ΣΥΡΊΑ 10.06.2012, di Giuseppe Germinario

ΣΥΡΊΑ

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Non tutti hanno la fortuna di godere delle eteree certezze sull’universo mondo di cui dispone Bernard-Henry Levy, in arte BHL. Le nouveau philosophe, discepolo, ahimè, anche se dozzinale, di Althusser, ha iniziato la sua folgorante carriera nei migliori salotti strappando quella maschera umanistica al marxismo che altrettanti marxisti decadenti, dal cuore cedevole al pari del rigore analitico, hanno appiccicato allo scienziato di Treviri; lo ha fatto, però, per riproporre un suo umanesimo a “la carte”, in barba agli insegnamenti del suo maestro all’Ecole Normale.

La apparente linearità del pensiero “debole” trova spazi accoglienti in quegli ambienti ben disposti a farsi dettare le ultime verità, specie in periodi di facile smarrimento.

BHL, infatti, ormai al crepuscolo in Francia, trova sempre più frequente ospitalità nientedimeno che sul Corriere nostrano, un tempo acerrimo nemico.

Dopo la sua marcia trionfale a Bengasi a sostegno della primavera libica, omaggiata con sguardo ammirato dal “Corrierone” pur con qualche stonatura, eccolo di nuovo a perorare con toni melensi e indignati, sulla stessa testata, il sostegno diretto alla “primavera siriana” sino a rammentare pubblicamente ad Holland il significato della gentile concessione del suo voto e favore all’allora candidato ed attuale presidente di Francia.

Si sa che gli umanisti quanto più si accaniscono con veemenza nel difendere l’ UOMO, tanto più infieriscono e abusano degli uomini in carne ed ossa, per lo più indegni di incarnare il loro idealtipo; poco propensi a mettere a repentaglio la propria vita, bene troppo prezioso per l’umanità e meritevole, per questo, di sicurezza e benevole licenze, quanto più riescono a inveire contro il dittatore reo delle peggiori nefandezze verso la propria gente, tanto più rimangono abbagliati dai proclami di un qualsiasi assembramento di persone le quali il più delle volte proiettano le proprie esigenze di emancipazione su quelle di una massa con ben altri orientamenti e propositi. Rendendosi conto, in corso d’opera, che per fare una rivoluzione non bastano i messaggini di Twitter e Facebook, agli umanisti illuminati non resta altro che fare appello, per il buon esito della causa, all’arrivo poco sportivo ma rassicurante dei “nostri” in groppa a cavalli e draghi d’acciaio e all’azione sul terreno dei peggiori tagliagole per l’occasione investiti alla bell’e meglio di doti e sembianze “umanistiche” e “democratiche”.

Pensavo che la fine tragica di Gheddafi e di suo figlio, l’intera vicenda libica rappresentassero lo zenit di questa rappresentazione e di questi istrioni.

Si è trattato invece di un primo rudimentale esperimento, alla fine riuscito con qualche difficoltà di troppo, ma ancora con tanti aspetti dilettanteschi da regolare, legati alla balordaggine di alcuni protagonisti e gran parte delle comparse, all’improvvisazione di alcune costruzioni mediatiche (vedasi il cimitero di Tripoli spacciato per fossa comune) e alla stonatura  reiterata di alcuni compartecipi dello scenario libico; vedasi la Chiesa Cattolica impersonata dal vescovo Martinelli. La grottesca ritrattazione di quest’ultimo, dopo una lunga catechizzazione in Vaticano, non ha fatto altro che aggiungere la beffa al grottesco e far crollare la credibilità del pastore di anime romano sino alla sua degradazione a cane da guardia del gregge per conto terzi.

La Siria, purtroppo per quel paese e per quel popolo, rischia al contrario di diventare un campo di azione e di battaglia dalle regie meno improvvisate.

Lo scenario si presenta decisamente più complesso e incerto di quello libico, ma con gli schieramenti più definiti.

Gli strateghi del pantano e della destabilizzazione non possono rischiare uno stallo di tipo afghano a pochi mesi dalla probabile rielezione della loro maschera alla Casa Bianca. Non solo; qualcuno tra di essi, all’interno dei servizi e dell’apparato militare statunitense, vorrebbe indurre ad una maggiore cautela nella manipolazione e nella istigazione di forze che potrebbero rivoltarsi in un breve volger di tempo.

Così, anche se in maniera ancora latente, cominciano ad apparire le prime discrepanze con gli oltranzisti dei diritti umani e degli interventi umanitari pronti sempre e comunque a strepitare. Questi ultimi capeggiati dalla Hillary Rodham in Clinton al centro dello schieramento; con i satelliti occidentali, in particolare Francia e Gran Bretagna, ad incitare e fomentare, consapevoli che solo da una acutizzazione progressiva dello scontro con Russia e Cina possono sperare di alzare il prezzo della loro collaborazione e ritagliarsi qualche lembo periferico dell’impero; con le forze ed i paesi presenti nella regione impegnati a ritagliarsi, in competizione tra loro, sfere di influenza locali a spese delle vittime via via designate.

In quest’ultimo anno e mezzo la Libia è stato il bacino di decantazione di queste forze: la Turchia ha sciolto ogni originaria incertezza manifestata all’inizio del conflitto e rivelato il patto di ferro sottoscritto, dopo anni di attriti, tra Erdogan e i militari turchi, sul cui altare sono stati sacrificati i rapporti con la Russia e le buone relazioni con il vicinato, in particolare Siria e Iran e consolidati i rapporti con gli Stati Uniti; la Francia ha cercato, con il suo interventismo eterodiretto e ostentato, di interrompere la continua erosione anche violenta delle sue aree di influenza ad opera soprattutto del suo ingombrante alleato americano, ma anche di Cina e Russia.

Quali siano i risultati di tanto attivismo servile transalpino, li abbiamo visti dalle turlupinature subitanee ricevute in Libia e da quelle che arriveranno dalla destabilizzazione dell’intera Africa Subsahariana a seguito della dissoluzione dello stato libico; i sauditi sono entrati in aperta competizione regionale oltre che con l’avversario storico iraniano, anche con la Turchia islamizzata.

La Siria rischia di diventare il terreno di confronto e di scontro di queste forze, in parte ormai sedimentate le quali hanno comunque trovato nella distruzione degli stati laici e nazionalisti residui il campo di azione comune da occupare per contendersi e accaparrarsi le spoglie.

Si tratta comunque di forze, queste ultime, ancora fragili e precarie all’interno delle loro stesse basi di partenza, che poggiano spesso e volentieri ancora su clan e tribù e con una forza integralista tanto radicale quanto pronta a frantumarsi a contatto con le realtà locali; suscettibili, quindi, di diventare repentinamente, a loro volta, vittime.

Il terreno ideale per i giochi geopolitici spregiudicati delle potenze dominanti. Il discorso di Obama al Cairo, tre anni or sono, con le sue profferte di “dialogo” al mondo islamico, ufficializzò questa strategia, per altro già in corso;  oggi prosegue con qualche cautela da parte di taluni e con spregiudicatezza distruttiva da parte di altri.

Non più tardi di alcuni giorni fa, ancora la Hillary Clinton ha denunciato con veemenza e faccia tosta l’espansione di Al Qaeda nel mondo, dopo aver incoraggiato ed alimentato ancora una volta generosamente le attività dei suoi scherani e tagliagole in Libia e Siria, rilasciando loro entusiasti attestati di democraticità.

Non è certamente l’unica; gli stessi nazionalisti, oggi vittime in Libia, Siria e Algeria, in passato ed alcuni ancora oggi, hanno alimentato e foraggiato le fila di questi militanti apolidi per i più svariati motivi. Ma è certamente la più disinvolta, grazie forse allo sguardo panoramico consentito dal suo punto di vista centrale.

Oltre alle contingenze politiche interne al paese dominante, la situazione di stallo apparente in Siria è determinata da altri tre fattori altrettanto importanti in relazione tra loro e assenti nell’intervento in Libia:

ñ  la resistenza di Cina e Russia all’intervento occidentale e il sostegno diretto dell’Iran al Governo Siriano. Per l’Iran è evidente il rischio diretto che correrebbe con la sconfitta di Assad. Per la Russia il valore simbolico di un cedimento sarebbe enorme, oltre alla perdita della presenza militare residua nel Mediterraneo. Perderebbe ogni residua capacità di conflitto regolato e contrattazione con gli americani e le rimarrebbero le sole carte della remissione e della disperazione

ñ  la relativa solidità e capacità di resistenza del regime di Assad

ñ  la presenza di una parte importante dell’opposizione che, di fronte al rischio di una dissoluzione e una occupazione del paese, ha preferito interrompere le ostilità e tentare un accordo diretto con il regime di Assad piuttosto che diventare uno strumento e la maschera presentabile di forze forcaiole esterne. Una scelta affatto gradita dallo schieramento occidentale non a caso impegnato a coprire le provocazioni terroriste tese a innescare la dinamica repressione indiscriminata, proteste, intervento straniero. Le conseguenze evidenti sono l’incapacità di una opposizione oltranzista più agguerrita ma meno radicata di quella libica di costituire quella testa di ponte necessaria a consentire l’intervento diretto esterno e la creazione di aree franche.

A rendere più trasparente e delineata la situazione in campo in Siria, rispetto alla Libia, è, inoltre, il silenzio assordante della Chiesa Cattolica, conferma evidente di una scelta di campo magari estorta, non ostante la presenza nel paese di una comunità cristiana di oltre due milioni di persone (10% della popolazione) schierata per lo più contro l’interventismo esterno. Del resto, quella comunità, nel corso dei secoli, ha dovuto spesso difendersi più dalle persecuzioni dei correligionari, compresi i crociati, che da quelle dei mussulmani; nelle comunità ristrette la memoria, spesso, rimane più viva che in quelle allargate.

In questo contesto, l’attivismo frenetico dei ribelli sul posto e delle potenze satelliti nel supporto militare e nella propaganda sembrano colpi di mano tesi a forzare una situazione che, dopo la eventuale rielezione di Obama, potrebbe sfuggire di mano agli oltranzisti della strategia del pantano.

L’invito recente di Obama rivolto a Putin, per il tramite di Medvedev, a pazientare, probabilmente non riguardava solo l’ambito del confronto militare strategico, ma anche e soprattutto il contenzioso geopolitico di alcune zone, tra cui la Siria e la definizione dei rapporti economici; uno spiraglio che consentirebbe a Putin di definire, al proprio interno, un compromesso più solido con le forze “sensibili” ai richiami del mondo occidentale.

È probabile che l’epilogo della vicenda comporterà comunque la defenestrazione di Assad, ma lo scenario è tutto da costruire, tanto più che le forze lealiste risultano ancora in grado di ritorcere le intromissioni, fomentando a loro volta le divisioni in Turchia e Libano.

La Siria sta diventando un caso esemplare che consente di intuire e individuare le dinamiche di conflitti, alleanze e influenze tra i vari gruppi strategici in competizione, così come teorizzate dal nostro blog.

Sta rivelando, inoltre, un affinamento significativo della macchina propagandistica.

All’adulazione dozzinale dei rivoltosi libici e all’utilizzo rozzo e sfrontato delle costruzioni mediatiche si sovrappongono un uso più sapiente delle immagini e reportage sulla condizione del paese, sulla modernità delle relazioni sociali cui non corrisponderebbe l’organizzazione clanica del sistema di potere degli Assad; si prefigura una svolta che nel lungo periodo (sic!) porterebbe all’affermazione di una società dei diritti e della cittadinanza; nel lungo periodo, appunto, quasi a premunirsi sulla possibilità di svolte di breve periodo in tutt’altra direzione.

Qualche sforzo cerebrale più significativo rispetto alla macelleria di ogni raziocinio perpetrata durante la guerra a Gheddafi.

Segno che anche l’opinione pubblica è diventata un po’ più esigente e diffidente.

http://www.marianne2.fr/Syrie-pourquoi-la-revolution-n-est-pas-pres-de-s-arreter_a219385.html

http://inshallah.comunita.unita.it/2012/06/05/siria-un-appello-ai-media-italiani/

SIRIAN CONNECTIONS : LA PACE AVANZA IN SEGRETO: ISRAELE TEME I RUSSI E GLI USA LA TURCHIA. di Antonio de Martini

un articolo di Antonio de Martini, uno dei maggiori esperti italiani del mondo arabo e di questioni mediorientali, tratto da il corrieredellacollera.com

Con la ripresa del controllo di Palmira da parte delle truppe lealiste, la situazione, se non fosse tragicamente sanguinosa, giunge al culmine della comicità. L’ennesimo comandante americano in tour assieme ai giornalisti  – Joseph L.Votel,  sembra un sosia del comico Jerry Lewis ed è il capo dell’US central Command – aveva appena dichiarato ai reporter del suo seguito di voler aumentare i mezzi USA in zona per liberare Palmira con una frase cui siamo ormai abituati: ” that’s an option”.L’ha pronunziata con tanta convinzione da indurre l’inviato del New York Times, Michel L. Gordon,  a riferirla virgolettata.

La settimana dopo, le truppe siriane riprendevano Palmira ( Tadmor in arabo) e iniziavano i lavori di sminamento come annunziato dal portavoce del Cremlino Dimitri Peskov.

Nel frattempo, Tom Perry della Reuters da Amman rivelava che sul fronte occidentale ( l’area che va dal confine giordano al Giabal Druso e confina con Israele) la CIA aveva sospeso addestramento , salari ai combattenti e rifornimento di munizioni anche ai ribelli del FSA ( Free Sirian Army), ossia alla fazione più vicina agli USA ed ai suoi interessi.

Sul fronte orientale ( confine Siria-Turchia e costa attorno ad Aleppo) la situazione è al calor bianco.

Dopo la conquista della cittadina di Al Bab, strappata al Daesch grazie a una azione congiunta ribelli del FSA, truppe turche e osservatori USA che hanno fornito appoggio aereo, il fronte unitario si è sfilacciato di fronte al rifiuto turco di accettare che l’YPG ( milizie curde appoggiate da Israele) vengano riforniti ad integrazione degli evidentemente sparuti ribelli del FSA.

Non solo, approfittando della loro presenza  in territorio siriano, i turchi, per bocca del ministro degli esteri  Mevlut Cavusoglu hanno inviato un ultimatum : se entro 48 ore l’YPG non avesse evacuato la città di frontiera di Minbej, avrebbero provveduto le truppe turche.

A questa dichiarazione, ha replicato il Consiglio Militare di Minbej ( che fa parte del FDS, Fronte Democratico Siriano) di aver raggiunto un accordo, mediato dai russi, che le truppe regolari siriane verranno accettate e si interporranno lungo l’intera frontiera vanificando così l’operazione ” Scudo sull’Eufrate” ideata dai turchi e mostrando chiaramente di preferire il regime di Assad piuttosto che una occupazione turco-americana.

La sorpresa è stata totale: che Assad si fidasse dei russi si sapeva da un pezzo. Che i ribelli del FSA ed il loro organo politico FDS preferissero la mediazione russa e la protezione delle truppe siriane a quella NATO rappresentata dai turco-americani, è veramente dura da digerire.

Naturalmente, anche nelle cose illogiche la logica c’é.

La Siria continua a disporre con intelligente parsimonia delle proprie truppe. Ha ripreso Palmira infliggendo un duro colpo ai banditi del Daesch che avevano abbandonato il campo dopo aver minato fino all’inverosimile la zona archeologica. Lo aveva saputo anche il generale americano e voleva fare una bella rentrée in territorio siriano, ma è stato preceduto da Assad.

La interruzione dei rifornimenti ( e degli stipendi) sul fronte nord, è stata ufficialmente attribuita al rifiuto delle varie milizie all’unificazione, ma non è vero. Il fronte nord, come abbiamo visto, è ben più frazionato e addirittura in lotta con le altre milizie che si dicono alternative a Assad.

La realtà è ben più consolante:in tutta la zona frontaliera con Israele le armi devono tacere. La Siria ha annunziato ufficialmente che vuole riconquistare quel territorio ed ha ammonito ( dopo cinque anni di incursioni subite in silenzio) Israele a non interferire.  Ora la Siria ha ripreso Aleppo, svincolando altre truppe ed ha al suo fianco un alleato impegnato militarmente. Ecco un altra area in cui si apre uno spazio di mediazione per la Russia e questa scelta è stata certamente negoziata in segreto.

La chiave per giungere alla pace, per ora,  è a Ginevra , dove l’ HCN ( alto comitato negoziale, legato agli USA) sta sabotando i negoziati di pace con i gruppi di lavoro di Mosca e del Cairo  dove stanno negoziando le sigle della rivolta che sono più in contatto con la Russia.

Resta l’ostacolo reale del fronte nord dove la Turchia non vuole rinunziare a schiacciare i curdi e gli USA che li hanno già abbandonati due volte in Irak, non se la sentono di farlo per la terza volta. Ma è una brutta figura che vale l’alleanza della Turchia.

Altro indizio che la pace sia segretamente in cammino è dato dall OSCH, la strana organizzazione del signor Abdelrahman ( marito della prof del caso Regeni?)che , giunto a cinquecentomila vittime della guerra, ha iniziato a scendere. Ieri era tornato a quattrocentomila. Buon segno.

La scissione di D’Alema

In calce l’intervento di Massimo D’Alema a conclusione del dibattito dell’associazione ConSenso tenutosi a Lecce il 17 febbraio 2017. L’intervento parte dal 20° minuto della registrazione. Ho deciso di pubblicarlo in vista della prossima pubblicazione della 2a parte di “Natura morta”. Mi pare evidente, sin dalla mimica del relatore, la fase crepuscolare cui si sta avviando la sinistra italiana, non meno di quella europea.

http://www.radioradicale.it/scheda/500511/consenso-per-un-nuovo-centrosinistra

IL RITORNO DEI NEOCONS, di Gianfranco Campa

Storicamente parlando, durante la prima Guerra Fredda,  anche nei momenti di tensione più palpabili, come per esempio la crisi dei missili a Cuba, da qualche parte, nelle stanze riservate della casa Bianca e del Cremlino, c’era chi si parlava, comunicava, cercava spiragli per risolvere crisi che portavano sempre inevitabilmente a confrontarsi con la possibilità di una Guerra Nucleare. Nell’assurdità del sistema politico attuale, la assillante propaganda Anti-Russa, usata come arma per screditare Trump e qualsiasi nemico del sistema governativo teso al nuovo ordine mondiale, porta a chiederci fino a che punto questi signori sono disposti a spingere la retorica di una nuova Guerra Fredda; confronto che potrebbe sfociare in qualcosa di molto più grave. Servirebbe fermarsi un attimo per ponderare le ripercussioni che potrebbero avere una intensificazione della crisi Nato-Russia.

In questo contesto si impongono un paio di domande fondamentali:

  • cosa ne sarà di una distensione mai veramente cominciata, forse appena solo accennata?
  • Una distensione con la Russia è ancora possible?

Il generale Flynn ha pagato il prezzo di essere stato la figura di spicco, l’attore principale, incaricato da Trump nel provare a tessere quella rete diplomatica che con il supporto di Tillerson avrebbe dovuto portare ad un tavolo di negoziati Trump e Putin.  Flynn ha anche pagato un prezzo caro per la sua lealtà al Presidente e per la dedizione alla missione a lui assegnata nelle sue valenze ed implicazioni più strettamente geopolitiche. Il pesante retaggio di Flynn, arrivato ad inimicarsi negli anni via via la maggior parte degli apparati di governo con le sue dure critiche, prima ad Obama poi all’establishment Repubblicano, colpevole quest’ultimo di non aver  sostenuto Trump durante la campagna elettorale, per proseguire con  la sua aperta disapprovazione della condotta dei vertici dei servizi di intelligence, tra di essi personaggi come James Clapper e John Brennan, ne ha fatto un bersaglio facile. Sarebbe stato troppo costoso, in termini politici, per Trump difendere Flynn. Così il Presidente ha cercato un atterraggio morbido, qualcosa che alleggerisse la pressione e rilanciasse la possibilità di creare un ambiente meno torbido intorno alla sua presidenza.

Ora possiamo ricostruire con quasi certezza gli episodi principali che hanno portato alle sue dimissioni. Tre giorni prima dell’ormai noto “scandalo” delle intercettazioni, Flynn aveva consegnato a Trump un dossier, un documento, da lui stesso redatto, con l’assenso, piu o meno tacito di Tillerson e di pochi altri appartenenti al circolo più stretto di Trump, con il quale si ponevano le basi di un accordo su vasta scala con la Russia. Seguendo la traccia del documento si sarebbe dovuto discutere, in un summit Trump-Putin, dei Balcani, della Siria, dell’Iran e della Cina; soprattutto si sarebbe affrontato la questione dell’Uncraina, punto critico da cui si genera la ragione della maggior resistenza dei Neocons alla svolta politica del Presidente. I contenuti dettagliati del fascicolo sono tuttora sconosciuti e, se devo azzardare una previsione, il dossier probabilmente è sparito per sempre, consegnato agli annali della storia più nascosta e segreta della Repubblica a Stelle e Strisce. Comunque è chiaro che il tempestivo assalto a Flynn tendeva  non solo ad un indebolimento di Trump, ma ad un deragliamento definitivo di qualsiasi accordo con Putin.

Girano voci di corridoio che additano in Reinhold Richard Priebus, meglio conosciuto come “Reince” Priebus, il cecchino di Flynn. Sono solo voci di corridoio, tese ad indebolire un altro fedele di Trump. Insinuando un tradimento di Priebus si colpiscono due piccioni con un solo colpo; far fuori Flynn e Priebus con lo stesso scandalo delle intercettazioni, equivarebbe ad un terno al lotto. Ma io so con certezza che Priebus non c’entra assoluntamente niente con il siluramento di Flynn. C’è invece un altro attore più potente complice del siluramento, perché sodale del vecchio establishement: Mike Pence. Il nostro caro vice presidente, Mike Pence, con il pretesto che Flynn gli avesse mentito riguardo alle sue assicurazioni dello scorso dicembre di non aveva parlato di sanzioni con l’ambasciatore russo, ha fatto pesanti pressioni su Trump perché lo rimuovesse dal suo incarico.

Mike Pence è un sornione, un uomo che trasuda fiducia da tutti i pori con la sua aria di vecchio amico che non ti tradisce mai. Fatto sta che Pence col suo sorriso soave di buon Cristiano e brav’uomo di famiglia è lo strumento che viene usato, naturalmente con il suo pieno consenso, dall’establishement repubblicano per manovrare Trump.

Trump ha cosegnato a Pence le chiavi di molte stanze e concesso una ampia libertà di azione; neanche il vecchio Joe Biden godeva sotto Obama di tale facoltà.

Biden era il cagnolino di Obama, Pence è la serpe che si insinua nel letto e ti colpisce quando vuole.

E` andata piu` o meno così. Pence ha sussurato all’orecchio di Trump la soluzione di tutti i suoi problemi: “fai fuori Flynn, affida la politica estera in mano ad altri, concentrati sulla politica interna, cerca un accordo con l’establishment per poi essere ricompensato con il pieno appoggio di tutto l’apparato repubblicano contro le orde barabariche democratiche.”

Questo però è un gioco pericoloso per Trump; intanto perché non sono convinto che i Repubblicani possano ostacolare i Democratici nella loro offensiva. Sono soprattutto persuaso che non abbiano assolutamente il desiderio di farlo.

Flynn, il fautore di una relazione più stretta fra Russia e USA, lascia il posto ad un altro Generale, H. R. McMaster. Con McMaster la manovra di aggiramento da parte dell’Establishment è completata. Ci sono voluti più o meno quattro mesi di assidui attacchi, di manovre e contromanovre  per far capitolare Trump e far deragliare le sue promesse di una nuova distensione con la Russia sostenute sin dai tempi delle primarie.

Intendiamoci; le credeziali del nuovo National Security Advisor non si discutono.

Il curriculum parla da sè: McMaster, per chi lo non lo conosce è un generale a tre stelle, decorato dalla testa ai piedi, soprattutto per le sue azioni durante la prima Guerra del Golfo, in Iraq. McMaster è anche l’autore di diversi libri; il più famoso riguarda la Guerra in Vietnam, con il quale McMaster critica, non tanto le ragioni della guerra, quanto le tattiche usate e la divisione alimentata con gli argomenti “parrocchiali” di chi altrimenti avrebbe dovuto gestirla strategicamente. Fattori che secondo McMaster hanno contribuito alla disfatta militare .

Il libro è diventato, per un’intera generazione di ufficiali militari, una lettura obbligata.

Ora il Generale McMaster avrà la possibilità di mettere a disposizione della Casa Bianca le proprie conoscenze, anche se McMaster non solo è un uomo di intelligenza superiore ma è anche un personaggio di brutale schiettezza e scorbuticità.

Un carattere duro che gli è costato più volte la promozione, raggiunta poi inevitabilmente grazie alle innegabili capacità.

Resta il fatto che McMaster è stato messo lì per intimidire Trump e portarlo ad abbracciare politiche neocons. Basta osservare che gli arcinemici di Trump, fino al giorno precedente la capitolazione di Flynn, sputavano veleno sul Presidente; ora si trovano ad eloggiare la nomina di McMaster. Il nostro caro McCain in un Twitter ha detto di McMaster: “Lt Gen HR McMaster è una scelta eccellente come consigliere per la sicurezza – uomo d’intelletto genuino, carattere e capacità

 

La disfatta di Trump è sintetizzata dal regista Oliver Stone; in un commento ha detto che:  “Condi Rice e Susan Rice impallidiscono accanto al generale H.R. McMaster, un cane da guerra del Pentagono fino alle midolla. Trump chiaramente sembra ormai sconfitto dal potere delle agenzie di intelligence e dei media. Anche il psicotico John McCain approva con tutto il cuore la nomina di McMaster.”

Il regista Stone è impegnato da oltre un anno nell’arduo compito di comunicare agli americani la pericolosità dell’antagonismo verso la Russia e delle menzogne costruite sull’Ucraina. Lo stesso regista parla di ostruzioni pesanti che arrivano non solo da entità politiche ma anche dall’ipocrita mondo hollywoodiano i quali cercano di ostacolarlo in tutti i mondi nella produzione di un documentario sulle verità ucraine.

Con la dipartita del General Flynn, la speranza di una distensione con la Russia sembra ormai confinata nell’ottimismo quasi illusorio di pochi credenti i quali si abbarbicano a cercare improbabili appigli.

Come ho scritto in precedenza, nutro ancora qualche speranza; soprattutto che Rex Tillerson possa compiere un miracolo e contro tutto e tutti riesca a raggiungere un accordo, anche se minimo con Lavrov. Un accordo che apra la via a negoziati più seri.  Inutile nascondere le difficoltà nelle quali Tillerson dovrà operare.

Tillerson però è un uomo dalle risorse nascoste, che ne fanno un formidabile nemico degli avversari della distensione.

Non ci resta  che seguire le trame che si svilupperano nei prissimi giorni, settimane, mesi.

Una cosa è certa; i Neocons sono tornati, ma forse non erano mai andati via.

Una chiosa di Massimo Morigi a “NATURA MORTA”

Nella “Natura morta (Prima parte)” di Giuseppe Germinario assieme alla esemplare definizione – se mai ce ne fosse ancora bisogno – della natura di parvenu della politica dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e alla descrizione dello spappolamento dello scenario politico italiano che ha consentito che un tal personaggio, unicamente dotato di prontezza ferina di riflessi ma senza alcun spessore umano e politico, abbia potuto arrivare così lontano, emerge anche un dato di fondo che consente anche riflessioni sulla attuale involuzione dei sistemi politici retti dalle cosiddette democrazie rappresentative. E questo dato di fondo è che non solo in Italia, ma in tutti i paesi del perimetro di queste democrazie, quello che è sempre più solarmente evidente – e si cerca di nascondere con tutti i mezzi della propaganda per le masse e della dottrina politica per le classi meno indòtte della popolazione – é che il concetto di politica visto come rappresentanza/rappresentazione dei vari strati e diversificati strati della popolazione non sta letteralmente più in piedi. Non sta in piedi in primo luogo perché si è visto bene che le democrazie non riescono de facto a dare rappresentanza/rappresentazione armonica della società ma solo di coloro che in virtù della loro posizione privilegiata potrebbero benissimo fare a meno di delegare un ceto politico per avere una rappresentanza/rappresentazione parlamentare-teatrale dei loro desiderata e se lo fanno lo fanno solo perché così la realtà vera dei rapporti di forza viene meglio mascherata e, in secondo luogo, non sta nemmeno in piedi dal punto di vista scientifico perché ormai dopo un più che secolare rimbambimento ingenerato dalla scienza politica liberal-liberista dovrebbe, anche al più stolto cultore di scienze politiche e/o filosofico-politiche, risultare del tutto evidente che la politica non è rappresentanza/rappresentazione di qualcos’altro ma non è altro che un episodio del morfogenetico conflitto espressivo della società. Che poi la politica dei paesi nel perimetro liberaldemocratico possa assumere la Gestalt della rappresentanza/rappresentazione politico-teatrale, non contraddice la natura intimamente conflittuale della politica ma non è altro che una sua “astuzia” per coprire questa natura e rendere perciò lo scontro ancora più efficace. Frank Ankersmit con il suo “Political Represention” è il massimo esponente di questa farlocca visione teatrale della politica e Matteo Renzi, pur probabilmente non conoscendone nemmeno l’esistenza, è con la sua postmoderna “narrazione”, senza possibilità di smentita, il massimo interprete della dottrina di questo professore olandese. Ma ciò, come ben sappiamo, non è il problema: il problema non è cioè Renzi ma una politica in Italia e all’estero e, ugualmente, le relative conoscenze teoriche sulla stessa, che sono tutte da rifondare buttando a mare il concetto che la politica sia una specie di rappresentazione di marionette (in effetti, sotto un certo punto di vista lo è, lo è, cioè, per coloro che credono nella visione teatrale della politica), dove quello che conta, in ultima istanza, sono le leggi eterne dell’economia, indiscusse ed indiscutibili (e, in effetti, l’economia riveste un grandissimo ruolo ma non perché questa sia l’espressione di leggi eterne ma perché l’economia non è altro che un episodio, come la politica del resto, dello scontro all’interno fra le classi egemoni e di queste classi egemoni contro le classi sottomesse). Nell’articolo di Germinario viene riferito di un Orlando in cerca anche di nuove categorie di pensiero. Se sia coloro che rimangono dentro il PD in posizione falsamente critica che coloro che ne escono cercheranno, come è sicuro, con un tardo e poco creativo ricalco della visione Ankersmitiana rappresentativo-parlamentar-teatrale, queste categorie in un stupido ed irriflessivo rifiuto delle “narrazioni” renziane (rifiutino, cioè, il postmodernismo narrativo di Renzi per un “sano” ritorno alle vecchie retoriche della sinistra), costoro avrebbero potuto darsi anche meno pena. Se, come invece di tutta evidenza, il loro scopo è stato quello di meglio rappresentare il loro guicciardiniano “particolare” (ottenere una parte più o meno da comprimari nel futuro parlamento-teatro), lo sforzo sarà valso lo sputtanamento di aver combattuto il segretario del partito senza alcun apparentemente valido motivo di fondo. E a questo punto dobbiamo veramente rivalutare Ankersmit e le sue (apparentemente ma anche realmente) svianti elucubrazioni teatrali.
Massimo Morigi – 27 febbraio 2017

L’assemblea programmatica del PD del 4/5 febbraio 2011, di Giuseppe Germinario

Tratto dal sito www.conflittiestrategie.it

L’assemblea programmatica del PD del 4/5 febbraio rappresenta una prima sintesi dell’impegno portato avanti, con grande dispendio di energie, per oltre un anno, da diversi gruppi di lavoro tematici.

Da oltre venti anni, è il primo tentativo organizzato di costruzione di un programma ad opera di un partito che sembrava aver dissolto nella nebbia della polemica politica dozzinale la tradizione ed il rituale di ponderosi e pretenziosi programmi politici propri delle organizzazioni popolari del dopoguerra bipolare.

Chi ha partecipato alla vita politica di quegli anni, ma anche solo assistito alle tribune politiche in bianco e nero e grisaglia, conosce l’impegno delle persone ed il peso che veniva dato alle parole e agli scritti, anche con tutto il rischio connesso alla facile caduta in slogan capaci di spiegare e piegare il tutto.

L’organizzazione dell’evento, se per alcuni doveva servire per uscire, una volta per tutte, dall’acceso dibattito politico sulle propensioni lubriche del Premier e dal vicolo cieco dell’antiberlusconismo, per la maggior parte del gruppo dirigente, quella determinante, è servita per rivendicare, con qualche velleità, la paternità ed il potere di investitura della coalizione, del caravanserraglio antiberlusconiano e inventarsi un tratto di nobiltà e presentabilità della proposta di coalizione attraverso un simulacro di programma.

In realtà è ormai evidente che l’agenda e i contenuti politici sono dettati dal protagonismo diretto di altri poteri e attuati direttamente da figure il più delle volte esterne ai partiti; gran parte di quei dirigenti di partito ed istituzionali sembrano assumere sempre più il ruolo di semplici cicisbei.

Lo sforzo elaborativo, tuttavia, non sembra aver raggiunto risultati al momento apprezzabili.

Tutto si è risolto nella giustapposizione di numerosi documenti tematici, in buona parte assolutamente generici, alcuni penosi, come quelli sul Mezzogiorno e la giustizia, o del tutto antitetici di fatto, alcuni, rispetto all’obbiettivo dichiarato di recupero del consenso dei ceti produttivi e di intere aree geografiche del paese.

Manca, soprattutto, l’indicazione esplicita del contesto internazionale in cui si opera e di una “mission” cui subordinare gli elaborati; la fissazione, quindi, delle priorità di obbiettivi da perseguire nell’eclettismo delle proposte.

È possibile, tuttavia, tracciare alcune linee guida che informano, implicitamente, l’elaborazione:

  • la prosecuzione della costruzione europea nel quadro di sostegno collaterale alla politica statunitense di gestione “illuminata” del multilateralismo a predominanza USA;

  • la prosecuzione della costruzione europea attraverso la centralizzazione delle politiche finanziarie e di bilancio, l’allargamento delle funzioni collaterali del parlamento europeo e il rispetto dell’assemblearismo degli stati europei. Una critica indiretta, quindi, all’affermarsi dell’asse franco-tedesco, al ruolo ancora preponderante degli stati nazionali accompagnata all’assunzione acritica del ruolo della Commissione Europea e delle regole del mercato finanziario dettate in gran part dalle lobby anglo-americane. Una conferma della visione prevalentemente tecnocratica ed economicistica coperta dalla solita retorica europeista, nonché della corrispondenza tra NATO e Comunità Europea là dove l’adesione degli stati minori della comunità e le attuali procedure decisionali contribuiscono a neutralizzare le velleità autonomistiche del nucleo storico della CEE; la stessa opzione di rafforzamento di una istituzione, il Parlamento, dal ruolo prevalentemente consultivo e che, comunque, per avere un minimo di efficacia deve appoggiarsi paradossalmente agli istituti statuali nazionali, rappresenta una contraddizione che in realtà contribuisce al peso crescente di una Commissione Europea così com’è;

  • l’accettazione delle politiche di rientro drastico del deficit pubblico quale risposta agli attacchi finanziari speculativi; in realtà, il presupposto del consolidamento definitivo del predominio tedesco in condominio con quello planetario americano e sotto la sua egida.

All’interno di questo quadro trovano una collocazione gli indirizzi e gli obbiettivi espressi nei documenti.

Si parte dalla presa d’atto della necessità una contrazione drastica del deficit pubblico all’interno dell’attuale perimetro dell’euro così com’è.

Le modalità di raggiungimento dell’obbiettivo prevedono il recupero massiccio dell’evasione fiscale, lo spostamento del prelievo verso le rendite o, come proditoriamente specificato, il reddito da rendite e un taglio drastico e progressivo della spesa pubblica.

Sullo spostamento del prelievo, data la scarsità del reddito ricavato (interessi, canoni, rendite) e la scarsa rintracciabilità delle grosse rendite speculative penso ci sarà poco da fare; sempre che non si arrivi al demenziale prelievo sul patrimonio, di nefasta memoria e di dimensioni ben maggiori di quelle effettuate da Giuliano Amato. Cosa improbabile e capace di scatenare, questa volta, reazioni realmente violente. Sarbbe da augurarsi l’attuazione demenziale e inutile, a conti fatti, del progetto

Questi due altri aspetti meritano, invece, l’attenzione particolare, perché saranno il terreno di scontro reale non tanto nel senso tradizionale offerto dai sinistri di attacco al welfare che pure esiste, quanto, soprattutto, nel senso della gestione delle risorse a favore prevalentemente dei ceti produttivi innovativi e strategici o meno.

Rispetto all’evasione fiscale il continuo richiamo all’etica non lascia presagire nulla di buono; di fatto si continua ad ignorare ottusamente e, ormai, con una buona dose di malafede, che l’evasione fiscale è soprattutto uno strumento di sopravvivenza di interi settori economici ed intere aree geografiche oltre ad essere uno strumento di arricchimento surrettizio di alcune fasce sociali e di alcune categorie professionali che lucrano sulla complessità e farraginosità del sistema fiscale; il drastico e indiscriminato recupero fiscale fine a se stesso non farebbe altro che affossare definitivamente buona parte dell’economia. Le poche esperienze di emersione dei decenni passati, infatti, sono tutte pressoché fallite, soprattutto nel Mezzogiorno. Se a questo recupero viene subordinato l’alleggerimento fiscale generalizzato dei redditi bassi e delle attività produttive piccole e medie, si comprendono il velleitarismo e la demagogia celata dietro queste attenzioni.

Ancora più rivelatore, se possibile, l’atteggiamento nel versante della spesa pubblica e della gestione di servizi ed attività pubbliche.

Il principio fondante è la difesa del consumatore e della persona, lo stesso su cui si fonda la politica della Commissione Europea; un punto di vista, quindi, legato piuttosto alle astratte esigenze di consumo e della domanda che all’investimento strategico cui subordinare le politiche di distribuzione. Un ruolo centrale, a questo punto, dovrebbero assumere le privatizzazioni e le liberalizzazioni. Manca totalmente, su queste, una analisi critica degli antefatti degli anni ’80/’90; non esiste alcuna distinzione fra settori strategici, settori in cui la presenza di infrastrutture non riproducibili (telefonia, gas, elettricità, autostrade, ect) rende illogica la liberalizzazione e la loro attuazione si rivela uno strumento di appropriazione parassitaria di risorse e di distorsione di capacità imprenditoriali anche da settori strategici (vedi il caso Pirelli-Telecom, la privatizzazione delle autostrade); emblematico il caso della distribuzione del gas dove si dovrebbe scorporare ulteriormente l’ENI, dopo la cessione scellerata del Nuovo Pignone, frammentare l’offerta al dettaglio e compensare la debolezza contrattuale di questa con la costituzione di una unica società acquirente del gas al dettaglio da grossisti e proprietari dei gasdotti. Siamo, praticamente, alla quinta colonna della Commissione Europea.

Rimane il terreno insidioso delle categorie e degli albi professionali, altro punto cruciale dove gli interessi strategici della potenza dominante e dei ceti subdominanti trovano un terreno fertile di incontro con i ceti medi; i legami diretti ed evidenti con parti importanti di essi, come ad esempio settori della magistratura, traggono alimento politico diretto dalla difesa corporativa degli interessi economici, di status e di potere. I casi di intreccio di tali aspetti sono ormai numerosissimi e per uscirne non è sufficiente, anzi risulta controproducente, una liberalizzazione generalizzata slegata dalla qualità delle prestazioni, dalla responsabilità e dalle tutele economiche.

La stessa attenzione conclamata verso le piccole aziende e i ceti produttivi risulta, quindi, velleitaria e demagogica se subordinata al recupero dell’evasione; l’unico punto realizzabile potrebbe essere quello dell’abbattimento degli oneri legati alla semplificazione delle procedure burocratiche; su questo, però, hanno fallito miseramente, ancor prima di cominciare, sia Prodi che Berlusconi.

La stessa proposta di piani industriali di riorganizzazione e contenimento della spesa pubblica, di per sé corretta, appare del tutto ambigua e demagogica in mancanza di una critica seria delle logiche di riproduzione degli apparati burocratici, giunti ormai ad una dimensione di autentici “monstre” divoratori e con la perpetuazione dell’ideologia del consumatore sovrano.

Se a questo si aggiunge la totale assenza di accenni alla difesa delle aziende strategiche e alla necessità di investimenti e di politiche orientate ai settori fondamentali per garantire autonomia e autorevolezza nazionale, si comprende come l’intenzione di favorire le forze produttive piccole e medie sia, di fatto, il perseguimento più o meno cosciente di una politica di subordinazione remissiva e reazionaria.

Non a caso, l’enfasi maggiore viene posta nell’attenzione alle energie alternative quando è ormai chiaro che l’introduzione indiscriminata di incentivi spropositati ed improvvisi sta aggravando gli squilibri, gli oneri economici generali legati all’energia e, in mancanza dei tempi necessari alla creazione di una industria nazionale, alla dipendenza tecnologica e manifatturiera dall’estero in un settore ritenuto dagli stessi strategico; per non parlare, poi, del fatto che, nella migliore delle ipotesi, questo settore riuscirà a coprire, nei prossimi trenta anni, a mala pena il 30% del fabbisogno energetico.

La stessa ipotesi di razionalizzazione della spesa pubblica si risolve in una sorta di appello a lavorare di più con meno risorse, quando si tratterebbe di varare un vero e proprio piano drastico di trasferimento di risorse verso gli investimenti produttivi strategici; sarebbe doloroso e traumatico, certamente meno di quanto lo saranno, tra qualche tempo, in una situazione di ulteriore degrado e stagnazione.

Sicuramente servirebbe a ridimensionare le velleità politiche della pletora di strati parassitari attualmente in fibrillazione.

Sono misure ancora possibili ma che hanno un ostacolo preciso nel carattere composito degli schieramenti politici e apertamente regressivo di quello antiberlusconiano.

L’evoluzione stessa del PD è emblematica; la sua progressiva “apertura” ha coinciso con l’ingresso di lobby e gruppi organizzati (ambientalisti di professione, ect.) che lo hanno inaridito dal radicamento originario, paralizzato nella capacità decisionale e asservito a gruppi decisionali la cui fonte di ispirazione è sempre più la scuola economica e sociologica americana.

Basterebbe analizzare la formazione e la storia di gran parte delle nuove teste pensanti, per farsi una idea precisa del senso delle attuali scelte, pure raffazzonate e contraddittorie e, soprattutto del futuro di questa organizzazione che rimane, comunque, la principale formazione politica antiberlusconiana, anche se non la più importante; anche lì, comunque, qualche contraddizione, poco significativa, però, dal nostro punto di vista, comincia a manifestarsi.

Sono tutte comprese, però, in una visione economicistica che implicano l’accettazione più o meno consapevole del quadro imperiale ormai anacronistico; non è un caso che il termine più sotteso sia ancora la “globalizzazione”. Se non supereranno questo limite che li rende del tutto complementari al gruppo egemone, saranno del tutto indifferenti ai nostri propositi ed interessi.

Giuseppe G.

DAL LINGOTTO1 AL LINGOTTO2_ DAI SUSSULTI AI SINGULTI DI GIUSEPPE GERMINARIO 31.01.2011

Tratto dal sito www.conflittiestrategie.it

Già il cipiglio tipico del travet dominato da montagne di scartoffie lasciava presagire la misura di entusiasmo che avrebbe potuto trasmettere il buon Vuoter Veltroni.

Ha semplicemente confermato che la fine eventuale di Silvio sarà per intervento diretto di poteri forti o per decisione di madre natura; che, quindi, nell’attesa del compimento di un destino deciso da altri, bisognerà prepararsi al dopo. Gli stessi propositi bellicosi nei confronti di Bersani e D’Alema sono prontamente rientrati; qualcuno dei suoi consiglieri in ombra gli avrà fatto pesantemente notare che, in una fase di grande dibattito politico sulle gozzoviglie libertine del Cavaliere, non era il caso di distogliere l’attenzione e di mostrare la vitalità dell’ennesimo frammento democratico. In mancanza di argomenti solidi, per ben quattro volte ha rimarcato la solidità del suo principale ispiratore e consigliere, evocandone dall’ombra il nome: Obama. Tutto si è risolto, alla fine, con una riproposizione sbiadita e dimessa degli argomenti del Lingotto1 di tre anni fa, ma con una variante tattica, equivalente al riconoscimento di una sconfitta: non più unico partito alternativo, ma principale partito di coalizione. Tornando ai contenuti del discorso va definito il loro contesto implicito: un mercato mondiale, scosso dalla crisi finanziaria dove sono determinanti, per il successo, la qualità delle merci ed i loro costi, con il sovrappiù, al massimo, del rispetto dei diritti civili da tirar fuori nelle occasioni opportune; siamo al puro conflitto economico, dissociato dagli sconvolgimenti politici e normato da regole cavalleresche; nessun accenno, quindi, sul multipolarismo incipiente, sulle strategie politiche di dominio di cui fanno parte le scelte economiche. L’unico faro politico è Obama, con la sua capacità di suscitare “grandi cambiamenti negli USA e nel mondo”; una Europa unita economicamente e “in ultima analisi politicamente”, capace di competere come sistema paese; siamo alla riproposizione testarda, contro ogni evidenza, che l’integrazione liberistica economica e delle politiche di bilancio porta all’unione politica, con il correttivo della elezione del Presidente degli Stati Uniti d’Europa teso a scoraggiare il predominio di un paese, la Germania, sugli altri; “una democrazia senza stato”. Un così audace scatto di reni per una mera riproposizione dell’utopia retorica europeista che ignora bellamente gli stati, le nazioni e gratifica le burocrazie comunitarie terreno di occupazione di lobbys filoamericane o, tuttalpiù, di scontro e contrattazione tra quelle e il paese europeo dominante a scapito dei restanti. In questo quadro, ribadisce il nostro, l’Italia ha fallito i suoi due obbiettivi: il contenimento della spesa pubblica e (sic!) la rinuncia alla svalutazione della moneta, non si sa bene quale. Prioritario quindi un contenimento del 40% della spesa in dieci anni e un rilancio dei settori strategici, rispettivamente il settore automobilistico e la piccola e media industria. Nessun accenno ai reali settori strategici che fa il paio alla totale mancanza di accenni ad un minimo di autonomia nazionale dalla politica americana. Tra l’altro, alla stessa FIAT il nostro riconosce esplicitamente la piena libertà di scelta senza un minimo di contraddittorio sul futuro dei centri decisionali e di progettazione dell’azienda, non ostante il dispendio di risorse pubbliche tuttora in corso; una azienda, quindi, strategica ma in un paese alla pari con Serbia, Polonia ed altri concorrenti. Tant’è che il nostro prode, richiamandosi alla radicale riforma del sistema bancario di Obama, auspica, come pressochè esclusiva garanzia sul futuro aziendale, un legame della retribuzione dell’a.d. Marchionne ai risultati di lungo periodo dell’azienda da lui gestita; furia francese e ritirata spagnola. Un atteggiamento da valvassino più che da vassallo, con buona probabilità di declassamento a servo della gleba. Riguardo alla riduzione della spesa pubblica, punta all’introduzione di una patrimoniale straordinaria triennale, di una politica di gestione che punti a far lavorare tutti di più con meno risorse finanziarie, di una unica agenzia-moloch che punti a valorizzare l’intero patrimonio pubblico, di “un piano industriale di ristrutturazione del settore pubblico” il quale ultimo, proposto da manager seri può assumere un significato, detto dal nostro assume il carattere di uno slogan vuoto con qualche riflesso inquietante sul destino della industria pubblica.. La riproposizione, in pratica, di intenti moralistici e di strutture già sperimentate nel loro fallimento, ma con un grande equivoco sempre più irrisolvibile: come conciliare la riorganizzazione ed il rigore della spesa con la sopravvivenza di un partito che trae il proprio consenso ormai quasi esclusivo da quegli strati sociali oggetto di intervento. Il tutto si riassume con uno slogan: “fare come la Germania di Schroeder” e, a malincuore, di Merkel. La Germania, infatti, ha costruito la sua solidità economica aumentando le tasse ai cittadini, riducendole alle imprese, tagliando selettivamente la spesa pubblica; ovviamente, non solo e non principalmente, visto l’accordo a lei strafavorevole sul cambio marco-euro, le politiche bancarie di finanziamento dei debiti dei paesi più deboli e la creazione di una vera e propria area di influenza in Europa e, con l’ulteriore prossimo passo, di dirottamento verso i paesi emergenti più promettenti di politiche e risorse un tempo riservate all’hinterland nella comunità europea. Ma l’evidenza dei due punti iniziali è funzionale all’analisi del discorso di Veltroni il quale punta a fare come la Germania, ma poi propone sgravi fiscali alle imprese, alla innovazione delle aziende, alla tutela ambientale, alle energie alternative, un regime fiscale favorevole al genere femminile, alle famiglie e ai giovani. Cioè tutto ed il contrario di tutto con l’aggravante delle deformazioni ideologiche e populistiche legate alle politiche di genere e ai costi insostenibili delle attuali politiche energetiche alternative unilaterali sulle quali solo da pochi mesi si inizia a fare qualche chiarezza. Una caricatura del “change, change, change” dell’Obama d’oltreoceano in una fase di suo deciso ripensamento. Ma se il primo ha rinunciato al suo splendore originario e alla sua retorica per scendere sempre più nel pragmatismo imperiale, il secondo sembra sempre più destinato, in buona compagnia, a trasformarsi in un ombra nell’Ade senza nessun ruolo nemmeno di terza fila. Ormai i nostri subdominanti e gli americani stanno cercando altrove e, nel frattempo, non resta loro che logorare il Cavaliere e trattare. Nella sinistra c’è solo qualche voce isolata disposta a fungere da traino ad una alleanza tra settori produttivi e significativi strati sociali subordinati; ma sembra ininfluente. È sufficiente un gossip o un moto pilotato di indignazione per tacitarla.

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

Tra i dirigenti del PD il più consapevole dell’attuale condizione della classe dirigente, in particolare quella del proprio partito, è apparso Andrea Orlando, attuale Ministro della Giustizia  (http://www.partitodemocratico.it/partito/lintervento-andrea-orlando-4/  – dal 3° al 5° minuto). Nel suo intervento all’Assemblea Nazionale del 19 scorso ha giustificato il distruttivo livello di conflittualità e la personalizzazione dello scontro nel partito con la divaricazione crescente tra le categorie concettuali interpretative della realtà adottate e la realtà stessa nonché con la totale assenza, diversamente da Stati Uniti e Germania, di idonei luoghi di riflessione sulle strategie politiche da adottare. Una constatazione banale ma non scontata su una condizione che al momento sta investendo clamorosamente il Partito Democratico ma che non tarderà ad aggredire le altre forze politiche, compresa la Lega e con la parziale probabile eccezione almeno temporanea del M5S, man mano che ci si avvicinerà alle prossime inderogabili scadenze politiche; al netto di per altro consuete operazioni di trasformismo, tanto più costose per la credibilità dei protagonisti quanto più radicali sono le opzioni politiche presenti sul campo.

Uno smarrimento che deve aver colto persino un iperdecisionista, stando almeno alla sua persistente maschera, come Matteo Renzi, spinto ciò non ostante ad anticipare il suo consueto pellegrinaggio estivo in California.  Ha motivato il suo viaggio improvviso come una necessaria vacanza e un indispensabile momento di depurazione; successivamente lo ha giustificato come un momento di apprendimento di brillanti politiche di sviluppo da mutuare nel proprio paese. Si spera che la sua non sia la tardiva acculturazione e l’infatuazione di un neofita, di un parvenu pronto a mutuare pedissequamente da quel paese le politiche liberal/liberiste un po’ come i futuristi italiani negli anni ’20/’30 fantasticavano su un mondo futuro che scoprirono con meraviglia nei loro viaggi già esistere negli Stati Uniti di quegli anni.

Una impronta che si sta invece confermando; attuazione in realtà di narrazioni piuttosto che di politiche economiche concrete di quel paese, perfettamente in linea con quanto fatto dalla nostra classe dirigente degli ultimi trenta anni. Narrazioni le quali omettono accuratamente il presupposto fondamentale del successo di quelle politiche liberiste: la detenzione di quella potenza e di quella egemonia necessarie che gli Stati Uniti stanno relativamente perdendo ed esercitate sì anche dal nostro paese, ma non meno di duemila anni fa e mai più riacquisite.

Il motivo reale del viaggio sembra in realtà essere molto più prosaico e purtroppo in linea con le propensioni della quasi totalità della nostra classe dirigente; si tratta di chiedere lumi e direttive.

Gli incontri in corso non escono però dalla ristretta cerchia delle abituali frequentazioni americane sino ad ora coltivate; sono esattamente le stesse di questi ultimi quattro anni. Tanto furbo e baldanzoso, il nostro continua imperterrito a prestare ascolto a chi lo ha mandato o istigato allo sbaraglio, facendosi pagare profumatamente alcuni di essi per di più le improvvide consulenze; con grave sfregio dei principi di meritocrazia, neppure uno sconto legato ai deludenti risultati conseguiti.

Eppure qualcosa è con ogni evidenza cambiato ultimamente negli Stati Uniti e un vero leader dovrebbe saper cogliere ed approfittare delle eventuali opportunità offerte da un nuovo corso politico.

Al momento della stesura dell’articolo il viaggio dell’ex premier non è ancora terminato; rimane ancora qualche spiraglio, ma tutto sta per concludersi con ogni evidenza all’interno del cerchio tradizionale degli habituè.

Il nostro in verità ci ha abituati a dosi insolite, a volte eccessive, di spregiudicatezza, del tutto inusuali nel gruppo dirigente così compassato ed ingessato del suo partito.

Mentre D’Alema, tanto per citare il più importante, ha circoscritto il proprio sodalizio alla famiglia Clinton e attraverso questa ha potuto tessere altre relazioni in quel paese e costruirsi un futuro con la propria fondazione e il proprio think-thank, Renzi, in questo facilitato dall’assenza di retaggi ingombranti legati al passato comunista, ha potuto coltivare anche ambienti americani neocon. Lo stretto sodalizio consolidatosi attorno alla presidenza Obama tra la sinistra dei diritti umani e la destra neoconservatrice interventista, esportatrice di democrazia gli ha offerto le chiavi, ma lui non ha esitato ad aprire le porte lasciate socchiuse da quei circoli americani.

L’eventuale protrarsi della Presidenza Trump, ma su linee coerenti con le intenzioni programmatiche, rischia di logorare o far saltare quel sodalizio così nefasto per il genere umano ma così propedeutico alle carriere politiche nostrane.

Purtroppo per lui, Renzi è stato l’unico statista europeo rimasto impigliato al carro dell’Imperatore Obama sino alla fine del mandato in attesa che salisse la Presidenta (mi scuso per l’omaggio alla sintassi boldriniana) predestinata; un destino beffardo gli ha assegnato il posto di unico apostolo al desco della sua ultima cena.

Mal gliene incolse! Da allora quelli che parevano occasionali incidenti su di un sentiero luminoso si sono trasformati in disastri tali da compromettere la marcia trionfale.

La stella di Renzi ha ormai oltrepassato il proprio azimut e la sua parabola volge ormai verso la fase discendente.

Si è imposto a ragione l’obbiettivo fondamentale di modernizzare e razionalizzare il sistema politico, istituzionale ed amministrativo del paese; è partito acquisendo una base di consenso all’interno del partito intorno al 30% e coagulando un altro 50% di forze lottizzate, espressione di interessi ed esperienze locali, dallo scarso respiro nazionale; ha raccolto in pratica e confezionato i frutti avvelenati della riorganizzazione del partito avviata da Veltroni e Bersani (http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/lassemblea-programmatica-del-pd-del-45-febbraio-2011-di-giuseppe-germinario/   http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/dal-lingotto1-al-lingotto2_-dai-sussulti-ai-singulti-di-giuseppe-germinario-31-01-2011/ ) . Nel frattempo non è riuscito a coagulare il consenso necessario a dar forza al suo programma e l’adesione di quei centri di potere potenzialmente più disponibili alle riforme in grado di garantire più coerenza al progetto. Non gli è rimasto ben presto che giostrare con le forze in campo sino a rimanere vittima delle proprie stesse trame; sino a mettere a nudo l’origine stessa della propria investitura, non molto diversa dall’avvento del podestà straniero Mario Monti.

La forza e il successo di un programma di riorganizzazione di un sistema deriva dalla capacità di un leader e di una classe dirigente di renderlo funzionale ad una prospettiva di autorevolezza e di sviluppo tale da mobilitare energie sufficienti preparate e determinate. Renzi al contrario ha ritenuto che la riorganizzazione “motu proprio” avrebbe innescato la dinamica di efficienza della macchina istituzionale e di sviluppo dell’economia; un impulso tutt’al più coadiuvato da un programma di sostanziale liberalizzazione del mercato del lavoro, di distribuzione impersonale di incentivi, di ulteriori privatizzazioni e collocamenti azionari esteri che avrebbero liberato le virtù intrinseche di sviluppo economico del mercato.

In realtà l’economia tende ancora a ristagnare, il mercato del lavoro più che ridurre ha modificato le caratteristiche del proprio precariato. Nei vari comparti economici i provvedimenti hanno effettivamente avviato, al prezzo di un drastico ridimensionamento dell’apparato industriale, un processo di razionalizzazione e di parziale ammodernamento ma con il drammatico risultato della ulteriore perdita di controllo dei gruppi industriali strategici e di maggiore dimensione e con il rafforzamento relativo di settori marginali o complementari nella catena di valore internazionale. Così facendo ha ulteriormente indebolito proprio quei “poteri forti” dei quali avrebbe bisogno per dare forza ad un vero programma di rinascita nazionale.

Un peccato originale che riduce ad una rappresentazione macchiettistica il suo proposito di “partito della nazione”. Sacrifica la condizione di alcune categorie arroccate nella difesa fine a se stessa di diritti e prerogative in nome di una visione apparentemente astratta del bene comune e dei meccanismi “naturali” tesi a garantirlo.

Fallisce così il proposito di conquistare i voti del centrodestra, conservando l’essenziale dei voti del centrosinistra; il conflitto aperto in sede europea con la Germania si riduce a schermaglie verbali centrate su pochi decimali di deficit da destinare a spese improduttive e di redistribuzione assistenziale di risorse con il risultato di ricondurre puntualmente la conflittualità latente tra gli stati europei nella logica di controllo della potenza egemone americana.

Il risultato è l’isolamento politico in Europa compensato dall’ulteriore subordinazione all’alleato d’oltreatlantico ma senza le coperture che la Presidenza Obama pareva disposto a concedere al nostro; una struttura economica e finanziaria ormai terreno di conquista dei tre principali paesi del mondo occidentale componenti dell’Alleanza Atlantica; un leader politico sempre teso a strappare voti e consensi nel campo berlusconiano ma per garantirsi la mera sopravvivenza piuttosto che la fondazione di un grande partito maggioritario.

La scissione controvoglia della sinistra clintoniana del PD, pronta per altro a rientrare una volta regolato il contenzioso con l’intruso, apre lo spazio a numerose opzioni e contribuisce a rimettere in campo politici ormai da tempo sulla via del tramonto, a destra come a sinistra; mette a nudo tatticismi sterili e povertà di proposta politica addirittura maggiori rispetto a quanto espresso dal segretario dimissionario del PD.

Di questo si tratterà nella seconda parte dell’articolo.

Renzi, al contrario, corre seri rischi di sparire dalla scena politica soffocato nelle spire dell’attuale paralisi istituzionale.

Una volta liberatosi in parte della propria fronda interna, ha tuttavia diverse frecce ancora a disposizione del proprio trasformismo teso a rilanciare il suo nazionalismo verbale di facciata ed il suo efficientismo apparentemente fine a se stesso, magari torcendo a proprio profitto il consenso raccolto dai dissidenti. Un trasformismo evidenziato e reso inevitabile dalla totale assenza di analisi delle cause della sconfitta referendaria che non vada oltre la consueta giustificazione legata ai difetti di comunicazione del messaggio.

Una possibile resurrezione a patto però che si realizzino due condizioni:

  • che riesca a controllare la propria indole e trarre frutto dall’esperienza;
  • che a livello internazionale l’anomalia della Presidenza Trump sia ricondotta in qualche maniera nell’alveo del tradizionale scontro e della discreta collusione tra democratici e neoconservatori americani

Il prossimo rientro di Renzi ci offrirà qualche indizio sui prossimi passi da cogliere una volta caduta definitivamente la maschera delle elezioni anticipate; l’esito delle elezioni francesi aprirà le danze a corte e consentirà di cogliere più chiaramente i ruoli degli attori e la posta in palio anche qui in Italia. Sarà, probabilmente, la raccomandazione più accorata che il vecchio establishment americano, restio ad abbandonare più che la scena le leve dello stato profondo, deve aver suggerito al nostro solerte viaggiatore.

Una chiosa di Fabio Falchi a WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, di Massimo Morigi

Articolo da leggere (del resto anche Agamben ha scritto pagine interessanti su questo tema), benché io non condivida tutto quel che si sostiene in questo articolo (che muove da una prospettiva che in sostanza mi pare ancora marxista).
In particolare non si può ignorare la funzione del katechon. Nulla del Politico infatti si capisce se non si comprende che nessuna comunità umana può esistere senza un certo ordine e una certa stabilità. Ossia senza dei rapporti di potere “condivisi” da buona parte dei membri della comunità (questo appunto significa in primo luogo il katechon, il “potere che frena”, che impedisce cioè che la comunità sia distrutta dalla “stasis”, dalle lotte intestine o dalla guerra civile).
Ma i rapporti di potere non sono “dati” ma “generati” , ossia non sono naturali ma storici (appunto politici!). E sono sempre in funzione dell’élite dominante (nessuna società vi è senza una élite – anche le comunità di villaggio vi erano dei “capi” ). Sicché è inevitabile che la “norma”, per così dire, parli sempre la lingua di chi detiene il potere (oggi di chi detiene il controllo dei principali mezzi di produzione e finanziari e al tempo stesso dei mezzi di persuasione e degli apparati dello Stato egemone – la cui crisi è appunto anche crisi di tale “rapporto” , benché sia una crisi derivante dalla lotta per l’egemonia a livello mondiale). La supremazia della legge (come l’individuo isolato o il “libero” mercato) è di fatto una finzione (benché “produttiva”). Dietro la legge vi è quindi la volontà politica (il Wille zur Macht) che la mantiene in essere (supremazia, se si vuole, della costituzione materiale su quella meramente formale).
Nondimeno non tutte le élites sono uguali , altrimenti vi sarebbero solo oligarchie (e tutte uguali). D’altronde una élite è sempre anche “portatrice” di un disegno politico e culturale. Per questo in Comunità e Conflitto ho distinto tra sintassi del potere (supremazia delle élites), semantica del potere (i principi e valori che legittimano i rapporti di potere) e pragmatica del potere (come vengono imposti questi principi e questi valori). Ragion per cui è meglio usare il termine egemonia (nel senso gramsciano) anziché supremazia. La questione stessa della società liberal-capitalista non può dunque prescindere dalla necessità di “svelare” come i vari centri egemonici (pubblici e privati) del grande capitale occidentale difendano i loro interessi (perlopiù a danno della collettività) e quali scopi perseguano (“realmente”).

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, di Massimo Morigi

Angelus Novus di Paul Klee

WALTER   BENJAMIN,     IPERDECISIONISMO   E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È  LA  REGOLA*

 C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (IX tesi)

 L’Angelus Novus di Paul Klee, che divenne il messianico protagonista della  IX tesi   di Tesi di filosofia della storia, era stato acquistato nel 1921 da Walter Benjamin e da allora lo accompagnò quasi sempre nelle sue peregrinazioni in Europa. Forse in un nessun altro luogo della produzione benjaminiana come nella tesi IX è espresso il disprezzo benjaminiano per l’ideologia del progresso,  un progresso che secondo l’ingenua mentalità positivistica – esemplata poi anche dal totalitaristico diamattino marxismo orientale e dall’ingenua visione  della stragrande maggioranza dei  dirigenti e dei militanti di base otto-novecenteschi dei movimenti rivoluzionari  – si doveva sviluppare all’infinito e lungo un vettore assolutamente lineare. Del tutto realisticamente Benjamin rifiutava questa ottimistica e consolatoria visione ma, apparentemente del tutto irrealisticamente, per Benjamin quello che il futuro negava e non ci poteva garantire era riservato al passato: per Benjamin la rivoluzione doveva, in primo luogo, compiere un’azione di salvezza verso tutti coloro che dai dominatori della storia erano stati sottomessi ed eliminati sia a livello individuale che come gruppi sociali e/o etnici.  Apparentemente,  dal punto di vista personale ed anche dell’elaborazione dottrinale del repubblicanesimo geopolitico,  nulla ci potrebbe di essere più distante – fatta eccezione per il  rifiuto dell’ideologia del progresso – dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi  e  dalla  struggente immagine  dell’Angelus Novus  Benjaminiano,  nulla ci potrebbe di essere più distante  dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi e dalla straziante immagine dell’Angelus Novus Benjaminiano che passivamente trasportato dal vento che gli spira fra le ali ha “il viso rivolto verso il passato” ma la grandissima attualità di Benjamin insiste sul fatto che in quest’autore convivono due aspetti che a prima vista sembrano assolutamente antitetici. Del misticismo soteriologico rivolto a resuscitare gli sconfitti abbiamo già accennato, vediamo ora di focalizzarci sul suo realismo politico. Scrive Benjamin nella VIII tesi di Tesi di filosofia della storia:

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Cogliamo qui un Benjamin iperdecisionista ben oltre il decisionismo di Carl Schmitt, un iperdecisionismo benjaminano che aveva ben capito, sempre oltre Schmitt, che la decisione non era tanto quell’elemento che stava fuori dalla norma pur costituendone la base logica ma, molto più semplicemente (e fondamentale) era (ed è) sempre stata l’unica elementare norma di comportamento (e giudizio) degli agenti strategici, di quelle classi, cioè, dominanti che da sempre fanno la storia. E concordando a questo punto interamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo.

Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana del paolino katechon,  ultima mitica risorsa  per arrestare la rivoluzione per il grande giuspubblicista fascista di Plettenberg, cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo ‘iperdecisionismo’  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, é vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma (che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che, anche se disvelati con prudente linguaggio dagli iniziati alle scienze politiche, si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo, si diceva nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica delle liberaldemocrazie hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società basate sulla democrazia elettoralistica a suffragio universale. A chiunque sia onesto e non voglia stancamente ripetere le illogiche assurdità sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è – per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina –  per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. Se i nonsense ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali – che è meglio definire per la loro intima insipienza ceti semicolti –  la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura radicalmente violenta dei rapporti di dominio ma, nel loro caso, per celare la presenza stessa di questi rapporti. E senza dilungarci ulteriormente su questo punto, la “società dello spettacolo”, una società dello spettacolo che con quiz, informazione guidata e di livello cavernicolo, terroristi di cui l’Occidente non ha mai alcuna responsabilità e farlocche invasioni aliene che, oltre ad instillare il bisogno di un’autorità protettrice, non sono altro che la ridicola copertura di esperimenti militari, svolge egregiamente questo ruolo di “distrazione di massa”.

Concordando quindi pienamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo. Se il timido decisionismo di Schmitt era in funzione conservatrice e in perenne attesa – ed evocazione –  del mitico Katechon, il frenatore che avrebbe arrestato la rivoluzione sempre incombente, l’ ‘iperdecisionismo’ benjaminiano è invece il miglior farmaco mai messo punto per la diffusione della consapevolezza presso i dominati che la norma non è altro che la cristallizzazione di una decisione originaria. E se per comprendere che “Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta è necessario il passaggio attraverso una soteriologia rivolta al passato, ben venga allora anche il misticismo di Benjamin: un realismo giunto alla sua massima maturazione ha ben compreso la lezione della I tesi di Tesi di filosofia della storia dove si parla di un automa infallibile nel gioco degli scacchi, il materialismo storico, che è imbattibile al gioco degli scacchi ma al quale questa imbattibilità gli è fornita da un nano gobbo nascosto sotto il tavolo (la teologia) che abilissimo nel gioco manovra l’automa. Per Benjamin è il nano teologico che comanda la partita e lo deve fare di nascosto (perché è piccolo e brutto e quindi la sua presenza, oltre ad essere un barare sulle regole del gioco, non sarebbe stata apprezzata da un pensiero, benché progressista, solidamente realista, come pretendeva di essere la vulgata marxista del tempo infestata, come del resto l’odierno pensiero liberaldemocratico, dalla mala pianta del positivismo). Per noi, meno mistici ma forse consapevolmente più dialettici di Benjamin – e come lui integralmente antipositivisti,  massimamente contro, anche se non solo!, la sua ridicola versione neo à la Popper, tanto per essere chiari – , è alla fine difficile distinguere ciò che è veramente realista da ciò che è mistico e forse, a questo punto, ci  siamo ricongiunti in toto con la IX tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.

 

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