2024: non ci sono vincitori, di Roberto Iannuzzi
2024: non ci sono vincitori
Un’America in crisi all’interno tenta una proiezione “muscolare” all’esterno. Infrantasi contro il “muro” russo in Ucraina, affonda nel ventre molle mediorientale trainata dall’ariete israeliano.
Sebbene i bilanci di fine anno si risolvano spesso in stucchevoli elenchi di eventi e in previsioni il più delle volte erronee, al termine di un’annata così tragica e tumultuosa come quella che si sta chiudendo sarà forse utile tracciare un bilancio per tentare di comprendere cosa ci riserva il futuro.
Il 2024 era iniziato mentre infuriava la violentissima operazione militare di Israele a Gaza, e i primi omicidi mirati israeliani in Siria e Libano, così come gli attacchi degli Houthi (gruppo yemenita altrimenti noto come Ansar Allah) al traffico commerciale nel Mar Rosso, lasciavano presagire un possibile allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale.
Nel frattempo, dopo la fallita controffensiva delle forze armate ucraine nell’estate del 2023, il conflitto nel paese est-europeo ha cominciato a volgere al peggio per Kiev. L’Ucraina mancava di uomini e mezzi. L’Occidente stava perdendo la sfida della produzione bellica con la Russia.
Anche a causa dei contraccolpi della guerra ucraina, nel 2024 l’Europa ha iniziato a sprofondare in una crisi economica e politica in gran parte frutto delle disastrose scelte degli anni passati: le prolungate politiche di austerità, la ridefinizione delle catene di fornitura avviata con la crisi del Covid-19, la decisione europea di rinunciare all’energia a basso costo fornita dalla Russia.
I due paesi leader dell’UE, Germania e Francia, hanno cominciato ad avvitarsi in gravi crisi interne che hanno intaccato progressivamente la loro stabilità politica.
Nel vano tentativo di rovesciare le sorti del conflitto in Ucraina, i paesi NATO hanno adottato tattiche sempre più provocatorie (sebbene militarmente inconcludenti), incoraggiando Kiev a colpire obiettivi in territorio russo e violando progressivamente le “linee rosse” di Mosca.
L’incursione ucraina nella regione russa di Kursk con il probabile aiuto occidentale, ad agosto, preannunciava un autunno che si sarebbe rivelato drammatico, soprattutto in Medio Oriente, dove nel frattempo la campagna di sterminio condotta da Israele a Gaza non accennava a diminuire di intensità.
L’assassinio del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, l’invasione israeliana del Libano e lo scambio missilistico fra Iran e Israele hanno segnato la definitiva regionalizzazione della crisi scoppiata a Gaza all’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
Tale regionalizzazione ha portato inaspettatamente alla caduta del regime del presidente Bashar al-Assad in Siria, disarticolando l’asse filo-iraniano e aprendo la strada a una possibile ridefinizione degli equilibri mediorientali.
Nel frattempo, l’elezione di Trump in un’America in crisi ha acceso flebili speranze sulla possibilità di avviare un negoziato con la Russia, ed aperto nuovi interrogativi sulle future politiche USA nei confronti di Europa, Medio Oriente e Pacifico.
Crisi delle democrazie
Nel corso di quest’anno, ha destato crescente preoccupazione lo stato di salute della democrazia all’interno del fronte occidentale che, nella retorica americana, sarebbe minacciato da uno schieramento di “autocrazie” guidato da Russia e Cina.
L’impeachment del presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol dopo il suo ingiustificato tentativo di imporre la legge marziale, l’annullamento delle elezioni presidenziali in Romania, l’ostinazione con cui il presidente francese Emmanuel Macron ha ignorato i risultati elettorali nel suo paese, la caduta del governo Scholz in una Germania sempre più disorientata, rappresentano altrettanti segnali di un modello occidentale in crisi.
Particolarmente preoccupanti gli eventi verificatisi in Corea del Sud e Romania, in quanto indicativi di una finora trascurata fragilità delle cosiddette “democrazie”.
Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol era stato in precedenza accusato di gravi episodi di corruzione e di abuso di potere, volti soprattutto a bloccare le indagini a carico di sua moglie. I retroscena che hanno preceduto il suo tentativo di imposizione della legge marziale sono inquietanti.
Nel quadro delle crescenti tensioni con la Corea del Nord (Yoon è un alleato chiave degli Stati Uniti nel Pacifico, e nel 2023 si erano avuti nella penisola coreana 200 giorni di esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul), sarebbero stati inviati droni in territorio nordcoreano dal governo di Seul, allo scopo di suscitare una reazione di Pyongyang che avrebbe giustificato l’introduzione della legge marziale.
Non meno sconcertante è quanto accaduto in Romania, dove la Corte Costituzionale ha annullato i risultati del primo turno di elezioni presidenziali, dopo il quale era in vantaggio il candidato “antisistema” Calin Georgescu, sulla base di vaghe accuse di ingerenze russe. Una decisione condannata perfino da Elena Lasconi, l’avversaria centrista ed europeista di Georgescu, che ha definito tale decisione “illegale e amorale” affermando che essa “distrugge l’essenza stessa della democrazia”.
Georgescu si oppone al sostegno militare europeo all’Ucraina e vorrebbe aprire un dialogo con Mosca. Un cambiamento che “avrebbe conseguenze molto negative sulla cooperazione di sicurezza degli USA con la Romania”, ha ammonito il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller.
Secondo le accuse, la popolarità di Georgescu sarebbe stata alimentata da una campagna propagandistica russa su alcuni social media, ed in particolare su TikTok, smascherata dai servizi di intelligence.
Ma un reportage investigativo apparso sulla stampa rumena ha rivelato che tale campagna sarebbe stata organizzata da un’agenzia di marketing ingaggiata dal Partito Nazionale Liberale, il partito di governo che ha appoggiato l’annullamento delle elezioni.
La Romania è un paese strategico per lo sforzo bellico NATO a sostegno dell’Ucraina. Essa ospita la base aerea Mihail Kogălniceanu sul Mar Nero, che al termine degli attuali lavori di ampliamento diventerà la più grande base NATO in Europa.
Il partito al potere avrebbe dunque usato i servizi di intelligence per annullare le elezioni, sulla base di prove riguardanti presunte “ingerenze straniere” in realtà fabbricate dal partito stesso, probabilmente allo scopo di impedire una svolta nell’orientamento geopolitico del paese.
In una simile eventualità, la Romania andrebbe infatti ad aggiungersi a paesi come Ungheria e Slovacchia, mettendo ulteriormente a repentaglio la compattezza del fronte europeo contro la Russia.
Sforzi europei contro la pace
Quanto avvenuto in Romania è emblematico del clima che si respira in Europa, dove uno stuolo di personalità politiche, dal ministro degli esteri britannico David Lammy all’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri Kaja Kallas, al segretario generale della NATO Mark Rutte, solo per citarne alcuni, stanno lavorando per far naufragare ogni futura apertura negoziale con Mosca eventualmente promossa dal neoeletto presidente americano Donald Trump.
Altrettanto pericolosa è la proposta, ventilata dalla Francia e da altri paesi europei, di schierare una “forza di pace” europea in Ucraina, al di fuori della cornice NATO, una volta raggiunto il cessate il fuoco nel paese.
Secondo le intenzioni, una tale forza dovrebbe essere composta da almeno 50-60.000 uomini, e pesantemente meccanizzata, al fine di costituire un efficace elemento di deterrenza nei confronti di una possibile volontà russa di riprendere le ostilità.
Una forza del genere non sarebbe permanente, ma verrebbe schierata per il tempo necessario a permettere a Kiev di riarmarsi ad un livello tale da dissuadere un eventuale attacco russo.
Inoltre, sebbene la proposta non preveda lo schieramento di truppe USA, una forza europea richiederebbe un sostegno americano a livello di pianificazione, logistica, e intelligence.
In altre parole, quello proposto sarebbe in concreto un contingente di guerra composto dagli stessi paesi che sostengono Kiev, appoggiato dagli Stati Uniti, cioè a tutti gli effetti (sebbene non ufficialmente) un insediamento della NATO in Ucraina – esattamente lo scenario che la Russia considera inammissibile, e per scongiurare il quale ha invaso il paese.
Un cessate il fuoco che preveda l’ingresso di forze NATO in Ucraina e permetta a Kiev di riarmarsi sarebbe del tutto inaccettabile per Mosca, e dunque rifiutato in partenza.
Fortunatamente, è abbastanza difficile che gli europei abbiano le capacità per mettere insieme un simile contingente, tanto più che paesi come Germania e Polonia hanno già espresso in vari modi la loro riluttanza a partecipare ad una simile operazione.
Prima ancora di pensare a un cessate il fuoco, peraltro, va sottolineato che non è affatto scontato che Trump e il presidente russo Vladimir Putin arrivino ad un accordo, per la semplice ragione che non sono affatto chiare le loro reali intenzioni.
Secondo le notizie più recenti, Trump si sarebbe persuaso a mantenere invariata la fornitura di armi USA a Kiev dopo il suo insediamento, e intenderebbe armare l’Ucraina anche dopo il raggiungimento di un cessate il fuoco allo scopo di garantire la sicurezza del paese in base al principio “peace through strength” a lui così caro.
Ma questo, ancora una volta, sarebbe uno scenario inaccettabile per Mosca, che chiede un’Ucraina neutrale e smilitarizzata.
D’altra parte, l’entourage di Trump sarebbe ossessionato dalla paura di riprodurre in Ucraina un esito analogo al caotico ritiro dall’Afghanistan compiuto dal presidente Joe Biden nel 2021.
Fra i timori e i ripensamenti di Trump e della sua squadra, e l’atteggiamento non cooperativo di molti paesi europei, però, le prospettive di giungere a un’intesa con Mosca si riducono terribilmente.
Preservare una scricchiolante egemonia
L’Europa rappresenta uno dei teatri più caldi e strategici nella battaglia in corso per la ridefinizione degli equilibri mondiali.
Grazie al conflitto ucraino, Washington ha per il momento bloccato uno dei fattori chiave dell’integrazione euro-asiatica che metterebbe a rischio la sua egemonia: il consolidarsi di un sistema economico integrato euro-russo.
La nuova cortina di ferro venuta a crearsi in Europa non può pertanto essere messa a rischio da una risoluzione della guerra ucraina, secondo la prospettiva dell’establishment USA. Al più, si potrebbe pervenire ad un congelamento del conflitto che preservi l’attuale contrapposizione geopolitica.
D’altra parte, se la rinnovata divisione del vecchio continente costituisce un successo per Washington, l’inaspettata resilienza dell’economia russa di fronte al durissimo sistema di sanzioni imposto da USA e UE, la perdurante popolarità di Putin in patria, e l’offensiva sempre più incisiva delle forze di Mosca in Ucraina, hanno finora costituito altrettanti elementi di preoccupazione per gli strateghi americani.
Ad essi si affianca la sfida ancor più seria rappresentata dall’ascesa cinese. Il Covid-19, la ridefinizione delle catene di fornitura (di volta in volta denominata “decoupling”, “de-risking”, ecc.), l’introduzione dei dazi, la decisione americana di bloccare l’accesso cinese ai semiconduttori più avanzati, avrebbero dovuto frapporre considerevoli ostacoli allo sviluppo dell’economia di Pechino.
Ma tutto ciò sembra essere sufficiente al più a rallentare, ma non a fermare, la corsa cinese. Secondo le previsioni della UN Industrial Development Organization (UNIDO), nel 2030 la Cina fornirà il 45% della produzione industriale mondiale, mentre gli Stati Uniti contribuiranno ad appena l’11%.
Si tratta di una crescita sbalorditiva, se si pensa che nel 2000 la quota cinese era pari ad un magro 6%, mentre gli USA primeggiavano con una quota pari al 25%.
L’irresistibile ascesa di Pechino traina la crescente popolarità dei BRICS, raggruppamento recentemente allargatosi a nove paesi, il quale sta creando attorno a sé una vera e propria sfera d’influenza che include nazioni dell’America Latina, del continente africano, ed ora anche del Sudest asiatico.
Nel frattempo gli Stati Uniti continuano ad essere afflitti al proprio interno da una crescente disuguaglianza, da un debito sempre più insostenibile, da una declinante produttività, e da una crisi politica e sociale che probabilmente si aggraverà ancora nei prossimi anni.
Se Washington è riuscita a riconsolidare la dipendenza europea nei confronti degli USA, lo ha fatto al prezzo di sprofondare gli alleati del vecchio continente in un declino economico che li sta portando verso un progressivo impoverimento.
Ciò si traduce in una crescente crisi dei partiti di governo europeisti e filo-atlantici, a vantaggio delle cosiddette formazioni “populiste” ed euroscettiche.
Neanche nel Pacifico la situazione è rosea per Washington. Alleati chiave come Corea del Sud e Giappone sono indeboliti dalle rispettive fragilità politiche interne e, malgrado la recente superficiale riconciliazione, continuano ad avere un rapporto bilaterale guastato da annose dispute storiche.
Fondare la riscossa sulle macerie del Medio Oriente
In un quadro così precario, gli improvvisi quanto insperati successi militari israeliani in Libano, poi coronati dal rovesciamento del regime di Assad in Siria, e dal conseguente indebolimento dell’asse iraniano nella regione, hanno riacceso aspettative negli ambienti del “Deep State” americano.
Un simile effetto domino non era stato previsto dagli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca, i quali nei mesi precedenti avevano insistentemente suggerito prudenza a Israele, temendo una deflagrazione regionale che avrebbe danneggiato pesantemente gli interessi statunitensi.
Sia l’intelligence USA che quella israeliana avevano delineato scenari potenzialmente catastrofici nel caso di un’escalation militare contro Hezbollah in Libano, con centinaia – se non migliaia – di vittime fra la popolazione israeliana, causate dai missili del gruppo sciita libanese.
Secondo testimonianze di responsabili americani intervistati dal Times of Israel, il governo Netanyahu era consapevole di questo rischio quanto l’amministrazione Biden, ma aveva concluso autonomamente che era necessario pagare un simile costo.
In altre parole, quando ha deciso di tentare l’attacco che avrebbe portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah, il governo di Tel Aviv era pronto a sacrificare centinaia, se non migliaia di vite israeliane.
Il 27 settembre, data dell’assassinio del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, ha rappresentato uno spartiacque negli eventi del 2024. L’attacco avrebbe potuto fallire, o comunque avere conseguenze terribili per la popolazione israeliana.
La temuta reazione di Hezbollah è stata invece relativamente contenuta, forse perché una parte del suo arsenale missilistico era stata distrutta da Israele nei giorni precedenti, ma più probabilmente perché quel che restava della leadership del gruppo non se l’è sentita di compiere una rappresaglia che avrebbe inevitabilmente comportato, non solo gravi danni per Israele, ma anche la totale distruzione del Libano.
Secondo quanto scritto da Frederick Kempe, presidente dell’Atlantic Council (uno dei think tank più influenti a Washington), da quel giorno l’amministrazione Biden ha smesso di cercare di contenere l’azione israeliana scegliendo invece di sfruttare al meglio il successo militare che si stava profilando.
Con l’aiuto della mediazione americana, Israele ha ottenuto in Libano un cessate il fuoco vantaggioso, che lascia all’aviazione israeliana piena libertà d’azione nei cieli libanesi.
Mentre Hezbollah è costretto a ritirarsi a nord del fiume Litani, Israele ha continuato a distruggere aree residenziali, terreni agricoli e strade nel sud del Libano (in piena violazione dell’accordo sul cessate il fuoco e della risoluzione 1701 dell’ONU).
Il cessate il fuoco, che non implica la fine delle ostilità a Gaza, ha avuto anche l’effetto di lasciare Hamas totalmente isolato nella Striscia, nella cui parte settentrionale Israele sta compiendo una violenta e sanguinosa pulizia etnica.
Nel corso del 2024 si sono accumulati i rapporti, redatti dall’ONU, e da organizzazioni come Amnesty International, Human Rights Watch, e Médecins Sans Frontières (solo per citare le principali), secondo i quali ciò che Israele sta compiendo a Gaza è un vero e proprio genocidio.
Nella vicina Siria, il crollo di Assad è stato favorito da anni di conflitto e dal durissimo embargo americano, che hanno fatto contrarre il PIL del paese dell’85%. Ancora una volta, le sanzioni secondarie imposte da Washington si sono rivelate un’arma dirompente.
Nei giorni successivi alla caduta del regime di Damasco, avendo occupato un’ulteriore zona cuscinetto nel Golan e distrutto, con una campagna di oltre 500 attacchi aerei, più dell’80% del potenziale bellico siriano, il governo Netanyahu si è assicurato la supremazia militare sulla vicina Siria, e il controllo dello spazio aereo siriano, forse per anni a venire.
L’Iran anello debole del fronte antioccidentale
Questa concatenazione di eventi, che pochi mesi fa nessuno aveva previsto, ha riacceso l’ottimismo negli ambienti politici israeliani così come nell’establishment USA.
Dalle pagine di Foreign Affairs, Amos Yadlin (ex generale dell’aeronautica israeliana) e Avner Golov (già membro di spicco del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele) hanno prefigurato la possibilità di creare un nuovo “ordine israeliano” in Medio Oriente.
L’idea, condivisa da diversi strateghi ed esponenti politici a Washington, è di approfittare della condizione di vulnerabilità senza precedenti in cui si trova l’Iran a seguito dell’indebolimento dei suoi alleati regionali per sconfiggere una volta per tutte il progetto iraniano nella regione.
Teheran, in realtà, si troverebbe al crocevia non di uno, ma di due assi. Oltre ad essere il leader del cosiddetto “asse della resistenza” a livello regionale, l’Iran farebbe parte di quello che qualcuno a Washington ha definito “l’asse delle dittature”, composto anche da Cina, Russia e Corea del Nord.
Secondo questa tesi, la guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente rappresenterebbero altrettanti punti di saldatura di questi due schieramenti. Teheran, che facilita agli avversari dell’Occidente l’accesso alla regione mediorientale ed ha supportato con l’invio di droni lo sforzo bellico russo in Ucraina, costituirebbe dunque uno snodo fondamentale di entrambi gli assi.
Isolare l’Iran, se non addirittura rovesciarne il governo, assumerebbe, secondo questa visione, un’importanza strategica. Secondo i vertici israeliani, lo Stato ebraico dovrebbe perseguire questo obiettivo in stretto coordinamento con gli Stati Uniti, oltre che con partner regionali come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) e con paesi europei come Gran Bretagna e Germania.
Un’idea, questa, condivisa anche da esponenti del “Deep State” USA come il già citato Frederick Kempe, i quali puntano a persuadere Trump a cogliere questa occasione “storica”, approfittando anche della crisi energetica che sta affliggendo l’Iran (favorita dal sabotaggio di due importanti gasdotti locali ad opera di Israele lo scorso febbraio, secondo quanto riferisce il New York Times).
Colpire Teheran per indebolire Mosca e Pechino
Un passo intermedio potrebbe essere dato da un attacco massiccio contro gli Houthi nello Yemen, alleati dell’Iran che continuano a bersagliare Israele con missili e droni, ed a minacciare il traffico marittimo nel Mar Rosso.
L’aviazione israeliana ha già colpito numerosi obiettivi nello Yemen. Una campagna di bombardamenti ancora più massiccia potrebbe avvenire in collaborazione con Stati Uniti e Gran Bretagna.
Mentre ci sono indicazioni secondo cui Washington starebbe esercitando pressioni su Riyadh e Abu Dhabi affinché abbandonino i negoziati di pace con gli Houthi e riprendano le operazioni belliche contro di loro.
Ma in Israele c’è addirittura chi ritiene che si debba puntare direttamente all’Iran.
Il piano contro Teheran potrebbe prevedere sforzi volti a favorire la destabilizzazione interna del paese, incoraggiando ad esempio i movimenti di protesta popolare; una campagna di “massima pressione” economica, come quella già imposta da Trump durante il suo primo mandato; ed eventualmente bombardamenti aerei volti a distruggere le installazioni nucleari iraniane, al fine di scongiurare la possibilità che l’Iran si doti dell’arma atomica.
A Washington molti nutrono la convinzione che la caduta di Assad in Siria abbia rappresentato una sconfitta anche per Mosca, e possibilmente il segnale di un’inversione di tendenza anche nel braccio di ferro con la Russia.
La crescente svalutazione del rublo, ed alcuni segnali di rallentamento dell’economia russa, indicherebbero che non è il momento di cedere e di allentare la morsa delle sanzioni, a giudizio di diversi strateghi statunitensi.
Secondo questa visione, gli eventi epocali di questi mesi in Medio Oriente potrebbero perciò preludere ad una sconfitta dell’Iran, a un indebolimento della Russia, ed in ultima analisi ad un isolamento della Cina, l’avversario più pericoloso di Washington.
Senz’ombra di dubbio, Teheran è vista in questo momento come l’anello debole dello schieramento anti-occidentale, e un’eventuale ridefinizione degli equilibri mediorientali come un possibile “game changer” nella lotta globale per l’egemonia.
Se queste idee dovessero far presa sull’amministrazione Trump che si insedierà a gennaio, c’è da attendersi un pericoloso inasprimento delle tensioni mediorientali, un possibile fallimento degli sforzi negoziali in Ucraina, e un ulteriore deterioramento del panorama internazionale.
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