione della proprietà e di applicazione del diritto contrattuale. Questa ideologia non lascia spazio all’onestà come concetto, ma solo a un comportamento conforme alla lettera di un insieme di regole. Non si chiede Cosa devo fare, ma piuttosto Cosa posso fare? Come vedremo, non può promuovere e mantenere alcun comportamento moralmente onesto, se non attraverso la paura.

Eppure, si potrebbe obiettare, il liberalismo è stato una potente forza politica durante la creazione dello Stato moderno in Europa. Come poteva il liberalismo, con la sua etica di egoismo radicale, conciliarsi con l’idea di un apparato statale gestito sul principio dell’integrità e dell’identificazione con il bene collettivo? Credo che la risposta sia che si trattava di una questione di sopravvivenza. In Gran Bretagna, nonostante il potere delle idee liberali, l’élite politica stava subendo lo shock della concorrenza industriale tedesca e il disastro della guerra di Crimea. Era ovvio che quello che era essenzialmente uno Stato medievale, profondamente corrotto e irrimediabilmente inefficiente, doveva essere sostituito da uno Stato moderno se il Paese voleva sopravvivere e prosperare. I nostromi liberali sul governo limitato andavano bene, ma non quando mettevano a repentaglio la prosperità e il successo delle stesse classi liberali. Il risultato fu la riforma del Rapporto Northcote-Trevelyan del 1854, che creò il primo Servizio Civile moderno del mondo occidentale, le cui norme etiche e culturali non solo sono rimaste in vigore in Gran Bretagna fino agli anni ’80, ma hanno influenzato anche molti altri Paesi.

Iniziò così il paradosso essenziale della sopravvivenza di un settore pubblico onesto ed efficace in uno Stato liberale che apparentemente venerava solo il miglioramento finanziario e personale dell’individuo. Per generazioni, i politici e gli opinionisti liberali hanno inveito contro la “burocrazia”, pur aspettandosi che i loro affari fiscali, ad esempio, fossero gestiti in modo onesto e competente, che i loro contratti fossero applicati da giudici che risolvevano le questioni in modo spassionato e che le loro case fossero protette da un servizio di polizia che non prendeva tangenti. Questa ipocrisia organizzata, che tuttavia consentiva il funzionamento di un servizio pubblico onesto e competente, ha iniziato a crollare solo negli anni Ottanta. Inoltre, l’esperienza di due guerre aveva fatto emergere con forza stucchevole la necessità e i vantaggi di uno Stato moderno ed efficace, e sia la tradizione di servizio pubblico delle classi superiori, sia la paura del lavoro organizzato e della sinistra politica, rafforzarono l’idea che uno Stato moderno non fosse poi una cattiva idea, anche se svolgeva più funzioni di quelle che John Locke avrebbe necessariamente approvato. (Detto questo, cinquant’anni fa non sono sicuro che qualcuno avrebbe creduto che i politici potessero un giorno escogitare una tale marcia indietro forzata verso il Medioevo).

Il liberalismo è quindi bloccato da questo paradosso fondamentale: una filosofia politica di radicale individualismo ed egoismo può prosperare solo in una società gestita quotidianamente da persone che non accettano i principi liberali e che i liberali stessi disprezzano. I liberali non vogliono vivere in una società in cui l’ispettore delle tasse o il poliziotto si aspettano di essere pagati per fare il loro lavoro, ma il liberalismo stesso non contiene alcun argomento razionale sul perché queste persone dovrebbero essere oneste. Anzi, si potrebbe andare oltre, e dire che la disonestà e la corruzione dovrebbero essere tranquillamente riconosciute come caratteristiche principali e inevitabili di una società liberale, perché rappresentano ciò che accade quando gli individui decidono di perseguire razionalmente il proprio bene privato. Se sono un ispettore fiscale in una società liberale, allora è del tutto ragionevole e logico che io sfrutti questa situazione per ottenere tutti i vantaggi privati che posso. Non ha senso parlarmi del bene pubblico e della necessità di riscuotere le tasse in modo equo. Il liberalismo non riconosce il bene pubblico, se non come sintesi contestata dei beni privati, quindi rispondo: “Perché dovrei essere onesto? Cosa ci guadagno? E la risposta, ovviamente, è: niente. Tutto ciò che il liberalismo può fare è sventolare un libro di regole, scritto in gran parte per garantire la posizione delle classi proprietarie, e minacciare sanzioni se le infrango.

In una situazione del genere, l’onestà e l’integrità diventano questioni tecniche di conformità, piuttosto che imperativi culturali e morali. Nella vita vige la buona regola che se si deve guardare in qualche libro di regolamenti per scoprire se si è autorizzati a fare qualcosa, allora probabilmente non si dovrebbe farlo. È chiaro che ci sono occasioni in cui le regole sono importanti e in cui i dettagli sono importanti. Ma su questioni importanti, le società e le organizzazioni funzionano solo perché le persone rispettano le norme culturali e morali sottostanti. “Qui non si fa” è un divieto molto più forte di “questo è vietato dal paragrafo 24, sezione vii di questo libro”. Quindi, se ad esempio ho una posizione di fiducia (!) nel settore pubblico, le regole possono vietarmi di possedere azioni di qualsiasi società con la quale la mia organizzazione intrattiene rapporti. È giusto che io obbedisca a questa regola. Ma le regole non dicono nulla sul fatto che il mio coniuge possa possedere tali azioni, quindi ovviamente va bene così e mi sto comportando onestamente, perché sto seguendo le regole.

In definitiva, l’ossessione liberale per le regole e i documenti scritti che disciplinano il comportamento è una conseguenza di questo paradosso fondamentale. Il liberalismo parte dal presupposto che le persone siano egoiste, ma tratta i vincoli sociali, politici o religiosi sul comportamento come reliquie antiquate da buttare via. Per garantire un buon comportamento, che ovviamente protegge coloro che traggono i maggiori benefici da un sistema liberale, non c’è altro che la minaccia di una punizione, per cui ci si sforza molto di decidere esattamente cosa è permesso e cosa non lo è, per poi pronunciarsi su questioni tecniche in diversi casi. Questi sforzi falliscono inevitabilmente e, anzi, hanno più probabilità di produrre cattivi comportamenti di quanto non facciano le semplici ingiunzioni morali. Le ragioni sono interessanti e hanno a che fare con l’incapacità dei sistemi complessi di descriversi completamente. A questo proposito, è utile ricordare il Teorema di Incompletezza di Kurt Godel, che dimostra che, per qualsiasi insieme coerente di assiomi matematici, esistono proposizioni che non possono essere dimostrate o confutate all’interno del sistema. Per estensione, nel caso di un libro di regole, ciò significa che nessuna regola, per quanto lunga e dettagliata, può coprire tutte le possibili eventualità. In realtà, più lunghe e complesse sono le regole, maggiore sarà il numero di potenziali conflitti tra di esse. Ciò significa che il tradizionale approccio liberale agli illeciti – aumentare il numero e la complessità delle regole – in realtà peggiora la situazione. Con l’aumento del numero di norme e delle interazioni, aumenta anche il numero di possibili scuse e ambiguità. Molto bene, il paragrafo 24, sezione vii, può dire questo, ma deve essere letto insieme, sicuramente, al paragrafo 158, sezione xiv, che, se preso nel contesto in cui è stato ovviamente inteso, non esclude definitivamente, direi, che io accetti quella vacanza all’estero da una banca che regolo, o almeno permette un margine in cui la discrezionalità è sicuramente possibile.

È questo passaggio da “Cosa dovrei fare?” a “Cosa mi permettono di fare le regole scritte?” la causa fondamentale del crollo dell’integrità e dell’onestà nei sistemi politici occidentali. Il noto paradosso secondo cui ciò che è legale non è necessariamente morale, e ciò che è morale non è necessariamente legale, è stato dimenticato, e le due cose sono state completamente confuse, a vantaggio della stretta legalità. Pochi episodi recenti lo hanno dimostrato meglio della tragicommedia malata del comportamento di Boris Johnson durante il blocco di Covid, e ancor più dei suoi successivi tentativi di giustificarsi, insistendo non sul fatto che fosse moralmente giusto (dato che sembra non avere alcuna concezione della moralità), ma che, secondo alcune interpretazioni, non aveva effettivamente violato le disposizioni specifiche di alcune istruzioni. A quel punto, si può dire che l’integrità pubblica era sostanzialmente morta.

Stando così le cose, ci si aspetterebbe che le istituzioni liberali si avvicinassero alla corruzione e all’integrità con un po’ di circospezione: dopo tutto, hanno davvero intenzione di criticare un comportamento economico razionale? Sì, lo fanno, e a lungo e con grande ferocia. La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’OCSE e molti altri fanno delle misure “anticorruzione” una delle principali caratteristiche delle loro politiche verso il Sud globale, e fanno a gara per enfatizzare i danni economici e la distruzione che la corruzione dovrebbe causare. (Fortunatamente, uno studio recente dimostra che la maggior parte delle cifre sbandierate sono poco fondate, se non addirittura inventate). Insistendo sulla centralità della corruzione, naturalmente, le istituzioni liberali acquisiscono potere e influenza sulle aree più sensibili dei governi dei Paesi più poveri. Di conseguenza, una grande quantità di denaro viene destinata a misure “anticorruzione”, formazione, leggi, strategie, codici di condotta, workshop e quadri normativi. L’aspetto interessante, però, è che l'”anticorruzione” o anche l'”integrità” sono percepite in termini liberali come l’obbedienza a regole scritte. L’assunto di partenza è che gli esseri umani sono individui razionali, che massimizzano l’utilità e che quindi saranno disonesti quando gli conviene. Così si crea l'”integrità”, definita come la pratica di seguire fedelmente regole di comportamento dettagliate, minacciando le persone di indagini e azioni penali se deviano da queste regole. Si presume quindi che le persone decidano razionalmente di essere oneste, perché i pericoli dell’essere disonesti sono sproporzionatamente grandi.

Naturalmente questo non funziona, come saprebbe chiunque abbia cinque minuti di esperienza di vita reale, e quando non funziona il rimedio è sempre lo stesso: più leggi, più controlli, pene più severe. (Va aggiunto, per correttezza, che la politica cinese di giustiziare gli uomini d’affari corrotti potrebbe essere degna di studio e forse anche di emulazione altrove). E a volte il fallimento crea situazioni quasi troppo surreali per essere colte. Molta corruzione nei Paesi del Sud globale esiste perché le persone che lavorano per lo Stato non sono pagate adeguatamente, o addirittura non lo sono affatto, e ci si aspetta che integrino il loro reddito con altre fonti. Ho avuto conversazioni con più di un poliziotto africano appena tornato da un corso “anticorruzione” a Ottawa o a Stoccolma, con le spese pagate e una generosa diaria (e questo è uno dei motivi per cui la partecipazione a tali corsi è così popolare), con lezioni morali sull’essere buoni e con l’insegnamento di come indagare e arrestare i suoi colleghi, altrettanto non pagati.

Quindi ci arrendiamo, vero? Accettiamo che il liberalismo abbia distrutto le numerose e varie forme di controllo sociale che un tempo servivano a limitare la corruzione e a promuovere l’onestà e l’integrità? Beh, non possiamo tornare indietro e annullare i danni che il liberismo ha fatto, ma ci sono alcune cose che possiamo fare per alleviare, e forse anche invertire, il problema, a patto che partiamo dalla realtà di come funzionano le organizzazioni e di come si comportano le persone. Vorrei suggerire tre possibilità.

La prima consiste semplicemente nell’eliminare le opportunità di disonestà: Prevenzione della corruzione situazionale, come la chiamo io. Weber, come ricorderete, sottolineava che il burocrate non aveva alcun interesse finanziario nel suo lavoro. Da un po’ di tempo a questa parte, questo non è più vero e la cultura dei bonus, delle retribuzioni di risultato e delle indennità speciali si è insinuata nel settore pubblico di molti Paesi, creando incentivi perversi e tentando persone fondamentalmente oneste a diventare disoneste, spesso con piccoli passi che non si notano. Se, ad esempio, siete un ispettore fiscale che riceve un bonus per il numero di dichiarazioni dei redditi che esamina, farete prima quelle più facili e probabilmente lascerete passare comunque le dichiarazioni dei redditi disoneste, perché il tempo speso per interrogarle riduce il vostro reddito. O forse lavorate al Ministero del Commercio e avete frequenti incontri con i vostri colleghi in altri Paesi. In passato, siete stati disposti a rinunciare a un po’ di tempo nei fine settimana per viaggiare, in modo da avere il massimo tempo in ufficio durante la settimana lavorativa. Ma poi il vostro governo, nella sua magnanimità, decide che, al posto di un aumento di stipendio, i viaggi nei fine settimana riceveranno un’indennità speciale. Per quanto siate onesti, comincerete a pensare che è meglio organizzare le riunioni il lunedì, perché è meno tempo lontano dall’ufficio. E prima che ve ne rendiate conto, organizzerete il maggior numero possibile di riunioni di lunedì. In fondo, non state infrangendo nessuna regola, no? Oppure lavorate in un ufficio acquisti e le regole per non accettare ospitalità sono meno rigide. Ma nessuno sa bene quali siano i limiti. Quindi sì, potete accettare il pranzo. Ma la cena? Cena e ricevimento con il vostro coniuge? Cena, ricevimento e notte in albergo? E un taxi per tornare a casa? Nessuno sembra saperlo, e nessuno è sicuro di cosa significhino esattamente le regole nella pratica, perché sono sempre redatte da persone che non devono viverle. Solo quando uno dei tuoi contatti, davanti a un whisky a tarda notte, ti chiede se puoi fargli un piccolo favore, ti rendi conto che improvvisamente non dovrei farlo. Ma è troppo tardi: avete dimenticato che tutto ciò che vi permette di aumentare il vostro reddito manipolando il modo in cui svolgete il vostro lavoro, porta a opportunità di corruzione.

Il secondo è mantenere le cose semplici. Un esempio ovvio è quello delle spese di viaggio, una delle rovina della vita in qualsiasi grande organizzazione. Una generazione fa, tutti i governi e le organizzazioni internazionali di cui ero a conoscenza avevano un sistema semplice: ecco una somma di denaro che dovrebbe coprire le spese. Portatela via e spendetela, e non tornate indietro a meno che non vogliate essere rimborsati per qualche costo speciale che dovete giustificare. In alcuni Paesi il denaro veniva pagato in anticipo, in altri veniva pagato dopo. Il sistema presentava evidenti vantaggi. In primo luogo, era semplice e veloce da utilizzare: spesso non c’era molto di più che firmare un modulo: niente ricevute, niente domande su cosa fosse esattamente incluso. In secondo luogo, cosa fondamentale, era praticamente impossibile essere disonesti con questo sistema. E terzo, e forse più importante, si basava sulla fiducia e sul trattamento delle persone come individui responsabili, non come potenziali criminali le cui attività dovevano essere controllate.

In alcuni Paesi e organizzazioni questo processo sembra essere continuato, almeno in parte. In altri, invece, è caduto vittima dell’eccessiva microgestione del liberalismo e della sua ossessiva convinzione che più un sistema è elaborato e complesso, meglio è. Ricordo una conversazione di qualche anno fa con una persona ancora inserita nel sistema, che si è svolta sulla falsariga di quanto segue. “Prima avevamo il vecchio sistema, poi sono passati al rimborso delle spese alberghiere effettive. Ma naturalmente la gente ha iniziato a soggiornare in alberghi più costosi, così hanno introdotto tariffe indicative che non sembravano basarsi su nulla, e si doveva giustificare il fatto di soggiornare in un posto più costoso. E poi hanno iniziato a discutere se si potessero richiedere i costi di lavaggio a secco e cose come il check-out tardivo se si aveva un volo notturno. Poi si doveva giustificare un upgrade della camera, anche se offerto gratuitamente. Poi hanno iniziato a richiedere le ricevute per i singoli pasti, il che costituiva un problema se si era a cena prima di una riunione con colleghi di altri Paesi, che avevano tutti regole diverse in materia di spese. Poi hanno cercato di imporre dei limiti a quanto si poteva spendere per ogni pasto e non era consentito chiedere il rimborso delle mance. Insomma, siete mai stati in un ristorante di Washington? Oh, e potevi ordinare alcolici con il tuo pasto, ma non potevi chiederne il rimborso, il che va bene finché non hai un cameriere in Montenegro che non parla inglese e ti dà un conto scritto a mano per il totale. Cosa dovresti fare, cercare di capire quanto è costato il tuo bicchiere di vino e sottrarlo?”.

E così via. Paradossalmente, questo livello di stupidità e di cattiva gestione aumenta il rischio di corruzione. In parte perché provoca risentimento e amarezza, soprattutto nelle persone impegnate che cercano solo di portare a termine il lavoro. Sorprendentemente, spesso la corruzione nasce dal desiderio di vendetta nei confronti di un sistema che non vi capisce e non vi apprezza. Quindi, perché dovreste apprezzarli? Tiri fuori le tasche e trovi la ricevuta del taxi in bianco che di solito viene rilasciata dai tassisti analfabeti di Washington. Quanto è costato? Era ieri o l’altro ieri? L’avete dimenticato. In ogni caso non era un granché, quindi di solito si potrebbe lasciar perdere. Ma i sadici burocrati di casa cercano sempre di imbrogliarvi. Così alla fine inserisci una cifra consistente. Dopo tutto, nessuno potrà mai saperlo. In parte questo è dovuto anche al fatto che nelle organizzazioni le persone crescono per assomigliare all’immagine di sé che l’organizzazione proietta loro. Le campagne anticorruzione sono un messaggio subliminale che indica che siete disonesti, così come i controlli finanziari scrupolosi sono un messaggio subliminale che non ci si può fidare di voi. Dite a qualcuno abbastanza spesso che non ci si può fidare di lui e, ecco, sarà meno affidabile.

Il terzo è tornare a osservare rigorosamente la distinzione assoluta tra pubblico e privato che Weber riteneva giustamente così importante. Non ci si può aspettare che un uomo d’affari di alto livello abbia gli stessi principi etici di chi è attratto dal servizio pubblico, e le organizzazioni in generale obbediscono a una versione della legge di Gresham: le cattive pratiche scacciano quasi sempre quelle buone, e più alto è il livello in cui si trovano le cattive pratiche, peggiore sarà il risultato. Si potrebbe sostenere che il sistema statunitense, dove tutto è politicizzato e tutto e tutti sono in vendita, ha almeno il merito della chiarezza. Nessuno si aspetta che il proprio governo sia onesto. Ma in Paesi come la Gran Bretagna, la finzione dell’integrità è stata mantenuta, mentre la realtà è stata minata. Questo è vero soprattutto per i giovani imprenditori politici con una laurea in scienze politiche, qualche stage e un lavoro di ricerca che improvvisamente ottengono un posto nello staff di un ministro. Questa persona potrebbe trovarsi senza lavoro nel giro di pochi mesi o di un anno con il prossimo rimpasto, e l’unica merce che ha da vendere è la sua esperienza e i nomi della sua rubrica. Agire con integrità non li aiuterà ad ottenere un lavoro di lusso in una società di consulenza per l’outsourcing.

La regola di base del cambiamento organizzativo è che è molto più facile demolire e distruggere che creare qualcosa di migliore, o anche solo di altrettanto buono. Ci è voluta forse una generazione perché il sistema britannico, allora famoso per la sua corruzione e incompetenza, venisse ricostruito in modo adeguato e i cambiamenti venissero introdotti, e un’altra o due generazioni perché venisse ammirato in tutto il mondo. Ma questo avveniva in una società diversa, e la velocità con cui è stato fatto a pezzi in seguito è stata spaventosa. L’unica nota debolmente positiva che mi viene in mente per concludere è che, per come sta andando il mondo, anche l’uomo d’affari o l’opinionista neoliberista più accanito si renderà conto che i Paesi del mondo hanno bisogno di Stati onesti e competenti, e che non si ottiene questo risultato urlando alla gente di essere onesti, mentre si creano sistemi che incoraggiano il contrario. Forse il senso di emergenza generato dall’Ucraina, da Covid, dal cambiamento climatico e da altri fenomeni produrrà lo stesso tipo di shock che si verificò in Gran Bretagna quasi due secoli fa. Se così fosse, potremmo dover aspettare anche solo cinquant’anni prima che uno Stato onesto prenda nuovamente forma.

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Il grande errore dell’Ucraina, di Natylie Baldwin

Il grande errore dell’Ucraina

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Articolo di notevole interesse riguardo alle dinamiche e allo stato attuale della condizione politico-sociale dell’Ucraina, al netto però di alcune affermazioni di carattere generale a mio avviso fuorvianti. In particolare l’attribuzione della responsabilità di fondo della attuale condizione alla scelta del “capitalismo”.  Come dovrebbe essere ormai evidente, il capitalismo è una forma di rapporto sociale di produzione assolutamente predominante ed ormai presente nei vari angoli del globo terrestre, sia nelle aree sviluppate che in quelle depresse. Può essere una delle cause generali delle varie polarizzazioni che caratterizzano le dinamiche sociopolitiche, ma non delle particolari dinamiche di singole formazioni sociali. Tant’è che lo stesso autore riconosce le condizioni similari di partenza delle due formazioni in conflitto emerse dall’implosione della Unione Sovietica, in realtà più favorevoli economicamente alla Ucraina rispetto alla Russia, la stessa drammatica condizione di crisi negli anni ’90 e l’esito finale opposto di questa crisi. Evidentemente i fattori che hanno determinato questo esito opposto sono altri, molto più legati alle condizioni particolari, economiche e soprattutto politiche, dei due paesi. Di fatto, è lo stesso autore a riconoscerlo. Se questo riconoscimento è utile ed opportuno alla comprensione delle cause, non è assolutamente sufficiente a consentire l’individuazione dei soggetti, dei mezzi e degli obbiettivi di fondo necessari a sovvertire la situazione in Ucraina, a cominciare dal proletariato organizzato. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Dalla criminalità durante la Perestrojka alle privatizzazioni, fino al problema dell’appellativo di “guerra imperialista” della Russia, Natylie Baldwin discute un’ampia gamma di argomenti con l’autore di La catastrofe del capitalismo ucraino.

Khreshchatyk Street in winter, Kiev, 2009. (Mstyslav Chernov, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

By Natylie Baldwin
Covert Action

Renfrey Clarke è un giornalista australiano. Negli anni ’90 ha lavorato da Mosca per il Green Left Weekly di Sydney. È autore di The Catastrophe of Ukrainian Capitalism: How Privatisation Dispossessed & Impoverished the Ukrainian People, pubblicato da Resistance Books nel 2022. Ecco la mia recente intervista con lui.

Natylie Baldwin: All’inizio del suo libro lei sottolinea che nel 2018 l’economia ucraina è diminuita in modo significativo rispetto alla posizione raggiunta alla fine dell’era sovietica nel 1990. Può spiegare quali erano le prospettive dell’Ucraina nel 1990? E come apparivano poco prima dell’invasione della Russia?

Renfrey Clarke: Durante le ricerche per questo libro ho trovato uno studio della Deutsche Bank del 1992 che sosteneva che, tra tutti i Paesi in cui l’URSS era appena stata divisa, era l’Ucraina ad avere le migliori prospettive di successo. Alla maggior parte degli osservatori occidentali, all’epoca, ciò sarebbe sembrato indiscutibile.

L’Ucraina era stata una delle parti più industrialmente sviluppate dell’Unione Sovietica. Era tra i centri chiave della metallurgia sovietica, dell’industria spaziale e della produzione di aerei. Aveva alcuni dei terreni agricoli più ricchi del mondo e la sua popolazione era ben istruita anche per gli standard dell’Europa occidentale.

Aggiungendo le privatizzazioni e il libero mercato, si pensava che nel giro di pochi anni l’Ucraina sarebbe stata una potenza economica e la sua popolazione avrebbe goduto di livelli di benessere da primo mondo.

Nel 2021, l’ultimo anno prima dell'”Operazione militare speciale” della Russia, il quadro dell’Ucraina era fondamentalmente diverso. Il Paese era stato drasticamente de-sviluppato, con grandi industrie avanzate (aerospaziale, automobilistica, navale) sostanzialmente chiuse.

I dati della Banca Mondiale mostrano che, in dollari costanti, il Prodotto Interno Lordo dell’Ucraina nel 2021 è diminuito del 38% rispetto al livello del 1990. Se utilizziamo la misura più caritatevole, il PIL pro capite a parità di prezzo d’acquisto, il calo è stato ancora del 21%. Quest’ultima cifra si confronta con un aumento corrispondente per il mondo nel suo complesso del 75%.

Per fare alcuni confronti internazionali specifici, nel 2021 il PIL pro capite dell’Ucraina era all’incirca uguale a quello di Paraguay, Guatemala e Indonesia.

Cosa è andato storto? Gli analisti occidentali tendono a concentrarsi sugli effetti dei retaggi dell’era sovietica e, in tempi più recenti, sull’impatto delle politiche e delle azioni russe. Il mio libro riprende questi fattori, ma mi sembra ovvio che siano in gioco questioni molto più profonde.

A mio avviso, le ragioni ultime della catastrofe ucraina risiedono nel sistema capitalistico stesso e, in particolare, nei ruoli e nelle funzioni economiche che il “centro” del mondo capitalistico sviluppato impone alla periferia meno sviluppata del sistema.

Semplicemente, per l’Ucraina prendere la “strada del capitalismo” è stata una scelta sbagliata.

Baldwin: Sembra che l’Ucraina abbia attraversato un processo simile a quello avvenuto in Russia negli anni ’90, quando un gruppo di oligarchi è emerso per controllare gran parte della ricchezza e dei beni del Paese. Può descrivere come si è svolto questo processo?

Clarke: Come strato sociale, l’oligarchia sia in Ucraina che in Russia ha le sue origini nella società sovietica dell’ultimo periodo della perestrojka, a partire dal 1988 circa. A mio avviso, l’oligarchia è nata dalla fusione di tre correnti più o meno distinte che, negli ultimi anni della perestrojka, erano tutte riuscite ad accumulare ingenti capitali privati. Queste correnti erano gli alti dirigenti delle grandi imprese statali, le figure statali ben posizionate, tra cui politici, burocrati, giudici e procuratori, e infine la malavita, la mafia.

Una legge del 1988 sulle cooperative ha permesso ai singoli di formare e gestire piccole imprese private. Molte strutture di questo tipo, solo nominalmente cooperative, sono state prontamente create da alti dirigenti di grandi imprese statali, che le hanno utilizzate per stivare i fondi sottratti illecitamente alle finanze aziendali. Quando l’Ucraina divenne indipendente nel 1991, molte figure di spicco delle imprese statali erano anche importanti capitalisti privati.

I nuovi proprietari di capitale avevano bisogno di politici che facessero leggi a loro favore e di burocrati che prendessero decisioni amministrative a loro vantaggio. I capitalisti avevano anche bisogno di giudici che si pronunciassero a loro favore in caso di controversie e di pubblici ministeri che chiudessero un occhio quando, come accadeva di frequente, gli imprenditori operavano al di fuori della legge. Per svolgere tutti questi servizi, i politici e i funzionari si facevano pagare le tangenti, che consentivano loro di accumulare il proprio capitale e, in molti casi, di fondare le proprie imprese.

Infine, c’erano le reti criminali che avevano sempre operato all’interno della società sovietica, ma che ora vedevano moltiplicate le loro prospettive. Negli ultimi anni dell’URSS, lo stato di diritto divenne debole o inesistente. Questo creò enormi opportunità non solo per i furti e le frodi, ma anche per gli uomini di scorta criminali. Se eravate un operatore commerciale e dovevate far rispettare un contratto, il modo in cui lo facevate era assumere un gruppo di “giovani con il collo grosso”.

Per rimanere in affari, le aziende private avevano bisogno del loro “tetto”, i racket di protezione che le avrebbero difese dagli artisti della truffa rivali – per una quota maggiore dei profitti dell’impresa. A volte il “tetto” veniva fornito dalla polizia stessa, dietro adeguato compenso.

Questa attività criminale non produceva nulla e soffocava gli investimenti produttivi. Ma era enormemente redditizia e ha dato il via a più di qualche impero commerciale post-sovietico. Il magnate dell’acciaio Rinat Akhmetov, per molti anni il più ricco oligarca ucraino, era il figlio di un minatore che aveva iniziato la sua carriera come luogotenente di un boss della criminalità di Donetsk.

“Questa attività criminale non ha prodotto nulla e ha soffocato gli investimenti produttivi. Ma… ha dato il via a più di qualche impero commerciale post-sovietico”.

Nel giro di pochi anni, a partire dalla fine degli anni ’80, i vari flussi di attività corrotta e criminale iniziarono a fondersi in clan oligarchici incentrati su particolari città e settori economici. Quando negli anni Novanta le imprese statali iniziarono a essere privatizzate, furono questi clan a finire generalmente con i beni.

Dovrei dire qualcosa sulla cultura imprenditoriale nata negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, che oggi in Ucraina rimane nettamente diversa da quella occidentale.

Firma dell’accordo per la creazione della Comunità degli Stati Indipendenti l’8 dicembre 1991. Il Presidente ucraino Leonid Kravchuk è seduto, secondo da sinistra. (Archivio RIA Novosti, U. Ivanov, CC-BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Pochi dei nuovi dirigenti d’azienda sapevano molto di come avrebbe dovuto funzionare il capitalismo, e le lezioni dei testi delle scuole di economia erano per lo più inutili in ogni caso. Ci si arricchiva pagando tangenti per attingere alle entrate statali, oppure mettendo all’angolo e liquidando il valore creato nel passato sovietico. La proprietà dei beni era estremamente insicura: non si sapeva mai quando si arrivava in ufficio e lo si trovava pieno di guardie di sicurezza armate di un rivale in affari, che aveva corrotto un giudice per permettere un’acquisizione. In queste circostanze, l’investimento produttivo era un comportamento irrazionale.

Baldwin: Ho sentito dire che una fonte di opposizione alla decentralizzazione politica – che sembrerebbe essere stata una possibile soluzione alle divisioni dell’Ucraina prima della guerra – è che la centralizzazione avvantaggia gli oligarchi. Pensa che sia vero?

Clarke: Non c’è una risposta semplice. Dal punto di vista politico e amministrativo, l’Ucraina dall’indipendenza è uno Stato relativamente centralizzato. I governatori delle province non vengono eletti, ma nominati da Kiev. Questo ha rispecchiato i timori di Kiev per l’insorgere di tendenze separatiste nelle regioni. In questo caso, ovviamente, dobbiamo pensare al Donbass.

Nonostante sia centralizzata, la macchina statale ucraina è piuttosto debole. Gran parte del potere reale risiede nei clan oligarchici a base regionale. A differenza di quanto accade in Russia e Bielorussia, nessun singolo individuo o gruppo oligarchico è stato in grado di raggiungere un dominio ineguagliabile e di limitare il potere dei magnati dell’economia, cronicamente in guerra tra loro. L’Ucraina non ha mai avuto il suo [presidente russo] Putin o [presidente bielorusso] Lukashenko.

Vladimir Putin, left, and Alexander Lukashenko, during a friendly ice hockey match, Feb. 7, 2020. (President of Russia)

Il sistema ucraino può quindi essere descritto come un pluralismo oligarchico altamente fluido, con il controllo del governo di Kiev che si sposta periodicamente tra raggruppamenti instabili di individui e clan. Nel complesso, gli oligarchi nel corso dei decenni sembrano essersi accontentati di questa situazione, poiché ha impedito l’ascesa di un’autorità centrale in grado di disciplinarli e di ridurre le loro prerogative.

Baldwin: Lei parla di come la separazione economica forzata tra Ucraina e Russia sia stata dannosa per l’economia ucraina. Può spiegare perché?

Clarke: Sotto la pianificazione centrale sovietica, Russia e Ucraina formavano un’unica distesa economica e le imprese erano spesso strettamente integrate con i clienti e i fornitori dell’altra repubblica. In effetti, la pianificazione sovietica aveva spesso previsto un solo fornitore di un particolare bene in un’intera area dell’URSS, il che significava che il commercio transfrontaliero era essenziale per non interrompere intere catene di produzione.

Comprensibilmente, la Russia rimase di gran lunga il principale partner commerciale dell’Ucraina durante i primi decenni dell’indipendenza ucraina. Nonostante problemi come l’irregolarità dei tassi di cambio delle valute, questo commercio presentava notevoli vantaggi. Le barriere doganali erano assenti e gli standard tecnici, ereditati dall’URSS, erano per lo più identici. I modi di fare affari erano familiari e le trattative potevano essere condotte comodamente in russo.

Forse il fattore più importante è un altro: i due Paesi si trovavano a livelli di sviluppo tecnologico sostanzialmente simili. La produttività del lavoro non differiva di molto. Nessuna delle due parti rischiava di vedere interi settori industriali spazzati via da concorrenti più sofisticati con sede nell’altro Paese.

Ciononostante, uno dei truismi del discorso liberale, sia in Ucraina che nei commenti occidentali, era che gli stretti legami economici con la Russia stavano frenando l’Ucraina. Si diceva che fosse urgente che l’Ucraina voltasse le spalle alla Russia, identificata con il passato sovietico, e si aprisse all’Occidente. In questo scenario, il commercio dell’Ucraina con la Russia doveva essere sostituito da un “libero scambio profondo e completo” con l’Unione Europea.

“Uno dei truismi del discorso liberale, sia in Ucraina che nei commenti occidentali, era che gli stretti legami economici con la Russia stavano frenando l’Ucraina”.

Questa controversia ha avuto ampie ramificazioni ideologiche, politiche e persino militari. In breve, nel 2014 l’opposizione all’interno dell’Ucraina è stata superata ed è stato firmato un accordo di associazione con l’UE. Nel 2016 gli scambi commerciali tra l’Ucraina e la Russia si erano ridotti drasticamente, al punto da essere di gran lunga inferiori a quelli con l’UE.

Il passaggio all’integrazione con l’Occidente, tuttavia, non ha portato all’Ucraina l’impennata di crescita economica promessa. Dopo un grave crollo all’indomani degli eventi di Maidan del 2014, il PIL ucraino ha registrato solo una debole ripresa tra il 2016 e il 2021. Nel frattempo, la bilancia commerciale del Paese con l’UE è rimasta fortemente negativa. L’integrazione con l’Occidente stava facendo molto più bene all’Occidente che all’Ucraina.

Pro-EU protesters in Kiev, December 2013. (Ilya, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Baldwin: Lei ha fatto un commento interessante sui liberali filo-occidentali sia in Russia che in Ucraina (compresi i manifestanti/sostenitori di Maidan): “Come le loro controparti in Russia, i membri di questi strati medi “occidentalizzanti” tendono a essere ingenui sulle realtà della società occidentale e su ciò che l’incorporazione nelle strutture economiche del mondo sviluppato significa in pratica per i Paesi le cui economie sono molto più povere e primitive”. (p. 9). Può descrivere gli effetti reali delle politiche scaturite dal Maidan e dalla firma dell’Accordo di associazione all’UE? Sembra un caso di “attenzione a ciò che si desidera”.

Clarke: Se volete spezzare il cuore dell’intellighenzia liberale ucraina, ricordate loro che la crescita economica nell’Unione Europea è stagnante e le società europee in crisi.

L’Ucraina ha ora un accordo di integrazione economica con l’UE, che consente ampie aree di libero scambio. Ma l’Ucraina non è integrata nel capitalismo europeo come parte del “nucleo” del sistema ad alta produttività e salari elevati. Dopotutto, perché i Paesi dell’UE dovrebbero volersi dare un concorrente in più?

Presentation of the EU membership questionnaire on April 8, 2022, by the European Commission President Ursula von der Leyen and Ukraine’s President Volodymyr Zelensky. (President.gov.ua, CC BY 4.0, Wikimedia Commons)

Presentazione del questionario di adesione all’UE l’8 aprile 2022, da parte della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e del Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky. (President.gov.ua, CC BY 4.0, Wikimedia Commons)

Il ruolo assegnato all’Ucraina è invece quello di mercato per le manifatture occidentali avanzate e di fornitore all’UE di beni generici a tecnologia relativamente bassa, come le billette d’acciaio e i prodotti chimici di base. Si tratta di beni a basso profitto che i produttori occidentali tendono ad abbandonare in ogni caso, soprattutto perché le industrie interessate possono essere altamente inquinanti.

In epoca sovietica, come ho spiegato, l’Ucraina era un centro di produzione sofisticato, a volte di livello mondiale. Ma nel caos della privatizzazione, i livelli di investimento sono crollati, l’innovazione è praticamente cessata e i prodotti sono diventati poco competitivi nei mercati del mondo sviluppato. Nei sogni dei teorici liberali, i capitalisti stranieri avrebbero dovuto attraversare il confine, acquistare le imprese industriali in rovina, riattrezzarle e, sulla base dei bassi salari, realizzare interessanti profitti dalle esportazioni in Occidente. Ma l’Ucraina aveva un’economia criminalizzata gestita da oligarchi. Piuttosto che nuotare con gli squali, i potenziali investitori stranieri hanno scelto in larga misura di starne alla larga.

Si prevedeva che l’abbattimento delle tariffe d’importazione dell’UE avrebbe ribaltato la situazione, rendendo irresistibili le attrattive degli investimenti in Ucraina per i capitali occidentali. Nel frattempo, gli investitori stranieri avrebbero dovuto superare la concorrenza degli oligarchi e imporre riforme alla macchina statale corrotta e ostile alle imprese.

Ma nulla di tutto ciò è realmente accaduto. Gli investimenti stranieri sono rimasti esigui. Allo stesso tempo, il libero scambio con l’UE ha fatto sì che i produttori occidentali, con una produttività più elevata e una gamma di offerte più attraenti, siano stati in grado di conquistare ampie fette del mercato interno ucraino e di far fallire i produttori locali.

A titolo di esempio, potrei citare l’industria automobilistica ucraina. Nel 2008 il Paese ha prodotto più di 400.000 autoveicoli. L’ultimo anno di produzione importante è stato il 2014. Poi, nel 2018, una riduzione delle tariffe ha portato a un enorme aumento delle importazioni di auto usate dall’UE e la produzione di autovetture in Ucraina è di fatto cessata.

Autobus urbano Bogdan di produzione ucraina a Lviv, Ucraina, 2010. (Anatoliy-024, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Baldwin: Su una nota correlata, non posso fare a meno di osservare che l’Ucraina sembra essere caduta vittima di politiche corporative neoliberali che avvantaggiano le potenze esterne più potenti – il tipo di politiche che un tempo erano criticate e contrastate dal movimento anti-globalizzazione degli anni Novanta. La sinistra riconosceva queste politiche economiche, quando venivano imposte ai Paesi più deboli, come una forma di neocolonialismo. Ora sembra che la sinistra – almeno negli Stati Uniti – si sia ridotta a un capriccio spaventato ossessionato da una forma caricaturale di politica identitaria e a rigurgitare l’ultima propaganda bellica. Secondo lei, cosa è successo alla sinistra?

Clarke: A mio avviso, la maggior parte dei settori della sinistra occidentale non è riuscita a dare una risposta adeguata alla guerra in Ucraina. Fondamentalmente, vedo il problema come radicato nell’adattamento agli atteggiamenti e alle abitudini di pensiero liberali e nell’incapacità di educare un’intera generazione di attivisti alle tradizioni distintive, comprese quelle intellettuali, del movimento di lotta di classe.

Stand With Ukraine, protesta a Londra, 26 febbraio. (Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles, Flickr, CC BY-NC-ND 2.0)

Oggi, molti membri della sinistra semplicemente non hanno l’attrezzatura metodologica per comprendere la questione ucraina – che è, a dire il vero, diabolicamente complessa. Qui vorrei fare due osservazioni. In primo luogo, è di fondamentale importanza per la sinistra comprendere chiaramente se la Russia attuale sia o meno una potenza imperialista. In secondo luogo, nell’affrontare questa domanda, la sinistra non può permettersi di basarsi sul pensiero del Guardian e del Washington Post. La nostra metodologia deve provenire dalla tradizione di pensatori di sinistra come [Rosa] Luxemburg, [Vladimir] Lenin, [Nikolai] Bukharin e [György] Lukács.

L’empirismo liberale del Guardian vi dirà che la Russia è una potenza imperialista, come “dimostrato” dal fatto che la Russia ha invaso e occupato il territorio di un altro Paese. Ma anche negli ultimi decenni, diversi Paesi palesemente poveri e arretrati hanno fatto proprio questo. Questo significa che dovremmo parlare di “imperialismo marocchino” o “imperialismo iracheno”? È assurdo.

Nell’analisi classica della sinistra, l’imperialismo moderno è una qualità del capitalismo più avanzato e ricco. I Paesi imperialisti esportano capitali su vasta scala e svuotano di valore il mondo in via di sviluppo attraverso il meccanismo dello scambio ineguale. In questo caso la Russia semplicemente non rientra nella categoria. Con la sua economia relativamente arretrata, basata sull’esportazione di materie prime, la Russia è una vittima su larga scala dello scambio ineguale.

“I Paesi imperialisti esportano capitale su vasta scala e svuotano il mondo in via di sviluppo di valore attraverso il meccanismo dello scambio ineguale. In questo caso la Russia semplicemente non ci sta”.

Per la sinistra, unirsi all’imperialismo e attaccare una delle sue vittime dovrebbe essere impensabile. Ma è quello che molti esponenti della sinistra stanno facendo.

Dall’inizio degli anni ’90, la NATO si è espansa dalla Germania centrale fino ai confini della Russia. L’Ucraina è stata reclutata come membro di fatto del campo occidentale ed è stata dotata di un grande esercito ben armato e addestrato dalla NATO. Le minacce e le pressioni imperialiste contro la Russia si sono moltiplicate.

L’imperialismo deve essere contrastato. Ma questo significa che la sinistra dovrebbe sostenere le azioni di Putin in Ucraina? Dovremmo riflettere sul fatto che un governo operaio in Russia avrebbe contrastato l’imperialismo in prima istanza attraverso una strategia molto diversa, incentrata sulla solidarietà internazionale della classe operaia e sull’agitazione rivoluzionaria contro la guerra.

Ovviamente, questo è un percorso che Putin non seguirà mai. Ma la decisione della Russia di resistere all’imperialismo con metodi che non sono i nostri significa forse che dovremmo denunciare il fatto stesso della resistenza russa?

Ancora una volta, questo è impensabile. Dobbiamo stare dalla parte della Russia contro gli attacchi dell’imperialismo e della classe dirigente ucraina. Naturalmente, la politica di Putin non è la nostra, quindi il nostro sostegno alla causa russa deve essere critico e sfumato. Non siamo obbligati a sostenere le politiche e le azioni specifiche dell’élite capitalista russa.

Detto questo, la posizione della sinistra liberale, che cerca la vittoria dell’imperialismo e dei suoi alleati in Ucraina, è profondamente reazionaria. In ultima analisi, può solo moltiplicare le sofferenze incoraggiando gli Stati Uniti e la NATO a lanciare attacchi in altre parti del mondo.

“Il nostro sostegno alla causa russa deve essere critico e sfumato. Non siamo obbligati a sostenere le politiche e le azioni specifiche dell’élite capitalista russa”.

Baldwin: La guerra è stata un disastro anche dal punto di vista economico per l’Ucraina. Nell’ottobre dello scorso anno Andrea Peters ha scritto un articolo approfondito su come la povertà sia salita alle stelle nel Paese dopo l’invasione. Tra le cifre che ha citato ci sono:

*aumento di 10 volte della povertà

*35% di tasso di disoccupazione

*50% di riduzione degli stipendi

*debito pubblico pari all’85% del PIL

Sono sicuro che ora la situazione è ancora peggiore. Sembra che a questo punto gli Stati Uniti e l’Europa stiano sovvenzionando quasi completamente il governo ucraino. Può parlarci di ciò che sa delle attuali condizioni economiche dell’Ucraina?

Clarke: L’economia ucraina è stata distrutta dalla guerra. I dati governativi mostrano che il PIL dell’ultimo trimestre del 2022 è diminuito del 34% rispetto al livello dell’anno precedente e la produzione industriale di settembre ha subito un calo analogo. A marzo di quest’anno il costo dei danni diretti agli edifici e alle infrastrutture è stato stimato in 135 miliardi di dollari e, secondo quanto riferito, oltre il 7% delle abitazioni è stato danneggiato o distrutto. Enormi aree di terreno coltivato non sono state seminate, spesso perché i campi sono stati minati.

Serhiy Marchenko, Minister of Finance of Ukraine. (CC0, Wikimedia Commons)

La leva militare ha tolto il lavoro a un gran numero di lavoratori qualificati. Altre persone altamente qualificate sono tra gli ucraini che hanno lasciato il Paese, secondo quanto riferito da almeno 5,5 milioni di persone. Si stima che circa 6,9 milioni di persone siano state sfollate all’interno dell’Ucraina, con ripercussioni anche sulla produzione.

Secondo il Ministro delle Finanze Serhii Marchenko, solo un terzo delle entrate del bilancio ucraino proviene da fonti nazionali.

La differenza deve essere compensata da prestiti e sovvenzioni dall’estero. Questi aiuti sono stati sufficienti a mantenere l’inflazione annuale a un livello relativamente gestibile di circa il 25%, ma i lavoratori vengono raramente compensati per gli aumenti dei prezzi e il loro tenore di vita è crollato.

In molti casi, gli aiuti occidentali non sono sotto forma di sovvenzioni ma di prestiti. Secondo i miei calcoli, a gennaio il debito estero dell’Ucraina era pari a circa il 95% del PIL annuale. Quando e se tornerà la pace, l’Ucraina dovrà sacrificare i suoi guadagni in valuta estera per decenni per ripagare questi prestiti.

Baldwin: il primo ministro ucraino Denys Shmyhal ha dichiarato che solo per il 2023 l’Ucraina avrà bisogno di 38 miliardi di dollari per coprire il deficit di bilancio e di altri 17 miliardi per “progetti di ricostruzione rapida”. Sembra che per l’Occidente non sia sostenibile (politicamente o economicamente) fornire questo tipo di denaro per un periodo di tempo così lungo. Cosa ne pensate?

Clarke: La cifra che ho a disposizione per la spesa militare totale prevista dagli Stati Uniti nel 2023 è di 886 miliardi di dollari, quindi i Paesi della NATO possono permettersi di mantenere e ricostruire l’Ucraina se vogliono. Il fatto che stiano mantenendo l’economia ucraina a un livello relativamente basso – e peggio, chiedendo che molti degli esborsi vengano ripagati – è una scelta consapevole che hanno fatto.

C’è una lezione da trarre per le élite dei Paesi in via di sviluppo che sono tentate di agire come procuratori dell’imperialismo, come hanno fatto deliberatamente i leader dell’Ucraina dopo il 2014. Quando le conseguenze vi mettono in difficoltà, non aspettatevi che siano gli imperialisti a pagare il conto. In definitiva, non sono dalla vostra parte.

Ukraine’s Prime Minister Denys Shmyhal with U.S. President Joe Biden at the White House in April 2022. (White House/Public domain, Wikimedia Commons)

Baldwin: L’Oakland Institute ha pubblicato un rapporto nel febbraio di quest’anno su un aspetto specifico delle politiche neoliberali influenzate dall’Occidente in Ucraina: i terreni agricoli. Una delle prime cose che [il presidente ucraino Volodymyr] Zelensky ha fatto dopo il suo insediamento nel 2019 è stata quella di far approvare un’impopolare legge di riforma agraria. Può spiegare in cosa consisteva questa legge e perché era così impopolare?

Clarke: Nel 2014 i terreni agricoli dell’Ucraina erano stati quasi tutti privatizzati e distribuiti tra milioni di ex lavoratori agricoli collettivi. Fino al 2021 è rimasta una moratoria sulle vendite di terreni agricoli. Questa moratoria è stata molto apprezzata dalla popolazione rurale, che diffidava della burocrazia degli uffici fondiari e temeva di essere derubata delle proprie aziende. Avendo a disposizione solo piccole superfici e non disponendo di capitali per sviluppare le proprie attività, la maggior parte dei proprietari terrieri ha scelto di affittare le proprie aziende e di lavorare come dipendenti di imprese agricole commerciali.

Il risultato è stato descritto come una “rifeudalizzazione dell’agricoltura ucraina”. Gli imprenditori con accesso al capitale – spesso oligarchi affermati, ma anche interessi societari statunitensi e sauditi – hanno accumulato il controllo di vaste proprietà in affitto. Con gli affitti dei terreni a buon mercato e i salari minimi, i nuovi baroni della terra avevano pochi motivi per investire nell’aumento della produttività, che rimaneva bassa nonostante la ricchezza del suolo.

A questa situazione, già profondamente retrograda, il Fondo Monetario Internazionale e altri finanziatori istituzionali portarono la saggezza del dogma neoliberista. Per molti anni, i programmi di aggiustamento strutturale allegati ai prestiti del FMI hanno insistito sulla creazione di un libero mercato dei terreni agricoli. I governi ucraini, consapevoli dell’ostilità di massa nei confronti di questa iniziativa, l’avevano tirata per le lunghe. Alla fine è stato Zelensky a rompere la resistenza. Dalla metà del 2021 i cittadini ucraini possono acquistare fino a 100 ettari di terreno agricolo, che saliranno a 10.000 ettari dal gennaio 2024.

In teoria, un gran numero di piccoli proprietari terrieri venderà la propria terra, si trasferirà in città e si dedicherà alla vita dei lavoratori urbani, mentre l’aumento del valore dei terreni costringerà gli agricoltori commerciali a investire per aumentare la propria produttività. Ma questi calcoli sono quasi certamente utopici. La disoccupazione nelle città è già alta e gli alloggi sono limitati. È improbabile che i piccoli agricoltori rischino di ipotecare la loro terra per migliorare le loro attività, mentre i profitti restano esigui, i tassi di interesse elevati, le banche predatorie e i funzionari corrotti a tutti i livelli.

La vera logica di questa “riforma” è rafforzare la presa sull’agricoltura degli oligarchi e dell’agrobusiness internazionale.

Baldwin: La Banca Mondiale ha recentemente pubblicato un rapporto in cui si afferma che la ricostruzione dopo la fine della guerra costerà almeno 411 miliardi di dollari. Una volta terminati i combattimenti, che tipo di politiche ritiene possano dare all’Ucraina le migliori possibilità di costruire un’economia più stabile ed equa nel lungo periodo?

Clarke: Come finiranno i combattimenti? Al momento, sembra improbabile che le forze russe vengano sconfitte, almeno dagli ucraini. Nel frattempo, più vicina è la vittoria russa, maggiore è la prospettiva di un intervento militare imperialista su larga scala.

Supponiamo, però, che Zelenskij si sieda a un tavolo con i negoziatori russi e concluda un accordo di pace. Realisticamente, ciò richiederebbe il riconoscimento da parte dell’Ucraina che il Donbass e la Crimea sono stati persi, insieme alle province di Zaporizhzhia e Kherson. I neofascisti dovrebbero essere epurati dall’apparato statale e le loro organizzazioni messe fuori legge. L’Ucraina dovrebbe rompere i suoi legami con la NATO e le sue forze armate dovrebbero essere ridotte a un livello che il Paese possa permettersi.

Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg, di spalle alla telecamera, incontra il Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky nel settembre 2021. (NATO)

Se si raggiungesse un tale accordo, ovviamente, gli ultranazionalisti ucraini farebbero la fila per assassinare Zelensky. Se, cioè, la CIA non lo prendesse prima.

Supponendo che ci possa essere un “dopo guerra”, come potrebbe essere? Dobbiamo ricordare che l’Ucraina è oggi una delle parti più povere del mondo capitalista in via di sviluppo. Per i Paesi che si trovano in questa situazione generale, non può esistere un futuro economico veramente “stabile ed equo”. Tale futuro è concepibile solo al di fuori del capitalismo, delle sue crisi e del suo sistema internazionale di saccheggio.

Ma supponiamo che in qualche modo emerga un’Ucraina indipendente, che sia in pace e che sia in grado di perseguire un qualche tipo di percorso economico razionale. In primo luogo, questo percorso comporterebbe un’attenta demarcazione dell’economia dall’Occidente avanzato. L’ideale sarebbe che l’Ucraina continuasse ad avere ampi scambi commerciali con l’UE. Ma questo non può avvenire a costo di permettere alle importazioni senza restrizioni di soffocare industrie e settori che hanno il potenziale per raggiungere i moderni livelli di sofisticazione e produttività.

Le relazioni commerciali dell’Ucraina devono basarsi principalmente su scambi con Stati che condividono il livello generale di sviluppo tecnologico del Paese, in modo che la concorrenza commerciale prometta stimoli e non l’annientamento. Questo cambiamento comporterebbe il ripristino di una fitta rete di relazioni economiche con la Russia. Sarebbe inoltre caratterizzato da un’espansione degli scambi commerciali, già molto estesi (nel 2021), con Stati come la Turchia, l’Egitto, l’India e la Cina.

“Le relazioni commerciali dell’Ucraina devono basarsi principalmente su scambi con Stati che condividono il livello generale di sviluppo tecnologico del Paese, in modo che la concorrenza commerciale prometta stimoli e non annientamenti”.

In termini politico-economici, il futuro dell’Ucraina non risiede nell'”integrazione con l’Occidente” – una fantasia distruttiva – ma nel fatto che …. prenda posto tra gli Stati membri di organizzazioni come i BRICS, l’iniziativa Belt and Road e l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Per le sue esigenze di finanziamento, l’Ucraina deve ripudiare il FMI e rivolgersi a organismi come la Banca asiatica per gli investimenti nelle infrastrutture.

Si tratta di cambiamenti necessari, che migliorerebbero notevolmente le prospettive dell’Ucraina. Ma in definitiva, un futuro “stabile ed equo” necessita di trasformazioni molto più profonde. Sarà necessario estromettere gli oligarchi del crimine dal controllo dell’economia del Paese.

In circa 30 anni, e nonostante gli aiuti occidentali, i riformatori liberali ucraini hanno fatto pochi progressi su questo fronte. Gli “strati medi” della società del Paese non sono semplicemente in grado o inclini a portare a termine un simile rovesciamento. Hanno uno scarso peso sociale e non sono una forza indipendente. Quelli di loro che non lavorano direttamente per gli oligarchi sono invischiati, in molti casi, nella macchina statale corrotta che gli oligarchi controllano.

L’unica forza sociale in Ucraina che ha i numeri per porre fine al potere oligarchico è il proletariato organizzato. A differenza degli “strati intermedi”, i lavoratori del Paese non hanno alcun interesse a preservare l’oligarchismo e hanno il potenziale per agire indipendentemente da esso.

Baldwin: Negli anni ’90 lei ha lavorato da Mosca per il giornale Green Left. Come è nata questa iniziativa e che cosa le è rimasto più impresso del suo periodo in Russia?

La camera alta del Soviet Supremo nella sua ultima sessione, che vota l’estinzione dell’URSS, 24 dicembre 1991. (Archivio RIA Novosti/Alexander Makarov / CC-BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)

Clarke: Essendo russofono, nel 1990 fui inviato dal giornale a Mosca – allora capitale dell’URSS – per riferire sui progressi della perestrojka. Mi aspettavo di rimanere lì per circa due anni, ma ho acquisito una famiglia russa e sono rimasto per nove.

Avevo solo un piccolo reddito dal giornale. Mia moglie e io vivevamo meglio dei vicini, ma non di molto. Ho osservato e riferito che lavoratori altamente qualificati venivano gettati nell’indigenza. I loro salari non pagati, i loro risparmi di decenni cancellati dall’inflazione, vendevano gli oggetti di casa fuori dalle stazioni della metropolitana e vivevano con le patate scavate nei loro orti.

L’esperienza più sgradevole è stata osservare le persone che cercavano di far fronte a una drastica inversione di credenze e valori. Dove la società sovietica aveva messo un meno, ai russi fu improvvisamente ordinato di mettere un più. Comportamenti che prima erano stati considerati spregevoli (il traffico, le speculazioni) ora venivano elogiati dai media.

Tra le persone che conoscevo, sospetto che i più traumatizzati fossero gli intellettuali di orientamento occidentale che per anni avevano desiderato che l’Unione Sovietica morisse e che il capitalismo la sostituisse. Ora il capitalismo era arrivato, ed era un incubo.

In queste circostanze, non pochi russi persero completamente l’orientamento morale. Tutto sembrava permesso. Ricordo di essere uscito una mattina per portare mio figlio all’asilo. Sul marciapiede, non lontano dal nostro edificio, incontrammo un cadavere appena assassinato.

Nel frattempo, un tornado di storia vorticava intorno a noi. Come giornalista mi trovavo alla “Casa Bianca russa”, l’edificio del parlamento che sorge lungo il fiume Mosca dal Cremlino, durante i colpi di stato del 1991 e del 1993. Nel 1998 ho raccontato che il governo si è dichiarato in bancarotta, non rispettando i suoi obblighi di debito. A quel punto, il 40% dell’economia era evaporato.

Ricordo però quegli anni come i più ricchi e gratificanti della mia vita.

Natylie Baldwin è autrice di The View from Moscow: Understanding Russia and U.S.-Russia Relations. I suoi scritti sono apparsi in varie pubblicazioni, tra cui The Grayzone, Consortium News, RT, OpEd News, The Globe Post, Antiwar.com, The New York Journal of Books e Dissident Voice.

Questo articolo è tratto dalla rivista Covert Action.

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