Da “le ali del brujo”: UN ANNO DI GUERRA BILANCI E PROSPETTIVE. Con Gen. M. Bertolini R. Buffagni e G. Gabellini

Il primo anniversario dall’intervento diretto della Russia in Ucraina ha offerto l’occasione di offrire un bilancio politico di un evento che si rivelerà un vero e proprio catalizzatore di profondi mutamenti delle dinamiche geopolitiche. Pubblichiamo una conversazione sull’argomento tra Roberto Buffagni, Giacomo Gabellini e il generale Marco Bertolini organizzata dal sito “le ali del brujo”. Un bilancio che, unitamente a tutta la produzione, tra i vari siti, di “italiaeilmondo”, può offrire numerosi spunti riguardo alle prospettive future in quell’area e in tutto lo scacchiere mondiale. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Il generale Marco Bertolini spiega cosa sta succedendo in Ucraina

Il generale Marco Bertolini spiega cosa sta succedendo in Ucraina

 

Generale Marco Bertolini, fino a qualche settimana fa, sembrava impossibile che la Russia potesse invadere l’Ucraina. Sembrava che la diplomazia stesse lavorando sodo e pareva ci fossero, seppur flebili, spiragli di accordo tra le parti. Cosa è successo dopo? 

Vorrei innanzitutto fare una precisazione: Occidente è un termine che preferirei non utilizzare in quanto improprio. Come può esser definita la Polonia? Occidente o oriente? L’errore di fondo è continuare a ragionare con lo schema della Guerra fredda, che prevede i concetti di Europa orientale e occidentale. Fatta questa premessa, bisogna tenere presente che, dalla caduta del Muro di Berlino, la Russia sente la frustrazione che caratterizza tutte le ex super potenze decadute, che sono costrette ad ingoiare bocconi amari. In particolare, Mosca si è vista strappare molti pezzi del suo ex impero, che sono passati, con armi e bagagli, dall’altra parte. Questa condizione di debolezza era stata accettata da Gorbachev e da Eltsin. Poi è arrivato Putin ed ha impresso una direzione diversa, ricostruendo innanzitutto l’amor proprio russo.

Cosa differenzia Putin dagli altri leader russi?

Putin era diverso da quel leader improbabile che lo aveva preceduto (Eltsin, ndr). Con lui è cambiato tutto lo scenario: la stessa armata rossa, che era ormai diventata un esercito in smobilitazione, ha cominciato a darsi una ripulita, a lustrarsi le scarpe e a rivedere i mezzi. Lo stesso discorso riguarda le altre forze armate, come per esempio la Marina. Quando Putin è andato al potere, il comunismo non faceva più parte del bagaglio politico della nuova Russia, tuttavia il desiderio di tornare ad essere una potenza globale era rimasto molto forte. Putin ha quindi lavorato affinché Mosca tornasse non solo una potenza globale ma anche europea. Cito, per esempio, le aperture nei confronti di Berlusconi, il turismo in Europa, le importazioni: faceva tutto parte di un programma di trasformazione della Russia in senso occidentale ed europeo, che però si è scontrato contro gli Usa.

Perché?

Non era il comunismo in sé e per sé il nemico degli Stati Uniti, ma questa grossa realtà continentale che sarebbe nata se la Russia si fosse unita all’Europa. Se ciò fosse avvenuto, l’America si sarebbe trovata davanti un importante competitor.

Quali sono stati gli errori dei Paesi occidentali hanno portato all’attuale situazione in Ucraina?

A mio avviso uno degli errori più importanti è stato quello di togliere spazio alla Russia e di spingerla verso est, facendo passare armi e bagagli gli ex Paesi del Patto di Varsavia nell’ambito della Nato. La Russia ha sentito questi avvenimenti come un accerchiamento che si sarebbe completato con il passaggio dell’Ucraina nel Patto atlantico e che avrebbe tolto a Mosca qualsiasi possibilità di avere agibilità nel Mar Nero e, di conseguenza, di potersi proiettare nel Mediterraneo. Questo è stato l’errore fatto da parte occidentale.

E quelli della Russia?

Ce n’è uno che è sotto gli occhi di tutti: l’invasione. Ma, va detto, questa invasione è dovuta dal fatto che Putin ha fatto delle proposte di appeasement che, però, sono state rifiutate. Credo che il presidente russo non avesse l’interesse ad arrivare al punto attuale, ovvero a un intervento militare. Resta lo sconcerto, il dolore, la condanna per l’operazione militare. Ma io credo che si debba anche avere la mente lucida e l’onestà intellettuale per riconoscere quelle che sono le esigenze degli altri. Perché è questa l’essenza della diplomazia.

Come si sono mossi i russi? Si aspettava un’invasione di questo tipo? Hanno davvero, come dicono diversi analisti, “il freno a mano tirato”?

Noi ricordiamo ancora gli interventi su Belgrado e Baghdad: erano operazioni aeree decisamente molto più intense di quelle che si vedono ora in Ucraina. Probabilmente quindi sì: il freno a mano è stato tirato, ma per un motivo strategico. Mosca non può non pensare a quello che sarà il dopoguerra con l’Ucraina, in cui sarà necessario riprendere i rapporti cordiali con il popolo ucraino. Mosca non può permettersi di distruggere e umiliare l’Ucraina perché comunque dovrà conviverci. C’è poi un altro fattore che non è da sottovalutare: l’Ucraina non solo faceva parte dei Paesi satelliti dell’Urss, ma era una Repubblica Sovietica dell’Unione. Ci sono dunque anche vincoli culturali e familiari. Bisogna infine tenere presente che quella è una grande pianura e che ci sono familiari da una parte e dall’altra del confine. Che l’Ucraina abbia diritto all’indipendenza non c’è dubbio, ma credo anche che ci siano molte affinità tra i due Paesi, come la lingua, l’alfabeto, la religione ortodossa.

Generale, le faccio la fatidica domanda da un milione di dollari: quali saranno gli scenari del futuro? Cosa accadrà? L’occidente ha comminato delle sanzioni, la Russia ha risposto bloccando i voli britannici. Come si esce da questa situazione?

L’offensiva è appena iniziata, quindi ci sono ancora molte variabili che devono stabilizzarsi. In linea di principio, però, penso che si debba mantenere tra gli Stati quel galateo che una volta era sempre rispettato anche durante le guerre e che consentiva, una volta che le ragioni del combattimento si esaurivano, di tornare alla pace. Certo, con qualche amputazione o rinuncia. Ma si tornava a vivere serenamente. Se i toni si alzano troppo, se la controparte percepisce che l’unica alternativa alla sua vittoria è quella del cappio al collo o della rovina del Paese, temo che le guerre non finiranno mai. Una volta, i conflitti finivano quando una delle due parti diceva: “Basta, ne ho prese abbastanza”. Ma ora tutto è cambiato: se io so che la possibilità di resa non c’è, e che il cappio al collo me lo mettono comunque, è chiaro che combatterò fino alla fine. Noi abbiamo l’interesse che si arrivi alla fine di tutto questo nell’interesse della popolazione ucraina. Per fare questo bisognerebbe che anche i Paesi che non sono direttamente coinvolti, pur esprimendo il loro sdegno e la loro condanna, evitassero di attizzare troppo il fuoco.

https://it.insideover.com/guerra/il-generale-marco-bertolini-spiega-cosa-sta-succedendo-in-ucraina.html

Guarda chi si rivede, l’esercito europeo 24 settembre 2021_ del Generale Marco Bertolini

Proseguiamo con il tema della difesa comune europea_Giuseppe Germinario

Guarda chi si rivede, l’esercito europeo

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Una ventina d’anni fa, nello stesso periodo nel quale iniziava quell’impegno in Afghanistan dal quale siamo usciti sconfitti, l’Italia cambiava il modello della propria Difesa, passando da Forze Armate a coscrizione obbligatoria a Forze Armate basate su personale di truppa volontario.

Tutti gli schieramenti politici volevano fortemente questo cambiamento, certamente necessario per esigenze di funzionalità operativa, ma non fu questo il motivo per il quale venne adottato in un regime di sostanziale unanimità: a destra forse si sperava che una maggiore componente professionale avrebbe dato più peso al tradizionale conservatorismo dei quadri militari; nel “nuovo” centro si auspicava una riduzione  quantitativa di un apparato in buona sostanza ritenuto poco utile, in nome della “lotta agli sprechi” mentre a sinistra, probabilmente, si intravvedeva la possibilità di inserire in uno strumento che si percepiva estraneo alla propria tradizione quelle istanze sociali che avevano già eroso l’autorevolezza dello Stato in altri ambiti.

A partire dalla Scuola: obiettivo conseguito con la recente affermazione delle associazioni sindacali che in buona sostanza smilitarizzano i militari.

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Ora sono in tanti a mangiarsi le mani, vista la caduta educativa alla quale è stata esposta la nostra gioventù, privata del più elementare senso dello Stato, esclusa da ogni rifermento all’orgoglio nazionale e orbata di quel sentimento che portava tutti, anche le ragazze e coloro che magari con qualche amicizia altolocata riuscivano a scansare o edulcorare la naja, a considerarsi in debito con la società.

Anche da questo, l’esplosione della retorica dei diritti, a partire dai più assurdi, che ha sostituito quella un po’ bolsa ma rassicurante dei doveri, da quello dell’obbedienza a quello che potremmo definire della “dignità” dei comportamenti.

Comunque, problema superato: indietro non si torna, infatti, visto che abbiamo smantellato quegli strumenti e quelle procedure che ci consentivano di individuare, chiamare, selezionare, assegnare ai reparti decine di migliaia di giovani ogni anno, tenendo conto dei limiti di età, dei criteri di rivedibilità, dei motivi di studio, dei desiderata, delle situazioni familiari, delle esigenze dei reparti e chi più ne ha più ne metta.

E che con i congedati ci consentivano di costituire unità di riservisti, composte da personale già addestrato con il quale allungare il brodo delle unità in vita in caso di necessità. In compenso abbiamo la Riserva Selezionata, fatta da professionisti di vario genere ma senza alcuna esperienza militare pregressa che con un fucile in mano si troverebbero come minimo a disagio.

Poco male: i fucili, come insegnava un nostro recentissimo ex Presidente del Consiglio, possono essere scambiati con altrettante borse di studio per la pace, senza scandalo e con soddisfazione di tutti.

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Da quel cambiamento radicale sono passati vent’anni e a quanto pare siamo pronti ad un altro passo avanti.

Il riferimento è al cosiddetto “Esercito Europeo” che ora entusiasma tutti coloro che non si sono mai entusiasmati per quello che fanno i nostri marmittoni e che magari preferiscono considerarli dei perditempo o dei pigri guardiani della Fortezza Bastiani, abituati agli ozi di una vita inutile.

Il termine scelto per questa ulteriore invenzione è una irritante semplificazione semantica con la quale si definisce “Esercito” quelle che sarebbero in realtà tutte le Forze Armate, naturalmente; ma come si può pretendere una maggiore definizione, e un maggiore rispetto, da una società a-militare come la nostra?

Ma veniamo al sodo. Intanto varrebbe la pena di osservare che l’ideona nasce, anzi rinasce, proprio con la fine ingloriosa della presenza occidentale in Afghanistan. Tutti a osservare, argutamente, che l’Europa è stata assente di fronte alle decisioni unilaterali statunitensi.

Nessuno, invece, si è sentito in dovere di osservare che l’Europa in Afghanistan era presente, presentissima, con molti contingenti dei paesi dell’UE.

L’Unione avrebbe quindi potuto dire la sua ma ha deliberatamente scelto di abbandonare i “propri” paesi ad una linea d’azione non coordinata e ancillare nei confronti degli Usa, facendo proprie le loro strategie e le loro parole d’ordine.

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Infatti, di fronte a un nemico brutale ma tutto sommato contenibile non abbiamo saputo trovare una linea di comportamento comune, trincerandoci dietro “caveat” e Regole di Ingaggio differenziate da paese a paese proprio per non essere costretti a un impegno percepito in mille maniere differenti. Altro che Esercito Europeo!

In Italia, da questo punto di vista, tutti i governi succedutisi in questi vent’anni hanno evidenziato un sostanziale disinteresse per quel che facevano laggiù i nostri uomini; salvo prodursi, a favore di telecamere, nei soliti fervorini sui burka, sull’istruzione femminile (i maschietti non contano) e su un falso ma rivendicato afflato a-militare dei nostri soldati, quasi fossero una sorta di sanfranceschi intenti a parlare coi lupi. Solo ora sembrano accorgersi, con sorpresa, che invece in quel paese non avevamo solo pozzi da scavare e buoni sentimenti da spandere ma anche un nemico da sconfiggere; un nemico che ha vinto.

Tra le sorprese che spingerebbero a questa nuova necessità, anche la sconcertante constatazione che Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia hanno stretto un’alleanza con funzione anticinese che potrebbe trasformare il “nuovissimo continente” in un’altra semi-superpotenza, con sommergibili nucleari e missili balistici. Ma come?

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Non c’eravamo già noi, i vecchi amici della Nato? Forse sfugge a qualcuno che un’alleanza anglosassone tra Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda (i “Five Eyes”) esiste da sempre ed è la stessa per la quale un semplice alleato Nato non aveva in Afghanistan l’accesso alle stesse informazioni alle quali poteva accedere un Australiano o un Neozelandese magari di passaggio, che della Nato non fanno parte.

E’ inutile girarci attorno, quindi: senza una politica estera comune non è possibile esercitare sforzi militari comuni. Ed una politica estera comune può basarsi solo su un’identità ed un mutuo rispetto attualmente schiacciati da condizionamenti che la rendono impossibile. Si pensi al seggio della Francia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: lo cederà a Ursula Von der Leyen?

E rinuncerà Macron alla sua Force de Frappe rendendola disponibile per interventi approvati “a maggioranza” e che prescindano dagli interessi diretti d’oltralpe? I virtuosi e frugalissimi paesi nord europei accetteranno di spartirsi le decine di migliaia di disperati che approdano nelle nostre coste, complice la nostra inerzia, e che ora è facilissimo bloccare a passi alpini?

La Germania accetterà di perseguire una parità stipendiale tra lavoratori tedeschi, greci e italiani? E noi rinunceremmo a far giudicare da un nostro tribunale un militare olandese o norvegese che avesse commesso un atto che la nostra giurisprudenza considera reato, mentre per i due paesi gli dovrebbe meritare una decorazione al valore?

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Insomma, penso che per l’Italia quella dell’Esercito Europeo sia un’altra seducente parola d’ordine per nascondere il desiderio di sbolognare ad altri la gestione di uno strumento militare che non si ama, assieme a quello che resta della sovranità nazionale, quale esercizio di responsabilità nei confronti del bene comune che ci è stato lasciato dalle generazioni che ci hanno preceduto.

Uno strumento militare del quale non si sa cosa fare, visto che abbiamo rinunciato anche alla politica estera che ne dovrebbe giustificare l’esistenza, come confermato dall’abbandono della Libia, prima ai disegni franco-anglo-americani e poi alle ambizioni della Turchia, dall’assurdo braccio di ferro con l’Egitto nonché dall’umiliazione della nostra cacciata dalla base aerea di Al Minad negli Emirati Arabi Uniti, per non avere onorato precedenti contratti commerciali in materia d’armamento.

Per concludere, quello dell’esercito europeo sarebbe un bellissimo sogno, ma richiederebbe un minimo comun denominatore tra paesi che ora dimostrano differenze di vedute e di interessi tutt’altro che marginali.

E che, forse per questo, si ostinano a non abbandonare gli stereotipi ereditati dalla Guerra Fredda con l’idea decisamente ipocrita di un’Europa Occidentale virtuosa che fronteggia un’Europa Orientale da “rieducare”, come nel caso delle manifestazioni di aperta ostilità verso Ungheria e Polonia, colpevoli di voler tutelare i propri valori, le proprie tradizioni più interiorizzate e la propria dignità.

Foto EUTM Mali ed EUTM Somalia

https://www.analisidifesa.it/2021/09/guarda-chi-si-rivede-lesercito-europeo/

DICHIARAZIONE DEL PRESIDENTE DONALD J. TRUMP_ Commento del generale Marco Bertolini

“Sappiamo tutti perché Joe Biden si sta affrettando a fingersi falsamente vincitore, e perché i suoi alleati dei media stanno cercando così pesantemente di aiutarlo; non vogliono che la verità venga rivelata. La semplice constatazione è che queste elezioni sono tutt’altro che finite. Joe Biden non è stato certificato come il vincitore in nessuno stato, per non parlare di nessuno degli stati altamente contestati avviati a riconteggi obbligatori, o stati in cui la nostra campagna ha avviato sfide legali valide e legittime che potrebbero determinare il vincitore finale. In Pennsylvania, ad esempio, ai nostri osservatori legali non è stato consentito un accesso agibile per osservare le procedure di conteggio. I voti legali decidono chi è il presidente, non i media.
“A partire da lunedì, la nostra campagna inizierà a perseguire il nostro caso in tribunale per garantire che le leggi elettorali siano pienamente rispettate e che il legittimo vincitore sia insediato. Il popolo americano ha diritto a un’elezione onesta. Ciò comporta contare tutte le schede legali e non considerare le schede illegali. Questo è l’unico modo per garantire che i cittadini abbiano piena fiducia nelle nostre elezioni. Rimane scioccante il fatto che lo staff di Biden si rifiuti di concordare con questo principio di base e vuole che le schede elettorali siano contate anche se sono fraudolente, fabbricate o espresse da elettori non ammissibili o deceduti. Solo una parte coinvolta in atti illeciti terrebbe illegalmente gli osservatori fuori dalla sala di conteggio per poi battersi in tribunale per bloccarne l’accesso.
«Allora cosa nasconde Biden? Non mi fermerò finché il popolo americano non avrà il numero di voti onesti che merita e che la democrazia richiede “.
– Presidente Donald J. Trump
Generale MARCO BERTOLINI
Ma ci rendiamo conto di cosa è accaduto con questo imbroglio? Il “modello” applicato in America, è lo stesso che è stato reso operativo anche da noi con l’imposizione di un governo senza alcuna legittimazione elettorale pur di non lasciare il potere ai “fascisti” di Salvini e della Meloni che avrebbero vinto le elezioni a man bassa se si fossero tenute. L’accusa di “fascismo” è infatti autocertificante e non ha bisogno di essere provata, e contro il fascismo (anche quello immaginario visto che quello vero è morto da settantacinque anni) è valido tutto, dal tradimento, alla menzogna, alla nomina di ministri incapaci o palesemente inadeguati, alla violenza. In fin dei conti cos’erano gli anni di piombo col loro motto “uccidere un fascista non è reato” se non una riedizione della resistenza nella quale era addirittura un merito versare il “sangue dei vinti” (soprattutto ben al riparo delle armi alleate)?
Negli USA è successa la stessa cosa: Trump è stato imposto come nemico da abbattere da una macchina mediatico politica trasnazionale e interna e contro di lui vale tutto, dalla guerra civile scatenata dai Black Lives Matter ai brogli elettorali fatti praticamente alla luce del sole con una faccia tosta che fa paura. Addirittura, viene censurato da questo stesso social e da altri, come se l’opinione e le prese di posizione del Presidente in carica degli USA non avesse valore, non sia addirittura di interesse mediatico. Avete capito? La voce del Presidente degli USA, di questo Presidente degli USA, è “trascurabile”, addirittura censurabile.
Il fatto che abbia chiuso guerre aperte dai suoi predecessori e che abbia fatto bene come nessun altro per l’economia del suo paese non conta: “deve” essere violento perchè rifiuta i diktat del politicamente corretto, perchè parla di interesse nazionale, perchè è pro-life mentre il democraticume statunitense e interazionale è abortista, omosessualista e eutanasista, perchè non mette la mascherina e anzi guarisce dal COVID ad una velocità irritante, perchè non vuole una guerra con la Russia (non a caso Biden ha già detto che la Russia è la principale “minaccia”), perchè non ha fatto niente per abbattere anche Assad dopo che il suo predecessore aveva incendiato Medio Oriente e Nord Africa, perchè ha una moglie che con la sua bellezza e il suo garbo è uno schiaffo ai miti del femminismo militante. Per ora si sono fermati lì, facendogli solo sentire il profumo della violenza che saprebbero scatenare. Per ora. Se avrà il coraggio e l’energia di tenere duro sarà possibile tutto, anche se non hanno niente da temere, visto che possono permettersi di violare leggi e norme come vogliono, in nome dei loro principi.
Non ci sono dubbi che la democrazia è arrivata ad un punto di crisi assoluto, o forse alla sua logica evoluzione grazie a mezzi di condizionamento potentissimi come i media e i social, che consentono di impapocchiare qualsiasi cosa, di creare qualsiasi fake-realtà, per il pubblico plaudente. Quanto ci vorrebbe, ora, la voce della Chiesa. Intendo quella cattolica, apostolica e romana

Dalla Germania al Mediterraneo, del Generale Marco Bertolini

“Oltre la politica interna, la mossa voluta da Trump evidenzia il ritorno alla Great power competition, cioè lo sforzo di contrastare la Russia tra Medio Oriente e Libia, e la Cina, attiva con la Via della Seta, che ingolosisce molti Paesi europei”. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Brigata paracadutisti Folgore

Il dispositivo strategico degli Stati Uniti è sempre stato caratterizzato da una generosa disseminazione di forze in buona parte dei Paesi europei, con una concentrazione marcata in Germania (36 mila uomini negli ultimi anni). C’erano ragioni storiche per quest’assetto, tenuto conto che la Germania era stata l’obiettivo primario della guerra di ottant’anni fa e che nel confronto col Patto di Varsavia doveva rappresentare il teatro dello sforzo principale della Nato. C’erano poi ragioni più politiche, come il controllo da vicino di un Paese che ha sempre preoccupato, per le sue potenzialità, “l’amico” americano. Ora, con una recente decisione del Pentagono, circa seimila militari americani “tedeschi” dovrebbero presto essere ripiegati negli Usa, mentre pochi di meno verrebbero ridislocati in altri Paesi europei, tra cui l’Italia, lasciando in Germania “solo” 24 mila uomini circa.

La mossa, fortemente voluta da Donald Trump, evidenzia un suo preciso disegno complessivo nella Great Power Competition, vale a dire nello sforzo statunitense per confermare la supremazia militare nel confronto con Russia a Cina, resa quanto mai urgente dall’attivismo di Mosca in Medio Oriente e in Libia, nonché da quello di Pechino con l’iniziativa della Via della Seta che ingolosisce molti Paesi europei, tra cui il nostro. Inoltre, potrebbe essere utile per conseguire una pluralità di obiettivi diversi.

Prima di tutto, con un occhio alla politica interna statunitense, Potus segna un punto a suo favore, con l’approssimarsi della scadenza elettorale che lo vede contrapposto a Joe Biden, nel confermare al suo elettorato un seppur parziale ridimensionamento del ruolo degli Usa quale poliziotto globale. Così facendo, impone il suo “passo” al partito democratico, che della globalizzazione è un fautore acclarato, e afferma la sua autorità nei confronti dell’establishment. Si impone, infatti, su quel Deep State che ha importanti ramificazioni anche negli alti vertici militari che lo hanno sfidato pure con inedite prese di posizione pubbliche da parte di alcuni famosi generali in quiescenza.

In secondo luogo, per quanto ci riguarda più da vicino, la decisione rappresenta un segnale forte lanciato ai Paesi europei – a partire dalla Germania stessa – da lui accusati di non impegnarsi sufficientemente con un programma di potenziamento militare nell’ambito della Nato. E Berlino evidenzia, al riguardo, l’abbandono delle frustrazioni di ex Paese “occupato” dimostrando di non gradire una mossa che altera uno status quo che ormai gli va bene. Anzi benissimo, se si considera il ruolo di primissimo piano nel quale si è affermato nel Vecchio continente, anche ai danni di altri Paesi come il nostro, come dimostrato dalle recenti questioni inerenti il Recovery Fund che lo confermano leader continentale indiscusso.

Da questo punto di vista, e qui arriviamo al terzo obiettivo, più che il ritiro di una parte dei militari negli Usa, è il ridislocamento di un’altra cospicua parte degli stessi (5.800 uomini) in altri Paesi europei a rappresentare il segnale più forte da un punto di vista strategico. Con questo provvedimento, infatti, si certifica una relativa perdita di importanza della Germania rispetto allo scacchiere meridionale, per il quale da anni l’Italia lamenta una scarsa attenzione da parte della Nato. Il nostro Paese, al contrario, dovrebbe vedere un aumento di forze Usa sul proprio territorio al quale non potrà non corrispondere un cambio del nostro ruolo nel “gioco” militare della super-potenza nel Mare Nostrum, fino ad ora abbandonato alle iniziative turche e francesi, per limitarci ai Paesi della nostra Alleanza. Non so quanto questo possa far piacere a una classe politica che considera le nostre Forze armate il succedaneo povero di quelle dell’Ordine, da impiegare nel controllo del distanziamento sociale nelle spiagge; ma chi riuscisse a fare due più due quattro potrebbe scoprire che il mondo sta cambiando, nonostante le nostre resistenze.

Infine, il provvedimento si presenta come manovra a bilancio zero nella strategia complessiva statunitense, disegnata in buona parte da quello che è stato definito lo stratega di Trump, quel generale Flynn riemerso dalla palude di accuse infamanti alle quali era stato sottoposto ancor prima dell’insediamento del suo presidente. Alla diminuzione delle forze, infatti, corrisponde un aumento in termini di aderenza alle aree più preoccupanti da parte di quelle unità che rimarranno nel vecchio continente. Ciò vale soprattutto per il sud Europa, dal quale il Comando statunitense per l’Africa (AfriCom) potrà esercitare una maggiore influenza sul “continente nero”, col bubbone dell’islamismo radicale che i francesi stentano a controllare nel Sahel. Ma un occhio sarà anche al Sud Europa stesso, esposto dagli egoismi dei sedicenti “frugali” europei alle tentazioni cinesi e russe. E che la frugalità dei contadini, dei minatori e dei pescatori virando a improbabile dote degli speculatori potesse esporre a queste conseguenze anche nel campo strategico è veramente la novità di questi strani tempi. Con la quale è il caso di fare i conti.

tratto da https://formiche.net/2020/07/germania-ritiro-truppe-usa-bertolini/?fbclid=IwAR3k2S1ocdN55ie5O3y60gSb8SzuwHtuAnqyTXxY9tIcxTBeS3T_aG7qsaQ

Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini, di Massimo Morigi

Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini. Elementi contro  la pandemia del  Cthulhu morbus  dello  spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative

 Di Massimo Morigi

«Se vi ricorda bene, Cosimo, voi mi dicesti che, essendo io dall’uno canto esaltatore della antichità e biasimatore di quegli che nelle cose gravi non la imitano, e, dall’altro, non la avendo io nelle cose della guerra, dove io mi sono affaticato, imitata, non ne potevi ritrovare la cagione; a che io risposi come gli uomini che vogliono fare una cosa, conviene prima si preparino a saperla fare, per potere poi operarla quando l’occasione lo permetta. Se io saprei ridurre la milizia ne’ modi antichi o no, io ne voglio per giudici voi che mi avete sentito sopra questa materia lungamente disputare; donde voi avete potuto conoscere quanto tempo io abbia consumato in questi pensieri, e ancora credo possiate immaginare quanto disiderio sia in me di mandargli ad effetto. Il che se io ho potuto fare, o se mai me ne è stata data occasione, facilmente potete conietturarlo. Pure per farvene più certi, e per più mia giustificazione, voglio ancora addurne le cagioni; e parte vi osserverò quanto promissi di dimostrarvi: le difficultà e le facilità che sono al presente in tali imitazioni. Dico pertanto come niuna azione che si faccia oggi tra gli uomini, è più facile a ridurre ne’ modi antichi che la milizia, ma per coloro soli che sono principi di tanto stato, che potessero almeno di loro suggetti mettere insieme quindici o ventimila giovani. Dall’altra parte, niuna cosa è più difficile che questa a coloro che non hanno tale commodità. E perché voi intendiate meglio questa parte, voi avete a sapere come e’ sono di due ragioni capitani lodati. L’una è quegli che con uno esercito ordinato per sua naturale disciplina hanno fatto grandi cose, come furono la maggior parte de’ cittadini romani e altri che hanno guidati eserciti; i quali non hanno avuto altra fatica che mantenergli buoni e vedere di guidargli sicuramente. L’altra è quegli che non solamente hanno avuto a superare il nimico, ma, prima ch’egli arrivino a quello, sono stati necessitati fare buono e bene ordinato l’esercito loro, i quali sanza dubbio meritono più lode assai che non hanno meritato quegli che con gli eserciti antichi e buoni hanno virtuosamente operato. Di questi tali fu Pelopida ed Epaminonda, Tullo Ostilio, Filippo di Macedonia padre d’Alessandro, Ciro re de’ Persi, Gracco romano. Costoro tutti ebbero prima a fare l’esercito buono, e poi combattere con quello. Costoro tutti lo poterono fare, sì per la prudenza loro, sì per avere suggetti da potergli in simile esercizio indirizzare. Né mai sarebbe stato possibile che alcuno di loro, ancora che uomo pieno d’ogni eccellenza, avesse potuto in una provincia aliena, piena di uomini corrotti, non usi ad alcuna onesta ubbidienza, fare alcuna opera lodevole. Non basta adunque in Italia il sapere governare uno esercito fatto, ma prima è necessario saperlo fare e poi saperlo comandare. E di questi bisogna sieno quegli principi che, per avere molto stato e assai suggetti, hanno commodità di farlo. De’ quali non posso essere io che non comandai mai, né posso comandare se non a eserciti forestieri e a uomini obligati ad altri e non a me. Ne’ quali s’egli è possibile o no introdurre alcuna di quelle cose da me oggi ragionate, lo voglio lasciare nel giudicio vostro. Quando potrei io fare portare a uno di questi soldati che oggi si praticano, più armi che le consuete, e, oltra alle armi, il cibo per due o tre giorni e la zappa? Quando potrei io farlo zappare o tenerlo ogni giorno molte ore sotto l’armi negli esercizi finti, per potere poi ne’ veri valermene? Quando si asterrebbe egli da’ giuochi, dalle lascivie, dalle bestemmie, dalle insolenze che ogni dì fanno? Quando si ridurrebbero eglino in tanta disciplina e in tanta ubbidienza e reverenza, che uno arbore pieno di pomi nel mezzo degli alloggiamenti vi si trovasse e lasciasse intatto come si legge che negli eserciti antichi molte volte intervenne? Che cosa posso io promettere loro, mediante la quale e’ mi abbiano con reverenza ad amare o temere, quando, finita la guerra, e’ non hanno più alcuna cosa a convenire meco? Di che gli ho io a fare vergognare, che sono nati e allevati sanza vergogna? Perché mi hanno eglino ad osservare che non mi conoscono? Per quale Iddio, o per quali santi gli ho io a fare giurare? Per quei ch’egli adorano, o per quei che bestemmiano? Che ne adorino non so io alcuno, ma so bene che li bestemmiano tutti. Come ho io a credere ch’egli osservino le promesse a coloro che ad ogni ora essi dispregiano? Come possono coloro che dispregiano Iddio, riverire gli uomini? Quale dunque buona forma sarebbe quella che si potesse imprimere in questa materia? E se voi mi allegassi che i Svizzeri e gli Spagnuoli sono buoni, io vi confesserei come eglino sono di gran lunga migliori che gli Italiani; ma se voi noterete il ragionamento mio e il modo del procedere d’ambidue, vedrete come e’ manca loro di molte cose ad aggiugnere alla perfezione degli antichi. E i Svizzeri sono fatti buoni da uno loro naturale uso causato da quello che oggi vi dissi, quegli altri da una necessità; perché, militando in una provincia forestiera e parendo loro essere costretti o morire o vincere, per non parere loro avere luogo alla fuga, sono diventati buoni. Ma è una bontà in molte parti defettiva, perché in quella non è altro di buono, se non che si sono assuefatti ad aspettare il nimico infino alla punta della picca e della spada. Né quello che manca loro, sarebbe alcuno atto ad insegnarlo, e tanto meno chi non fusse della loro lingua. Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcuno ordine buono, e, per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli, non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati, e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene perdendo ignominiosamente lo stato, e sanza alcuno esemplo virtuoso. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sono state grandi e fiere, tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra e a’ capi suoi. Questo conviene che nasca che gli ordini consueti non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne. Né crediate mai che si renda riputazione alle armi italiane, se non per quella via che io ho dimostra e mediante coloro che tengono stati grossi in Italia; perché questa forma si può imprimere negli uomini semplici, rozzi e proprii, non ne’ maligni, male custoditi e forestieri. Né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare una bella statua d’un pezzo di marmo male abbozzato, ma sì bene d’uno rozzo. Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, è che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine, e non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a’ disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomini e principi eccellenti, erano i primi tra’ combattitori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo stato, e’ volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro, o in parte di loro, si poteva dannare troppa ambizione di regnare, mai non si troverrà che in loro si danni alcuna mollizie o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati e imbelli. Le quali cose, se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna. E perché voi, nel principio di questo nostro ragionamento, vi dolesti della vostra ordinanza, io vi dico che, se voi la avete ordinata come io ho di sopra ragionato ed ella abbia dato di sé non buona esperienza, voi ragionevolmente ve ne potete dolere; ma s’ella non è così ordinata ed esercitata come ho detto, ella può dolersi di voi che avete fatto uno abortivo, non una figura perfetta. I Viniziani ancora e il duca di Ferrara la cominciarono e non la seguirono, il che è stato per difetto loro, non degli uomini loro. E io vi affermo che qualunque di quelli che tengono oggi stati in Italia prima entrerrà per questa via, fia, prima che alcuno altro, signore di questa provincia; e interverrà allo stato suo come al regno de’ Macedoni, il quale, venendo sotto a Filippo che aveva imparato il modo dello ordinare gli eserciti da Epaminonda tebano, diventò, con questo ordine e con questi esercizi, mentre che l’altra Grecia stava in ozio e attendeva a recitare commedie, tanto potente che potette in pochi anni tutta occuparla, e al figliuolo lasciare tale fondamento, che potéo farsi principe di tutto il mondo. Colui adunque che dispregia questi pensieri, s’egli è principe, dispregia il principato suo; s’egli è cittadino, la sua città. E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai debiti tempi, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là con gli anni, me ne diffido. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»: Niccolò Machiavelli, Dell’arte della guerra, libro VII, in   Mario Martelli (a cura di), Niccolò Machiavelli. Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 387-389. Se nel Principe il rapporto fra virtù e fortuna era risolta in un sempre instabile e dinamico equilibrio, con le amare parole dell’anziano condottiero Fabrizio Colonna davanti ai suoi giovani uditori che chiudono L’Arte della guerra («E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»), suggello finale di tutto un ragionamento   dove sì si afferma che sarebbe possibile ripetere, anche se aggiornandole alle moderne esigenze, le virtù e le forme di combattimento dei romani solo se i principi lo volessero, ma i principi non vogliono o non ne sono capaci, Machiavelli ha ormai  risolto in favore della fortuna il dinamico ed instabile rapporto e L’arte della guerra può quindi essere considerata non solo un trattato polemologico (fra poco vedremo, al contrario di quanto ha detto parte della critica moderna, non viziato dal tarlo dell’imitazione dei modelli classici ma di pressante attualità) ma anche il resoconto di un’esistenza, quella del Segretario fiorentino, dove la  grande dottrina sull’arte dello Stato non era stata accompagnata da ugual fortuna nella vita e carriera personali. E veramente ascoltando le due videointerviste e gli interventi che del generale a riposo Marco Bertolini sono pubblicate sull’ “Italia e il Mondo” (le due videointerviste: Istituzioni e sovranità. La funzione dell’esercito italiano. Ne discutiamo con il generale Marco Bertolini ( videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’ Italia e il Mondo”,  19 aprile 2020, agli URL http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/ e                                                                                                            https://www.youtube.com/watch?time_continue=4138&v=U2r8nvufsss&feature=emb_logo, e vista l’importanza del documento  successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge  e https://ia601405.us.archive.org/32/items/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge/y2mate.com%20-%20esercito%2C%20identit%C3%A0%20e%20interesse%20nazionali.%20Una%20conversazione%20con%20il%20Generale%20Marco%20Bertolini_U2r8nvufsss_360p.mp4Intervista al generale Marco Bertolini. Il concetto di sovranità e la sua declinazione in politica (videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il Mondo”, 23 maggio 2019, agli URL originari  http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale                                                                          e https://www.youtube.com/watch?time_continue=694&v=65AUs7rdmZM&feature=emb_logo; successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive, generando gli URL  https://archive.org/details/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina                                                                                                                   e                                      https://ia801504.us.archive.org/15/items/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina/y2mate.com%20-%20intervista%20al%20Generale%20Marco%20Bertolini_La%20sovranit%C3%A0%20e%20la%20sua%20declinazione%20in%20politica_65AUs7rdmZM_360p.mp4. Mentre per quanto riguarda i documenti scritti, all’ URL dell’ “Italia e il Mondo” http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, congelamento Wayback Machine  https://web.archive.org/web/20200429143150/http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, si può prendere visione di Marco Bertolini,  Considerazioni in tema di Forze Armate, in “L’Italia e il Mondo”, 15 aprile 2020;   Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini ( intervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il mondo”, 25 gennaio 2020;  Marco Bertolini, Salvate il soldato  Esposito,  in  “L’Italia e il Mondo” 25 febbraio 2019; Caos migranti. Politica in Africa e caos in Libia. Tutte le colpe della Francia (intervista al generale Marco Bertolini a cura di Paolo Vites), in “L’Italia e il Mondo” 25 giugno 2018 ma originariamente su “Il sussidiario.net. il quotidiano approfondito” 23 giugno 2018, all’URL https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503184858/https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/ e  Marco Bertolini, Ripristino della leva, in “L’Italia e il Mondo” 6 settembre 2018; Idem, Geopolitica spietata, in “L’ Italia e il Mondo” 31 dicembre 2016. N. B. : anche presso  http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini è possibile raggiungere le due videointerviste consultabili presso http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/  e http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale) le assonanze fra la Stimmung (ed anche fra i contenuti) dell’ Arte della guerra con questo corpus pubblicato sul presente blog sono veramente suggestive andando, in entrambi i casi, ben al di là delle indicazioni tecnico-operative necessarie a comandare un apparato militare, ma affermando l’inscindibile legame fra la tecnicalità operativa nell’organizzare lo strumento militare e/o dispiegarlo sul campo di battaglia con il fattore politico, morale e psicologico che ne è il necessario presupposto. Riassunte compendiosamente le idee espresse nel succitato corpus dal generale Marco Bertolini (e che trovano una sorta di loro summa nell’ultima succitata recente  intervista magistralmente condotta da Giuseppe Germinario) sono le seguenti: 1) contrariamente a quanto si è voluto far credere da parte dell’italica – e politicamente  interessata – incultura militare un esercito costituito solo da un piccolo numero di professionisti (come quello che si voluto far diventare l’esercito italiano) è una totale assurdità. La guerra non può essere fatta solo da ristrette élite di corpi ultraspecializzati, dietro (o meglio: davanti) a loro ci deve essere sempre un’ingente massa d’urto; e se va da sé che se questa massa d’urto non può più essere la classica indistinta “carne da cannone” modello guerre napoleoniche o prima guerra mondiale, è ancora più assurdo che la guerra possa essere un affare riservato a qualche corpo ultraspecializzato e/o ultratecnologizzato; 2) conseguentemente a questo primo indiscutibile assunto, con l’abolizione nel nostro paese della servizio militare di leva, nell’esercito italiano è iniziato un inarrestabile declino caratterizzato da A) assoluta impossibilità di essere una reale e credibile difesa dei confini nazionali ma anche di fungere da strumento operativo per supportare, anche se solo a livello di deterrenza e come risorsa di ultima istanza,  la politica estera del nostro paese, B) visti gli esigui numeri conseguiti attraverso la “professionalizzazione” dell’esercito, impossibilità di effettuare un efficace turnover e quindi, in ultima istanza, con conseguente  graduale ed inarrestabile degrado professionale di questi professionisti per una professione, quella delle armi, che tutte le qualità umane richiederebbe, tranne quella di avere uomini da impiegare sul campo con la pancetta dell’impiegato e con gli acciacchi dell’età (con altrettanto conseguente deleteria tendenza da parte di costoro a sindacalizzarsi, il che confligge col più elementare concetto di gerarchia militare), C) vista la reale ed effettiva de professionalizzazione di questi “professionisti”, loro impiego improprio in funzioni di supporto alle forze dell’ordine, cosa in sé non sbagliata in linea di principio ma assolutamente sbagliata nei modi con cui vi si è massicciamente ricorsi in Italia perché, così facendo, si riducono ancor di più i momenti addestrativi di questi professionisti; 3) importanza assoluta nel mestiere delle armi, dal più umile fante alle più alte gerarchie, del fattore etico-morale di coloro che vi si dedicano. Torniamo all’Arte della guerra. I due snodi  sui cui ruota tutto il trattato polemologico machiavelliano sono la ordinanza e il deletto, vale a dire la leva obbligatoria e la scelta e/o addestramento di questi uomini  provenienti dalla leva obbligatoria nei diversi compiti, dove nell’Arte della guerra viene cristallinamente sottolineato che la successiva cernita da questa originaria massa umana proveniente dalla leva obbligatoria deve tenere nel massimo conto la componente etica-morale del combattente, cosa che viene altrettanto cristallinamente sottolineata e ripetuta ad ogni piè sospinto anche nel corpus del generale Bartolini pubblicato sull’  “Italia e il Mondo” e che costituisce, come è di tutta evidenza, il vero e proprio endoscheletro di tutta l’argomentazione illustrata nei precedenti punti. Orti Oricellari, l’accademia filosofico-politica di Palazzo Ruccellai nata nel clima  di un tardo Rinascimento che ha intrapreso la via di inarrestabile decadenza politica e civile e che a questa decadenza cercava di reagire  e in cui il protagonista indiscusso di questo tentativo di reazione fu  Machiavelli e dove il Segretario fiorentino aveva ambientato il suo trattato sull’Arte della guerra che ha  la forma letteraria di un dialogo svolto, appunto, nell’ameno giardino di Palazzo Ruccellai fra Fabrizio Colonna (capitano di ventura dell’epoca realmente esistito ma che, nella realtà, dietro il quale si celava la figura reale di Niccolò Machiavelli, che proprio negli incontri negli Orti Oricellari con i suoi giovani discepoli aveva concepito il suo trattato) e i suoi giovani ascoltatori, e un blog di geopolitica del XXI secolo, “L’italia e il Mondo” dove, nonostante le incommensurabili differenze nelle tecniche comunicative e di  sociabilità fra questi due luoghi di elaborazione politica distanziati da cinque secoli si cerca di far rivivere quella tradizione di realismo politico repubblicano che fiorito in quel tardo Rinascimento diede inizio alla nostra modernità politica, che idealmente ed operativamente ebbe il suo terminus a quo da Machiavelli e non da Hobbes e/o Locke come vorrebbe la vulgata liberale. La giustificazione di questo impegnativo assunto viene anche dalle parole del generale Bertolini, il cui potere iconoclastico rispetto alle attuali “pappe del cuore” del paradigma politico e culturale (e mitologico) democraticisitico-liberal-liberista ci piace vedere riassunto nella seguente sua  affermazione tratta da Geopolitica spietata, pubblicata sull’ “Italia e il Mondo” in data 31 dicembre 2018: «L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici.» e che nella rude parresia di un vigoroso (e combattivo e conflittualistico) repubblicanesimo civile di stampo machiavelliano sembrano quasi fare da contraltare  ai mesti (e totalmente giustificati) scambi di battute dell’ultima intervista di Giuseppe Germinario a Marco Bertolini, nei quali si dispera sulla possibilità di invertire la triste situazione del nostro paese. Ma come Fabrizio Colonna (cioè Machiavelli) disperava nell Arte della guerra di compiere questo revirement, la composizione dellopera avvenuta attraverso i colloqui degli ameni giardini Orti Oricellari ed anche, si parva licet compenere magnis, il nostro continuamente proporre le ragioni di un repubblicano realismo politico, una comunicazione ed elaborazione in cui i qualificati interventi del generale Bertolini costituiscono una preziosa componente, smentiscono questo pessimismo, che può essere sì della ragione ma solo se si premetta, come fa Bertolini, che la ragione non è mai una gelida analisi avulsa dai valori ma un processo dinamico e creatore in cui i valori morali (e quindi anche politici, se per politica si intende unazione pubblica guidata dalla più profonda morale machiavelliana sempre animata alledificazione e rafforzamento, a differenza e con segno polarmente contrario dalle attuali democrazie rappresentative, di una vitale e non retorica Res Publica) rivestono massima ed unica importanza.  Di questo era consapevole Machiavelli, di questo era consapevole Clausewitz (profondo conoscitore del Segretario fiorentino: sullimportanza nel riconoscimento  nel pensiero clausewitziano dello strettissimo legame fra guerra e politica,  cfr. Peter Paret, Machiavelli, Fichte, and Clausewitz in the Labyrinth of German Idealism, “Ethics & Politics”, Vol. XVII(3), 2015,  pp. 78-95, all’ URL  https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E%26P_2015_3_PARET.pdf, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503220857/https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E&P_2015_3_PARET.pdf/) e di questo è assolutamente consapevole anche Bertolini. Fosse sole per questo gli dobbiamo grande gratitudine e, assieme a questo riconoscente sentimento, una profonda fiducia su un comune e fattivo cammino contro la la pandemia da  Cthulhu morbus  dello  spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative e   di cui le ultime vicende epidemiologiche ma soprattutto politiche e giuridiche del coronavirus non sono che lultima e più importante manifestazione e sintomo.  Ma di questo, ed anche sempre sostenuti da un retto pensiero polemologico (e quindi politico) che fu di Machiavelli, di Clausewitz e oggi rivive in Bertolini, fra non molto riparleremo.

Massimo Morigi – 4 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

Istituzioni e sovranità! La funzione dell’Esercito Italiano. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini

Da troppi decenni l’Esercito Italiano fatica a godere di quella considerazione indispensabile a garantire nel migliore dei modi l’esercizio della sovranità nazionale, la cura degli interessi nazionali stessi e la costruzione di una identità e coesione più solida del popolo italiano. Sempre presente nelle ricorrenti situazioni di emergenza interna al paese e costantemente impegnato in numerosi teatri operativi internazionali, questi ultimi a volte giustificati dalla presenza di interessi nazionali, a volte trascinato da strategie estranee, spesso viene relegato al riconoscimento di una funzione ausiliaria. Un atteggiamento che inibisce il peso politico di una istituzione fondamentale nella costruzione di una coesione nazionale lungi dall’essere ancora compiuta. La crisi dell’ideologia globalista sta riproponendo nella giusta dimensione il ruolo degli stati nazionali e la affermazione delle prerogative loro proprie. Le classi dirigenti italiane non sembrano ancora consapevoli delle implicazioni di questo cambio di paradigma. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini_Giuseppe Germinario

*Il Generale di Corpo d’Armata (ris.), Marco Bertolini, è nato a Parma il 21 giugno 1953. Figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein, dal 1972 al 1976, Marco Bertolini ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, è stato assegnato al il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle Forze Armate italiane – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate. Attualmente è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.

L’intervista ha preso spunto dall’articolo apparso sul sito www.ordinefuturo.it , link https://www.ordinefuturo.it/2020/04/14/considerazioni-in-tema-di-forze-armate/?fbclid=IwAR1-mMCh4_OTj74yS8-gPHsw7oYi9qHcsfmTY3iVCmX_dpwd0N9CbGnDYcY , a sua volta ripreso dal nostro sito il 15 aprile scorso

Considerazioni in tema di Forze Armate, del Generale Marco Bertolini

La crisi delle Forze Armate italiane non è cosa recente, ma affonda le sue radici nella storia degli ultimi tre quarti di secolo. Fino alla fine del millennio, in particolare, l’Italia aveva Forze Armate a coscrizione obbligatoria, con pochissime componenti professionali pure. Anche tra gli Ufficiali, vale a dire tra coloro che rappresentano la struttura portante dell’Istituzione, il ricorso a personale di complemento, o dal complemento passato in servizio permanente (il cosiddetto “Ruolo Speciale”- RS) previo superamento di un concorso, era generalizzato. Si trattava comunque di personale preparato, non essendo il superamento di tale concorso una bazzecola. In ogni caso, solo per le figure destinate ad assumersi, con la carriera, responsabilità dirigenziali, si ricorreva ad Ufficiali del “Ruolo Normale”, vale a dire passati attraverso l’iter selettivo e formativo dell’Accademia Militare, e poi della Scuola d’Applicazione e della Scuola di Guerra.  L’Ufficiale d’Accademia era, così, quasi una mosca bianca anche in molti reparti operativi, nei quali molte minori unità (plotoni e compagnie) erano comandate da Ufficiali di complemento o comunque del RS, a conferma della loro sostanziale validità.

Quanto alla truppa, era costituita da giovani chiamati alle armi con una preparazione all’impiego operativo piuttosto superficiale, per forza di cose dato il breve tempo a disposizione per affrontare attività comunque complesse.

Ma un problema ulteriore era rappresentato dalla percezione dell’importanza dello strumento militare da parte dell’opinione pubblica, condizionata a ritenerlo marginale, se non a supporto di altre istituzioni per affrontare situazioni critiche per lo più “interne”. Questo stato delle cose ha portato ad una continua diminuzione delle risorse per una realtà che si riteneva sostanzialmente poco utile, riducendo sempre più le possibilità di addestramento per il quale venivano negati fondi, poligoni, aree addestrative in un vero e proprio crescendo rossiniano.

Arriviamo così all’inizio del millennio ad un punto di svolta: come in tutti i paesi occidentali si decide di trasformare l’Esercito[1] in senso professionale per far fronte ad una nuova missione: l’esportazione della democrazia all’estero e non semplicemente la difesa della soglia di casa. Da Esercito di coscritti, insomma, ad Esercito di professionisti, nel malinteso che la qualità possa sostituirsi alla quantità per un impiego nel quale tra i principi dell’”Arte della Guerra” che si insegnano in tutto il mondo la Massa continua ad avere un ruolo primario. Venne così stabilito, al termine di un processo di ridimensionamento durato anni, che le FA italiane dovessero arrivare ad assommare 150 mila uomini di cui solo 90 mila per l’Esercito, la Forza Armata di riferimento. Quest’ultima, inoltre, veniva privata dell’Arma dei Carabinieri in ossequio al principio bufala della priorità dell’impiego di Polizia rispetto a quello militare puro, mentre l’Arma veniva portata, da sola, ad oltre 120 mila uomini che, in aggiunta ad altrettanti della Polizia di Stato e circa 60 mila della Finanza, e senza contare altre polizie minori e locali, assicurano all’Italia una componente di Ordine Pubblico estremamente importante. Il mito della corruzione italiana e della nostra criminalità congenita che non ci dovrebbe lasciare il tempo di curare i nostri interessi all’estero (con le Forze Armate, quindi) è così servito.

Con tale provvedimento, insomma, si buttò il bambino con l’acqua sporca, arruolando infatti per un impiego che richiede energia ed una certa dose di spregiudicatezza giovanile, personale destinato ad “invecchiare” col fucile in mano. Personale che, contemporaneamente e conseguentemente, era destinato ad un progressivo imborghesimento dovuto all’età che avanza, alle esigenze della famiglia che si costituisce e ai problemi connessi con un menage casalingo che non può adattarsi più di tanto ad un’attività che presuppone trasferimenti, lunghi periodi di impiego lontano dai propri cari, ecc. Le conseguenze di questa situazione assurda le vediamo oggi con la pretesa di sindacalizzare le Forze Armate, con un provvedimento ideologico di portata epocale che tende a snaturarle. Forse non inconsapevolmente.

Insomma, quanto sopraindicato vuole semplicemente evidenziare quale è stato il sostrato sul quale si sono innestati successivamente molti dei provvedimenti che ci portano alla situazione attuale, alla quale si deve certamente porre rimedio, nella consapevolezza che non c’è Sovranità che tenga senza uno strumento militare che la rappresenti e la difenda.

Ma si tratta di un problema molto serio e complesso, che richiederebbe interventi a giro d’orizzonte impossibili da trattare prescindendo da analisi tecniche che devono essere affrontate dagli addetti ai lavori. In linea di principio, invece, quello che credo sia possibile a livello concettuale è individuare i macro-problemi da risolvere, avendo però chiaro che non sono di facile soluzione anche per l’impatto sociale che potrebbero avere.

Uno di questi riguarda la già citata esiguità dello strumento, con particolare riferimento all’Esercito. 90 mila uomini sono pochini, tenuto conto che a differenza delle forze di Polizia una Forza Armata è, per esigenze operative e per la complessità delle funzioni ad essa destinate, una struttura molto gerarchizzata e sfaccettata, nella quale buona parte del personale è destinato a funzioni di Comando e controllo, Comunicazioni, logistiche, scolastiche, addestrative, incomprimibili. Anzi.

In sostanza, in un Esercito di 90 mila uomini quelli materialmente impiegabili sul campo in ruoli esecutivi (col fucile in mano, per intenderci) non possono superare 1/3, 1/4 del totale. E il tutto dovrebbe essere sostenibile nel lungo periodo, fino alla fine dell’emergenza, cosa impossibile in caso di impieghi onerosi in termini di risorse utilizzate, tra cui le vite dei militari.

Ad integrazione di tale componente, quindi, una limitata componente di leva, per tre o quattro Brigate (15-20 mila uomini), da impiegare in compiti meno impegnativi come quelli di supporto alle Forze dell’Ordine o per alimentare la componente professionale con personale già scremato, a questo punto, potrebbe essere quindi opportuna; ma non si può ignorare che per una funzione che implica selezione, chiamata, ricezione, vestizione, accasermamento, vettovagliamento di personale sempre nuovo servono strutture e strumenti che abbiamo in buona parte perso, a partire dai Distretti Militari. E dalle caserme, molte delle quali ormai dismesse ed inutilizzabili. Insomma, non credo che sia possibile procedere ad una ripresa della leva senza investimenti significativi.

Una soluzione ottimale, per integrare in un primo tempo e poi per rimpolpare la componente “professionale” dell’Esercito, ma difficile da percorrere in un paese che aborrisce ogni accenno al precariato, è quello di una ferma limitata a tre, massimo sei anni, per chi ne faccia domanda. Una soluzione del genere potrebbe essere percorribile anche a fronte della presumibile crisi occupazionale dei prossimi anni, offrendo ai giovani che lo vogliano un impiego a tempo determinato, e non rinnovabile a meno di casi eccezionali da valutare di volta in volta. Con i giovani in uscita da questo impiego, si potrebbero così ricostituire delle riserve effettivamente operative, da richiamare per periodici aggiornamenti ed alle quali assicurare  alcuni dei pochi benefit rimasti ai militari in servizio, come la fruizione dei pochissimi circoli sopravvissuti alla furia iconoclasta dei moralizzatori antimilitaristi che ha dato il peggio di sé negli ultimi tre decenni.

Ciò detto, riterrei quindi prima di tutto necessario invertire urgentemente l’attuale decremento dell’Esercito portandolo ad una forza decisamente superiore all’attuale, auspicabilmente dell’ordine delle 120 mila unità circa, almeno. Ma si tratta di un argomento che non può essere affrontato a colpi d’accetta e deve soprattutto tenere conto di esigenze di fattibilità che non si possono banalizzare. Tra queste, la necessità – di segno contrario – di “smaltire” (si perdoni il termine crudo) molti dei militari di truppa più anziani di cui accennerò oltre. E poi, ci sarebbe la necessità di rendere più attrattiva la professione militare, per incentivare domande di arruolamento che, da quando ha cominciato a venire meno l’impiego impegnativo e rischioso in Afghanistan per essere sostituito da quello ripetitivo e frustrante di Strade Sicure, è in drammatico calo.

Nella componente più operativa, dovrebbe poi essere potenziata la componente corazzata e pesante, ridotta al lumicino con la scusa delle “operazioni di pace” e si dovrebbero ripristinare le scorte, letteralmente “mangiate” da decenni di operazioni fuori area senza finanziamenti sufficienti a sostenerle.

Sarebbe necessario inoltre rivitalizzare capacità trascurate negli ultimissimi decenni e fondamentali, come la componente sanitaria militare, che si è dimostrata fondamentale in Afghanistan e che si conferma importantissima ancorché sottodimensionata con l’esplodere dell’epidemia del coronavirus. In sostanza, all’unico Policlinico Militare del Celio ritengo che dovrebbero aggiungersi altri 2 o 3 Ospedali militari con le stesse potenzialità nel resto del territorio, almeno nelle maggiori città. Si tratterebbe, insomma, di un parziale ma necessario ritorno all’antico.

Un altro argomento importante riguarda la Riserva, strumento indispensabile per assicurare sostenibilità a impieghi prolungati nel tempo e “usuranti”. Infatti, la riserva che ci era assicurata ai tempi della Leva da un complesso meccanismo che consentiva di tracciare i congedati, di richiamarli per addestramento e anche di farli avanzare nei gradi, non esiste più se non nella cosiddetta “riserva selezionata” finalizzata però ad assicurare professionalità non militari per compiti non operativi (giornalisti, laureati in scienze politiche, avvocati, laureati in economia, ecc..) nelle cosiddette operazioni “di pace”. Per assicurare invece il ricambio o il rinforzo delle componenti operative vere e proprie è necessaria una riserva diversa, prevalentemente fatta da giovani già addestrati e selezionati. In questo, il ricorso alla leva o alla forma di servizio “precario” citato in precedenza dai quali trarli è imprescindibile.

Quanto al modello della Nazione Armata al quale molti fanno riferimento, come quello svizzero o dell’ex Jugoslavia, si tratta di un’idea seducente ma difficile da attuare. Non si potrebbe trattare di un’alternativa all’Esercito attuale, ma di una realtà ad esso complementare, stante la necessità comunque di una componente professionale idonea ad utilizzare procedure e mezzi sempre più complessi. Insomma, si dovrebbero avere due linee di comando, due strutture di formazione, logistiche, di comunicazione.  Si tratterebbe anche qui di partire da zero per realizzare quello che non c’è, ma non sarebbe né facile né a buon mercato: a meno che non si pensi che basti un po’ di addestramento al tiro e qualche lezione di ordine chiuso in cortile per avere un’unità moderatamente affidabile, ancorché per compiti di basso livello. E’ certamente un’idea seducente, dicevo, ma deve essere sfrondata dalla tentazione, da parte di molti non-militari invaghiti della militarità, di ritagliarsi un ruolo con le stellette al quale dedicare il proprio tempo libero. Insomma, non deve essere lasciato spazio a quella specie di “grillismo” trasversale che porta anche molti dei favorevoli alle Forze Armate a ritenere che “la guerra sia una cosa troppo seria per lasciarla fare ai Generali”, propendendo per un approccio dilettantesco destinato a non rappresentare molto più di un hobby di lusso.

Detto questo, un problema molto difficile da risolvere è poi quello del complessivo invecchiamento dello strumento. Un errato riferimento alle forze di Polizia, già basate su personale “professionale”, nonché femminile, al momento della professionalizzazione dell’Esercito ha portato infatti al transito nel “servizio permanente” anche gli incarichi della truppa, nell’intesa che per fare le “operazioni di pace” anche un 50enne con lo schioppo sarebbe stato sufficiente. Ma questo non è vero, come si è visto parzialmente nelle nostre operazioni e come fa presagire lo scenario conflittuale che ci circonda. Il Soldato, insomma, deve essere giovane e scavezzacollo. E rassegnato ad una sobria e decorosa precarietà, a meno di diventare immancabilmente un peso quando la pancetta avanza. Quindi è necessario cercare di smaltire i più anziani, tentativo intrapreso anche da qualche governo precedente (non gli ultimi due che sono di quanto più a-militare possa essere concepito), ma si tratta di uno sforzo inutile se la consapevolezza di tale esigenza non è unanimemente accettata. Si tratterebbe infatti di dirottare in altre amministrazioni, dove un 50enne affidabile potrebbe dare ancora molto, chi non è più nell’età e nelle condizioni fisiche di fare il passo del leopardo. Ma appunto, è questo un problema non indifferente, per il quale non esistono soluzioni facili e a buon mercato.

Insomma, le Forze Armate fanno quello che possono in un paese che non brilla per attenzione per le stesse e per la disponibilità di una politica estera matura che ne motivi l’esistenza. Normalmente, anzi sistematicamente, si fanno apprezzare in ambito internazionale per efficienza e per una serietà e disponibilità all’impiego che contraddicono molti degli stereotipi che come Italiani ci portiamo nello zaino, ma hanno bisogno di essere aiutate a ripristinare capacità e risorse che negli ultimi lustri si sono assottigliate pericolosamente. Chi le ama e ne vuole approfondire vulnerabilità e punti di forza per migliorarle deve però esercitare prudenza e buonsenso, partendo dal presupposto che in una materia di tale complessità i sogni pindarici di chi crede che si possa partire da un foglio bianco per tracciare la rotta del futuro commette un errore madornale. Le Forze Armate sono prima di tutto, infatti, uomini, con i loro sogni, le loro aspirazioni e le loro capacità, delle quali è necessario tenere conto.  E sono come un treno in movimento, che non può fermarsi per sostituire una ruota o per rinnovare un vagone sgarrupato. Sono interventi che devono quindi essere effettuati in corsa, con tutte le difficoltà del caso, tra cui quella di evitare un deragliamento del quale pagherebbe lo scotto tutta l’Italia.

*Il Generale di Corpo d’Armata (ris.), Marco Bertolini, è nato a Parma il 21 giugno 1953. Figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein, dal 1972 al 1976, Marco Bertolini ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, è stato assegnato al il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle Forze Armate italiane – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate. Attualmente è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.


[1] Quanto riferito all’Esercito è parzialmente sovrapponibile alle altre due Forze Armate (Marina e Aeronautica), fatti i debiti distinguo per la maggiore componente tecnologica del loro impiego.

https://www.ordinefuturo.it/2020/04/14/considerazioni-in-tema-di-forze-armate/?fbclid=IwAR1-mMCh4_OTj74yS8-gPHsw7oYi9qHcsfmTY3iVCmX_dpwd0N9CbGnDYcY

Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini

Lo scenario libico e le condizioni che potrebbero rendere praticabile l’ipotesi di una forza militare di interposizione secondo l’autorevole punto di vista del generale Marco Bertolini, in una intervista tratta dal sito https://formiche.net/2020/01/libia-missione-pacificazione-bertolini/?fbclid=IwAR3AzgqDQQe6g9PS2BBufcJm2of0Hk9O3MAafHrqtkfIML5xkWmOru7Ojrc

Generale, dalla Conferenza di Berlino è arrivato il via libera per un comitato congiunto di supervisione sulla tregua. Basterà per evitare l’inasprimento del confronto sul campo?

È sicuramente un punto di partenza. Per ora ci dobbiamo accontentare. Haftar si sente militarmente forte per adesso, e il fatto che abbia accettato un comitato congiunto con il suo competitor per vigilare sulla tregua è di per sé positivo. Bisogna però vedere cosa accadrà nei prossimi giorni.

Non crede alla tregua?

Sul processo generale permangono molti dubbi. La situazione è fluida. Haftar è a un passo da Tripoli, nella periferia sud della città. Non vorrei che la tentazione di risolvere la questione prima che i turchi rafforzino il sostegno a Serraj giochi brutti scherzi.

C’è poi l’ipotesi di mandare degli osservatori dell’Onu. Cosa significa?

Onestamente credo che in una situazione come quella attuale gli osservatori non otterrebbero grandi risultati. Ci sono osservatori delle Nazioni Unite nel Sahara occidentale, a Cipro tra turchi e greci, nel Kashmir tra Pakistan e India. Sono situazioni in cui non è in corso una guerra combattuta, ma in cui c’è uno stato di non belligeranza abbastanza stabile. Per la Libia, sempre che le parti lo accettino, sarebbe più funzionale un modello tipo Libano, fatte chiaramente le dovute differenze.

È stato il ministro Di Maio a proporre un “modello Libano”. Ma quali sono le differenze?

Prima di tutto in Libano c’è una linea di confronto definita, la cosiddetta blue line al confine con Israele, marcata dai “blue barrel”, materialmente chiusa da una recinzione che corre in zone disabitate o scarsamente abitate. Vigilare su di essa è relativamente semplice. Se per “modello Libano” intendiamo la replicazione di Unifil, da un punto di vista operativo siamo fuori strada. In Libia la situazione è ben diversa: la linea di confronto è molto frastagliata, si inserisce negli abitati e persino in grandi città come Tripoli e Sirte, attualmente occupata dalle milizie di Haftar. Servirebbero dunque forze di diverso tipo e di diversa entità rispetto a quelle impiegate in Libano.

Intende più equipaggiate?

Senza dubbio. Si tratterebbe di un contingente internazionale con parecchi partecipanti. Ammesso e non concesso che i contendenti accettino il nostro Paese (credo e spero di sì), dovremmo avere il comando e controllo, presumibilmente a Tripoli, che però è già zona di confronto.

E poi?

Poi servirebbe una componente per controllare materialmente una linea di confronto che spesso è difficile da individuare. In Libano si fa con i pattugliamenti. In Libia servirebbe invece anche una presenza fissa, e dunque delle unità di fanteria in un numero cospicuo.

Si è fatto un’idea?

La missione Onu in Libano conta circa undicimila militari, di cui 1.100 italiani. In una prima approssimazione, procedendo per pennellate, direi che non si potrebbe risolvere la questione libica senza quantomeno raddoppiare questi numeri.

È la famosa “forza di interposizione”?

Esatto. Attualmente esiste solo in Libano con la missione Unifil. Il concetto andrebbe adattato alla Libia. Oltre alle unità di fanteria per presidiare il territorio lungo la frastagliatissima linea di contatto, ci sarebbe bisogno di una componente di riserva, la cosiddetta Quick reaction force, una forza di pronto intervento in grado di intervenire laddove sorgano problemi di carattere tattico. Dovrebbe inoltre avere una sua pesantezza.

Che intende?

Le forze che si confrontano in Libia hanno a disposizione unità pesanti e corazzate. Con il solo intervento di uomini appiedati non sarebbe possibile garantire la tregua. Sarebbe difatti necessaria anche la componente eliportata, basata su un aeroporto che potrebbe essere quello di Tripoli o di Misurata, o addirittura entrambi. Servirebbe a proiettare rapidamente le forze, uomini e fuoco, ad esempio i nostri elicotteri AW129 che si sono dimostrati risolutivi in Afghanistan in moltissime occasioni. Va infatti considerato che c’è anche un terzo incomodo sul campo.

Quale?

L’Isis. Troppo spesso ci concentriamo solo su Haftar e Serraj, ma le forze jihadiste restano radicate in molte zone del Paese, con una presenza ancora forte nell’entroterra. È questo un motivo per cui non ci si potrà limitare a un pattugliamento o a una presenza leggera. Servirà una capacità di risposta importante anche nell’eventualità di azioni dell’Isis che approfittino della situazione. A tutto questo va aggiunta la componente logistica, a partire dal supporto sanitario.

Si potrebbe sfruttare l’ospedale da campo che l’Italia ha stabilito a Misurata?

Certo. Tra l’altro si trova all’interno dell’aeroporto, cioè una zona facilmente accessibile da cui potrebbero partire gli elicotteri per l’evacuazione sanitaria di eventuali feriti. Si consideri inoltre che l’Italia è in una condizione particolare. Qualora partecipi a tale ipotetico impegno, potrebbe sfruttare il proprio territorio metropolitano, ad esempio con l’aeroporto di Lampedusa, a circa 300 chilometri dalle coste libiche, in cui potrebbe essere schierata la componente elicotteristica. Quest’ultima potrebbe poi utilizzare le piattaforme navali di cui disponiamo, non solo le portaerei, ma anche le Lpd, navi anfibie come la San Marco o la San Giorgio, per i rifornimenti. Alla base di tutto resta però una valutazione strategica.

Ci spieghi meglio.

Per l’Italia sarebbe importante avere una presenza a Tripoli in caso di missione. Abbiamo investito per anni con la presenza militare e con il contatto costante con le autorità locali. Abbiamo conoscenza della situazione, e la città è favorevole nei nostri confronti. Qualora partisse un impegno internazionale, dovremmo essere in grado di farci assegnare come settore non una parte desertica, ma la linea di costa che da Tripoli arriva fino alla frontiera tunisina. A metà strada c’è lo snodo di Mellitah da cui parte il Greenstream, un gasdotto da cui in passato arrivava il 25% del nostro rifornimento energetico, ora ridotto all’8%. È importante inoltre essere presenti dove sono gli impianti dell’Eni, compreso nel Fezzan. Tra l’altro, la linea di costa tra Tripoli e la Tunisia è quella utilizzata dai trafficanti di esseri umani. La presenza nella zona garantirebbe deterrenza e repressione di tale attività.

Per l’embargo delle armi, pare ormai probabile prima di tutto il rilancio della missione europea Sophia. Potrebbe funzionare?

Nella sua terza e quarta fase, la missione Sophia doveva proiettare la sua presenza nelle acque territoriali libiche e sulla costa del Paese nordafricano, proprio al fine di intervenire contro i trafficanti. Si è però fermata alla sua seconda fase, cioè al controllo in alto mare. Se messa a sistema con una presenza di forze sul terreno, ora potrebbe riuscire ad avanzare come non è riuscita a fare in passato.

In ogni caso, un intervento militare richiede il consenso delle forze libiche e il mandato dell’Onu. Giusto?

Non c’è ombra di dubbio. Serve l’egida delle Nazioni Unite. Non sono mai state eseguite operazioni di questo tipo senza il mandato dell’Onu. Solo in Libano nel 1981 si è utilizzata la formula dalla coalizione di volenterosi dopo l’operazione Pace in Galilea, ma era una situazione profondamente diversa. All’epoca, l’Onu non aveva maturato l’esperienza che ora ha acquisito grazie a Unifil in Libano.

E una missione con il cappello dell’Ue?

All’Unione europea farebbe molto comodo poter condurre un’operazione del genere. Permetterebbe di presentarsi come entità capace di condurre operazioni di pacificazione, ma non credo che possa farlo senza il mandato dell’Onu. Inoltre, per ragioni di prossimità, l’Ue ha troppi interessi in campo per ritagliarsi il ruolo di attore terzo. Diverso il caso in cui decidesse di imporre la pace e di intervenire senza il consenso delle parti in campo, ma è un’ipotesi remota e non si tratterebbe di interposizione ma di vera e propria guerra. Una politica poco credibile, tra l’altro ammesso che esista una politica estera e militare dell’Unione europea.

Perché all’inizio della nostra conversazione ha detto che “spera” che l’Italia partecipi a un’eventuale missione in Libia?

L’Italia è purtroppo stata cacciata dalla Libia. L’interventismo turco l’ha resa marginale, ed è un peccato alla luce dei rapporti importanti che il nostro Paese ha con i libici. Il nostro interesse andrebbe tutelato. Per questo, se si presentasse l’opportunità di un accordo tra Haftar e Serraj, non vedrei male un intervento italiano. In questo caso, l’Italia dovrebbe avere la forza di fare in modo che gli interessi nazionali siano condivisi dalla comunità internazionale, che sia l’Onu o l’Unione europea. Che non partano flussi incontrollati di migranti o che venga assicurato il rifornimento energetico non è un problema solo italiano.

I margini per farsi valere sembrano però pochi.

È vero. Bisogna vedere se gli interlocutori libici accetteranno una maggiore presenza italiana. Serraj ha già preferito i turchi a noi, mentre con Haftar abbiamo sempre avuto un rapporto altalenante avendo deciso di seguire la linea Onu. Eppure, abbiamo ora il dovere di non appoggiarci semplicemente alla comunità internazionale. L’Italia ha già pagato tanto per una guerra fatta contro i suoi interessi e sta continuando a pagare con una migrazione mal ripartita. Deve chiarire il suo diritto sacrosanto a far valere i suoi interessi prioritari.

 

intervista al Generale Marco Bertolini_ Il concetto di sovranità e la sua declinazione in politica

Qui sotto una importante intervista al Generale Marco Bertolini. Si parte dalla sottolineatura del concetto di sovranità e della sua imprescindibile deglinazione in qualsivoglia azione politica. Si passa poi al riconoscimento dell’importanza degli strumenti dello Stato che consentono l’esercizio di queste prerogative in un contesto geopolitico sempre più complesso. Marco Bertolini, già Comandante della Folgore, ha assunto numerosi ed importanti incarichi nelle più svariate missioni all’estero dei contingenti militari italiani. Un patrimonio prezioso di esperienza al servizio del paese e della nazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_In alcune parti la qualità dell’audio, dovuta ad un collegamento telematico non ottimale, non consente un ascolto agevole e lineare_Ce ne scusiamo con gli ascoltatori e con il Generale Marco Bertolini. Siamo sicuri che l’importanza degli argomenti rendano sopportabili tali mancanze

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