La resa dei conti, di Andrea Zhok

La resa dei conti
1) Premessa
Come ampiamente previsto, l’incontro dell’Eurogruppo di ieri si è concluso con un nulla di fatto.
Che gli incontri europei si concludano con un nulla di fatto è peraltro oramai una tradizione consolidata. Settimane fa si erano concluse con un nulla di fatto le trattative per una variazione dello zero virgola nel budget europeo. Per anni si erano concluse con un nulla di fatto le richieste di rivedere le regole sull’accoglienza dei migranti da parte dei paesi dell’Europa meridionale. Incartarsi ad arte per rinviare sine die ogni decisione è una specialità in cui le istituzioni dell’UE hanno dimostrato da tempo straordinario talento.
E naturalmente non è un caso.
Il sistema dei trattati è stato disegnato per funzionare precisamente come una tonnara: una volta entrati non esiste nessuna possibilità di uscirne sani né di cambiare niente di significativo. (L’unanimità necessaria la puoi raggiungere solo su imperdibili iniziative simboliche come l’equiparazione di comunismo e nazismo.)
2) Prima del diluvio
L’emergenza coronavirus tende a farci dimenticare che l’UE non è mai davvero uscita dalla crisi del 2007. L’economia è rimasta lenta, e anche la famosa ‘locomotiva tedesca’ aveva iniziato ad arrancare.
Ben prima che il virus comparisse all’orizzonte si discuteva animatamente di una perdurante stagnazione dell’economia europea (con Italia e Germania in fondo alla classifica della crescita).
Ben prima del virus il sistema bancario tedesco scricchiolava in modo pauroso (i titoli tossici in Deutsche Bank sono ancora tutti là).
Ben prima del virus alcuni paesi, e con particolare intensità la Grecia, erano stati ridotti ai minimi termini, demolendone l’apparato pubblico, condannando la generazione più giovane all’emigrazione e quella più anziana a pensioni da fame, mentre scuole ed ospedali venivano smantellati e mentre le migliori risorse nazionali venivano depredate. Il tutto nel nome del ‘rigore’.
È importante ricordare questi dettagli davanti a quelli che vagheggiano di una ‘rapida ripresa’ europea e di un ‘sereno ritorno alla normalità’, nel caso di una (miracolosamente) rapida risoluzione dell’emergenza coronavirus. L’idea di un possibile andamento a V, con crollo verticale e impennata successiva dell’economia è completamente implausibile anche se domattina i marziani ci offrissero in dono una cura immediata per il Covid-19.
È implausibile una sereno ‘ritorno alla normalità’ essenzialmente perché nella precedente normalità non c’era proprio niente di sereno.
Date le premesse di funzionamento dell’economia dell’eurozona, l’eventuale scomparsa improvvisa del problema epidemico ripresenterebbe un quadro di rinnovata stagnazione, solo su un piano più basso (diciamo più che a V, un andamento a L). Questo per due ragioni, una profonda e una tecnica.
Quella profonda è che l’eurozona è stata più un problema che una risorsa, per buona parte dei suoi partecipanti sin dall’inizio.
Quella tecnica è che non ci sono nell’eurozona strumenti autenticamente anticiclici, a fronte di una crisi peggiore di quella del ’29 (la perdita di un terzo della capitalizzazione delle borse europee in tre settimane è analogo a quello del Wall Street Crash dell’ottobre 1929, e qui sembra essere solo all’inizio).
A questo elemento, che è già ora certo, si deve aggiungere una prospettiva altamente plausibile, ovvero che anche una volta superato il picco dell’epidemia nei principali paesi industrializzati, comunque la ripresa delle attività potrà prendere piede solo molto gradualmente, almeno fino a quando non si trova un vaccino.
3) Digressione: Cave vaccinum
A proposito del tema ‘vaccino’, è importante spendere un paio di parole cautelative. Vista la pressione colossale esercitata letteralmente da tutti i detentori di capitale del mondo affinché si arrivi presto ad approntare un vaccino, è certo che appena dell’acqua sporca avrà una vaga plausibilità di superare l’effetto placebo, essa verrà proposta, se non imposta, per sollecita ed estensiva somministrazione. C’è da augurarsi che anni di discussioni, spesso a vanvera, tra vaccinisti ed antivaccinisti, abbiano almeno allertato l’opinione pubblica sul fatto che un vaccino scarsamente testato può avere effetti peggiori della malattia.
Di fatto l’idea di poter semplicemente ‘premere sull’acceleratore’ ogni qual volta c’è una ‘domanda di mercato’ è una delle più pervicaci illusioni dell’epoca moderna. Tutti i nostri problemi ambientali e strategici vengono trattati sulla base di un assunto, che è un’ode alla hybris: Una volta che un problema nasce, il mercato troverà senz’altro una soluzione perché avrà interesse a farlo. Ma naturalmente non è affatto detto che, una volta emerso un problema, bastino potenti incentivi per trovare una soluzione.
Una ‘scoperta’ – anche una scoperta in un ambito altamente investigato come quello dell’approntamento dei vaccini – non è una mera ‘produzione programmabile’: ha comunque tempi suoi propri e non chiaramente prevedibili. In ogni caso non fulminei.
4) Cronache dal gorgo
Tutti questi elementi suggeriscono come massimamente probabile la prospettiva di un crollo, mondiale ed europeo, dei consumi e della produzione, seguito da una stabilizzazione a livelli di produzione e consumo marcatamente inferiori a quelli precedenti.
La situazione così descritta, tuttavia, non illustra adeguatamente la cascata di implicazioni.
Un crollo stabile di questa natura, in un contesto di produzioni e consumi mondializzati, implica necessariamente pesanti disfunzioni nella catena degli approvvigionamenti, e limiti nell’accesso ai mercati esteri. In altri termini, detto un po’ semplicisticamente, quanto più lontano un paese dall’autosufficienza, tanto più problematica sarà la sua situazione. I blocchi reciproci di forniture ospedaliere in questa fase potrebbero facilmente trasformarsi in limitazioni all’accesso ad altri generi di prima necessità. Tecnicamente, ciò che sta succedendo – e che credibilmente continuerà ad accadere nel medio periodo – è che i ‘costi di transazione’ internazionali (e anche intranazionali, ma in minor misura) tenderanno ad ampliarsi a dismisura. È già cresciuta la difficoltà a movimentare fisicamente alcunché, ma anche a difendere movimenti di merci da colpi di mano e atti illegali, ad esplorare e raccogliere informazioni in nuovi mercati, ecc. In quest’ottica, la ‘scommessa sull’export’, fondata sul presupposto di costi di transazione internazionali bassi, e alimentata come una virtù morale in ambito europeo, promette di collassare rovinosamente.
Simultaneamente, sul piano dei consumi interni, in assenza di vigorose compensazioni statali, un’enorme quantità di attività economiche diventerà insolvente, poiché le prospettive di guadagno sono spostate indefinitamente verso il futuro e mantenere costi fissi (affitti, macchinari, forza lavoro) risulterà insostenibile.
Questo significa, in assenza di interventi correttivi, che vedremo un incremento di milioni di disoccupati in aggiunta a quelli precedenti. Ma dire ‘milioni di disoccupati’ è di nuovo un’espressione freddamente numerica, che non dà conto del fenomeno. È importante capire che, se viene conservata la cornice competitiva che definisce la nostra organizzazione socioeconomica liberale, se cioè le persone continueranno a percepire (come nella precedente ‘normalità’) che un proprio vantaggio comparativo a breve termine potrebbe significare, per sé e la propria famiglia, tenere la testa sopra la linea di galleggiamento, allora quei ‘milioni di disoccupati’ implicheranno decine di migliaia di ‘persone disposte a tutto’ in circolazione. Si tratta di un processo di disgregazione sociale, già ben documentato nello sviluppo storico della ragione liberale, che arriverebbe al suo showdown. Disgregazione sociale significa ‘criminalità’ sul piano legale, e significa un ulteriore aumento dei costi di transazione sul piano economico; e dunque un ulteriore decremento di produzione e consumi. Ci potremmo trovare in pochi passaggi dentro una spirale in caduta libera, caduta impossibile da arrestare se viene mantenuta la cornice del ‘competitivismo’ corrente.
Questo quadro, per inciso, potrebbe essere dipinto a tinte ancor più fosche se volessimo ricordare le lezioni del passato. Infatti è inevitabile che, in un contesto in cui anche i ceti al potere iniziano a temere per la propria condizione, difficoltà sul fronte interno facciano crescere la tentazione di capri espiatori esterni. Che ciò possa condurre ad una crescita internazionale della conflittualità, anche esplicitamente bellica, è da mettere in conto; e questo comporterà un ulteriore ostacolo alle transazioni internazionali.
5) Prospettive e pastoie
Ora, al di là di ogni propensione o appartenenza ideologica, la domanda fondamentale suona: come è possibile porre un freno a questo percorso deflagrante?
La risposta, almeno sul piano teorico, è già a disposizione, visto che l’epoca industriale ha già vissuto situazioni di crisi similmente profonda. In formato semplice, la risposta è senza dubbio la seguente: solo il massiccio intervento degli Stati al di fuori di una logica di mercato può limitare i danni e correggere la rotta. Questo è già, spontaneamente, la direzione in cui ci si sta muovendo un po’ ovunque, ma apparentemente non se ne comprende bene la natura.
Il punto chiave qui non è la semplice invocazione dell’‘intervento degli Stati’. Come gli studi sulla rivoluzione neoliberale ci hanno insegnato, gli Stati hanno assunto negli ultimi cinquant’anni (ma in verità non è la prima volta) un ruolo di supporto esterno ed implementazione dei meccanismi di mercato. In Europa la Germania è stata il primo paese a farlo, seguita dal Regno Unito.
Nell’ordinamento di idee neoliberale lo Stato ha la funzione non solo di preservare il funzionamento dei mercati, ma di costruire tutte le proprie strutture in modo da ottimizzare la competizione. Le strutture economiche che non si adattano bene all’assiomatica del ‘mercato perfetto’ devono essere guidate verso modelli che almeno lo simulano (donde la competizione tra sistemi sanitari, tra scuole e università, le concessioni private di monopoli naturali – come le reti di trasporto -, ecc.). Chi rimane indietro in questo sistema deve essere ‘rieducato’, in modo che domani lasci a qualcun altro il fondo classifica: mors tua vita mea, correndo come se non ci fosse un domani sulla ruota del criceto.
Per gli Stati questa ‘rieducazione’ dovrebbe passare dalle ‘riforme’, che significa, almeno dal Washington Consensus (1989) ad oggi, cure di privatizzazioni, liberalizzazioni, abbattimento delle garanzie sulle condizioni di lavoro, flessibilità, apertura del mercato, ecc. Le famose ‘condizionalità’ del FMI e del MES sono precisamente tali atti di ‘rieducazione alla competizione’.
Che queste ricette si siano dimostrate fallimentari in tutti i casi in cui sono state applicate (erano state concepite per risollevare le economie dei paesi in via di sviluppo) non ha mai comportato alcun ripensamento. Di passaggio, un report del WTO del 2005, constatando i risultati deludenti del Washington Consensus sul piano internazionale ne traeva l’emblematica conclusione che bisognava insistere con maggior vigore: la caratteristica fondamentale dei paradigmi ideologici è infatti di essere impermeabili ad ogni falsificazione.
Ciò di fronte a cui ci troviamo infatti è proprio un paradigma teorico, paradigma che trae la sua autorevolezza dal fatto di essere stato utile a rafforzare la posizione di ceti già privilegiati, ma che ha una sua autonomia teorica di lungo periodo.
Dunque la risposta dev’essere, certo, l’intervento degli stati, ma ciò che va sottolineato è che la logica del loro intervento deve essere assolutamente estranea alla logica di mercato. La logica deve piuttosto aggirarsi dalle parti di – i liberisti perdonino l’abietta citazione – “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità” (cfr. Atti degli apostoli 4, 32-35)
6) Il macigno sul sentiero
Arriviamo così ai ‘niet’ della Germania di questi giorni (e del passato; e del futuro). La Germania ha ricostruito sé stessa dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale adottando quel paradigma neoliberale noto come ‘ordoliberismo’ (anche se fino agli anni ’80 la sua implementazione è stata mitigata sul piano sociale dal timore di ‘sfigurare’ rispetto ai fratelli della Germania Est). L’ordoliberismo si distingue dal neoliberalismo americano essenzialmente per il maggior spazio attribuito allo Stato come funzione collaterale ai processi di mercato. Per così dire, se il modello americano propende a predicare l’”arrangiatevi”, quello tedesco è più incline al paternalistico: “vi rieduchiamo noi”. Tutta la classe dirigente tedesca è permeata da questo paradigma teorico da tre generazioni. Si tratta peraltro di un paradigma che a loro è tornato assai utile: anche se negli ultimi trent’anni le condizioni dei lavoratori tedeschi si sono erose e il welfare tedesco si è ristretto, comunque nel complesso gli avanzi della bilancia commerciale tedesca hanno permesso al paese di mantenere una posizione di complessiva supremazia economica.
La combinazione tra una consolidata rigidità ideologica e la coscienza dei vantaggi pratici ricevuti rende quel paradigma un macigno inscalfibile sulla strada di ogni correzione di rotta.
Quello che oggi molti non capiscono è che la Germania non oppone i suoi divieti perché ‘gli costerebbe’. Alcuni commentatori italiani continuano ad esprimersi appellandosi alla ‘generosità’ (o poca generosità) dei tedeschi, e chiedendo loro di ‘aprire il portafoglio’. Questo modo di esprimersi è altamente fuorviante. Qui non è questione di generosità, né di aprire il portafoglio, perché quello che viene chiesto alla Germania (e ai suoi satelliti) non solo non comporta per loro dei costi, ma gli sarebbe economicamente vantaggioso.
È infatti ovvio che un paese che ha puntato sull’export e su catene produttive lunghissime come la Germania verrà colpito durissimamente dalla presente crisi, molto più di quanto potranno dire i numeri di morti o contagiati. Essendo la Germania strutturalmente distante anni luce da un’economia ‘autarchica’, doversi relazionare con partner in forte contrazione dei consumi non potrà che abbattersi anche sui propri apparati produttivi. Il punto non ha dunque nulla a che fare con la ‘generosità’: in questo momento anche agendo per semplice tornaconto economico alla Germania converrebbe trasformare la BCE in un prestatore di ultima istanza, e adottare una ferma agenda anticiclica di matrice keynesiana.
Ma qui il punto non è pragmaticamente economico, ma eminentemente ideologico e, com’è noto, sulle idee i tedeschi non transigono. Fiat iustitia, pereat mundus.
E la giustizia di cui è ideologicamente portatrice la Germania è quella del paradigma neoliberale, ma è ancora più profondamente quello antico dell’ordalia (dal tedesco Ur-theil), cioè del iudicium Dei dove il fatto che il vincitore avesse vinto significava che la ragione era dalla sua parte (perché Dio lo aveva aiutato a vincere). Nel caso tedesco il competitivismo neoliberale si innesta in una disposizione culturale profondamente radicata, che lo rende particolarmente difficile da scalfire.
Il problema è che questa impermeabilità ideologica non è più un problema solo tedesco, ma oggi è divenuto un problema europeo (e in particolar modo italiano). Abbiamo costruito un sistema sociale ed internazionale il cui senso profondo è quello di sollecitare la competizione e di venerare la vittoria (sia pure nella forma mediata della guerra economica). Ma questo sistema, specialmente nel contesto di un’emergenza come la presente, può rivelarsi una tragica trappola.
7) Cooperazione e competizione
Nonostante tutte le chiacchiere intorno all’idea di una ‘comunità europea’, l’UE non è stata immaginata come una comunità, ma come un’arena (con annessa scuola gladiatoria). Tuttavia situazioni come quella presente, situazioni in cui siamo tutti investiti da un medesimo problema, sono situazioni che non si prestano affatto all’irrigidimento in atteggiamenti competitivi.
(Si potrebbe notare, a titolo di spunto filosofico, che nella condizione umana l’essere ‘investiti tutti del medesimo problema’ non è l’eccezione, ma la regola, e costruire una forma di vita incapace di esservi all’altezza è solo immensamente stupido. Ma tant’è.)
In ogni caso, al presente ci troviamo di fronte ad una situazione che porta alla luce uno scontro disposizionale tra due istanze antropologiche fondamentali: la cooperazione (e il senso di comunità) e la competizione (e il senso di individualità). Nella pluralità di forme di vita in cui l’umanità si è sviluppata fino a tempi recenti, cooperazione e competizione hanno sempre convissuto fianco a fianco in un equilibrio oscillante. L’ideologia neoliberale (ma invero la ragione liberale dalle sue origini) ha invece istituito la socialità nella forma unilaterale della competizione.
Ora, è immediatamente chiaro a chiunque non sia ideologicamente ottenebrato che in una situazione di comune emergenza si collabora. Si tratta, dopo tutto, dell’istinto che ha consentito alla specie umana di sopravvivere e svilupparsi. Ma a questo istinto si sovrappone oggi un impianto ideologico e istituzionale che legittima unilateralmente la competizione (e la cooperazione solo come strumento provvisorio per migliorare la competizione).
Il problema è dunque che in una cornice ideologica che si riconosce e legittima come per essenza votata alla competizione, la cooperazione non può avvenire. Chi coopera non può farlo davvero se pensa che l’attuale cooperazione sia semplicemente un episodio accidentale in un continuum infinito di competizione senza esclusione di colpi. Se so che alla fine verrò punito per ciò che do, se so che ogni mia esposizione mi renderà più debole per la successiva competizione con un avversario opportunista, allora la cooperazione non avrà luogo (o sarà meramente simbolica).
Questo è precisamente quanto accade oggi a livello di nazioni europee. La Germania preferisce rischiare perdite maggiori pur di non infrangere la propria iustitia neoliberale, dove alla fine ad aver ragione è solo chi vince. Per attori politici tedeschi imbevuti di spirito neoliberale una collaborazione che risulti comparativamente più benefica ad un mio competitore, di quanto lo sia per me, va rigettata. Va rigettata anche se per me è comunque altamente benefica, perché ciò che conta non è mai la vita, non è la salute, non il benessere, ma solo il mio posizionamento relativo nella competizione con l’altro. È una logica predatoria. È la logica di qualcuno con cui non è strutturalmente possibile collaborare. Una volta di più, nella sua storia, la Germania si dimostra incapace di guidare alcunché. E una volta di più, purtroppo, la loro storia è anche la nostra.

Campo di battaglia: Draghi, Consiglio Europeo, Coronavirus. Cronache del crollo, di Alessandro Visalli

Il Governo italiano ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio Europeo che si riunisce oggi, sottoscritta da Emmanuel Macron (Francia), Pedro Sanchez (Spagna), Sophie Wilmes (Belgio), Kyriakos Mitsotakis (Grecia), Leo Varadkar (Irlanda), Xavier Bettel (Lussemburgo), Antonio Costa (Portogallo), Janez Jansa (Slovenia).

Si parla di quasi la metà degli stati dell’eurozona (9 su 19), per un totale di 212 milioni di abitanti (64% dell’area) e 7.800 mila miliardi di Pil (il 57% di quello dell’eurozona).

E’ chiaro che se andassero fino in fondo, nel Consiglio Europeo di oggi (che include tutti i membri dell’Unione Europea, e quindi 442 milioni di abitanti e 17.000 miliardi di Pil, per cui in questo consesso si parla del 48% degli abitanti e 45% del Pil), sarebbe una forza imponente.

Rispetto all’attuale stato dell’epidemia i paesi firmatari sono “titolari” del 72% dei casi in Europa e del 77% dei casi nella sola eurozona. In rapporto agli abitanti il paese più colpito è il piccolo Lussemburgo (che ha 2,67 casi per 1000 abitanti), seguito dall’Italia (1,24), Spagna (1,04), Belgio (0,45), Irlanda (0,34), Francia (0,33), Portogallo (0,3), Slovenia (0,26), Grecia (0,07). Tra i paesi che non hanno firmato spicca la Germania, con 35.700 casi (0,44) e l’Olanda, con 6.400 (0,38), l’Austria con 5.500 (0,64), la Finlandia, con 900 (0,16), la Svezia, 2.500 (0,25), la Polonia, con 1.000 (0,03), Romania, 900 (0,05).

Jeremy Mann

 

Vediamo la lettera:

La lettera al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, del Presidente Conte e dei leader di Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna.

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Caro Presidente, caro Charles

la pandemia del Coronavirus è uno shock senza precedenti e richiede misure eccezionali per contenere la diffusione del contagio all’interno dei confini nazionali e tra Paesi, per rafforzare i nostri sistemi sanitari, per salvaguardare la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali e, non ultimo, per limitare gli effetti negativi che lo shock produce sulle economie europee.

Tutti i Paesi europei hanno adottato o stanno adottando misure per contenere la diffusione del virus. Il loro successo dipenderà dalla sincronizzazione, dall’estensione e dal coordinamento con cui i vari Governi attueranno le misure sanitarie di contenimento.

Abbiamo bisogno di allineare le prassi adottate in tutta Europa, basandoci su esperienze pregresse di successo, sulle analisi degli esperti, sul complessivo scambio di informazioni. È necessario ora, nella fase più acuta dell’epidemia. Il coordinamento che tu hai avviato, con Ursula von der Leyen, nelle video-conferenze tra i leader è d’aiuto in tal senso.

Sarà necessario anche in futuro, quando potremo ridurre gradualmente le severe misure adottate oggi, evitando sia un ritorno eccessivamente rapido alla normalità sia il contagio di ritorno da altri Paesi. Dobbiamo chiedere alla Commissione europea di elaborare linee guida condivise, una base comune per la raccolta e la condivisione di informazioni mediche ed epidemiologiche, e una strategia per affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo non sincronizzato della pandemia.

Mentre attuiamo misure socio-economiche senza precedenti, che impongono un rallentamento dell’attività economica mai sperimentato prima, abbiamo comunque bisogno di garantire la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali, e la libera circolazione di dispositivi medici vitali all’interno dell’UE. Preservare il funzionamento del mercato unico è fondamentale per fornire a tutti i cittadini europei la migliore assistenza possibile e la più ampia garanzia che non ci saranno carenze di alcun tipo.

Siamo pertanto impegnati a tenere i nostri confini interni aperti al necessario scambio di beni, di informazioni e agli spostamenti essenziali dei nostri cittadini, in particolare quelli dei lavoratori transfrontalieri. Abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica. I nostri sforzi saranno prioritariamente indirizzati a garantire la produzione e la distribuzione delle attrezzature mediche e dei dispositivi di protezione fondamentali, per renderli disponibili, a prezzi accessibili e in maniera tempestiva a chi ne ha maggiore necessità.

Le misure straordinarie che stiamo adottando per contenere il virus hanno ricadute negative sulle nostre economie nel breve termine. Abbiamo pertanto bisogno di intraprendere azioni straordinarie che limitino i danni economici e ci preparino a compiere i passi successivi. Questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo. La BCE ha annunciato lo scorso giovedì 19 marzo una serie di misure senza precedenti che, unitamente alle decisioni prese la settimana prima, sosterranno l’Euro e argineranno le tensioni finanziarie.

La Commissione europea ha anche annunciato un’ampia serie di azioni per assicurare che le misure fiscali che gli Stati membri devono adottare non siano ostacolate dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita e dalla normativa sugli aiuti di Stato. Inoltre, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno annunciato un pacchetto di politiche che consentiranno agli Stati membri di utilizzare tutte le risorse disponibili del bilancio dell’UE e di beneficiare degli strumenti della BEI per combattere l’epidemia e le sue conseguenze.

Gli Stati membri dovranno fare la loro parte e garantire che il minor numero possibile di persone perda il proprio lavoro a causa della temporanea chiusura di interi settori dell’economia, che il minor numero di imprese fallisca, che la liquidità continui a giungere all’economia e che le banche continuino a concedere prestiti nonostante i ritardi nei pagamenti e l’aumento della rischiosità. Tutto questo richiede risorse senza precedenti e un approccio regolamentare che protegga il lavoro e la stabilità finanziaria.

Gli strumenti di politica monetaria della BCE dovranno pertanto essere affiancati da decisioni di politica fiscale di analoga audacia, come quelle che abbiamo iniziato ad assumere, col sostegno di messaggi chiari e risoluti da parte nostra, come leader nel Consiglio Europeo.

Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e la necessità di una ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona.

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia.

Vi sono valide ragioni per sostenere tale strumento comune, poiché stiamo tutti affrontando uno shock simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti. E dobbiamo rendere conto collettivamente di una risposta europea efficace ed unita. Questo strumento di debito comune dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere pienamente efficace e per evitare rischi di rifinanziamento ora come nel futuro.

I fondi raccolti saranno destinati a finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale.

Con lo stesso spirito di efficienza e solidarietà, potremo esplorare altri strumenti all’interno del bilancio UE, come un fondo specifico per spese legate alla lotta al Coronavirus, almeno per gli anni 2020 e 2021, al di là di quelli già annunciati dalla Commissione.

Dando un chiaro messaggio di voler affrontare tutti assieme questo shock unico, rafforzeremmo l’Unione Economica e Monetaria e, soprattutto, invieremmo un fortissimo segnale ai nostri cittadini circa la cooperazione determinata e risoluta con la quale l’Unione Europea è impegnata a fornire una risposta efficace ed unitaria.

Abbiamo inoltre bisogno di preparare assieme “il giorno dopo” e riflettere sul modo in cui organizziamo le nostre economie attraverso i nostri confini, le catene di valore globale, i settori strategici, i sistemi sanitari, gli investimenti comuni e i progetti europei.

Se vogliamo che l’Europa di domani sia all’altezza delle sue storiche aspirazioni, dobbiamo agire oggi e preparare il nostro futuro comune. Apriamo pertanto il dibattito ora e andiamo avanti, senza esitazione.

Firmato da

Sophie Wilmès, Primo Ministro del Belgio

Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese 

Kyriakos Mitsotakis, Primo Ministro of Greece

Leo Varadkar, Primo Ministro of Ireland

Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano

Xavier Bettel, Primo Ministro del Lussemburgo

António Costa, Primo Ministro del Portogallo

Janez Janša , Primo Ministro della Slovenia


Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna

Un breve commento.

Cosa si sta dicendo qui? Che la crisi da coronavirus in corso è esterna e non è colpa di nessuno, che per affrontarla si interromperanno gli scambi e disgregheranno le “catene del valore” (ovvero la connessione di fornitori e clienti di ogni singola impresa), che nello sforzo di canalizzare le risorse contro l’aggressione virale ci sono aziende strategiche e non, che le prime vanno tenute in attività e protette dalle possibili aggressioni ostili, che i danni per i cittadini e l’economia vanno compensati da spesa pubblica, che per farla serve che ci sia un’emissione di titoli di debito comune, garantita in solido.

Nel luogo della lettera in cui si arriva al punto, e si chiede uno strumento di debito comune, alle medesime condizioni e per tutti, la frase successiva risponde all’obiezione luterana sempre ripetuta, che il debito è colpa e

Qui il caso è diverso, nessun paese è responsabile.

Quindi la lettera accende una piccola luce sul futuro e specifica che da ora bisognerà “organizzare le economie”, ovvero le catene del valore globali, i settori strategici, i sistemi sanitari e gli investimenti comuni.

Dunque nel campo di battaglia si è schierato un esercito, ed ha dichiarato le sue intenzioni.

Al contempo è sceso in campo un generale, Mario Draghi sul Financial Times, ha scritto un articolo di grande decisione e rilevanza.

Jeremy Mann

Leggiamolo:

“La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati.  Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile.  La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.  È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura.  La domanda chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette. I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo.  Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le poste sistema per tutti gli altri. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.  Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette.  Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così. Tali società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato.  O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità.  I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabilmente futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio.  Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia. Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è abbastanza una storia di ammonimento.  La velocità del deterioramento dei bilanci privati ​​- causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nella ricerca di evidentemente una causa comune”.

Se i nove governi affermano che non è colpa di nessuno e che bisogna sia sostenere sia ristrutturare le economie europee, ma ragionano in termini di capitali da raccogliere sul mercato a condizioni di mercato, sia pure eguali per tutti, Draghi dice una cosa diversa.

Intanto ricolloca la crisi che nel paludato linguaggio delle segreterie era solo “senza precedenti”, come “tragedia di proporzioni bibliche”. Dichiara il costo economico essere al contempo “enorme ed inevitabile” e la recessione sia “profonda” sia “inevitabile”.

Abbiamo dunque al primo passaggio della sua stringente logica un costo economico “enorme” ed una recessione “profonda” (che potrebbe mutare in “depressione”[1]) entrambe inevitabili.

A ciò che è inevitabile bisogna rispondere inevitabilmente. E qui si diventa perentori, “la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico”.

E perché? La bomba arriva esattamente a questo passaggio. Anni di controinformazione, analisi condotte con il metodo dei saldi settoriali, insistenza sul debito privato e sulla eccessiva valutazione di quello pubblico ottengono improvvisamente piena legittimazione. A decine di servili ripetitori del senso comune economico devono essere scoppiate le orecchie: “la perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici”.

Ripetiamo:

  • le perdite del settore privato ed i debiti accumulati, devono essere assorbiti dai bilanci pubblici.

E il “moral hazard”? E la “colpa”? E … l’horror vacui qui colpisce anche buona parte della sinistra storica, che ha inconsapevolmente interiorizzato una versione della narrativa ordoliberale, immaginando che lo stato debba essere “austero” perché l’economia sia “sana”.

Cosa accade se, in condizioni date come queste, le perdite anche esse inevitabili (e, come vedremo, senza colpa) del settore privato, cittadini e imprese, sono assorbite nei bilanci pubblici? Che il debito pubblico sale, che sale in modo “permanente”, e che il debito privato viene “cancellato”.

C’è una glossa di teoria, “È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire”.

Quindi è inevitabile, si deve agire, tramite l’espansione del debito pubblico.

Come? Qui c’è il punto. Il “se” è superato. Restano alcune cose:

  •   non fornire solo reddito di base (es, helicopter money), ma proteggere le persone dalla perdita del lavoro,
  •   garantire sostegno alla liquidità immediato,

Arriva la seconda bomba.

In una strategia rivolta a garantire liquidità all’economia reale, imprese e famiglie, Draghi propone di utilizzare le banche, che sono capillarmente diffuse. E propone che queste aprano linee di credito e scoperti di conto corrente, immediatamente e senza aspettare liquidità (quindi senza aspettare la Bce o altri), perché queste “possono creare denaro istantaneamente”.

Ripetiamo:

  • “Le banche possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito”.

E le riserve? E il buon padre di famiglia? E … anche qui l’horror vacui colpisce buona parte della sinistra storica, che non lo sapeva ma era rimasta ai tempi del dollaro-oro.

In sostanza le banche devono prestare soldi creati dal nulla, istantaneamente, a imprese che conservano l’occupazione. E lo devono fare a costo zero. La ragione è che le imprese, non licenziando, sostituiscono il pubblico che in caso diverso dovrebbe intervenire garantendo un reddito ed un lavoro.

Ovviamente il denaro si crea dal nulla, ma deve essere restituito (schematicamente una banca apre una scrittura contabile, che ad un certo punto deve essere chiusa), e quindi prestare a costo zero lascia impregiudicato l’assorbimento del danno delle mancate restituzioni. Serve qualcuno che faccia fronte e chiuda le scritture. Per questo il governo nello schema di Draghi non impegna denaro immediato per sostenere l’occupazione, ma presta garanzie alle banche per coprire il loro rischio. Ed il costo di queste garanzie, anche esso, deve essere zero.

Questa è la terza bomba, comincia ad assomigliare ad un bombardamento a tappeto. Il costo zero è come l’illimitato, sono altri due tabù. Si deve guadagnare dal sudore della fronte.

  • Ripetiamo, “il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette”.

C’è un problema, le regole prudenziali delle convenzioni di Basilea. Vanno sospese, “Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo”.

Abbiamo poi la quarta bomba. Per alcune imprese e “mutuatari”, il debito alla fine andrebbe cancellato. O tramite il fallimento e la copertura delle perdite da parte del governo o direttamente da questo lasciandole in vita.

Insomma, il debito pubblico salirà per tenere in vita la società. L’alternativa sarebbe peggiore. Ma salirà come? Senza aumentare i costi di servizio.

Qui non entra nel dettaglio, strettamente parlando un enorme incremento del debito pubblico, e la sua detenzione permanente, senza aumento dei costi del servizio di questo (ovvero in sostanza creando moneta) è possibile se gli Stati emettono titoli a scadenza illimitata, non redimibili, ed a tasso zero e se la Banca Centrale li acquista e li detiene. Un simile titolo non è “di mercato” per definizione e corrisponde ad una monetizzazione del debito.

Ogni altra soluzione aumenta i costi del servizio, soprattutto alla luce degli enormi volumi qui prefigurati.

Ciò non significa che i bilanci delle Banche Centrali (i titoli sarebbero poi da redistribuire pro quota nei vari bilanci) resteranno permanentemente ‘gravati’ da un attivo enorme, senza rendimento[2], ma che la progressiva espansione dell’economia li renderebbe sempre meno rilevanti. In fondo il debito pubblico è sempre stato riassorbito in questo modo, il suo vero problema è esclusivamente il costo del suo servizio, ovvero il monte degli interessi annuali che lo stato paga[3].

Tutto ciò va fatto in fretta, e senza remore, perché, ultima bomba: “La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono”.

Abbiamo un esercito che si è schierato ed abbiamo un generale che sembra volerne prendere la testa.

La battaglia si combatterà e penso che sarà persa. Troppo forte è l’inerzia del pensiero unico ordoliberale (attenzione, non che questa posizione sia rivoluzionaria, è comunque una variante di affidamento al mercato, ma con notevole incremento della presenza pubblica[4]). Nella scaramuccia di cavalleria dei giorni scorsi, in sede di Eurogruppo, è stato chiaro l’animus dell’armata nordica.

Mentre Peter Altmeier dichiara per la Germania che “Impediremo una svendita degli interessi economici e industriali tedeschi” (Wir werden einen Ausverkauf deutscher Wirtschafts- und Industrieinteressen verhindern) e, in inglese, in quanto rivolto oltre manica, “Germany is not for sale”, al contempo l’Olanda e la Germania, unite, hanno rigettato ogni ipotesi di messa in comune del debito. Sempre Altmeir, cambiando oggetto, ha detto che “la discussione sugli eurobond è un dibattito sui fantasmi” (Die Diskussion über Euro-Bonds ist eine Gespensterdebatte) e ha aggiunto che “dalla lezione degli anni ’70 abbiamo imparato che lo Stato non può salvare tutti” e che “l’Innovazione è più importante delle sovvenzioni” (Innovation ist wichtiger als Subvention). Insomma, gli interessi economici e industriali tedeschi saranno sostenuti contro qualsiasi nemico, ma quelli degli altri devono restare esposti. Per gli altri vale il principio che non si sovvenziona.

Per sé vale che “il nostro scopo non è solo proteggerci da acquisizioni nemiche (feindlichen[5]), ma anche evitare mancanza di capitale e di liquidità”, per gli altri, per i nemici, ovvero noi, solo se siamo capaci di farcela, se siamo “innovativi”.

Lo scontro delle cavallerie, la classica scaramuccia di avvio, è andato così.

Oggi c’è la battaglia. Avremmo bisogno di Decimo Claudio Druso (detto “germanico”), ma abbiamo solo Giuseppe Conte. Perderemo.

Ma non finirà qui. I popoli nordici hanno una strana caratteristica: sembrano sempre vincere, perché hanno una grande capacità operativa, ma poi alla fine perdono sempre e rovinosamente, perché non avendo la forza sufficiente vogliono troppo e non lasciano nulla. Finiscono per coalizzare tutti contro di loro, ed anche allora continuano, dritti, come un caprone lanciato nella corsa e la testa bassa. Ora pensano di aggirare questo ostacolo, che la sorte ha posto davanti ai piedi, assorbendo i nostri capitali e le nostre aziende, come fecero con quelle della Germania dell’est[6] quando cadde il muro e come hanno fatto per venti anni al tempo dell’euro.

Ma tutto sta arrivando al suo termine[7].

Il mondo non è già più quello della “fine della storia” tardo novecentesca[8], il baricentro si sposta verso est e noi siamo geograficamente, culturalmente, storicamente meglio posizionati. Tra qualche tempo dovremo rovesciare le cartografie d’Europa.

Tra dieci anni vedremo chi ha perso e chi ha vinto. Ma, come è accaduto già due volte, il prezzo per loro sarà altissimo.

 

[1] – Nel gergo economico una “recessione” è un evento ciclico relativamente normale, una “depressione” è una stagnazione permanente e difficilmente risolvibile dell’economia come quella del 29-39 aperta dalla crisi finanziaria e conclusa solo dalla seconda guerra mondiale.

[2] – Non sarebbe molto diverso se i titoli avessero un rendimento, una volta nel bilancio della banca centrale, perché questa deve restituire gli utili ai rispettivi Tesori. Come accade ora per la quota (20%) del debito già detenuto e che potrebbe benissimo essere annullato senza alcuna conseguenza pratica.

[3] – Bisogna notare che questo pagamento di interessi, che in Italia è attivato fino ad essere vicino ai cento miliardi, rappresenta un trasferimento netto di risorse dalla generalità dei cittadini ai renditieri che posseggono titoli di debito. È, insomma, un fattore tra i più rilevanti di incremento delle ineguaglianze e uno strumento potente di redistribuzione verso l’alto.

[4] – L’intero meccanismo proposto da Draghi è preordinato a salvaguardia delle gerarchie sociali e nazionali attuali. Limita l’intervento pubblico ad un consolidamento dello status dei rapporti di classe, si mette a salvaguardia del sistema delle imprese attuale, in qualche modo congelandolo. Certo, l’alternativa è diventare una colonia interna (ancora di più) del capitale nordico, ma ciò che serve è ben altro e molto più.

[5] – Come giustamente scrive Vincenzo Costa “Feindlich” allude a nemico, un termine che non si usa a cuor leggero. Non dice competitori: dice nemici. Allude al fatto che chi non riesce a proteggere la propria economia, chi non è in grado di sostenerla in questo momento, diventerà un terreno di conquista per altri. Perderà il dominio sui settori strategici, la sovranità sulle scelte di politica economica: diventerà una colonia. (cfr https://www.facebook.com/vincenzo.costa.79025/posts/106587930990528)

[6] – Si veda il testo di Vladimiro Giacchè.

[7] – Si veda “Riavviare l’economia in Cina, cronache del crollo

[8] – Titolo del famoso libro di Francis Fukuyama.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/campo-di-battaglia-draghi-consiglio.html?fbclid=IwAR1XM3rbnJWlwkVHlHej6KZfzAAkH-R90D5rvpSAusTYaQMhQ6vs_8vvDdg

Doktor Faustus ci ha scritto una lettera, di Giuseppe Masala

Doktor Faustus ci ha scritto una lettera.

Mi pare che il periodo chiave della lettera di Mario Draghi pubblicata ieri dal Financial Times sia il seguente: <<La sfida che affrontiamo è quella sul come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di fallimenti aziendali che lascierebbero danni irreversibili. È evidente che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato>>.
Dunque Draghi propone la trasformazione il Debito Privato in Debito Pubblico al fine di evitare fallimenti aziendali privati (di banche e di grandi imprese) che creerebbero danni permanenti al sistema economico minacciando (questo è chiaro ma sott’inteso) i livelli occupazionali. Dice anche che il Debito Pubblico non è il male come lui stesso ha sempre detto in questi trenta anni. Una notevole svolta culturale. Ma una notevole svolta culturale fatta quando serve a lui, agli interessi suoi e dei suoi dante causa. Troppo comodo svoltare quando conviene dopo che per trenta anni – con il ditino alzato – ci è stato spiegato che vivevamo sopra le nostre possibilità: troppe pensioni, troppi dipendenti pubblici, troppe scuole, financo troppi ospedali. E ora ci dice che il Debito Pubblico può raddoppiare? E per di più – non troppo casualmente – quando serve per salvare banche, grandi aziende e finanziarie di ogni tipo e natura?

Peraltro Draghi si guarda bene dal fare un discorso di natura qualitativa sulla spesa pubblica che dovrebbe alimentare l’aumento del Debito Pubblico aggiuntivo che ora (ora!) pretenderebbe.
Il tranello del diavolo si nasconde nei particolari, e soprattutto in quello che non dice.
Ora, siccome solo un pazzo da manicomio, potrebbe continuare a sostenere la maggior efficienza del settore privato su quello pubblico (siamo alla terza crisi di enorme portata in 12 anni; 2008, 2012 e ora 2020) è ora di dire che se si fa spesa pubblica non deve essere solo per sussidiare il settore privato (e soprattutto del grande privato) ma deve ritornare lo Stato Imprenditore. Bisogna rifare esattamente ciò che Draghi e Prodi distrussero negli anni novanta. Bisogna rifare l’IRI, EFIM (per le piccole e medie imprese), bisogna rinazionalizzare le banche ma non per riprivatizzarle e ridarle in pasto agli squali di borsa (magari in cambio del solito piatto di lenticchie allo Stato, ovvero a noi) appena torna qualche sprazzo di sereno, ma per rimanerci: come fece Beneduce negli anni ’30. Punto. Non mi basta neanche la difesa dei livelli occupazionali (e magari degli stipendi da fame di oggi). Occorre un piano di assunzioni nel pubblico e nelle aziende rinazionalizzate a colpi di 200mila persone all’anno per almeno cinque anni esattamente come fece Tina Anselmi nel 1977. Sbancare le casse dello stato per salvare gli amici dopo che per trenta anni sono stati negati salario decente e anche un posto all’ospedale non mi pare una proposta accettabile.

Dunque, il Professor Draghi oltre ad un discorso quantitativo faccia anche un discorso qualitativo sulla spesa pubblica che andrà finanziata a debito pubblico per salvare il sistema produttivo. Se no il discorso oltre che tardivo, privo di quella necessaria autocritica è anche in assoluta malafede.

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il testo integrale: La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.

Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo – e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento. L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Appare scontato che ci troviamo all’inizio di una profonda recessione.

La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.

Il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire. Tutti gli stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più significativo della crisi in atto – si finanziavano attingendo al debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e in Germania soltanto una quota fra il 6 e il 15 per cento delle spese militari in termini reali fu finanziata dalle tasse, mentre nell’Impero austro-ungarico, in Russia e in Francia, i costi correnti del conflitto non furono finanziati dalle entrate fiscali. Ma inevitabilmente, in tutti i paesi, la base fiscale venne drammaticamente indebolita dai danni provocati dalla guerra e dall’arruolamento. Oggi, ciò è causato dalle sofferenze umane per la pandemia e dalla chiusura forzosa delle attività economiche.

La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio. La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro. Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende a fatica riusciranno a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto.

Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità. Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o, a maggior ragione, di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi. Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.

Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario: il mercato obbligazionario, soprattutto per le grandi multinazionali, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.

Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sottoforma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi. Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le emette.

Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi – pensiamo alle aziende con ordini inevasi – le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.

Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.

O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.

I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.

Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità. L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.

Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.

La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.

ALTRA LETTERA
Mi pare che ieri sia stata la giornata delle lettere. Molto importante quella scritta da Conte ai paesi dell’Eurozona che chiede uno sforzo comune dell’EU per contrastare la recessione. Bene, la lettera è stata cofirmata da Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Italia. Tutti coloro che non l’hanno firmata evidentemente sono contrari. Siamo di fronte ad una spaccatura all’interno della UE senza precedenti. Anche se non lo dicono è così. I paesi dell’area euro sono 19, la lettera l’hanno firmata in 9 e conseguentemente 10 sono contrari.

 il testo della lettera: Caro Presidente, caro Charles

la pandemia del Coronavirus è uno shock senza precedenti e richiede misure eccezionali per contenere la diffusione del contagio all’interno dei confini nazionali e tra Paesi, per rafforzare i nostri sistemi sanitari, per salvaguardare la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali e, non ultimo, per limitare gli effetti negativi che lo shock  produce sulle economie europee. 

Tutti i Paesi europei hanno adottato o stanno adottando misure per contenere la diffusione del virus. Il loro successo dipenderà dalla sincronizzazione, dall’estensione e dal coordinamento con cui i vari Governi attueranno le misure sanitarie di contenimento.

Abbiamo bisogno di allineare le prassi adottate in tutta Europa, basandoci su esperienze pregresse di successo, sulle analisi degli esperti, sul complessivo scambio di informazioni. È necessario ora, nella fase piu’ acuta dell’epidemia. Il coordinamento che tu hai avviato, con Ursula von der Leyen, nelle video-conferenze tra i leader è d’aiuto in tal senso.

Sarà necessario anche in futuro, quando potremo ridurre gradualmente le severe misure adottate oggi, evitando sia un ritorno eccessivamente rapido alla normalità sia il contagio di ritorno da altri Paesi. Dobbiamo chiedere alla Commissione europea di elaborare linee guida condivise, una base comune per la raccolta e la condivisione di informazioni mediche ed epidemiologiche, e una strategia per affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo non sincronizzato della pandemia.

Mentre attuiamo misure socio-economiche senza precedenti, che impongono un rallentamento dell’attività economica mai sperimentato prima, abbiamo comunque bisogno di garantire la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali, e la libera circulazione di dispositivi medici vitali all’interno dell’UE. Preservare il funzionamento del mercato unico è fondamentale per fornire a tutti i cittadini europei la migliore assistenza possibile e la più ampia garanzia che non ci saranno carenze di alcun tipo.

Siamo pertanto impegnati a tenere i nostri confini interni aperti al necessario scambio di beni, di informazioni e agli spostamenti essenziali dei nostri cittadini, in particolare quelli dei lavoratori transfrontalieri. Abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica. I nostri sforzi saranno prioritariamente indirizzati a garantire la produzione e la distribuzione delle attrezzature mediche e dei dispositivi di protezione fondamentali, per renderli disponibili, a prezzi accessibili e in maniera tempestiva a chi ne ha maggiore necessità. 

Le misure straordinarie che stiamo adottando per contenere il virus hanno ricadute negative sulle nostre economie nel breve termine. Abbiamo pertanto bisogno di intrapredere azioni straordinarie che limitino i danni economici e ci preparino a compiere i passi successivi. Questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo. La BCE ha annunciato lo scorso giovedì 19 marzo una serie di misure senza precedenti che, unitamente alle decisioni prese la settimana prima, sosterrano l’Euro e argineranno le tensioni finanziarie.

La Commissione europea ha anche annunciato un’ampia serie di azioni per assicurare che le misure fiscali che gli Stati membri devono adottare non siano ostacolate dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita e dalla normativa sugli aiuti di Stato. Inoltre, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno annunciato un pacchetto di politiche che consentiranno agli Stati membri di utilizzare tutte le risorse disponibili del bilancio dell’UE e di beneficiare degli strumenti della BEI per combattere l’epidemia e le sue conseguenze.

Gli Stati membri dovranno fare la loro parte e garantire che il minor numero possibile di persone perda il proprio lavoro a causa della temporanea chiusura di interi settori dell’economia, che il minor numero di imprese fallisca, che la liquidità continui a giungere all’economia e che le banche continuino a concedere prestiti nonostante i ritardi nei pagamenti e l’aumento della rischiosità. Tutto questo richiede risorse senza precedenti e un approccio regolamentare che protegga il lavoro e la stabilità finanziaria.

Gli strumenti di politica monetaria della BCE dovranno pertanto essere affiancati da decisioni di politica fiscale di analoga audacia, come quelle che abbiamo iniziato ad assumere, col sostegno di messaggi chiari e risoluti da parte nostra, come leader nel Consiglio Europeo. 

Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e la necessità di una ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona. 

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia. 

Vi sono valide ragioni per sostenere tale strumento comune, poichè stiamo tutti affrontando uno shock simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti. E dobbiamo rendere conto collettivamente di una risposta europea efficace ed unita. Questo strumento di debito comune dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere pienamente efficace e per evitare rischi di rifinanziamento ora come nel futuro.

I fondi raccolti saranno destinati a finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale.

Con lo stesso spirito di efficienza e solidarietà, potremo esplorare altri strumenti all’interno del bilancio UE, come un fondo specifico per spese legate alla lotta al Coronavirus, almeno per gli anni 2020 e 2021, al di là di quelli già annunciati dalla Commissione.  

Dando un chiaro messaggio di voler affrontare tutti assieme questo shock unico, rafforzeremmo l’Unione Economica e Monetaria e, soprattutto, invieremmo un fortissimo segnale ai nostri cittadini circa la cooperazione determinata e risoluta con la quale l’Unione Europea è impegnata a fornire una risposta efficace ed unitaria. 

Abbiamo inoltre bisogno di preparare assieme “il giorno dopo” e riflettere sul modo in cui organizziamo le nostre economie attraverso i nostri confini, le catene di valore globale, i settori strategici, i sistemi sanitari, gli investimenti comuni e i progetti europei. 

Se vogliamo che l’Europa di domani sia all’altezza delle sue storiche aspirazioni, dobbiamo agire oggi e preparare il nostro futuro comune. Apriamo pertanto il dibattito ora e andiamo avanti, senza esitazione. 

Firmato da

Sophie Wilmès, Primo Ministro del Belgio
Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese
Kyriakos Mitsotakis, Primo Ministro of Greece
Leo Varadkar, Primo Ministro of Ireland
Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Xavier Bettel, Primo Ministro del Lussemburgo
António Costa, Primo Ministro  del Portogallo
Janez Janša , Primo Ministro della Slovenia
Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna

 

PROSIEGUO

Paul de Grauwe, importante economista di origine belga sostiene che “senza coronabond l’intero progetto europeo scomparirà”. Per coronabond ovviamente bisogna intendere una qualche forma di mutualizzazione del debito indipendentemente dal nome che si voglia dare. Nel frattempo sembra che oggi ad aver silurato l’ipotesi sia stato Kurtz, il Cancelliere austriaco. Figuriamoci.
Gualtieri ripete come un disco rotto che “EU deve condividere rischi. Servono bond comuni”. Galtieri, mettiti l’anima in pace. Non c’è possibilità. E anche se i paesi del Nord Europa convergessero sull’ipotesi appena sarà chiara l’entità del disastro sarà evidente che si tireranno indietro. Io già lo dico da settimane: prepararsi all’impatto. L’Euro non si salva. Non è questione di se, ma di quando.

Sarebbe bene che si pensasse a salvare il salvabile. Che poi in questo caso sarebbe anche l’utile: Mercato Comune, iniziative culturali comuni e libera circolazione delle persone (al netto delle inevitabili restrizioni sanitarie). Salvare questi aspetti è importante al fine di minimizzare i rischi di guerra in Europa. Ripeto, ho detto minimizzare, non annullare. Il rischio c’è per i prossimi anni ed è legato purtroppo a dinamiche non europee.

PROTAGONISTI E COMPARSE

Io credo che il rigetto del documento finale del vertice dei capi di stato e di governo europei di oggi da parte dell’Italia sia un fatto davvero inedito. L’Italia è tradizionalmente il paese che più ha scommesso sul progetto europeo e adesso – in frangenti drammatici – fa ciò che che generalmente faceva la Gran Bretagna. La lettera divulgata stamane e firmata da nove paesi (Italia, Francia, Spagna, Lussemburgo, Belgio, Grecia, Portogallo, Irlanda e Slovenia) delinea chiaramente quella che è la linea di frattura interna all’UE:

👉 Mitteleuropa e Scandinavia capeggiate dalla Germania;
👉Paesi Latini, Mediterranei e anglosassoni capeggiati dalla Francia;

Politicamente il Trattato di Aquisgrana tra Germania e Francia è in pezzi. Ed è in pezzi perchè le condizioni reali pongono Parigi e Berlino su sponde opposte: la Francia, paese in grave difficoltà a causa di #Covid19 e con una situazione economico-finanziaria precaria chiede mutualizzazione del debito, Berlino paese con una situazione economico-finanziaria solida (almeno in apparenza, ma tanto da illudere i tedeschi di superare la crisi da soli) che non ne vuole sentir parlare.

Le due grandi capitali non si sono mosse in prima persona ma hanno lasciato che le seconde linee si scornassero. Austria e Olanda per i tedeschi e Italia e Spagna per i francesi.

Siamo ad un tornante della Storia d’Europa. Io credo che un accordo lo troveranno per questa volta. Ma quando sarà chiara l’entità del disastro economico ancora in corso secondo me la spaccatura definitiva sarà inevitabile. Salvare ciò che è giusto salvare (a partire dal Mercato Unico) non sarebbe sbagliato. Ritornare all’Europa dei primi del ‘900 non sarebbe interesse di nessuno.

Coronavirus! Cambio di paradigma, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto tre articoli che testimoniano del fatto che qualcosa sta cambiando nei criteri di individuazione e gestione dei focolai di diffusione della epidemia e soprattutto nella informazione.

Non sono solo questi due testi a testimoniarlo; anche nella cosiddetta grande stampa nazionale e nel sistema televisivo qualche barlume comincia ad illuminare la reale situazione. Sono però ancora iniziative estemporanee, frammentarie e non coordinate, comunicate significativamente sottotraccia. L’inquietudine, il timore che possano emergere già in corso d’opera i gravi errori e le pesanti responsabilità di un ceto politico in varie forme al governo e di una classe dirigente, ivi compresa quella impegnata nel sistema di informazione, tali da comprometterne del tutto la residua credibilità e autorevolezza, serpeggiano e sono palpabili. La crisi pandemica sta accelerando ed accelelerà convulsamente processi in corso da almeno quindici anni.

Il nostro sistema di informazione, gran parte del ceto accademico ed intellettuale, la quasi totalità del ceto politico, in questi anni si è trastullato da miserabile saccente a denigrare e sminuire Trump come una pittoresca meteora, ad esorcizzare Putin sin dal suo importante intervento alla Conferenza Internazionale di Monaco del 2007, a fraintendere il ruolo della classe dirigente cinese, quella che più di altri ha saputo e voluto approfittare degli spazi offerti dal processo di globalizzazione per affermare e consolidare il proprio interesse nazionale piuttosto che dissolversi nel globalismo; a cullarsi soprattutto nell’illusione della fratellanza europea.

Non ha compreso, non lo vuole, che il termine di amicizia assume un significato diverso, spesso agli antipodi se attribuito alle relazioni tra individui, a quelle tra popoli e più ancora tra i centri decisionali e gli stati. Doveva sopraggiungere il bisogno insoddisfatto di banali mascherine e di ventilatori a mostrare il re nudo e il senso reale della solidarietà internazionale.

Non è bastato però! Non v’è più cieco di chi non vuol vedere; più sordo di chi non vuol sentire. Stanno ancora tergiversando, a due mesi di distanza, su un programma di parziale riconversione produttiva realizzabile in poche settimane e si spendono a piene mani a pietire a destra e a manca, trattati spesso a pesci in faccia all’estero, i materiali necessari a garantire cure e sicurezza sanitaria.

Hanno bloccato i voli diretti dalla Cina, e con quello la possibilità di controllo diretto dei punti di arrivo dei flussi; non si sono accorti delle vie alternative utilizzate e verificabili già due giorni dopo il blocco dalle fonti di intelligence e anche da internet. L’esplosione del contagio in Iran non è un prodotto del destino avverso. Troppo impegnati a considerare e a confondere la trasmissione virale e il messaggio di fratellanza e solidarietà a base di pacche sulle spalle.

Si sono profusi in appelli accorati a mantenere le distanze e al senso civico, ma hanno ignorato la formulazione, la diffusione e l’applicazione di direttive e protocolli che limitassero i contagi tra gli operatori sanitari e tra questi e il pubblico; protocolli ben conosciuti dagli esperti di gestione sanitaria e delle emergenze; esperti autorevoli, spesso e volentieri relegati nelle quarte file.

L’autorevolezza, si sa, non si accompagna, il più delle volte, all’accondiscendenza. Hanno inventato un nuovo istituto giuridico, un vero ossimoro: la decretazione di raccomandazioni e suggerimenti. Ne è conseguita una catena di comando incerta, una sovrapposizione di incarichi, direttive contraddittorie in un contesto istituzionale già reso precario e incerto da uno sciagurato decentramento regionale. Consola la premura con la quale Borrelli, il capo della Protezione Civile, sottolinea l’attenzione e la parsimonia nella gestione della spesa; vorremmo che il proconsole che gli hanno affiancato proclamasse con la stessa partecipazione.

Una tara dovuta alla situazione d’emergenza bisogna concederla

Sta di fatto che l’istituzione più preparata alle emergenze, alla logistica, al coordinamento dei vari ambiti operativi rimane tagliata fuori e relegata al ruolo di coadiutori dei vigili urbani e delle pompe funebri.

Troppi precedenti emergenziali dovrebbero suonare come campanelli d’allarme sugli appetiti famelici da soddisfare in queste contingenze. Una inadeguatezza che rischierà di condannare definitivamente il paese quando si dovrà passare dalla fase di emergenza tesa al contenimento dell’epidemia a quella presumibile di convivenza con il virus, in attesa di una cura medica risolutiva. Ben venga la solidarietà internazionale. Cina, Russia, Cuba e Stati Uniti vanno quindi ringraziati. Un po’ meno la aperta politicizzazione. Anche la solidarietà internazionale, nel rapporto tra gli stati e nelle dinamiche geopolitiche, richiede un prezzo e uno scotto specie quando a richiederla è un ceto particolarmente remissivo e inconsapevole dell’interesse nazionale. Un prezzo sia nei confronti del singolo paese solidale, sia nei confronti di altri ben presenti sul nostro suolo da decenni e che si sentirebbero minacciati dai nuovi arrivati. Nel primo caso, nella fattispecie con la Cina, non è ancora chiaro se gli accordi commerciali prevedono solo scambi di prodotti e la concessione di presidi, simili ai fondaci che concedevano le repubbliche marinare oppure arrivano a delegare almeno in parte il controllo strategico della logistica e dei flussi; lo stesso dicasi per il 5G. Nel secondo la questione è ancora più delicata e cruciale per la sovranità del paese.

Quando si decide di risvegliare l’allarme e la preoccupazione del proprio tutore bisogna avere la ragionevole certezza, almeno probabilità, di poter resistere alle prevedibili reazioni e di poter contare su di un contesto internazionale favorevole e sul sostegno fattivo di altre potenze, Il recente esempio di Tsipras in Grecia è particolarmente illuminante. La capitolazione definitiva di Syriza sotto il giogo dell’Unione Europea è avvenuta quando Putin aveva fatto capire di non avere molte armi da offrire alla resistenza greca e quando era apparso chiaro che alla Cina premeva soprattutto mettere radici nel Pireo e non compromettere la propria penetrazione commerciale nell’Unione Europea. La domanda a questo punto sorge spontanea: questo ceto politico, questa classe dirigente ha la consapevolezza sufficiente della posta in palio; ha un sufficiente controllo quanto meno delle proprie istituzioni e dei propri apparati tale da consentirle sufficiente libertà di azione? Dispone della sufficiente autonomia e visione strategica che le possa garantire di poter giocare su più tavoli piuttosto che ridursi al carnevalesco servo di più padroni? Gli antefatti sulla Libia e sulla Unione Europea lasciano dubitare pesantemente. Conosciamo la fine delle oche giulive. Il redde rationem lo vedremo probabilmente a partire dal prossimo novembre, specie se alla Casa Bianca al tanto vituperato e rozzo Trump dovesse succedere qualche democratico compassionevole, banditore di pace e fautore di guerre.

Il nostro paese avrebbe bisogno di un cambio di paradigma, a cominciare da questa emergenza sanitaria così destabilizzante. Quello che riescono ad offrire è qualche aggiustamento perpetrato per di più di soppiatto. Lo stato di emergenza rappresenta la cornice adatta a mascherarne la pochezza. A cosa potrà portare questa commistione poco virtuosa non si sa. Potranno certo offrire una qualche via di fuga o un arroccamento; a se stessi, non alla massima parte del paese. Buona lettura e ascolto, Giuseppe Germinario

 

DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza), di Pierluigi Fagan

I migliori, i più furbi. Non è detto i più intelligenti_Giuseppe Germinario

DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza). Un fantasma si aggira nelle statistiche mondiali sul fenomeno pandemico. Un solo Paese al mondo, mostra statistiche del tutto fuori logica tra i dichiarati contagiati ed i morti: la Germania.

E sì che la Germania è il Paese europeo più grande (demograficamente circa un terzo circa più grande dell’Italia, della Francia e dell’UK), ha un peso di popolazione anziana praticamente pari all’Italia ed in più, è il primo Paese europeo in cui si è accertata la precoce presenza del virus il che è ovvio visto che è anche il Paese con i maggiori contatti ed interscambi economici coi cinesi. Il virus è lì da più tempo che altrove, in un Paese pieno di anziani, un terzo almeno di più che in Italia, ma i tedeschi non muoiono. Lo “spread dei morti” tra ogni Paese del mondo e la Germania è ovunque alto ma si sa, quando si tratta di spread, ai tedeschi piace ben figurare.

Il mistero ha attratto i giornalisti anglosassoni, vi hanno scritto articoli a vario titolo il FT, the Guardian, the Indipendent, WSJ, ma molto meno la stampa europea. L’Espresso, l’altro giorno, vi ha posto ritardata attenzione confezionando un “the best of” di ragioni a spiegazione, copiato dagli articoli anglosassoni che avevano doverosamente riportato le risposte tedesche alle domande poste:

1) Il loro facente funzione di ISS, il Robert Koch Institute (RKI) afferma che i morti tedeschi sono più giovani quindi la popolazione anziana è stata misteriosamente per il momento evitata dal virus (a parte il medico della Merkel). Qualcuno sostiene che gli anziani tedeschi vivono più “isolati” dai giovani che non in Italia o Cina, ma francamente a me pare una stupidaggine insostenibile, anche perché andranno pur in giro a far la spesa come tutti, no? ma le spiegazioni arzigogolate hanno anche varianti;

2) i tedeschi sostengono che l’epidemia, da loro, si sarebbe sviluppata più tardi. Ma come? esistono studi pubblicati su the Lancet che confermano la precocità del paziente 0 in Germania come è ovvio che sia. Portano loro l’infezione in Lombardia ma non in Germania? Tutta Europa ha più morti percentuali di loro perché loro sono “in ritardo” nella diffusione del contagio? Incredibile … anche perché la stampa tedesca se ne uscì a gennaio e primi febbraio con notizie di una incredibilmente contagiosa e virulenta epidemia di influenza polmonare, rigorosamente diagnosticata come tale e non corona virus come probabilmente era. Alla domanda se RKI dispone di test Covid-19 post mortem, gli interessati hanno risposto sì ma i giornalisti inglesi hanno verificato che la strana struttura sanitaria tedesca che è iper-federale, crea notevoli asimmetrie tra centro e periferia, ognuno fa un po’ come gli pare. In più perché fare i tamponi ex post e non ex ante visto che dichiarano di farne in ognidove? Questa strana struttura della sanità tedesca darebbe anche conto del perché i tedeschi danno le cifre in ritardo mentre John Hopkins University che segue la pandemia dall’inizio, dà cifre diverse perché attinge direttamente ai Lander. Insomma, a voler pensar male si potrebbe notare una certa cortina fumogena di grande confusione fatta apposta per render difficile la comprensione reale degli eventi e sopratutto per darsi la libertà di sparare cifre ad estro;

3) poi c’è la versione secondo la quale i tedeschi farebbero molti più tamponi di chiunque altro, dichiarazione del RKI riportata anche dalla stampa inglese (in effetti RKI dichiara che “possono” far tamponi, non che li fanno). Non so, a me secondo altri dati non risulterebbe, o sono sbagliati i miei dati o la stampa inglese riporta dichiarazioni tedesche senza verificarle e chissà perché tutti fanno finta di crederci;

4) si arriva così alle note enormi capacità di ricovero ospedaliero e letti di terapia intensiva tedesche. Ma dati alla mano, è vero che la Germania sta messa meglio dell’Italia ma l’Italia starebbe comunque messa meglio di (in ordine) Francia, Svizzera, UK ed Olanda oltre a molti altri. Ma più che altro, questa spiegazione se sembra logica di primo acchito non lo è in approfondimento. In Italia il SSN ha retto botta per un bel po’ prima di andare in affanno ed è andato in affanno solo nell’area più colpita. I morti a casa perché gli ospedali son pieni, in Italia non compaiono nelle statistiche. In più i morti italiani censiti, passano dai letti di terapia intensiva e finiscono nella bara comunque, come per altro in tutto il mondo visto che non sembra esserci una cura effettiva ma solo un supporto terapeutico che è lo stesso in tutto il mondo. Cos’hanno i tedeschi di diverso? Letti più comodi? Respiratori fabbricati dalla Mercedes? Dottor House in ogni stanza? Non si sa …

Ma una rasoiata di Occkam comincia qui e lì a comparire a mezza bocca. Un portavoce del direttivo del’ISS che ogni sera affianca Borrelli in conferenza stampa, a precisa domanda, qualche giorno fa ha risposto qualcosa tipo “io so che noi contiamo sia “morti di” che i “morti con”, come contano gli altri, non lo so”. Da qualche giorno questo insistere sul fatto che noi contiamo -tutti- i morti è stata ripetuta da Borrelli, Brusaferro e altri membri dell’ISS che si alternano giornalmente anche fuori dal contesto della “questione tedesca”. Ieri hanno avanzato dubbi su questa differenza che è logicamente l’unica e per giunta auto-evidente statisticamente e logicamente parlando, un biologo su la Stampa ed uno sul Corriere.

Nessuno può ufficialmente accusare i tedeschi di contare i morti in modo scorretto è evidente, sarebbe guerra diplomatica ed anche improprio perché non lo si può dimostrare, ovviamente. E’ inoltre una questione più politica che non virologica o biologica, non sta a gli scienziati fare ipotesi di tal fatta anche se ogni biologo o virologo o statistico sa che quella sproporzione è talmente esagerata che non c’è altro modo per spiegarla. E così si spiega anche il silenzio pudico in Europa, chi va a fare una accusa così grave ed indimostrabile e pure antipatica perché politicizzare i morti è davvero brutto?

Abbiamo visto tutti come ogni cancelleria ha negato sin dall’inizio l’esistenza del problema del virus pur nota a tutti come ora viene fuori nei rapporti dati con grande anticipo tanto negli USA che in Francia, UK e non c’è motivo di non ritenere, anche Germania. E tutti abbiamo visto come i Paesi più ostinatamente difensori del mercato come ordinatore sociale abbiamo ritardato gli interventi a costo di mentire, inventare idiozie come “l’immunità di gregge”, modulare interventi ma salvaguardando l’operatività economica come plaudono anche molti insospettabili difensori del “market first”, forse involontari, qui da noi. Magari avanzando cautele costituzionali o biopolitiche o libertarie o sdilinquendosi davanti ai miracoli del “modello coreano” o solo perché ormai il far polemica su tutto gli parte di riflesso facebook-esistenziale. E vediamo tutti la reazione furibonda al decreto del Governo pur in ritardo, pur mal comunicato, pur pieno di difetti, quando tocchi la fabbrica ed il denaro scoppiano scintille, è ovvio.

Il governo tedesco non conta i morti reali per non spaventare la propria popolazione che lo costringerebbe a misure che vogliono ritardare il più a lungo possibile, come hanno provato a fare tutti, e questo avviene nel cuore dell’Europa, dell’Occidente democratico e trasparente che s’indigna per i ritardi cinesi e le nebbie russe. Il virus in Germania colpisce solo giovani alti, biondi e sanissimi, per questo le Merkel va in quarantena stanziando miliardi di miliardi per far fronte ai 90 morti dichiarati (cioè come gli svizzeri che sono otto volte di meno!) in un mese e mezzo su 82 milioni di individui. “Buying time”, comprare tempo pagandolo con morti non censiti. Berlino manipolando la sua opinione pubblica ed iniettando al contempo denaro nell’economia, si vuole garantire il suo rimaner al centro del sistema europeo anche nel “dopo”, perché è quella la sua “potenza”. Ed alla potenza si sacrifica tutto.

[Il post è della serie libere opinioni. Naturalmente seguo la faccenda da giorni ed ne ho letto e studiato il più possibile, per quanto mi è stato possibile. Se qualcuno ha da postare dati (le opinioni di articoli che si arrampicano sugli specchi per favore no), che facciano ulteriore luce, è il benvenuto. Vediamo chi mi fa cambiare opinione …]

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L’Italia alla prova del coronavirus (e degli avvoltoi) di Patriottismo Costituzionale

L’Italia alla prova del coronavirus (e degli avvoltoi)

di Patriottismo Costituzionale

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
(…)
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai

 

Dal punto di vista più strettamente sanitario, il pericolo del coronavirus è rappresentata dalla grande velocità di contagio nella forma di areosol associata all’alta percentuale di contagiati che hanno bisogno di cure specialistiche. Si parla di una percentuale del 10-15-20%. Nessun sistema sanitario al mondo può reggere un peso simile.

Fino alla produzione del vaccino l’unico rimedio è quello di rallentare il contagio. Questo obiettivo è reso molto complesso dal fatto che, come già scritto, il coronavirus si diffonde per aerosol, come spiega il professor Marc G. Wathelet, noto virologo che ha guidato un gruppo di studio sulla SARS, che può diffondere il virus su grandi distanze e tra persone che non interagiscono faccia a faccia.

L’unica soluzione quindi è quella cinese: fermarsi. A meno che non si sia disposti a sopportare una ecatombe.

E qui sta il punto.

Il coronavirus sta facendo saltare in aria il sogno globalista di un unico mercato mondiale dove capitali, merci e forza lavoro si muovono ininterrottamente e senza incontrare ostacoli secondo le convenienze del capitale e dei suoi profitti. Un mondo da sogno in cui le catene della produzioni si dislocano laddove i costi sono minori per poi spostare le merci laddove la domanda è maggiore. Un mondo dove sembrava possibile la realizzazione del grande sogno del capitalista: vivere sotto l’unica legge dell’accumulazione di ricchezza e potere, slegato completamente da qualsiasi altra considerazione e freno che riguardino uomini, comunità e luoghi. In questi giorni tutto questo sta crollando, e il grande capitale deve trovarsi un luogo e accettare nuovamente di arrivare a compromessi con uomini e comunità.

Se il mondo nato negli anni Ottanta del secolo scorso sta crollando, uno nuovo dovrà pur nascere. Non sappiamo come sarà. Siamo a una biforcazione della storia: potremmo procedere avanti e superare le contraddizioni di un modello produttivo, politico e sociale che ormai non ha più nessuna soluzione in positivo da offrire all’umanità; oppure potremmo rivelarci talmente svuotati di vitalità, saggezza e intelligenza da rimanere prigionieri di un sistema che ha bisogno di disastri, guerre e immani distruzioni per poter ripartire.

Il coronavirus sta rivelando chiaro e nitido che abbiamo bisogno di uno stato. È allo stato e ai suoi bracci operativi che in questo momento i cittadini di ogni paese si rivolgono per avere protezione e sicurezza. E sono gli stati che in questi decenni hanno mantenuto un ruolo e una presenza robusta nella protezione sociale e nell’economia ad avere maggiore successo nella lotta al diffondersi dell’epidemia. Dove invece lo stato è stato sottoposto all’attacco dell’ideologia neoliberista che gli assegnava il ruolo di semplice regolatore e facilitatore della concorrenza privata, lì ha rivelato tutta la difficoltà a cambiare passo e assumersi responsabilità che pensava di non doversi più assumere, perché “il privato sa fare meglio di lui”.

Il coronavirus sta spingendo gli stati e i governi ad ampliare la propria sfera di controllo e a limitare le normali libertà personali dei suoi cittadini. Come in uno stato di guerra. E proprio questa è la nostra situazione attuale. Siamo in guerra. Una guerra atipica, strana, surreale, dove c’è un nemico chiaro anche se così microscopico che non si vede a occhio nudo, e tanti nemici nascosti e non dichiarati che però si vedono benissimo, ci stanno molto vicino. Anzi, li abbiamo proprio in casa ai massimi vertici della macchina statale. Il coronavirus, infatti, sta indirettamente rivelando con chiarezza il muso da sciacallo e il becco da avvoltoio dei nostri fratelli europei che per sfruttare appieno le nostre difficoltà anticipano la riunione dell’Eurogruppo per l’approvazione del MES. Ma sta anche evidenziando la contraddizione di un governo che, da una parte, mostra i muscoli imponendo una sorta di legge marziale ai suoi cittadini (necessaria, peraltro) e, dall’altra, persiste imperterrito nella sua politica di sottomissione allo straniero e cessione di sovranità a favore della Unione europea, alias Germania.

Il coronavirus sta mettendo in rilievo in tutta la sua evidenza l’opposizione tra due modelli economici: il primo basato sulla pianificazione da parte del grande capitale finanziario e monopolistico privato, che governa stati e popoli attraverso la paura del fantasma dei mercati, lo stuzzicamento continuo del desiderio e l’indottrinamento alla religione della competizione e del merito attraverso il totale controllo dei mezzi di comunicazione di massa; il secondo basato sul concetto di economia mista, dove libera impresa e imprese pubbliche convivono e si integrano sotto la direzione e la regia di uno stato che controlla i settori strategici, la moneta e quindi la finanza. La realtà di questi giorni sta rivelando tutto il pericoloso irrealismo fallimentare del primo modello e tutta la necessità storica del secondo. Resta tutto da vedere verso quale stato e verso quale cittadinanza ci stiamo dirigendo. Ma questo è un altro discorso.

Come ne usciremo noi Italiani? Anche in questo caso siamo a un bivio: potremmo essere alla vigilia di un nuovo 8 settembre, oppure alla prova del momento le classi dirigenti italiane sapranno rivelare al loro interno risorse tenute nascoste e soffocate dalla marea liberista ed eurista di questi ultimi quaranta anni. Logica e realismo fanno purtroppo pendere la bilancia sulla prima ipotesi. Quarant’anni di selezione artificiale del personale dirigente a ogni livello (amministrazione dello stato, università, media, pensiero economico, scuola, esercito, ecc.) ci hanno portato nella condizione che chi ha in mano le leve del potere letteralmente è incapace a pensare soluzioni che evadano dal quadro concettuale vigente. Non ce la fanno. Hanno passato tutta la loro vita formativa e lavorativa in un ambiente che li ha segnati e resi inservibili.

Eppure qualche segnale di speranza c’è:

Se l’Europa continua a tentennare segnerà definitivamente la sua fine. E se lo farà … l’Italia dovrà procedere per conto proprio. (…) Dieci anni fa, in occasione di una crisi finanziaria drammatica … i soldi per salvare le banche sono stati trovati. Ora vanno trovati i soldi per salvare l’economia reale, l’economia delle imprese. (Fabio Tamburini, direttore del quotidiano economico Sole 24 Ore)

Non è tempo di chiedere conti, di chiedere al direttore Tamburini dov’era tutto questo tempo, o perché è stato necessario un evento tanto drammatico come una pandemia per costringere il padronato a cominciare a pensare di rinunciare al suo tanto caro strumento di dominio e sottomissione del mondo del lavoro italiano. O per fargli notare che i soldi per le banche non sono stati esattamente “trovati”, bensì sono stati “creati” dalle banche centrali di tutto il mondo. Non è questo il momento di polemizzare e indebolire il fronte che si sta creando a difesa della nostra indipendenza e sovranità. Verrà il tempo per i chiarimenti. E, chissà, forse avremo anche noi la nostra Norimberga.

Lentamente il governo italiano sta prendendo consapevolezza dell’entità della sfida e sta sollevando il livello degli stanziamenti per combattere la diffusione del virus e dei suoi effetti sull’economia e sul corpo sociale. Ma ancora non basta. E soprattutto non basta perché finché quei miliardi verranno stanziati all’interno delle regole contabili e finanziarie europee, finché li chiederemo ai mercati, li dovremmo ripagare in futuro noi cittadini con interessi salati nella forma di tagli, tasse, tributi e ulteriori dismissioni. Si riveleranno l’ennesima arma regalata ai nostri “fratelli” europei e ai creditori, e l’8 settembre sarà solo rinviato. Le uniche vere soluzioni sono due: o cambia radicalmente l’Ue (il che significa limitarne radicalmente i poteri e rivedere dalle fondamenta le regole di convivenza fra gli stati pienamente sovrani che ne facciano parte) o l’Italia ne esce fuori. La terza alternativa è la nostra totale sottomissione.

https://patriottismocostituzionale.blog/2020/03/13/litalia-alla-prova-del-coronavirus-e-degli-avvoltoi/?fbclid=IwAR1x8wtN-KIgjq44NqaFRJ0jZul7aFzAk5AIaEkmWuFyGYuiJt2sa3-3crg

IL CUOCO DI BORDO E BARBANERA, di Massimo Morigi

 

 

IL CUOCO DI BORDO E L’ASSALTO DEI PIRATI ALLA NAVE

 

Di Massimo Morigi

 

Oggi 13 marzo 2020 tutti i grandi organi di informazione, tutti allineati, sono indignati per le dichiarazioni del presidente della BCE Christine Lagarde di lasciare i tassi invariati e che il ruolo della BCE non è quello di fare abbassare lo spread, alle quali ha immediatamente fatta eco la “durissima” replica del Presidente della Repubblica italiana (mamma mia che impressione!) nelle quali, testuali parole, stigmatizza «L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione» (a rileggerle, scorre per la schiena un brivido di orgoglio patriottico e non aggiungiamo altro… per carità di Patria). Difficile dire se il presidente della BCE abbia compiuta una gaffe oppure abbia scientemente voluto dare una mano alla speculazione internazionale che in questa gravissima e sistemica crisi non solo epidemiologica ma economica, sociale e politica dell’Italia scommette sul crollo del paese. Per noi il migliore commento alla situazione ci viene da Stadi sul cammino della vita di Søren Kierkegaard, dove il pre-esistenzialista filosofo danese a metafora della condizione umana priva di punti riferimento scriveva: «State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.» Alle quali parole, come chiosa della situazione attuale, aggiungiamo: «E venuta a sapere della situazione della nave, i pirati stanno compiendo  l’abbordaggio».

 

 

 

 

La nave è ormai in preda al cuoco di bordo e ciò che trasmette al microfono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani.

Politica – da PensieriParole.it <https://www.pensieriparole.it/aforismi/politica/>

Søren Aabye Kierkegaard

 

 

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Approvando, citando gli  Stadi sul cammino della vita di Søren Kierkegaard

 

 

 

“State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.”

Søren Kierkegaard – Stadi sul cammino della vita

 

Stadier paa Livets Vei. Studier af Forskjellige sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder
Autore Søren Kierkegaard
1ª ed. originale 1845
1ª ed. italiana 1993
Genere saggio
Sottogenere filosofia
Lingua originale danese

Stadi sul cammino della vita. Studi di autori diversi raccolti, dati alle stampe e pubblicati da Hilarius il Rilegatore (in danese Stadier på Livets Vej) è un’opera del filosofo Søren Kierkegaard del 1845, al cui interno vengono raccolti scritti firmati con gli pseudonimi Hilarius il Rilegatore, William Afham e Frater Taciturnus. Viene considerato una specie di continuazione della raccolta Enten-Eller che prevalentemente si occupa di vita etica e vita estetica, mentre qui l’autore si occupa di vita religiosa

 

Stages On Life’s Way: Studies by Various Persons, compiled, forwarded to the press, and published by Hilarious Bookbinder (Stadier paa Livets Vej. Studier af Forskjellige. Sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder)

https://www.academia.edu/24856545/Stages_on_the_way_of_life_Kierkegaard

The captain is on the bridge and the cook is in the galley. These days – as Kierkegaard used to say – we find the cook has taken the helm and is handing out orders, so we know what we are going to eat tomorrow but have no idea in which direction we are sailing.The crisis is giving rise to disquiet, because we no longer know what is on tomorrow’s menu.

 

Iuyuguy767585

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What is the biggest battle ever fought?

 

 

Kevin Flint, studied History

Updated February 14, 2018 · Featured on HuffPost · Upvoted by David Bliss, MA in history and Vadim Mikhnevych, Former Driver-Electrician in the Air Forces

The Battle of Vienna
So yes, there have been large and protracted actions defined as battles that have lasted weeks, months, or years. But if we want to narrow the definition of “battle” to be defined as a single uninterrupted moment of conflict (ie the classical definition of “battle”,) then September 12, 1683 is a strong contender for both number of combatants simultaneously engaged, and because at 5 PM that day there occurred what could well be the most awesome spectacle in the history of battle.

The set up: For 2 months the mighty army of the Ottoman Empire had laid siege to Vienna. And though they massively outnumbered the 15,000 defenders by 10 or 20 to 1, it was no easy task. The fortifications and walls of Vienna were some of the most modern of the era, and reinforced with 370 cannon. The Ottomans were forced to slowly whittle down the defenses by completely cutting off the city and using extensive tunneling and sapper action to reduce the walls.




The Relief: Arriving on September 11, the Polish and German relief forces had managed to quickly consolidate their fractious alliance under the leadership of the Polish King. Early the next morning, as they were still consolidating and readying their order and lines of battle, the Ottoman forces attacked. At the same time, beneath the clashing infantry, a subterranean battle was being waged as thousands of Ottoman sappers in miles of tunnels faced an army of counter sappers from the city defenders.

The counter sappers managed to delay or disarm the massive bombs intended to devastate the walls. This denied the Ottoman infantry the chance to take the city, and to assume strong defensive positions within the walls.

The Charge: Late in the afternoon, after an entire day of massive infantry battle above and below the ground, the exhausted Polish-German forces let out a cheer. For they saw that their cavalry was finally ready to engage en masse. At the top of the hill abutting the battlefield, 20,000 men on horseback had formed up. Spearheaded by 3000 Polish Hussars – the most elite and heaviest cavalry of the age – they charged. Not as individual units or in bunches, but all at once. The largest cavalry charge in human history. 20,000 horses. 80,000 hooves pounding the ground in unison. A mass of steel and flesh and muscle crashing down upon an Ottoman infantry that was worn out from 12 hours of intense fighting.

The ground did tremble. A man made earthquake. And though the Ottoman forces well outnumbered the relief army in infantry forces, this thunderous, deafening wall of cavalry carved a massive hole straight through their lines. A deep gash was cut all the way through to the supply tents and camps of the Ottomans, ripping the army into fractious pieces. Faced with this massive, unprecedented attack, the Ottoman forces collapsed, and slaughter followed. And though fighting would continue into nightfall, the greatest cavalry charge in human history had finished the battle, and solidified the Habsburg dynasty’s power in Europe.

Fun tidbit: Remember the epic siege of Gondor in Tolkien’s “The Lord of the Rings?” Many think it was inspired by the Battle of Vienna. It has many parallels, including the massive cavalry charge that finally breaks the siege just in time. Though I think it would be fair to say the Ottoman Empire was considerably more civilized than the Orc horde, their fate was quite similar.


​Edit… For those of you who enjoyed this, I just wrote another one.
Kevin Flint’s answer to What is the most ridiculous war ever fought in our history?

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Coronavirus, politica e geopolitica, con Piero Visani e Gianfranco Campa

Qui sotto una conversazione con Gianfranco Campa e Piero Visani, registrata una settimana fa, sulle pesanti implicazioni politiche e geopolitiche della pandemia ormai in corso. L’Italia è ormai uno dei paesi più esposti ma la crisi è destinata a coinvolgere drammaticamente sempre più paesi e contribuirà a sconvolgere ulteriormente gli equilibri. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Minaccia asimmetrica, di Grigoriou Panagiotis

 

Traduciamo e pubblichiamo questo importante articolo, pubblicato il 3 marzo dal blog greco in lingua francese di Panagiotis Grigoriou, “Greekcrisis”[1], che dal 2011 informa puntualmente il mondo sulla situazione, o meglio sulla “crisi” greca.

Panagiotis Grigoriou è uno storico ed etnologo greco. Ha compiuto gli studi post-laurea in Francia. Ha fatto parte del CNR greco, ha organizzato corsi e seminari presso il Centre d’études byzantines, néo-helléniques et Sud-Est européennes – EHESS[2]. Il suo blog è associato alla rivista francese “Marianne”.

In Italia il suo lavoro è diventato noto all’apice della crisi greca, nel periodo in cui SYRIZA, guidata da Alexis Tsipras, andò al governo, aprì una trattativa con la UE,  ne fu duramente sconfitta e si allineò con le richieste UE, con le gravi conseguenze per la nazione e il popolo greco che abbiamo sotto gli occhi, e oggi culminano in questa pericolosa aggressione turca. Nel 2017 ha partecipato  come relatore al convegno organizzato a Pescara,  con il patrocinio dell’Università degli Studi G. d’Annunzio, dall’associazione  “a/simmetrie”  fondata da Alberto Bagnai, sul tema: “Più Italia – Europa e globalizzazione: quale ruolo per il nostro paese?” In nota link alla traduzione italiana del suo intervento.[3]

Panagiotis Grigoriou è insomma un intellettuale europeo, un uomo abituato a riflettere e a pesare le parole; un uomo alieno non solo dalla violenza, ma dall’estremismo ideologico; e la cultura politica in cui si è formato, come tutti o quasi tutti gli intellettuali europei suoi coetanei, è una cultura lato sensu di sinistra. L’esperienza, la dura esperienza anche personale della “crisi greca” (suo cugino si è suicidato dopo aver perso tutto, lui stesso ha incontrato e incontra serie difficoltà economiche, come moltissimi greci) non lo ha trasformato in un estremista o in un violento.

Ma leggendo questo articolo ben informato, e che riporta utilmente l’ analisi del docente di geopolitica alla Scuola Ufficiali dell’Esercito greco, l’accademico Konstantinos Grivas, si leggono parole come “siamo in guerra” o “Tsipras e alcuni dei suoi sono direttamente collegati agli interessi della Turchia e di Soros” o “ancora una volta siamo noi a presidiare le Termopili, Salamina e Maratona a difesa del nostro continente e della nostra civiltà, di fronte a invasori e commandos”.

Se queste parole le scrive un uomo come Grigoriou, è perché descrivono la realtà, la realtà che squarcia il velo della propaganda e dell’ipocrisia, che con la sua urgenza drammatica risveglia dal torpore e dalla rassegnazione un’intera nazione. Prestiamo attenzione.

Segnalo a tutti i lettori che Panagiotis Grigoriou chiede ai suoi lettori un contributo, anche piccolo, per finanziare un viaggio in Tracia, sul confine greco-turco, e informarci meglio sullo svolgersi del confronto bellico in corso._Roberto Buffagni

Minaccia asimmetrica[4]

Anche i media mainstream finiscono per chiamare guerra la guerra, tentativo d’invasione il  tentativo d’invasione. Il “governo” parla di minaccia asimmetrica e mette in allerta l’esercito, annullati tutti i permessi dei militari. “Tutte le persone di sinistra che qui da noi credono che la patria non debba più essere abitata dai Greci ma dagli invasori, che ce lo dicano apertamente“, dice radio 90.1 , un’emittente di grande ascolto, il mattino del 2 marzo. In pieno carnevale, cadono le maschere.

Da stamani, 2 marzo, il Quarto Corpo d’Armata è schierato lungo il confine con la Turchia, in Tracia, e intraprende esercitazioni su larga scala per 24 ore, annunciando che l’area diventerà pericolosa e di conseguenza , vietata, a causa delle manovre e dell’uso di armi di tutti i calibri, dai fucili automatici ai mezzi corazzati, la gamma è ampia. Allo stesso modo e per 24 ore, analoghe esercitazioni di simile portata avranno luogo in mare. Nel programma, fuoco diretto in una vasta area vicino alle isole greche prospicienti la Turchia, su tutta la direttrice nord-sud del Mar Egeo. Lunedì sera viene annunciato che queste esercitazioni con impiego di munizioni da guerra continueranno per altre 24 ore nella giornata di martedì.

Convogli dell’esercito greco convergono al confine con la Turchia, e altre truppe vengono inviate sulle nostre isole in nave e in aereo, mentre tutti gli hotel, nelle città vicine al confine, sono occupati da personale  della polizia e dai soldati inviati sul posto (reportage radiofonico del 2 marzo). Al passaggio dei camion dell’esercito gli abitanti applaudono, mentre altri cittadini, spesso ex membri delle forze speciali,  si organizzano in gruppi di volontari per convergere anch’essi al confine.

Siamo stati sotto lo stivale tedesco per dieci anni durante la cosiddetta crisi, e ora la Merkel e la sua Germania continuano a sostenere Erdogan; sì, siete voi tedeschi i responsabili di ciò che sta diventando la UE, vale a dire inesistente, ormai destinata a scomparire. Perché lo sappiamo che ieri, responsabili tedeschi hanno dichiarato che non dobbiamo essere troppo fermi nei confronti della Turchia, senza dimenticare, in questa truffa, i profittatori pro-migranti delle Nazioni Unite, profittatori orgogliosi  di esserlo” (2 marzo, fascia mattina, radio 90.1 FM). Media mainstream che così finiscono per chiamare guerra la guerra. Si noti che la Deutsche Welle ha riferito che la Germania evita di criticare la Turchia per l’apertura dei suoi confini che permette ai migranti di invadere la Grecia. Tutta la Grecia lo sa … ma non l’Europa, pare.

Il personale delle ONG che si arricchiscono distruggendo la Grecia deve sapere che ormai non è più al sicuro, tale e quale i loro amici, le termiti della nazione di casa nostra“, ha dichiarato il 2 marzo il giornalista Trangas su 90.1 FM. “Dobbiamo usare mezzi adeguati e non cadere nella trappola degli invasori e dei servizi segreti turchi. Questi arrivano facendosi scudo di un bambino e una donna, mentre dietro ci sono dozzine di uomini giovani e determinati. Quindi dobbiamo fargli capire che la loro invasione organizzata deve finire, e che non è una questione di pietà.

Queste persone sono soldati nemici, non sono siriani o rifugiati, su cento arrestati ieri al confine non c’è un solo siriano. Sono afgani, pakistani, africani e altri, in parte usciti delle carceri turche, e le autorità greche hanno trovato bandiere afghane su queste persone che hanno penetrato il nostro confine gridando … Dio è grande ” (Trangas su 90.1 FM, 2 marzo). Inoltre, durante la giornata i soldati e la polizia greci hanno tirato colpi d’avvertimento con veri proiettili, di fronte alle orde di commando “civili” inviati dall’esercito turco come possibile avanguardia (stampa, 2 marzo).

Il generale a riposo Yannis Baltzois, raggiunto dalla stessa radio nelle prime ore del mattino, ha affermato che tra gli invasori migranti arrestati dalla polizia su suolo  greco ci sono due turchi, apparentemente agenti del servizio segreto turco MIT. “Adesso basta scherzare,  coloro che sostengono l’immigrazionismo come la gioventù di SYRIZA, devono come minimo tacere prima di trovarsi in pericolo. La Turchia per bocca dei suoi ministri ammette di voler inviare due milioni di migranti in Grecia, ed è una corsa contro il tempo come in ogni guerra. Dobbiamo rispondere con la violenza alla violenza subita, è una guerra che non ha nulla a che fare con l’asilo e ancor meno con i rifugiati, quindi gli … ‘umanisti’ d’ Atene devono stare buoni e zitti, sennò è a loro rischio e pericolo. ” aggiunge Trangas.

Sul terreno, l’esercito greco e i suoi blindati sono posizionati per le manovre sui 212 chilometri di confine con la Turchia. E’ un primo passo nella guerra asimmetrica, ibrida e già psicologica, per far capire ai migranti che non passeranno. Trangas ci ricorda che le soluzioni esistono e che si sono fatte urgenti: “Usare se necessario le nostre armi per fermare l’invasione da terra e dal mare, e allo stesso tempo espellere le Nazioni Unite e le ONG Sorosiane da isole come Lesbo e Chio, per gestire la situazione tra greci. I membri di queste ONG vanno avvisati, in modo che lascino le nostre isole prima per loro che sia troppo tardi. Gli isolani devono impedire alle ONG di accogliere altri migranti, con qualunque mezzo ”.

Poi dobbiamo evacuare tutti i migranti dalle isole greche abitate ambite dalla Turchia, aggressiva, islamista e nazionalista, convogliandoli sulle isole disabitate, dove saranno parcheggiati e isolati fino alla loro partenza ed espulsione definitiva dal territorio nazionale . Nazioni Unite e soci dovranno allora, visto che sono … ‘umanisti’, finanziare solo i nostri isolotti disabitati trasformati in campi per migranti, invece di lasciarli avvelenare la vita quotidiana nelle nostre isole abitate, o nelle nostre città del continente. Così la smetteranno di rubare, aggredire la popolazione greca o vandalizzare le nostre chiese. D’altronde  tra questi migranti ci sono detenuti per reati comuni che Erdogan ha rilasciato dalle prigioni del suo paese per mescolarli con migranti e islamisti. Sappiamo tutti, in Grecia, qual è la verità della situazione. E’ finito il tempo delle cantafavole.

Dopo di che dovremo ripulire i quartieri di Atene dai migranti, tra i quali prospera la  criminalità organizzata, e tenerci solo quelli che lavorano davvero, che sono legali e potranno rimanere. Infine, dobbiamo armare meglio gli abitanti delle isole, vanno potenziate le nostre forze di riserva della Guardia Nazionale. Senza dimenticare che è ora di eliminare il controllo tedesco sulle nostre amministrazioni e ministeri, fino al grado di capo servizio,  per poter agire in piena libertà, finalmente ” (Trangas su 90.1 FM, 2 marzo) Per due giorni, secondo i reportage sulle isole e in particolare a Lesbo, diversi membri di ONG e altri Onusiani e Sorositi sono stati picchiati dagli abitanti. “Era ora!” sentiamo dire dappertutto, nel  paese reale. La hybris finisce sempre per evocare il suo castigo, è ben noto almeno dall’antichità greca.

Domenica 1 marzo i membri delle ONG sorosiane, come il capo dell’Alto Comitato delle Nazioni Unite per la migrazione a Lesbo, sono stati picchiati dai residenti. Hanno voluto insistere nella loro missione di quinta colonna di un’amministrazione neocoloniale volendo far sbarcare dei migranti, ma ormai gli abitanti difendono il loro territorio, in realtà la loro esistenza.

È un po’ tardi, ma meglio tardi che mai. In seguito, gli abitanti a volte hanno bloccato lo sbarco dei migranti sulla spiaggia, e addirittura in Mar Egeo, alcune barche, sotto la pressione … dei mezzi adeguati hanno invertito la rotta per tornare in Turchia. “Al punto in cui siamo, solo le armi possono risolvere il problema“, questo messaggio e le analoghe analisi degli ascoltatori, come tanti altri messaggi che vanno nella stessa direzione, è stato diffuso in fascia mattina,  senza censure, su 90.1 FM, 2 marzo.

Tsipras si schiera dalla parte di Erdogan quando i suoi media scrivono ancor oggi che questi sfortunati sono bloccati al confine e che il governo sta usando la violenza, intossicato dal  veleno del razzismo e della xenofobia. Quindi Tsipras e l’altro scagnozzo universitario Liakos vogliono che la Grecia diventi musulmana e turca, installando due milioni di invasori? Perché questa cifra di due milioni è stata data ufficialmente dal Ministro degli Affari Esteri della Turchia. Allora, qual è il ruolo che Tsipras e SYRIZA svolgono? Siete ‘umanisti’ forse? Quando questi musulmani verranno da noi, continuerete a esistere abbastanza a lungo da vederli? Voi volete distruggere il nostro paese. Vergogna e ancora vergogna. Ascoltami Tsipras, se osi mostrarti sulle isole vedrai che gli isolani ti picchieranno. E quanto a Mitsotakis, se si comporta male la fine arriverà anche per lui” (Trangas 90.1 FM, 2 marzo).

Io mi spingerei anche un po’ più in là di Trangas. Direi che Tsipras e alcuni dei suoi sono direttamente collegati agli interessi della Turchia e di Soros. Difficile provarlo con i documenti; ad esempio, quelli sui traditori greci pagati dagli inglesi durante la loro colonizzazione di Cipro, e poi tra gli anni Cinquanta e Settanta, sono  appena stati desecretati;  tuttavia, per deduzione logica e confronto dei comportamenti e degli eventi ci si può fare un’idea non diversa della Tsiprosfera, degli Antifa e compagnia cantante. Si stanno organizzando persino ora, e dimostrano non lontano dal confine … per chiedere che si apra finalmente agli invasori (stampa greca del 2 marzo).

Chi insiste nella retorica propagandistica dei cosiddetti poveri rifugiati, mentre queste sono orde di gente fanatizzata e jihadisti che insultano e minacciano la Grecia e i greci sul nostro confine trattandoli da  Crociati , chi fa questa propaganda o è un agente della Turchia, o si arricchisce con l’affare migranti, il che è la stessa medesima cosa. ” si può leggere su Internet greco. D’altronde,  polizia ed esercito usano le armi già la sera del 2 marzo, di fronte a una folla di fanatici deliranti e minacciosi sulla nostra frontiera. Contemporaneamente, i mafiosi oscurantisti delle Nazioni Unite dichiarano che “che la Grecia non ha alcun diritto di sospendere completamente  per un mese tutte le richieste di asilo, come ha appena fatto” (stampa del 2 marzo).

Il paese si risveglia e, per dire le cose come stanno, entra di fatto in guerra di fronte all’invasione avviata dalla Turchia islamico-totalitaria e dei suoi complici mondialisti o geopolitici.  Stando ai reportage disponibili, tra i migranti intercettati al confine ci sono anche turchi, e d’altronde l’esercito turco impiega droni per guidare il lancio di granate chimiche sulla polizia e sui soldati greci (media greci di oggi 3 marzo).

Sotto il velo di quarant’anni e passa di propaganda, la guerra. Mondialisti, immigrazionisti e altri propagatori del virus della decostruzione dei popoli, delle nazioni e delle culture, segnatamente in Europa, hanno già celebrato la loro festa, la festa che la finanza nichilista modello  Soros  celebra in tutto il mondo. Ora, sotto il peso schiacciante della realtà, la festa è finita. Le nostre società sarebbero già entrate in guerra, se non fosse che le pseudo-élite hanno fatto di tutto per chiudere occhi, coscienze e capacità di riflessione dei popoli.

Ma ora finisce, il tempo della decostruzione sorniona e silenziosa: perché sotto la pressione della guerra aperta, come ora in Grecia, la stragrande maggioranza dei cittadini si rende conto che d’ ora in avanti, è questione di vita, libertà o morte. Il linguaggio muta e si libera, e persino i giornalisti mainstream finiscono per ammettere che la Grecia sta subendo un attacco su vasta scala da parte di migranti clandestini, tutti  musulmani, tra i quali gli islamisti irriducibili di Daesh che la Turchia, Stato storicamente pirata e isterico, ha fatto uscire dalle prigioni siriane e turche e condotti sulla frontiera greca in vista dell’invasione.

A parlare non è più il cosiddetto cospirazionismo, spesso attribuito all’estrema destra,  ma i fatti reali e comprovati. Questa è storia, storia che nasce dalla violenza e non dai fantasmi dei sinistroidi, che come ognun sa si uniformano all’immaginario degli oligarchi e dei padroni del mondo, quella banda di squilibrati. E quando la parola dei popoli si libera, ne consegue e ne conseguirà l’azione, anche se un po’ dappertutto i governi attuali sono stati insediati dai mondialisti proprio per abolire popoli e nazioni.

Sì, siamo in guerra e questa guerra, che è soltanto all’inizio, diventerà sempre più incontestabile ed evidente in Europa. Quando nel 2011, al debutto di questo mio povero blog, ho scritto che la cosiddetta crisi o il debito pubblico non sono altro che armi di distruzione di massa, e che in realtà si tratta di una guerra genocida contro il popolo greco, perché a partire dalla Troika, come dalla Germania e dalla Turchia migranti invasori compresi, strumentalizzati o meno, è perché  il processo è fin troppo coerente sin dall’inizio.

Sappiamo anche che in passato. le guardie costiere greche hanno sparato prima per avvertimento e poi sui motori delle barche per farle restare sul lato turco, quindi sappiamo cosa bisogna fare, se necessario dobbiamo affondare alcune barche, è dura ma è così: siamo in guerra. E finirla con le ONG sulle nostre isole. E da FRONTEX apprendiamo che Erdogan sta preparando una nuova ondata per sfondare i nostri confini, quindi dobbiamo sparare nel mucchio, è un piano militare che stanno eseguendo, e dobbiamo reagire immediatamente. Il loro obiettivo è la conquista della Grecia da parte di migliaia di musulmani, e tutto si giocherà sulle isole, perché dal confine settentrionale non passeranno mai ”. Frase del giorno, giornalista Trangas, 90.1 FM, mattina del 2 marzo.

Si noti che la canaglia politica Varoufakis  dichiara “che non c’è invasione e che questi poveretti dovrebbero essere accolti da noi“, ed è lo stesso slogan dell’intera sinistra, a quanto mi risulta. Sappiamo già che Varoufakis è un burattino Soros-compatibile, e ora, con identica deduzione logica, è ammissibile che sia anche un burattino Erdogan-compatibile. In tempi di guerra e storicità coerente, chi tradisce la patria non dura a lungo, lo dice anche Tucidide.

La guerra è manifesta, e persino il momento scelto da Erdogan, in contemporanea al coronavirus,  non è affatto casuale. E ci saranno conseguenze. L’accademico Konstantinos Grivas, che insegna geopolitica alla Scuola Ufficiale dell’Esercito nazionale, prende in esame a sua volta le evidenze.

Sarebbe di un’ingenuità criminale credere che la posta in gioco oggi sul nostro confine sia solo l’aggiungersi di alcune decine di migliaia di migranti illegali ai migranti già esistenti. Questa è solo la punta dell’iceberg. In effetti, la Grecia è attaccata dalla Turchia in un’aggressione totale, che cerca di decostruire la sua identità nazionale complessiva. Se la Grecia non riuscirà a impedire alle folle fanatizzate di attaccare i suoi confini con l’aiuto dell’esercito e della polizia turchi, la sovranità nazionale greca nel suo insieme sarà messa a repentaglio.

Se a qualcuno dir questo sembrasse eccessivo, sappia che si è già verificato nella storia recente. In particolare, ciò che sta accadendo oggi al confine greco-turco assomiglia pericolosamente alla ‘Marcha Verde’ attuata dal re Hassan II del Marocco nel 1975 per conquistare il Sahara spagnolo. Più in dettaglio, questi furono gli ultimi giorni del dominio spagnolo sulla sua colonia nel Nord Africa. Il Fronte di Liberazione del Polisario intraprese una guerriglia contro gli spagnoli, e divenne probabile che presto avrebbero raggiunto l’indipendenza.

Tuttavia, Hassan II voleva incorporare il Sahara spagnolo nel suo territorio. Quindi ha dovuto agire. E doveva agire rapidamente, prima della partenza degli spagnoli,  perché dopo avrebbe attaccato un paese indipendente, mentre sotto il dominio spagnolo, poteva orchestrare la  comunicazione , vendendosi come liberatore dei territori marocchini sotto il dominio coloniale spagnolo . Ma il rapporto di forza strategico con la Spagna non gli consentiva un’azione militare convenzionale, e dunque ha scelto un metodo asimmetrico, diremmo oggi.

Più specificamente, ha radunato circa 350.000 cosiddetti civili, che il 6 novembre 1975 avanzarono nel Sahara spagnolo, presentandosi “pacificamente” perché senz’ armi, ma che, accompagnati da circa 20.000 soldati marocchini, travolsero le truppe spagnole, che avevano ricevuto l’ordine di non aprire il fuoco. Di conseguenza, il Marocco è stato in grado di raggiungere i suoi obiettivi, e nei cosiddetti accordi di Madrid del 14 novembre 1975 è riuscito a condividere il Sahara spagnolo con la Mauritania.

Certo : in seguito, il Fronte Polisario ha intrapreso una dolorosa e feroce guerriglia per liberare il suo paese dai due invasori. E’ riuscito a espellere la Mauritania, ma il Marocco ha occupato i territori evacuati dai mauritani. La guerra ha infuriato per decenni, e i marocchini hanno costruito un enorme muro lungo 2.000 km per bloccare il Polisario. Ancor oggi, la questione dell’indipendenza nazionale del Sahara occidentale non è definitivamente risolta.

Si vede dunque come dei cosiddetti civili, attraversando in gran numero il confine, siano poi di fatto riusciti ad occupare un intero paese, e in un passato non lontano. Oggi, la Turchia di Erdogan sembra adottare la medesima tattica. In altre parole, strumentalizza masse apparentemente composte da civili, inquadrati dalle forze dello Stato turco, con l’obiettivo di neutralizzare la sovranità nazionale greca in Tracia, con tutte le conseguenze che ciò potrebbe avere in futuro.

In altre parole, dobbiamo capire che la Grecia sta subendo un attacco su vasta scala. Non abbiamo a che fare con una presunta crisi di rifugiati, né con la presunta gestione dei flussi migratori, e ancor meno con tutto ciò che i soliti pappagalli ripetono attraverso i media. Siamo attaccati dalla Turchia, è un attacco asimmetrico e ibrido, ma non per questo meno totale. La situazione è chiara e netta. E siamo sulla nostra ultima linea di difesa. Se cadiamo nella trappola in cui sono caduti gli spagnoli, sarà vulnerata la nostra sovranità nazionale. Non c’è spazio per le esitazioni, non c’è spazio per letture erronee della realtà. ”(Konstantinos Grivas, 2 marzo 2020).

Sembra che il paese si stia risvegliando. Non è un ingresso pacifico di alcuni migranti economici, ma di giovani maschi invasori organizzati dalla Turchia. La Turchia, come la nebulosa formata da islamisti ONU e ONG, con una diffusione massiccia di SMS incitano alla rivolta i migranti che già si trovano sulle isole, seminando il caos (stampa del 2 marzo). La Marina Nazionale Greca si dispiega a rinforzo dei guardiacoste, e a quanto pare e già stato dato l’ordine di ‘tirare sulla massa di manovra’ “.

Sì, perché non dispiaccia a mondialisti, ai  banchieri, a Soros, agli Antifa e agli altri islamogoscisti, molto spesso, nella storia, le migrazioni non sono operazioni dello Spirito Santo, ma atti di guerra e invasione. Finalmente l’Europa, cioè i popoli e le élites ancora degne di questo nome, ammesso che esistano, ma non certo l’Unione Europea, capiranno che ancora una volta siamo noi a presidiare le Termopili, Salamina e Maratona a difesa del nostro continente e della nostra civiltà, di fronte a invasori e commandos.

Siamo sotto le armi!” esclama Trangas, concludendo la sua trasmissione del 2 marzo. “Isolate le termiti che divorano la nostra nazione e il nostro morale, il nostro paese sopravvivrà, restiamo uniti, coraggio e forza a tutti“. Cioè a dire, anche i media mainstream finiscono per chiamare guerra la guerra, tentativo d’invasione il  tentativo d’invasione. Cronaca diciamo di guerra. Un’altra notte lunghissima.

 

Storico ed etnologo, porto uno sguardo sia etnografico che da cronista (corrispondente in Francia per NemecisMag 2000-2008). Dal 2008, viaggiando per buona parte della Grecia continentale, ho visitato più di trenta isole nel Mar Egeo e nel Mar Ionio, ho incontrato la vita quotidiana di diversi circoli sociali e culturali, toccando le fratture che si moltiplicano sia a livello dei sillogismi collettivi che a livello di relazioni interpersonali in un contesto di tempi di transizione. Il mio approccio si situa ai confini dell’identità e della differenza, e ciò che più conta in un contesto globalizzante di interconnessioni economiche e  culturali, e degli attriti che ne conseguono; alla luce dei quali, la “bancarotta” economica greca non pare affatto costituire un caso a parte. È così che la vita di tutti i giorni, gli stereotipi, l’immaginazione, i piccoli gesti, i significati di scambi, parole, sguardi, sentimenti e insomma le relazioni interpersonali di un intero paese e le sue “piccole storie”, si trasformano a una velocità che a una storico ricorda gli choc di quando si entra in guerra.

Panagiotis Grigoriou

APPELLO URGENTE: il vostro blog ha urgentemente bisogno del vostro sostegno per finanziare un breve soggiorno nell’Egeo orientale, per meglio comprendere la situazione sul terreno. Libertà e indipendenza hanno sempre un prezzo…

 

 

 

[1] “Menace asymmetryque” http://www.greekcrisis.fr/2020/03/Fr0769.html#deb

[2]  byzance.ehess.fr .

[3] http://www.asimmetrie.org/opinions/asimmetrie-di-panagiotis-grigoriou/

 

[4] Il titolo del pezzo riprende la dichiarazione del Primo ministro greco Mitsotakis, che così definisce la situazione al confine greco-turco.

Il momento e il modo opportuni, di Roberto Buffagni

La minaccia di uscire dall’euro non è uno strumento di pressione adeguato per una trattativa volta a ottenere migliori condizioni all’interno del quadro UE, perchè è un ultimatum, che dunque si può usare una volta sola, e a cui si è costretti a dare corso in caso di risposta negativa.

L’uscita dall’euro fa saltare il quadro UE attuale, del quale l”euro è il principale strumento politico (l’archetipo di tutti i “piloti automatici” con i quali l’oligarchia UE governa).

L’uscita dall’euro, implicando (comunque sia gestita) la fine del sistema UE vigente, è dunque una rivendicazione antisistemica, che può essere soltanto imposta, non trattata in vista di un compromesso tra pari che condividono e vogliono preservare il medesimo quadro politico d’insieme.

L’analogia più calzante mi pare quella con il meccanismo della dissuasione nucleare “du faible au fort”, studiata dal generale Gallois in vista dell’istituzione della force de frappe nucleare voluta da de Gaulle.

Sintesi: quando il debole fornito di armamento nucleare vede minacciati i suoi interessi vitali, minaccia il forte di usare le sue armi atomiche, a prescindere dal fatto che il forte sia in grado di rispondere con un contrattacco nucleare di maggiore potenza, in grado di devastarlo ed eventualmente di annichilirlo. In presenza di attori razionali del conflitto, il forte si troverà di fronte a un rapporto costi/benefici sfavorevole, e recederà. Egli può infatti annichilire il nemico, ma subendo danni immensi, politicamente ingiustificabili. Perchè la dissuasione “du faible au fort” funzioni, è imperativo che il decisore sia:

a) la massima autorità del paese debole, che nell’emergenza ha poteri pressochè dittatoriali

b) che la massima autorità del paese debole sia credibile, cioè a dire che il nemico creda che egli non esiterà a usare l’arma nucleare di cui dispone.

Quando si minaccia di uscire dall’euro, si dice implicitamente alla controparte che COMUNQUE VADA la trattativa, il quadro politico UE vigente è finito: non “che finirà”, ma che è GIA’ finito. L’unico margine di trattativa che resta, dopo la minaccia-ultimatum, è sul COME finisce il quadro politico vigente. Se la controparte cede, l’uscita dal quadro politico UE avviene in modo concordato. Qui si che si aprono gli spazi di trattativa, politica e diplomatica: una trattativa che sarà durissima, scorretta, dolorosa, ma resterà una trattativa, cioè un conflitto regolato dalle leggi nel quale si può cercare un punto di compromesso accettabile per tutti (anche se non è detto che lo si trovi). Se la controparte non accetta l’uscita concordata dal quadro UE vigente, chi ha proposto l’uscita dall’euro è costretto, dalla logica dell’ultimatum, a uscire unilateralmente, a far saltare comunque il quadro UE, e ad aprire una fase di conflitto che solo in seguito, una volta chiaritisi i nuovi rapporti di forza, potrà dare luogo a trattative.

Insomma: uscire dall’euro significa aprire una fase di guerra economica e psicologica APERTA. Il che all’Italia non solo conviene, ma è indispensabile, perchè nell’attuale fase di guerra economica e psicologica COPERTA il ceto dirigente italiano collabora con il nemico, e il popolo, che ne è ideologicamente plagiato e disinformato, non reagisce o reagisce a sproposito.
Postato da Roberto Buffagni in Goofynomics alle 21 agosto 2014 12:20

Bagnai:

Chapeau! Comunque, io che ho detto? Siamo perfettamente d’accordo. Non ci sono margini di trattativa, l’euro è un aborto, la volontà politica di tenerlo in piedi non c’è (vedi il discorso di Bolkestein), quindi chi parla di “pugni sul tavolo” è un imbecille. Semplicemente si va lì, con un bel sorriso, senza l’attitudine minacciosa da pugile suonato che ci consigliano i nostri migliori economisti e i nostri più fini politici, e si dice, se possibile in tedesco (Jorg si offre volentieri):

“Noi ce ne andiamo, e questa volta lo scherzetto dello spread non ce lo facciamo fare (NdR: ad esempio rifinanziando pro tempore il nostro debito con la stampa di euro, come propone Jacques Sapir nel suo piano di uscita, che trovate nella sezione “Per cominciare“, o anche semplicemente ridenominandolo in tempi sufficientemente rapidi – oggi ci sono i computer, mi dicono…). Voi che fate? Cooperate, o no? Perché tanto l’euro è finito, quindi, da creditori intelligenti, mi sa tanto che vi conviene cooperare. Volete attaccare la nuova lira? Fatelo! Quanto più scende, tanto più la vostra industria ci perde. Mi sa che vi conviene sostenerla e mantenere i mercati ordinati, così voi ci fate uno sconto non eccessivo sui nostri debiti, noi ci facciamo uno sconto non eccessivo sulla vendita all’estero delle nostre merci, e dopo staressimo tutti meglio. Cosa? La risposta? No, guardi, lei è tanto gentile, signora Merkel, ma io ho da fare, devo salvare il mio paese, quindi, non lo prenda come uno sgarbo o una mancanza di rispetto, ma la sua risposta è del tutto irrilevante. Bella pe’ tte”.

Cioè: non si va a dire “se non fate così l’euro è morto!”. Oh, no, sarebbe un gravissimo errore, sarebbe una minaccia, e la minaccia del debole non funziona, salvo nel caso molto particolare messo opportunamente in evidenza dal brillante intervento di Roberto. Si va a dire: “l’euro è morto, quindi fate come vi pare, ma è meglio se fate così”, che è una semplice applicazione del principio che chi mena per primo mena due volte (il che, se sei più piccolo, ti conviene).

La Costituzione francese prevede esattamente il tipo di leadership della quale Roberto parla (vedi sempre il discorso di Sapir nel suo piano di uscita). La nostra no. Il nostro Presidente della Repubblica non ha i poteri di quello francese, il che è tutto sommato un bene, visto che Napolitano si è più volte esplicitamente schierato a difesa degli interessi dei creditori esteri (lo dico rispettosamente, è un dato di fatto, evidentemente lui ora la pensa così…).

Basta solo trovare un Presidente del Consiglio che abbia voglia di passare alla storia, magari in un modo diverso da quello che vi facevo vedere, a testa in giù, qualche post fa. Sembra impossibile, ma siccome deve succedere, succederà. E chi non lo avrà fatto si mangerà le mani…

Assolutamente condivisibile.
Ovvio che trovare un simile Presidente del Consiglio comporti alternativamente due presupposti… che sia appoggiato da un forte schieramento politico che la pensi come lui (ma per quanto mi sforzi di guardare lontano quel termine “forte” appare ancora una chimera) ovvero che si comporti come fece quel poco simpatico signore con i baffetti ridicoli tanti anni fa (il che non mi sembra uno scenario auspicabile).
Io ancora spero su Marine proprio in virtù di quella peculiarità della costituzione francese accennata dal Professore…peccato che ancora manchi un bel pò di tempo, a meno che i “galletti” non trovino il modo di anticipare la faccenda.

Non riesco ad immaginare un nostro rappresentante rischiare il tutto per tutto in un braccio di ferro con i poteri forti a livello europeo/mondiale – e pure di casa. Se qualcosa – e sicuramente i nostri nemici hanno gli strumenti per farlo – andasse storto, allora si’ che subirebbe il noto rovesciamento prospettico, perche’ il nesso causa-effetto sarebbe cosi’ palese per le masse.. Lietissimo di sbagliare, ma proprio perche’ e’ improbabile l’esistenza (gomblotto) di una singola oligarchia organizzata, bensi’ di molte in conflitto perenne, queste non molleranno mai il loro pezzettino d’osso per una visione lungimirante, esempio non perdere milioni di clienti ricchi, perche’ sarebbero fagocitate all’istatte dalle altre oligarchie. Ci spoglieranno di tutti i risparmi, delle nostre case con i mutui inversi che saranno l’unico modo di mantenere i figli. Poi si dilegueranno, i pesci piccoli saranno presi, gli altri ci faranno ricostruire le loro fabbriche, grazie. Immagino che il Prof. non si interessi alla lotta di classe semplicemente perche’ non esiste, al contrario del conflitto di classe.

Paul Krugman sul NYT e già il titolo è un programma: “The Euro Catastrophe”.
E rimanda a questo articolo apparso sul Washington Post:

Worse than the 1930s: Europe’s recession is really a depression

http://www.washingtonpost.com/blogs/wonkblog/wp/2014/08/20/worse-than-the-1930s-europes-recession-is-really-a-depression/

E come se non bastasse, ecco il fratello di Belzebù

Italy’s Downward Spiral di Hans-Werner Sinn

https://www.project-syndicate.org/commentary/hans-werner-sinn-argues-that-the-economy-s-long-slump-reflects-the-failure-of-officials-to-address-the-real-problem

Ultima segnalazione: uno dei più brillanti pezzi comici dell’anno si trova su voxeu.org

How to jumpstart the Eurozone economy
Francesco Giavazzi, Guido Tabellini, 21 August 2014

In una sola notte, sono passati da “tagliare, tagliare, tagliare!!” a “spendere, spendere, spendere!!”… il sipario si sta per aprire e non sarà un bello spettacolo.

Hai capito benissimo, temo.
E lo sa bene anche il Prof.!
Noi oggi siamo oltre il 130% di rapporto debito/PIL.
La porzione di debito eccedente il 60%, cioe’ oltre il 70%, cioe’ circa 1550 miliardi di Euro, verra’ presumibilmente conferita nell’ERF (in cambio della possibilita’ di spendere ed aumentare ancora il debito per mantenere in vita l’Euro), fornendo come garanzia il patrimonio pubblico (tutto il demanio, il territorio dello Stato, il presunto gettito fiscale futuro, i flussi contributivi previdenziali obbligatori, le residue aziende e partecipazioni pubbliche, CDP inclusa).
La modifica del titolo V della Costituzione permettera’ inoltre al Governo di togliere a Comuni e Regioni le aziende municipalizzate dei servizi e di conferire nell’ERF anche i futuri flussi di cassa di IMU, TASI & TARI.
Ogni essere vivente residente in Italia (perche’ in questo scenario non ci saranno piu’ cittadini ma solo abitanti), opportunamente identificato col suo codice fiscale, dovra’ pagare ‘per sempre’ ai creditori esteri una cifra minima annuale, per il solo fatto di vivere sul territorio di quella che un tempo fu la Repubblica fondata sul lavoro e che i ben noti traditori della Patria hanno condotto a questo punto.
E’ questo il patto scellerato, il novello ‘Armistizio di Citta’ della Pieve’ (a Cassibile non c’era purtroppo nessuna villa di Draghi), che il plenipotenziario delle potenze creditrici Alleate Mefistofele Draghi ha imposto al Generale Renzie Badoglio perche’ sia annunciato lunedi’ 8 Settembre… (ogni riferimento storico e’ ricercato).
http://www.italiachiamaitalia.it/articoli/detalles/23235/StoraceO%20LaODestra%20%20O%20accordoODraghi-RenziOOLaOUeOvuoleOilOnostroOpatrimonioOnazionaleE.html

Non necessariamente . Si potrebbe finire anche a testa in su , tipo Calvi al Ponte dei Frati Neri o alla maniera di Mattei . Tenga presente che Farage per molto meno ci è andato vicinissimo .
Un Presidente del Consiglio avveduto questo deve metterlo in conto .
Tengo a precisare che non sono un complottista .
Voglio solo dire che vi dovete scordare di una uscita unilaterale , qualunque sia il Paese dell’ eurozona che voglia farlo . Un gruppo di Paesi è più razionale .
L’ipotesi fatta da Buffagni e condivisa dal Professore si basa su agenti economici razionali , e sono pareri condivisibili , e se così fosse a quest’ora saremmo già fuori dall’euro .
Ma l’euro ha anche una valenza politica . Quella di far muovere TUTTI i Paesi del eurozona all’unisono quando ci sono conflitti politici .
Vedete la storia d’ ITALIA . Quando era divisa in stati autonomi non solo non c’era il problema del mezzogiorno , ma ogni stato italiano faceva alleanze diverse con le varie nazioni europee .
Con l’unità italiana è sorto il problema del sud e ci hanno portati in massa in due guerre mondiali senza che ci fosse una regione italiana che si potesse dissociare . Dove ci hanno detto di andare siamo andati . TUTTI .
Senza tenere in conto che i mega stati producono duci e imperatori a iosa.
Personalmente una Europa politicamente unita la ritengo una calamità per la democrazia .
Per me il fascismo è il figlio diretto dell’ Unità d’Italia . IL Principe tanto vagheggiato alla fine è arrivato .
Tengo a precisare che non sono leghista , anche se su consiglio del Professore, ma anche di decisione autonoma ho votato per Borghi . Se poi è stato eletto Borghezio sti cazzi . IL problema è della Lega non mio.
Sintesi : non si va a battere i pugni sui tavoli ( comportamento infantile ) , ma non si fa nemmeno una uscita UNILATERALE ( comportamento autolesionista ) ovviamente non dal punto economico .
Comunque l’Italia non ha chance né politiche e né economiche autonome .
Come ci hanno portato dentro così ci porteranno fuori .
I pochi hanno scienza ma non potere . I molti hanno potere , ma non scienza .

Quoto:

“Noi ce ne andiamo”

Non c’è un “noi”, questo mi pare sia il senso del post di Buffagni.

Riquoto:

“Basta solo trovare un Presidente del Consiglio”

Non esiste il “noi” che elegga questo Presidente del Consiglio (cioè il “noi” che questo Presidente del Consiglio dovrebbe rappresentare a meno che, come accenna Roberto nel suo post, non si parli di “poteri dittatoriali”); inoltre appena un partito serio che si presenti alle elezioni col programma di uscire dall’euro riesce a guadagnare un consenso tale da far ipotizzare una sua quasi sicura vittoria l’euro crolla in maniera disordinata.

Le analisi del professor Bagnai sono corrette ma restano analisi economiche ossia non indicano un progetto realizzabile politicamente.

Temo che dal 2015 le cose cominceranno ad andare per i fatti loro, per così dire.

Preciso il mio pensiero. Le condizioni politiche per uscire dall’euro, nell’Italia di oggi non ci sono, per molte ragioni, la maggiore delle quali è la disgregazione del centrodestra dopo il fallimento-tradimento di Silvio B. (a mio parere, solo una forza politica di centrodestra può guidare l’uscita dall’euro, perchè solo nella cultura politica del centrodestra sopravvive, bene o male, l’idea di nazione: e la battaglia contro l’euro è una battaglia nazione vs. sovrannazione).
E’ possibile che ci siano in Francia, se il FN continua il trend positivo.
E’ anche possibile che nei prossimi anni, le condizioni politiche cambino in modo sensazionale anche qui, perchè le forze euriste hanno vinto per abbandono dell’avversario, e la situazione sociale oggettiva è quel che è (molto negativa). La questione centrale è la leadership del centrodestra. Se il Signore volesse richiamare a sè Silvio B., ci renderebbe un segnalato favore.

 

  • Ma figurati! Solo che siamo in Italia, dove “volontà” non si dice “proposta”. La proposta c’è, costa 17 euro in libreria. La volontà verrà. Mica penserai che il Pd faccia il 40% alle prossime elezioni, vero? Ci vuol altro che Fubini!

  • Quoto Buffagni:

    “E’ possibile che ci siano in Francia, se il FN continua il trend positivo.”

    E’ vero e significa appunto che una decisione simile potrà essere presa solo con un vasto consenso elettorale o alternativamente con poteri quasi dittatoriali cose che non esistono in Italia.
    Il problema secondo me è che appena si profilerà concretamente questa eventualità in uno dei paesi che contano l’euro crollerà in maniera disordinata, per questo dico che l’uscita non è una reale proposta politica anche se “teoricamente” è l’unica strada percorribile.
    Sono d’accordo che si stia andando verso un conflitto nazione vs. sovranazione ma sarà appunto un “conflitto”, prima sociale e poi forse anche qualcos’altro ma non una “soluzione”.

    Non è questione di primato della politica ma di assenza totale di prospettiva politica alternativa se non questi ritorni di fiamma dei nazionalismi che sono sostenuti principalmente da elettori impolitici; credo che nel 2015 ci renderemo conto della gravità di questa mancanza.

    Un’uscita unilaterale dall’euro con gli attuali attori e nel vigente sistema istituzionale è purtroppo irrealizzabile, in quanto richiederebbe necessariamente l’apporto comune di almeno due soggetti: presidente della Repubblica e presidente del consiglio dei ministri. Infatti, per i noti motivi più volte richiamati in questo blog, l’uscita potrebbe essere attuata solo con un decreto legge, mediante cioè l’unico mezzo di produzione normativa avente quelle caratteristiche di immediatezza e incisività operativa assolutamente indispensabili per impedire alcune delle conseguenze indesiderabili di tutta l’operazione. Il decreto legge, però deve essere deliberato dal consiglio dei ministri ed emanato dal presidente della Repubblica, il quale può rifiutarsi di farlo, come peraltro è già recentemente avvenuto proprio ad opera di Napolitano. Considerato che il convinto sostegno all’euro dell’attuale perdente della Repubblica non può certamente essere messo in discussione, mi sembra evidente che rebus sic stantibus un’uscita dalla moneta unica in via unilaterale dell’Italia è semplicemente impossibile e lo sarà nel futuro a prescindere dal capo del governo, anche se avessimo la fortuna di eleggerne uno antieuro. Mi dispiace, ma sono molto, molto pessimista sul destino del nostro meraviglioso Paese.

    Due cose che riguardano la (in)capacità di giocare la mano di poker.
    A) Renzi, secondo me ha già ricevuto la lettera con la lista della spesa (da tagliare), al primo punto c’ è il recupero di circa 4/5 MLD dal comparto pensioni, cosa su cui si sta applicando, in maniera davvero scomposta, visti danni che produrrà sui consumi e a catena sull’ economia, e non tanto per i tagli in se, ma perchè la confusione sul come, sul chi e sul quanto, su un argomento tanto delicato produrrà l’ arresto dei consumi oltre lo stretto necessario da parte di una platea molto più ampia di quella che sarà alla fine toccata (sempre con l’ avviso che l’ alta Corte di sicuro boccerà il prelievo);
    B)Come insegnava un antico adagio, non ricordo più di quale provenienza, per fare grandi cose, bisogna essere supportati dall’ alto e dal basso; dall’ alto siamo messi male e già ne ho parlato, dal basso invece, se possibile siamo messi anche peggio, pensate ai consensi del cosidetto Premier, pensate alla razza PDina, pensate a tutte le razze di elettori ed a chi li orienta, vi sembra possible un supporto dal basso? No, il masochismo, perchè di questo si tratta, non ha confini; se in Grecia, Spagna, Portogallo, hanno dei solidi argomenti per accettare tutto o quasi, in Italia le cause non possono essere che altre, cioè legate ad una inconscia ricerca del piacere attravrso il dolore e le sofferenze

    Questo post, come pure alcuni precedenti, manifestano quello che il carrista “testa matta” di un film di molti anni fa chiamava un “radioso ottimismo”.

    Il “radioso ottimismo” di riuscire a trovare nel panorama politico italiano attuale le forze necessarie per attuare una uscita volontaria, concordata o no, dall’euro.

    Evidentemente non si tratta della Lega, che pure ha dato la sua testimonianza, anche se con qualche cedimento allo statoladro, ad esempio, o di una eventuale conversione del Movimento 5 Stelle, a Casaleggio piacendo. Non si tratta neppure del radioso sole dell’avvenire che finalmente sorgerà e di un tardivo ma sempre auspicato passaggio al socialismo.

    La mia impressione è che dall’euro non usciremo volontariamente se la classe dirigente italiana non avrà risolto il problema che non è stata capace di risolvere negli anni ’70.

    Federico Caffè scrisse nel 1978 che l’adesione allo SME, il vincolo esterno, era “seguire “programmaticamente” il ricatto dell’appello allo straniero”, proporsi “come modelli di efficienza paesi che scaricano le difficoltà cicliche sui lavoratori stranieri [allora erano i lavoratori stranieri], o associano le virtù tecnocratiche alla più elevata maldistribuzione del reddito”.

    Il vincolo esterno ha funzionato: ha imposto la ristrutturazione industriale dei primi anni ’80 che ha eliminato la base sociale del movimento operaio, chiudendo la crisi sociale iniziata alla fine degli anni ’60, ha condannato i partiti politici che avevano edificato la Repubblica all’estinzione, ha consentito la distruzione dell’economia mista con le privatizzazioni degli anni ‘90, e infine ha ridotto lo Stato al rango di un debitore al quale lo strozzino di Francoforte può inviare lettere minatorie.

    Incapace di individuare una soluzione più avanzata al problema della modernizzazione del paese presentatosi nelle forme più gravi negli anni ’70, la classe dirigente italiana, quella liberale-liberista arroccata intorno alla Banca d’Italia e quella social-liberista post-comunista, hanno trovato nel vincolo esterno una soluzione più arretrata.

    Ripristinare la durezza del vivere (cfr. Padoa Schioppa) come unica alternativa possibile all’incapacità di governare una società opulenta finalmente possibile (cfr. Kalecki e Galbraith).

    E’ lì la radice del problema: “non vorrete mica tornare agli anni ‘70” è la frase che ripetono sia Draghi che Fassina, e a pappagallo i gggiovani gggiornalisti. E’ ribadendo la necessità del vincolo esterno che il Corriere ha chiuso il dibattito sull’uscita dall’euro nel 2012. E’ l’idea di un regime oligarchico quella che viene difesa persino da chi contesta la ristrutturazione renziana della Costituzione, come Zagrebelsky.

    Dall’euro non usciremo volontariamente, perché il vincolo esterno sta operando ora in profondità distruggendo quello che rimane della società creata, nel bene e nel male, negli anni della “prima” Repubblica, cioè della vera Repubblica.

    Se l’obiettivo che De Gasperi si poneva, nel 1943, era quello di “abolire” il proletariato, oggi si sta realizzando l’obiettivo opposto di abolire il ceto medio ovvero di proletarizzare il popolo italiano.

    La possibilità di governare, o meglio di controllare lo Stato, con pieni poteri finora mai sperimentati, anche con i voti del 40% del 50% degli elettori e l’assenza, al momento, di credibili alternative, assicura alle forze politiche che dovrebbero decidere un’uscita volontaria dall’euro un ricco bottino rimanendo nell’euro.

    A chi si sta immiserendo rimarrà sempre l’alternativa di non andare a votare, come avviene nei paesi a oligarchia più avanzata. Se poi è proprio necessario, si troverà un altro ragazzo immagine (ma non del complesso militare-industriale perché quello ce lo siamo già giocati molto tempo fa).

     

  • a Gianni Barbato e Giorgio D.M.

    Caro Barbato,
    grazie per la replica, e grazie anche per l’informazione sulla sepoltura di Fortuyn, non lo sapevo. Ti rispondo brevemente, e al punto 1 replico anche a Giorgio D.M.

    1) Non sono “ottimista”. Il mio breve intervento vuole soltanto descrivere la natura dell’uscita dall’euro, sottolineando il fatto che è impossibile usarla come strumento di pressione all’interno di una trattativa; il che non vuol dire che sia facile, o anche solo politicamente possibile, uscire dall’euro. Nel momento attuale, l’unica cosa sicuramente possibile è il lavoro di corretta informazione e di demistificazione della propaganda avversaria, bianca e nera. Uno dei principali frames della propaganda avversa è quello del “battere i pugni sul tavolo” usando la minaccia dell’uscita dall’euro come strumento di pressione. C’è chi lo usa in buonafede, e va fatto riflettere. C’è chi lo usa in malafede, e va smentito con l’analisi.

    2) Sì, effettivamente il politico che voglia far saltare il quadro politico UE e che si avvicini a riuscirci deve mettere in conto la possibilità di essere distrutto, politicamente e/o fisicamente. Al fondo della dimensione politica, c’è sempre il conflitto a morte.

    3) Attribuisco la principale responsabilità della disgregazione del centrodestra a B., perchè ne era, e purtroppo ne è ancora, il leader carismatico. Nel 2011 si è lasciato dimettere senza aprire bocca, e da quel momento in poi ha collaborato con le forze avverse per salvarsi. Così agendo, o non agendo, si è reso responsabile di un errore di portata storica, aggravato dal fatto che non lo ha commesso per ignoranza, ma per viltà (B. è un caso evidente di politico che, sul punto di toccare il filo dell’alta tensione, viene minacciato negli averi, negli affetti e probabilmente anche nella vita fisica). Quanto a Fini, il mio giudizio sulla sua persona è tale da non poter essere espresso senza rischiar di incorrere in querele, e quindi lo ometto.

    4) Ad impossibilia nemo tenetur. Le cose possibili, invece, vanno fatte. Oggi si può fare quello che sta facendo Alberto Bagnai, insieme a non molti altri. Sarebbe anche importante che, nel dibattito pubblico, cominciasse a entrare il seguente concetto: che siamo in guerra, che abbiamo dei nemici, e che questa guerra e questi nemici non sono la guerra e i nemici che ci hanno abituati a individuare. La guerra non viene condotta con le armi, i nemici non portano la divisa di un popolo straniero: però, guerra e nemici ci sono, ci sono eccome.

  •  

  • Caro Buffagni
    Ho appena finito di leggere la tua risposta al mio post di ieri .
    Sei una persona notevole e non devi ringraziarmi di nulla .
    Ci troviamo in sintonia . Anche ’io su Fini ho lasciato perdere per non essere sommamente volgare .
    Devi sapere che lo ‘’ conosco ‘’ da una vita ,cioè da quando era il ‘’ pupo ‘’ di Almirante ,perché io ti scrivo da Latina ex Littoria fascista come tu sai , e mi ricordo molto bene i suoi discorsi da una tribuna alta almeno tre metri fasciata dal tricolore .
    Sul berlusca non vi ho fatto mai affidamento già dalla sua ‘’ discesa ‘’ in campo perchè è lampante che pensa solo al suo patrimonio , e i suoi interessi non coincidono con quelli dell’ITALIA .
    Mentre di italianità si è sempre riempito la bocca Fini .
    Ma sul giudizio politico di questi due campioni del nulla concordiamo sostanzialmente , differiamo solo su sfumature irrilevanti .
    Mi dici che siamo in guerra . Vuoi sapere da quando sono al fronte ?
    Dal 1999 prima dell’entata nell’euro ( la mia classe è 1952) .
    In piazza del Popolo attaccai violentemente dalla sinistra estrema, ( a quei tempi ero di Rifondazione Comunista) Prodi che ci stava portando al massacro economico . IL mio discorso completamente inaspettato mi danneggiò su due fronti . Quello con i compagni del partito e quello con la polizia per le mie intemperanze verbali . Ma non giganteggiamo, mi chiesero i documenti e mi fecero un sermoncino per le intemperanze verbali .
    Con i compagni dopo una litigata li mandai a fanculo e non mi sono mai più fatto vedere .
    Tre anni fa ho scoperto Goofynomics di Bagnai , credo di essere fra i primissimi lettori del suo blog, e per me è stata una boccata di ossigeno . Ma come dice giustamente il Professore le risposte erano già dentro di noi . Con la differenza che ora hanno delle solide basi di appoggio .
    Caro Roberto spero di non averti annoiato con questo excursus sulla mia vita privata , ma come si diceva nei miei verdi anni ‘’ il privato è politico ‘’ . Ma è anche testimonianza .
    Ti saluto con Stima .

  •  

 

Già pubblicato su https://goofynomics.blogspot.com/2014/08/come-negoziare-ai-politici.html?fbclid=IwAR0-3wKMLzTwFJZtm8qO8i6mwh7Ho7qKzi1GaT6e4EUsFW81R4k0A-O31q4

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