spirali INFERNALI, di Giuseppe Masala

DECLIVIO

Fa davvero impressione leggere il rapporto demografico dell’Istat uscito oggi. Le nascite nel solo 2019 sono diminuite del 4,5% rispetto al 2018 e in cinque anni i residenti sono diminuiti di 550mila a livello nazionale, che significa aver perso, azzerato, in cinque anni una città come Bologna. Interessante anche ciò che emerge dai flussi migratori: i cittadini stranieri che arrivano in Italia sono diminuiti dell’8,5% circa mentre gli italiani andati all’estero sono aumentati dell’8,1%. Se ne deduce che la popolazione oltre a diminuire sempre più invecchia. Difficile ipotizzare una crescita economica in un paese che invecchia, uguale discorso per l’aumento della produttività che non può esserci senza giovani e tantomeno senza giovani istruiti. Questi sono i risultati delle politiche suicidiarie che stiamo portando avanti da decenni nel nome del “Sogno Europeo”, sisi, il sogno. Poca istruzione, poco lavoro, paghe da fame, servizi scadenti. Ma troppa gente ancora non lo capisce. E ancora è nulla rispetto a quello che vedremo dopo la pandemia e la crisi economica che ne sta conseguendo. Questi dati peggioreranno e di molto se non succede qualcosa che risolva la situazione.

Nessuna descrizione della foto disponibile.
PATETICO
Ormai Conte fa pure pena in questo suo giro da questuante nelle capitali del nord. Prima gli schiaffi da Rutte, ora le sberle dalla Merkel. Vi prego, non fatelo andare in Svezia, Finlandia e Danimarca. Non ce la meritiamo questa cosa, siamo una nazione che ha fatto la Storia.
ATTESA PREAGONICA
Ma la notizia più importante è che gli incontri di oggi dello spagnolo Sanchez con l’olandese Rutte e di Conte con la Merkel attestano inoppugnabilmente che da parte dei paesi del Nord non vi è alcun interesse a salvare l’Euro. Continuano a pretendere riforme in cambio di pochi spicci, per altro nel caso dell’Italia si tratta (se si sommano ai RF anche i fondi ordinari del bilancio 2021-2028) di danaro in perdita; nel senso che è più quello che daremo di quello che riceveremo. In sostanza dobbiamo pagarli per farci saccheggiare. Ci trattano da paese sconfitto in una guerra. Oppure se non ci sta bene spetterebbe a noi prenderci la responsabilità politica di un uscita dall’Euro (che la nostra classe politica totalmente compromessa non prende manco in considerazione). Questo ci dicono. Ma vi rendete conto che nella migliore delle ipotesi i primi soldi inizieranno ad arrivare nell’autunno 2021? Ovvero a danno economico e sociale abbondantemente realizzato irreversibilmente. Ma di che parliamo?
GUERRA GUERREGGIATA

Dimenticavo, oggi la Frankfurter Allgemeine Zeitung dice che questa settimana il Prestigioso Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (Zew) di Mannheim pubblicherà uno studio dal titolo “Sliding down the slippery slope”, scivolare giù per il pendio scosceso. Dove si spiega che a scivolare nel pendio è la politica monetaria della Bce che si trasforma a furia di operazioni di quantitative easing in politica fiscale di sostegno agli stati. Bene, a Karlsruhe sono certo che prenderanno buona nota nel caso in cui i vincitori della causa saranno costretti a chiedere “giudizio di ottemperanza” della sentenza del 5 Maggio. Molti non lo sanno ma la partita è aperta.

Noto che l’interesse verso la sentenza di Karlsruhe del 5 Maggio è, qui in Italia, velocemente scemato. Mi permetto di dire che è un grave errore. Tutto, secondo molti, sarebbe finito a tarallucci e vino dopo il voto di del Bundestag che avrebbe approvato le politiche della Bce. Gli economisti a riprova del fatto che non succederà nulla sventolano dei grafichetti che descrivono l’andamento del cambio tra Euro e Dollaro che dimostrerebbe essendo stabile che non succederà nulla. Mi spiace, non è così. Innanzitutto bisogna che gli economisti imparino che i mercati finanziari non si muovono più da anni sulla scorta di valutazioni di natura economica; i movimenti sono fatti con degli algoritmi di Trading ad Alta Frequenza che operano sulla base di istruzioni preordinate (se il prezzo supera X compra, se scende ad Y vendi e cose di questo genere, pura analisi tecnica). I mercati finanziari sono mere fabbriche di danaro sintetico, nulla di più. Quando avviene qualche fatto nel mondo umano non ignorabile, semplicemente le macchinette vengono spente e “a mano” gli operatori vendono e comprano. Un esempio ne abbiamo avuto con la Brexit. Fino al giorno prima i mercati finanziari agivano sulla scorta degli algoritmi ignorando il reale (tanto tutti erano convinti che avrebbe vinto il remain); un minuto dopo la notizia della vittoria del fronte Brexit è cascato giù il mondo. Ecco, sarebbe bene che anche gli economisti – buoni ultimi, come al solito – imparassero queste cose e la smettessero di trarre responso dall’andamento dei mercati che tanto questa pratica vale ne più e ne meno di quella romana di sbudellare i tori e da essi far divinar responso agli Aruspici.

Ecco, detto questo, aggiungo che in questi giorni non è che di cose non ne siano avvenute.

C’è stato certamente il voto del Bundestag che in una mattinata ha votato una mozione sulla proporzionalità della politica monetaria della Bce. Peccato che Karlsruhe chiedesse al Bundestag di valutare se la politica monetaria Bce fosse Ultra Vires che è un’altra cosa. Un modo pilatesco per lavarsene le mani. Peraltro nella mozione si sottolinea come la Bundesbank sia indipendente, che è un modo come un altro per dire “la responsabilità se la prenda Weidmann”.

C’è stata inoltre una potentissima offensiva del Ministero degli Esteri tedesco con è riuscita a rompere il fronte dei paesi che nella Bce sostenevano la Lagarde. Così io leggo l’elezione dell’irlandese alla guida dell’Eurogruppo e avvenuta con i voti dei paesi frugali (e di qualcuno che con sprezzo dell’aritmetica continua a negare il suo voto, vedi Germania). Se questo basti per soddisfare Weidmann e la Corte di Karlsruhe non lo sappiamo.

Prossimi passi sono la riunione del Board della Bce del 16 Luglio, vedremo se Weidmann parla e cosa dice. Idem vale per la Lagarde. Dopo ci sarà il fatidico 5 Agosto giorno della deadline posto dalla Corte per l’uscita della Bundesbank. Se Weidmann non uscirà finirà la storia? Assolutamente no. A quel punto i vincitori della causa potranno chiedere alla Corte di Karlsruhe “giudizio di ottemperanza”. Ma ci sarà modo di parlarne. Il destino dell’Euro è e rimane appeso a un filo.

IL PARTITO DELLA NAZIONE

Mi spiace per chi in privato mi accusa “di avercela con il Nord”. Non è assolutamente vero, ma bisogna ripartire da una presa di coscienza: il progetto europoide, in Italia è stato un progetto essenzialmente a trazione Nord, così come è proveniente dal Nord tutta la classe dirigente che follemente lo ha realizzato. Ora questo progetto è naufragato, tragicamente naufragato e il Nord stesso ha davanti a sé anni terribili. Cari amici, ma davvero pensate di ripartire e superare una catastrofe epocale con due spicci sottratti al Sud? Davvero credete di riprendervi con il Mes, il Recovery Fund e insistendo su un Europa che non esiste ne mai è esistita? Davvero pensate che le vetuste gabbie salariali siano una soluzione come credono Quartapelle e Sala? Suvvia dai. Qui è necessario rifondare l’Italia. Trovare una soluzione strategica complessiva e riprenderci quello che è nostro. Non c’è altra strada, altrimenti sarà miseria e schiavitù per tutti.

Ormai il PD si propone apertis verbis come “Sindacato del Nord” ovvero tenta di fare quello che per trenta anni ha fatto la Lega di Bossi: sottrarre risorse al Sud per riversarle al Nord e sostenerne così la crescita. Alla proposta di Quartapelle e del sindaco di Milano Sala andrebbe aggiunta – per completare il quadro – anche quella del Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini che è molto semplice nella sua brutalità: le risorse per la ripartenza siano dirottate in buona parte se non integralmente “al Nord produttivo” e “il Sud aspetti” (ha detto proprio così, aspetti). A questi luminari rispondo che forse non è la risposta corretta quella di demolire (la peraltro già esangue) domanda eggregata del Sud per sostenere quella del Nord. Anche perchè in un contesto produttivo vergognosamente sbilanciato a favore delle regioni del Nord deprimere un mercato di sbocco della produzione del Nord significa semplicemente che ciò che guadagnerebbe il settore pubblico del Nord sarebbe pagato dal settore privato del Nord che “fatturerebbe” di meno. Quindi alla meglio questa operazione dal punto di vista economico si tradurrebbe in un gioco a somma zero per le regioni del Nord stesso. Non parliamo poi dell’aspetto politico ed etico di una simile proposta, non vale la pena. Non vale la pena alimentare una guerra tra regioni povere e regioni in via di impoverimento (sì, questa crisi colpirà in maniera molto più forte il Nord per chi non l’ha capita, trasformando quelle regioni in una Romania post comunista nel giro di qualche anno). Servirebbe altro, e io credo servirebbe soprattutto una presa di coscienza da parte delle popolazioni del Nord. Il progetto strategico della Seconda Repubblica che si è sostanziato nel saccheggio e nella colossale deindustrializzazione del Sud Italia per tenere agganciato il Nord Italia al motore produttivo europeo è tragicamente fallito. Al Sud non ci sono le risorse per sostenere niente e nessuno: le banche del Sud sono già state acquistate dalle banche del Nord, quindi il risparmio dei frugali meridionali (gli olandesi ci fanno una pippa a quattro mani) viene già usato per sostenere il sistema produttivo del Nord, lavori pubblici qui non si fanno da trenta anni (al Sud non c’è corruzione perchè manca la materia del contendere, la Svizzera a noi ci fa un baffo) quindi non c’è nulla da dirottare, le Università e la Sanità sono già state svuotate (noi facciamo il turismo sanitario ). Ora volete i due spicci dei dipendenti pubblici? Prendeteveli, buon pro’ vi faccia, se volete credere che bastino per recuperare, auguri.

L'immagine può contenere: 1 persona, testo
MODELLO ISPIRATORE

Due importanti traduzioni dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung. La prima è un articolo del parlamentare europeo tedesco Simon Sven (che peraltro è anche un giurista) sull’altro tema rilevante della sentenza del 5 Maggio di Karlsruhe, ovvero il conflitto tra Corte di Giustizia Europea e Corte di Karlsruhe. La seconda è invece relativa alla pretesa dell’Olanda e dei paesi frugali di avere il veto sui Recovery Fund (e infatti la Merkel vuole togliere la competenza alla Commissione per darla al Consiglio). Ecco, per chi vuole informarsi veramente, chi non vuole capire invece può continuare a leggere gli imperdibili pezzi de La Repubblica e del Corriere. Poracci.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-prof_simon_sve…/…/…

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-faz__i_paesi_b…/…/…

I NUOVI BULLI, dal sito lamarianna.eu

il dialetto salentino è molto più espressivo; rende meglio l’idea: sono indicati come “li uappi te cartune”_Giuseppe Germinario

I NUOVI BULLI

Nati fra urla di sdegno per il Papeete, accomunati dai dogmi del politicamente corretto, stabilmente insediati al potere grazie al lockdown da Covid 19, i Nuovi Bulli più si credono gli unici presentabili e più danno vita a sempre più spiccati, penosi spettacoli di bullismo politico e giornalistico.
Due esempi delle ultime ore .

Conte all’Olanda (titolo cubitale di Repubblica di ieri, non smentito): “Conte avverte Rutte: “Dirò che abbiamo fretta o salta anche l’Olanda”.
Ma salta che ? Che cosa può far saltare Conte ? Cosa minaccia, le dighe dei Paesi Bassi ? Penoso. Perchè, detta chiara, non si è mai visto usare un tono simile nei rapporti ufficiali fra Paesi UE e fra rappresentanti istituzionali .
Un conto è polemizzare con Rutte, criticare i Paesi Frugali che si oppongono ai regali a fondo perduto, parlare a muso duro per la pessima politica che spinge gli olandesi a trasformarsi in portofranco per tutte le ex Fiat di questo mondo. Ma tuttaltro conto è minacciare con un “fai in fretta o vi facciamo saltare”, pronunciato per di più nella conferenza stampa tenuta con lo spagnolo Sanchez. Il risultato dell’operazione, peraltro, non è stato fra i più brillanti : all’indomani di questa gentilezze la candidata alla presidenza dell’Eurogruppo appoggiata da Italia e Spagna – la ministra spagnola dell’economia Nadia Calvino – è stata trombata dalla presidenza dell’ Eurogruppo, che le era stata data per certa. Il ministro irlandese dell’economia, Paschal Donohoe, è stato eletto a sorpresa, resterà in carica per due anni e mezzo, è stato appoggiato da tutto il fronte anti Recovery Fund. A Nadia Calviño è stato fatale il viatico del bullo Conte : “L’Italia ritiene che quella di Calvino sia un’ottima candidatura per l’Eurogruppo”, aveva detto un’ora prima del voto.

Secondo esempio. Il Corriere della Sera su Boris Johnson.
La Gran Bretagna, va detto, sta apprezzando molto la politica economica del governo di BoJo nel dopo-Covid , in partcolare il taglio dell’Iva sino al 5%per ristoranti e alberghi, le iniezioni di contanti alle aziende che mantengono i dipendenti al lavoro anche se in cassa integrazione, l’abolizione delle tasse sulla compravendita di case. Ma per il corrispondente da Londra del primo quotidiano italiano – che appunto non scrive per l’Unità ma per il Corsera – testualmente “le buffonerie di Boris cascano nel vuoto”. Per questo campione del giornalismo italiota che ricorda i tempi (bullisti) dell’ Inghilterra chamata “la Perfida Albione” e della Francia liquidata come “la nostra sorella non latina ma latrina” , ecco i toni adatti: “Johnson e’ un premier clownesco che da l’ impressione di girare a vuoto, è una deriva personale prima che politica. Pare che non si sia ripreso appieno dalla malattia, che ad aprile lo ha visto a un passo dalla morte: dicono che al pomeriggio schiacci pisolini anche di due-tre ore”, spiega il Bullo Ippolito. Chissà cosa accadrebbe se sul Times di Londra si scrivesse “le idiozie di Conte non vanno da nessuna parte”, oppure “Conte è un arlecchino buffone”. Apriti cielo, protesta dai giornaloni alla Farnesina. Ma Bullo Ippolito (nella foto qui sotto) , giustamente a Londra non se lo fila di pezza nessuno. Un Bullo così, che si crede colto e dà del clown al titolare di Downing Street , offre al pubblico solo la misura di sè stesso.

https://www.facebook.com/lamarianna.eu/posts/1155022878212953?__tn__=K-R

IL CANTO DEGLI ITALIANI, di Pierluigi Fagan

IL CANTO DEGLI ITALIANI. L’Italia è uno stato ed ogni stato serve a proteggere e fornire condizioni di possibilità per la popolazione che ci vive. Lo stato è cioè un veicolo adattivo, il soggetto che deve trovare il miglior adattamento al mondo di un dato tempo, per quel popolo. Lo stato italiano è in tre crisi contemporaneamente.

La prima è la crisi dimensionale che condividiamo con più o meno tutti gli stato europei. Gli stati europei sono mediamente più piccoli della media mondiale. Europa è solo il 7% della superficie delle terre emerse ma ha il 25% degli stati. Quando si sono cominciati a formare gli stati in Europa nel XVI secolo, il mondo –per quanto riguardava le logiche di contesto- era l’ Europa e quindi era secondo quella logica che s’andavano a formare gli stati. Oggi la logica è quella del mondo, con diciassette volte la popolazione di allora e molta più complessità.

La seconda crisi è di ordinatore ed anche questa la condividiamo con molti stati europei. Infatti, in Europa ci siamo dati un doppio ordinatore riservando a gli stati quello politico e donando al sistema comune quello economico, col risultato di avere politiche impotenti perché non hanno la sovranità monetaria ed economie acefale poiché non hanno una politica che possa indirizzarle.

La terza crisi è geopolitica ed anche questa la condividiamo con molti amici europei. Gli europei rimangono soggetto geopolitico solo a livello di stati, ma sono stati mediamente piccoli, a volte senza forze armate o con forze armate nominali, con limiti evidenti in ricerca, spesa militare e capacità operativa. Di fondo poi c’è proprio una assenza di mentalità nelle opinioni pubbliche, gli europei sono gli unici al mondo ad aver intimamente creduto che fosse finita la storia.

In questo bizzarro quadro di sovranità dissipate in cui comunque i paesi europei a maggior massa contano di più di quella a minor massa, nessuno stato europeo ha due dei tre requisiti fondamentali della sovranità: la moneta e la forza militare. Il terzo, la leva fiscale che ha storicamente fatto da trait d’union, è molto compromessa, sia per concorrenza interna all’UE, sia per l’esistenza di vasti arcipelaghi anglosassoni detti “paradisi fiscali”, sia per via dell’idea neo-liberal-globalista di dar libera circolazione dei capitali. Ne consegue che la sovranità politico-giuridica è ai minimi termini.

Il problema brevemente descritto è grave ed angosciante in sé, ma di più quando -dopo averlo assunto- si deve pensare a come porvi rimedio. Che si debba porvi rimedio non è infatti in discussione, gli stati esistono dalla nascita delle società complesse, cinquemila anni fa e come la nozione di soggetto in campo umano, tutte le chiacchiere liberal-strutturaliste sul superamento degli stati e del soggetto, pur notandone doverosamente la complessità e descrizioni meno ingenue e semplificate di quelle dei secoli passati, fanno solo perdere tempo. E di tempo ce n’è poco.

La difficoltà del problema è nella sua complessità, nel numero di variabili interconnesse che lo costituiscono. Da qualche anno, si è formata una certa sensibilità, per quanto ancora ampiamente minoritaria, su una parte del secondo problema. Il problema è stato ridotto al sistema UE – euro e si è vagheggiato che una uscita dall’UE e soprattutto dall’euro, avrebbe ridato all’Italia almeno il possesso delle chiavi di gestione monetaria, come se la sovranità non fosse una proprietà indivisa di molte forze e fosse riducibile a tipografia ed inchiostro per stampar moneta, monetizzare il debito statale e dar così una mano alla funzione economica a quel punto riportata a casa nel binomio dell’economia politica. Il che per altro ha senso in linea teorica, da vedere però poi sul pratico poiché per uno stato i margini di operatività sono dati comunque in ultima istanza dalla potenza geopolitica che è in gran parte la somma di quella economica e quella militare.

E sul piano geopolitico cosa osserviamo in questi giorni? Be’ l’altro giorno qualcuno negli USA ha pensato utile mandare un avvertimento sotto forma di una presunta donazione da parte di Chavez a Casaleggio padre, vedendo in lui l’eroe del “socialismo anticapitalista europeo”. Bisogna esser proprio americani per confezionare una balla del genere che fa una confusione infantile tra categorie politiche oltre ad esser irrealistica sotto molti altri punti di vista. Ma il pizzino avvelenato è stato comunque mandato per la gioia: a) dei nemici esterni dei 5 stelle, più qualche fazione interna in lotta con un’altra fazione interna per l’egemonia del movimentato movimento; b) dei nemici del governo in carica in ansiosa aspettativa crolli per partecipare al banchetto dell’ipotetico Recovery Fund in salsa MES; c) di tutti i regolarmente iscritti a libro paga CIA che abbondano nei giornali e partiti, oltre a gli stakeholder del sistema atlantista che sono tanti, forti e ben piazzati. Del resto se cantiamo come italiani “Noi siamo da secoli / Calpesti, derisi / Perché non siam Popolo / Perché siam divisi” è perché non essendoci mai pienamente uniti mentalmente, non abbiamo la nozione di “interesse nazionale” che è forse il requisito primo di una aspirazione sovrana.

Così per la faccenda della vendita delle navi all’Egitto che però ci ha massacrato un ricercatore per altro in missione di, come al solito, ambigue istituzioni britanniche. Molte cose di quello che è successo al povero Regeni non si possono e mai si potranno dire, cose in tutta evidenza che nulla hanno a che fare con l’Italia e che riguardano intrighi internazionali di alto livello (ma anche di aspro conflitto interno in Egitto), cioè non del nostro livello. Qualcuno, al governo, ha pensato di comunque barcamenarsi con l’Egitto facendo quello che molti spesso invocano, quel andreottismo mediterraneo (ma la tradizione affonda nella commedia dell’arte del cinquecento) che ci faceva amici di Israele ed Arafat al contempo. Con l’Egitto siamo su opposte sponde nel conflitto in Libia, ma ENI gestisce i loro nuovi promettenti pozzi off shore, in più stanno proprio lì davanti a noi e sarebbe il caso di mostrare loro che noi, dei loro maldipancia islamici che li oppongono ai turchi (fratelli musulmani che ricordiamolo, nascono in Egitto), non prendiamo parte. Anche perché se la Turchia è 12° come paese per i nostri flussi di export e 10° per l’import, l’Egitto non compare tra i primi trenta. Compaiono però sauditi ed emiratini, egiziani no, gli egiziani fanno affari coi francesi. Ma ecco che gli italici pupazzi al servizio di questo o di quello, urlano come le oche del Campidoglio, allo sfregio dell’italica dignità facendosi pifferai dei tanti incolpevoli ingenui che chiedono giustizia per il povero ragazzo che s’è infilato in un gioco più grande di lui e di noi.

E chiudiamo col diffuso terrore per l’imperialismo cinese. Da quando abbiamo firmato una innocente adesione commerciale ai possibili sviluppi della Via della Seta, c’è chi non ci dorme la notte. Coi cinesi possono fare affari tutti tranne noi. La Cina è il primo paese per import dell’intera UE ed il secondo per export. Pragmaticamente i tedeschi, a cui spetta dai primi di luglio la presidenza di turno del’UE, avevano indetto a Lipsia a metà settembre una meeting UE-China per darsi un quadro generale entro il quale regolare i reciproci rapporti. Ma anche lì, s’è ritenuto più conveniente non irritare troppo Trump già arrabbiato con i gasdotti russo-tedeschi, anche perché a quel punto conviene aspettare un paio di mesi per vedere se ci sarà ancora. Ecco allora i nostrani palpitanti per le sorti di Hong Kong, i partecipanti attenti alle scaramucce confinarie con quelle altre birbe dei nazionalisti indiani, l’orrore per il 5G con cui carpiranno tutti i nostri più profondi segreti (?), l’aver a che fare con “comunisti autoritari che non rispettano i diritti umani” come se invece turchi, sauditi, azeri, vietnamiti, indonesiani con cui intratteniamo fertili scambi commerciali, fossero i migliori dei modi possibili. Per non parlare degli umanitarissimi israeliani di cui appunto, è sempre meglio non parlare se non ci si vuol scottare di brutto.

Per non parlare degli aiuti sanitari accettati incautamente dai russi che tra l’altro questa estate promettono di essere uno dei pochi flussi esteri per la nostra esangue stagione turistica. Qualche polpetta avvelenata arriverà anche a saldare quel conto, potete giurarci.

Insomma, tra trenta anni saremo il 17% in meno con ospizi pieni e culle vuote, dati al 21° posto tra le potenze economiche per Pil PPP (oggi siamo al 12° posto, 21° è l’Egitto), ma come al solito pieni di cazzari urlanti in cerca del loro quarto d’ora di gloria al servizio di qualcuno dei tanti poteri che banchetteranno con ciò che di noi rimarrà e tutti a cantar “Uniamoci, amiamoci / L’unione e l’amore / Rivelano ai Popoli / Le vie del Signore / Giuriamo far Libero / Il suolo natio / Uniti, per Dio / Chi vincer ci può!?”.

Be’ visto che non unendoci non possiamo contare, lasciateci almeno cantare come diceva il nostro nazionale spirito di riferimento, Toto Cutugno.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10221412610440290

Attenti a quei due, di Giuseppe Germinario

La videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione della von der Leyen al Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione Europea, almeno nelle intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità. Lo stile adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente. Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto alla ricorrente tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole e rozza retorica intrisa di lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del clamore di tanti precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una battaglia politica vera tra i vari paesi europei e all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle classi dirigenti più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha confermato una volta di più l’attendismo e la passività del ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli uni hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli altri hanno mostrato scetticismo sulla sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle procedure e ai canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per credere!

Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo. L’urgenza espressa dal nostro paese rientra nell’ordine dei mesi colti dalle dita di una mano o poco più. La crisi di liquidità delle imprese, l’interruzione istantanea della rete di relazioni economiche in un contesto in cui la fluidità dei circuiti era già compromessa dagli sconvolgimenti geopolitici e dalle innovazioni tecnologiche stanno compromettendo l’esistenza di un numero enorme di aziende non necessariamente decotte. Il tempo richiesto dall’impegno finanziario del “recovery fund”, del “sure”, dei finanziamenti della BEI (Banca Europea degli Investimenti), con l’eccezione non casuale del MES, rientra nell’ordine degli anni (sei) con elargizioni per di più rateizzate e legate al rispetto e verifica dei protocolli. Un criterio quest’ultimo, per altro, particolarmente virtuoso nelle procedure rispetto a quelle di concessione ed esecuzione dei lavori adottate dalle amministrazioni pubbliche italiane così come illustrate in particolare a suo tempo da Fabrizio Barca.

Lo è anche per i centri decisionali europei di quei paesi che detengono il pallino della definizione e del controllo dei meccanismi europei. Il fattore tempo è uno strumento fondamentale nel confronto geopolitico e geoeconomico, nella ridefinizione quindi delle gerarchie e delle posizioni. Lo è anche per un altro motivo, probabilmente ancora più importante. La sopravvivenza della Unione Europea nella sua attuale conformazione e progressione dipende in gran parte dall’esito del confronto politico negli Stati Uniti con i suoi riverberi in Europa; in subordine dall’acceso confronto politico interno agli stessi paesi motori del processo di integrazione, Francia e Germania.

Agli occhi dei critici più o meno istituzionali assume per la verità importanza sostanziale un altra caratteristica dell’intervento europeo: la grave insufficienza degli stanziamenti rispetto alle necessità, solo in parte mitigata dagli interventi provvidenziali ma circoscritti sulla liquidità corrente della BCE.

Sarebbero due ambiti di critica realmente dirimenti se fossero fondati i presupposti sui quali poggiano. Che la finalità dell’Unione Europea sia quella di garantire la coesione e lo sviluppo equilibrato delle economie e delle regioni in un ambito di cosiddetto libero mercato; che gli strumenti normativi, procedurali ed amministrativi di cui dispone la UE siano idonei al perseguimento di quegli obbiettivi.

La finalità ultima e dirimente della UE è in realtà il processo di integrazione all’interno del quale si predeterminano gerarchie, controlli e controllori sulla base di scontri, confronti, occupazione ed infiltrazione nei posti di comando che vedono regolarmente gli stessi deus ex-machina, attori principali e comparse. Le compensazioni previste sono solo una forma di redistribuzione parziale che non intaccano minimamente le dinamiche. Le rendono in realtà più tollerabili ed agevolano la fluidità del circuito domanda/offerta del mercato; le istituzionalizzano e le perpetuano con l’indebitamento.

Gli strumenti, compresi i fondi strutturali, sono stati tutti indistintamente costruiti in funzione di quella dinamica principale.

Il duo Merkel-Macron, da comprimari quali sono, a differenza di gran parte della nostra classe dirigente e del nostro ceto politico che le ignora o finge di ignorale, conoscono benissimo questa narrazione e le susseguenti implicazioni.

Sanno benissimo che passano attraverso un indebolimento progressivo delle prerogative e delle capacità di controllo e di intervento degli stati nazionali di cui sono essi stessi vittime rispetto agli altri attori geoeconomicopolitici; ma in misura molto minore, è questo infatti il loro ambito di azione prioritario, rispetto ad altri quali la Spagna e l’Italia. Di fatto l’UE agisce strutturalmente per garantire la libera circolazione finanziaria e per impedire la formazione di grandi imprese paragonabili in dimensioni e qualità a quelle americane ed ora cinesi, specie nei settori strategici dell’alta tecnologia e della difesa. I pochissimi settori nei quali Francia e Germania si sono ritagliati uno spazio, come nell’aereonautica (Consorzio AIRBUS), lo hanno acquisito a dispetto della UE e ora rischiano di perderlo grazie al mercimonio dei tedeschi i quali, forti della loro supposta “integrità morale”, dopo aver acquisito il controllo di una tecnologia francese a loro estranea, hanno recentemente cercato si svenderla agli americani in cambio di un loro benestare nell’acquisizione nel campo della chimica. Acquisizioni in cui sono compresi fardelli legali e risarcitori talmente pesanti da rivelarsi fatali per il colosso tedesco della Bayer. Il riferimento è alla ex-americana Monsanto. Altri, come il progetto Galileo, hanno goduto di un sostegno europeo parziale ma con pesanti limitazioni legate all’uso esclusivamente civile di una tecnologia di fatto superiore a quella americana. La conferma ulteriore di come i vincoli politici dai quali è legata la costruzione europea determinano le dinamiche e le scelte economiche.

Se il duo ha tanto insistito nel loro discorso sul carattere a fondo perduto di buona parte del “recovery fund”e sul “sure” e sull’interlocuzione diretta della UE con i beneficiari e le regioni, ma glissando elegantemente sulle necessarie garanzie pubbliche, è perché conoscono benissimo la frammentazione del panorama politico, lo scarso attaccamento alla nazione e allo stato nazionale di buona parte dello zoccolo duro dell’elettorato leghista e la propensione assistenzialista della componente grillina e progressista. Come le sirene con Ulisse, il loro di fatto è un richiamo alle origini di una Lega, possibilmente dimentica delle sue ambizioni di partito nazionale e nuovamente attratta dalle suggestioni di un polo eurobavarese, proprio nel momento in cui tra l’altro questo avrebbe meno da offrire.

Non è un caso altresì che il duo, accompagnato dieci giorni dopo dalla loro ventriloqua, abbia insistito sull’uso del canale dei fondi strutturali nella gestione del fondo. Non ostante l’ampia letteratura a disposizione, in Italia non riesce ad insinuarsi nemmeno il sospetto che quei fondi possano costituire il principale veicolo dell’integrazione, piuttosto che della coesione. Potenzialmente un veicolo di ulteriore esposizione alle dinamiche di squilibrio e di dipendenza delle zone depresse o a sviluppo intermedio rispetto ai centri politicoeconomici. Con il criterio del cofinanziamento vincolano, se non tutti, almeno la gran parte dei fondi statali al rispetto dei criteri europeistici, di quelle regole di concorrenza che impediscono il sorgere, con il necessario sostegno e la copertura pubblica in qualche maniera protezionistica, di realtà imprenditoriali autoctone. Una dinamica tanto più consolidata quanto meno sono disponibili risorse nazionali aggiuntive ed autonome per gli investimenti, quanto meno è presente l’ambizione a scelte autonome di una classe dirigente. Una ulteriore spinta al regionalismo, vecchio cavallo di battaglia della UE e di tante forze politiche non farebbe che accentuare tale predisposizione. È una tendenza fattiva che ha trovato tanto spazio e compromesso, nelle modalità di esercizio, paesi come l’Italia e la Spagna con i risultati ormai evidenti, ha intaccato la solidità della Francia, ha assunto una maschera simile ad una finzione nei paesi dell’Europa Orientale, indossata con il solo scopo di poter accedere ai fondi europei. La lezione degli anni ‘90 che ha portato, contestualmente al trasferimento all’Europa Orientale di gran parte dei fondi europei, allo smantellamento repentino in Italia delle agenzie nazionali e di tutto il relativo apparato tecnico-amministrativo in grado di progettare opere strategiche e processi di industrializzazione, nonché del sistema di incentivi non è stata appresa, pur considerando le grandi pecche di quel sistema. Solo la Germania è sembrata immune dalle conseguente di tali scelte, ma solo perché, risorta sotto impulso americano con una impronta federalista, esentata in quanto paese occupato da scelte di politica estera dirimenti e perché in possesso di una rete associativa e corporativa, direttamente coinvolta nelle scelte, tale da garantire sufficiente omogeneità politica tra i laender della federazione; soprattutto perché, grazie al suo progressivo e certosino controllo diretto ed indiretto delle leve politiche e burocratiche della UE, in questo ben avvallato dalla paterna accondiscendenza degli USA sino ad un paio di anni fa, ha saputo prepararsi e predeterminare gli indirizzi e la gestione di essa.

È arrivato il momento di chiarire un altro aspetto della natura particolare dell’azione delle strutture della UE in funzione dei due interventi oggetto di attenzione. Si parla costantemente di leggi e giurisprudenza europea. La produzione della Commissione Europea è fatta in realtà di norme frutto di trattative e pressioni degli Stati Nazionali ed espressione della immane attività lobbistica di aziende ed associazioni accettata e riconosciuta dagli organismi comunitari senza nemmeno i bilanciamenti che l’analoga legislazione americana, alla quale si è ispirata, ha creato a tutela dei cittadini e delle decisioni politiche; suscettibile quindi delle più svariate pressioni, interpretazioni e modifiche. Una dinamica che penalizza fortemente gli attori del panorama economico italiano. Che la UE non goda di uno statuto internazionale particolare è dimostrato dal fatto che organizzazioni internazionali come l’OMC non la riconoscano. Due aspetti che mettono all’angolo una volta per tutto il lirismo europeista della nostra classe dirigente utile a nascondere la propria assenza di protagonismo ed autorevolezza e il proprio fallimento; l’assenza di sagacia nelle continue contrattazioni in sede europea.

Alla luce di quanto detto le due novità più importanti degli interventi del duo e del commissario europeo assumono una luce particolare. La prima è che, almeno nelle intenzioni, la Unione Europea potrà diventare soggetto di imposta e quindi esattore diretto. La seconda è che comincia a farsi strada il concetto di tutela ed autonomia della produzione industriale. Due tabù cominciano ad essere messi in discussione. Il primo è l’acquisizione di una prima prerogativa statuale della UE, la riscossione delle tasse. Saremmo ben lontani dall’acquisizione della massa critica di risorse, stimata in un 20% del PIL, tale da dare corpo alla prerogativa; ma è un principio che comincia ad insinuarsi. La seconda appare una messa in discussione della verità assoluta del dogma del libero mercato. In quanto dogma, ben lungi ed impossibile da essere praticato coerentemente nell’azione quotidiana, quando si tratta in effetti di tradurlo in norme, comportamenti e sanzioni. Ma un’arma comunque necessaria da brandire alla bisogna in mano al censore investito e abilitato. Apparentemente parrebbe finalmente un sussulto di ambizione verso i potenti del globo. Non bisogna dimenticare però che uno dei protagonisti, Macron, è stato il cofautore della crisi del complesso nucleare francese, della cessione del settore delle turbine alla americana GE, strategico nel settore navale e nucleare, della produzione dei treni alla Siemens e di pericolosi tentennamenti nella vicenda AIRBUS. La seconda appare come la paladina di un primato industriale su prodotti maturi disposta a mantenere questa posizione sacrificando settori strategici altrui. Di una esposizione rischiosissima ai venti speculativi della finanza. Per non parlare della permeabilità esterna del proprio apparato istituzionale. Una coppia quindi molto poco credibile. Tanto più che l’obbiettivo strategico dell’economia verde può risolversi tranquillamente in un paravento per nascondere la residualità e la subordinazione nelle scelte strategiche, quello più corposo del 5G allo stato appare del tutto velleitario.

Allo stato l’iniziativa potrebbe assumere due significati non necessariamente alternativi.

Il primo potrebbe essere quello di gettare il cuore oltre l’ostacolo visto l’incalzare degli avversari interni ed esterni al progetto europeo e i punti fermi ormai stabiliti dalla Corte Federale tedesca che inibiscono ulteriori traccheggiamenti. Il secondo è che il vero obbiettivo è un riassetto definitivo degli equilibri interni che prevedono l’annichilimento definitivo di alcuni stati europei, l’Italia in primis; la definizione della Francia come partner politico-economico sostitutivo dell’Italia, come fornitore quindi dell’indotto, vista la crisi della sua grande industria. Un progetto però ancora tutto da definire e da costruire con parecchi terzi incomodi all’interno, soprattutto tra i paesi dell’Europa Orientale, legati del tutto strumentalmente ed opportunisticamente alla costruzione europea e molto più sensibili politicamente alle sirene americane; con numerosi e particolarmente influenti osservatori esterni, in primis gli Stati Uniti. I due potrebbero coltivare l’illusione, con la sconfitta di Trump, ad un ritorno al passato. Speranza mal riposta. Con il direttore d’orchestra che comincia a perdere colpi, il loro appare certamente un progetto foriero di conflitti distruttivi nel continenti piuttosto che un sussulto capace di costruire un nucleo politico di paesi europei in grado di partecipare attivamente alle dinamiche geopolitiche. Più che un oggetto di contesa, il nostro paese, con la sua attuale classe dirigente, appare in proposito, in questo contesto, una pallina da ping pong sballottata a piacimento senza alcuna considerazione. Dal punto di vista storico, in Europa ogni tentativo interno di posizione egemonica o di dominio continentale diretto si è risolto in catastrofi foriere di nuovi equilibri sempre precari. Non è detto che la storia si ripeta pedissequamente, ma gli ingredienti per una nuova disfatta si intravedono tutti.

https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2020/05/18/initiative-franco-allemande-pour-la-relance-europeenne-face-a-la-crise-du-coronavirus

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/about_the_european_commission/eu_budget/2020.2139_it_04.pdf

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it#documents

https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/health/coronavirus-response/recovery-plan-europe_it

Hans-Werner Sinn, “La costituzione tedesca e la sovranità europea”. Cronache del crollo., di Alessandro Visalli

Hans-Werner Sinn, “La costituzione tedesca e la sovranità europea”. Cronache del crollo.

Avevo chiuso l’ultimo post[1] individuando come via di uscita dalla ordalia[2] chiamata dalla Germania un’uscita unilaterale della stessa, o la resa latina (con conseguente aggressione finale dei mercati ai più deboli). Certo ci sono anche una serie di possibilità di mezzo e di rinvii, ma rimandano solo l’inevitabile definizione della battaglia finale per l’Europa che è stata avviata.

Per rendere più chiaro il terreno di gioco e le poste designate interviene una delle voci più autorevoli della destra economica tedesca, ovvero Hans-Werner Sinn. In un breve articolo[3] su “Project Syndacate” diffida la Commissione dall’avanzare una procedura di infrazione verso la Germania, conferma la natura eminentemente politico-istituzionale dello scontro, e indica quale unica via di uscita la creazione di un’unione politica realmente indipendente, nella quale si parta dalla protezione militare e nucleare autoctona. Ovvero propone uno scambio di unione fiscale verso condivisione della capacità nucleare, e dei relativi eserciti, alla Francia.

Bisognerà richiamare un lontano antefatto. Quando terminò la Seconda guerra mondiale la Germania era distrutta fisicamente, umiliata moralmente, ed occupata militarmente da tutte le potenze alleate. Si avviò un lungo gioco egemonico e di confronto militare nel quale, fino al crollo sovietico, la posta principale era il controllo dell’Europa, per impedire che potesse passare nel campo avverso. Cruciale in questo gioco è sempre stato il controllo delle due potenze sconfitte, sia militarmente sia ideologicamente. Ovvero di Germania e Italia. Ma, ovviamente, soprattutto della prima. Non è affatto un caso che la “guerra fredda” abbia coinciso con la pace europea e con l’occupazione militare perdurante dei paesi di cui sopra citati. Ci sono alcuni corollari: l’Europa non è più da considerare il centro del mondo, dopo il “suicidio” determinato dalle due grandi guerre questo si è spostato fuori (inizialmente Usa e Urss, ed ora Usa e Cina, con la Russia a fare da terzo ballerino). La Germania, inizialmente divisa in due paesi contrapposti, è sempre stata il centro della partita. La dimensione militare del confronto è stata egemonizzata dalla presenza della dissuasione nucleare, senza la quale l’intera questione si spenderebbe in modo del tutto diverso. La presenza della dissuasione nucleare, e l’accordo di spartizione del mondo noto come “equilibrio del terrore” per un quarantennio ha indotto esclusivamente guerre frizionali esterne. A fare da suggello a questo status quo intervennero almeno tre fattori decisivi: l’occupazione militare asimmetrica; l’istituzione presso le Nazioni Unite di un organismo permanente come il Consiglio di Sicurezza nel quale solo le cinque potenze vincitrici siedono in modo permanente e dispongono di un decisivo potere di veto; la concessione alla Francia, dal 1958, e il Regno Unito, dal 1952[4], di poter sviluppare autonomamente armi nucleari, cosa aspramente interdetta a tutte le altre nazioni[5], fanno informalmente eccezione solo altre quattro nazioni[6].

Quando terminò l’Urss ricominciarono quasi subito le guerre in Europa, nel drammatico teatro jugoslavo, e si svuotò repentinamente il senso geopolitico della costruzione europea antecedente. Mentre gli Stati Uniti perdevano interesse, spostandolo in medio ed estremo oriente, la riunificazione tedesca ricreò un potente blocco storicamente refrattario all’idea di essere dominato da altri. I due paesi europei vincitori, dotati sia della legittimazione storica sia delle basi di forza geopolitica e istituzionale, rappresentate dal seggio permanente all’Onu e da potenti eserciti dotati di mezzi nucleari, Gran Bretagna e Francia, hanno visto subito come una minaccia il nuovo assetto ed hanno cercato, la seconda, di imbrigliarla in una nuova costruzione economica rafforzata che, però, evitasse accuratamente di condividere i fattori di forza sopradetti.

Il progetto asimmetrico europeo è quindi nato da compromessi ibridi, ambigui e di essenziale natura politica e intessuti di proiezione strategica. È stato realizzato attraverso la condivisione guidata dal mercato degli spazi di circolazione dei capitali privati, ma confermando l’assoluta regimentazione nazionale di quelli pubblici. Una costruzione semi-confederale, nella quale i fattori identificativi della sovranità statuale sono stati ambiguamente messi in comune o trattenuti gelosamente. Stante l’inibizione militare e l’esclusione istituzionale della Germania, la sua tutela geopolitica, si è inteso porre in comune solo i fattori di potenza economici, e la moneta in primis, sperando che questa struttura riuscisse a quadrare un cerchio davvero complesso.

Ma come è evidente non funziona e non può funzionare.

Il compromesso si basa sull’ipocrisia e sul tacito accordo di non tentare di andare oltre, di non porre la questione del potere politico e geopolitico, e di non dire il vero.

È questa ipocrisia che è saltata con la sentenza della Corte Costituzionale tedesca.

Tutto ciò che segue è esito naturale della reale posta in gioco.

Il 5 maggio i leader della Spd hanno chiesto[7] che le armi nucleari americane siano ritirate dal paese. Due giorni fa c’era stata una risposta[8] insolitamente aspra di parte americana, espressa al massimo livello locale dall’Ambasciatore e sulla testata ufficiale: l’ombrello nucleare Nato è indispensabile. Tradotto, al di là delle questioni contingenti come la sostituzione dei Tornado con capacità nucleare, la richiesta tedesca è che il dispositivo di uscita dalla Seconda guerra mondiale venga dichiarato finito e sia smantellato. La Germania, utilizzando lo schermo europeo, vuole tornare ad esercitare una capacità di influenza mondiale ed indipendente. Il cavallo di troia previsto è il ritiro delle forze americane, in primis nucleari, e l’estensione dell’ombrello alternativo costituito dalla ‘force de dissuasion nucléaire française’, un complesso di dispositivi che costano alla Francia circa tre miliardi di euro di costi di manutenzione all’anno e complessivamente sono in grado di lanciare circa 350 vettori nucleari tramite sottomarini ed aerei[9]. Una “forza d’urto” la cui dottrina è di affermare una capacità di difesa indipendente, premessa dell’effettiva indipendenza politica (ed anche, in ultima istanza, economica), sulla base della capacità di infliggere significativi danni alla controparte in modo da dissuaderla. La dottrina è anche detta della “dissuasione del debole sul forte (dissuasion du faible au fort), formulata dal generale Pierre Gallois.

In questa congiuntura, si incrociano, rafforzandosi, due correnti diverse del sentimento politico tedesco: da una parte la destra ha fisso al centro del suo pensiero strategico la potenza perduta, dall’altro la sinistra reagisce allo stesso sentimento di umiliazione e subalternità politica attaccandone i simboli. Ma politicamente ciò assume un unico significato: la Germania vuole tornare.

Vediamo dunque, dopo questo preambolo necessario, cosa ha scritto Hans-Werner Sinn. La situazione, nell’incipit del pezzo è qualificata come una “crisi costituzionale” nella quale combattono da una parte la Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE), dall’altra la Corte Costituzionale federale (CCG) per influenzare le politiche europee della Banca Centrale. Per come la riassume, “La CCG ha accusato la CGUE di aver oltrepassato il suo mandato, sviluppando un ragionamento arbitrario in una sentenza del dicembre 2018 a favore della Bce”. Le serrate e diffuse proteste, anche nella Germania stessa, per le conseguenze economiche e geo-politiche della sentenza, sarebbero espressione di quella che Sinn chiama “una disconnessione tra ciò che molti commentatori potrebbero desiderare e la realtà legale”.

La “realtà legale” è che il re europeo è nudo. La gerarchia tra le autorità europee (e per esse la CGUE) e quelle nazionali è asimmetrica. Mentre esiste chiaramente nella politica monetaria (per i paesi che hanno aderito all’Euro, perdendo il controllo delle loro Banche Centrali e dell’emissione di moneta), non esiste in generale “in altri settori politici”. Ovvero, è la tesi di Sinn, non esiste per le complessive politiche fiscali. E queste sono chiamate inesorabilmente ed inevitabilmente in campo dalle politiche di salvataggio non convenzionali che la Bce ha sviluppato utilizzando il suo potere di generazione di moneta. Nello specifico la tesi è che “La BCE avrebbe dovuto essere specificamente autorizzata ad attuare tali misure ai sensi dell’articolo 5 del trattato UE. Ma questa autorizzazione non è stata concessa”.

Dunque, la Bce è ultra vires, oltre i propri poteri, e agisce in modo illegale, quando li compie.

La questione inerisce direttamente l’ambigua costituzione del progetto europeo post caduta del muro, nelle condizioni date dall’equilibrio di potere mondiale. Con i termini esattamente individuati da Hans-Werner Sinn: “l’Ue e le sue istituzioni non hanno lo status di sovrano assoluto”, ma “in base ai suoi Trattati attuali, l’Europa è molto distante dalla statualità forse desiderabile che conferirebbe alla Bce e alla CGUE poteri paragonabili a quelli di istituzioni simili in stati-nazione o confederazioni”.

Data l’essenziale asimmetria che interessa gli stati europei, dopo il citato ‘suicidio’, ciò non è affatto casuale. Gli stati-nazione, tra i quali sul piano geopolitico e di legittimazione la Gran Bretagna e la Francia non sono affatto pari a Germania e Italia, restano “padroni dei trattati”. Dunque, i tribunali costituzionali, come hanno già fatto quelli di Danimarca e Repubblica Ceca, possono pronunciare ed applicare sentenze contro la CGUE. La questione posta da Sinn si applica agli acquisti di titoli di stato ma è tanto più larga.

La Germania rivendica la propria indipendenza.

A supporto di questa linea l’economista tedesco porta un esempio americano incongruo e fuorviante[10], ma probabilmente scelto per evocare la vera posta in gioco senza doverla nominare: la costruzione di un centro di potere indipendente e dominante che sfidi e si contrapponga agli Usa. Centro che, con la condivisione simultanea della capacità fiscale e militare, li vedrebbe a loro volta dominanti nella dinamica a quel punto interna.

L’acquisto, sui mercati secondari, del debito degli stati avrebbe infatti creato effetti diffusi e rilevanti, proteggendoli dalle perdite e impedendo ai tassi di interesse di salire, con ciò rischiando l’azzardo morale e minando i patti fiscali e di debito dell’Ue. Patti che, dal punto di vista tedesco, sin dall’inizio “mirano a prevenire l’escalation del debito nazionale”.

In Germania, sostiene Sinn, c’è un chiaro impedimento costituzionale che di fatto impedisce di avviare politiche di salvataggio fiscale a vantaggio di terzi. Quindi, per farlo sarebbe necessario rifondare lo Stato e darsi una nuova costituzione[11].

Anche qui c’è, a ben vedere, in gioco la stessa eredità. La Costituzione federale è il guardiano che gli alleati vollero porre a tutela del rischio di risorgenza delle mire egemoniche ed imperiali tedesche. Cosa fa, infatti e necessariamente, un egemone imperiale? Sopporta, anche a lungo, deficit per rendere i paesi colonizzati dipendenti da sé e, se del caso, si fa carico di costi per sostenerli. Istituisce, in altre parole, una relazione servo-padrone. Egli rischia, ed assume su di sé i costi della difesa comune, ma per questo legittima il servizio che riceve dai subalterni. Tra i servi ed il padrone si istituisce una relazione di reciproca dipendenza ed una divisione del lavoro.

Ora, la doppia proibizione di armarsi in modo autonomo, ed in primis dell’arma delle armi (il nucleare), e di spendere per il ‘bene’ altrui, ovvero per creare dipendenza economica, è il cardine sul quale è stato creato e mantenuto il rapporto gerarchico tra l’unico egemone dell’occidente, gli Usa, in quanto vincitore della guerra, e i suoi satelliti.

Quando la destra economica tedesca, tramite Sinn, pone la questione di liberarsi in un colpo e sintetico, come vedremo, dei due vincoli e caratteristiche del non poter condividere risorse e di non essere armati, sta ponendo finalmente la questione di diventare indipendente. Cioè di tornare ad essere dominante.

Si arriva alla fine.

Il blocco è chiaramente descritto dall’economista tedesco: se nessuno ha il potere sovrano di trasferire risorse surrettiziamente, non si può neppure aggirare la cosa ponendo in procedura di infrazione la Germania (come ha ipotizzato la Commissione Europea), perché comunque la trappola costituzionale si è ormai chiusa. Se la Ue comminasse un’ammenda perché il governo tedesco ha disobbedito ad una sentenza della CGUE, questi non la potrebbe pagare perché la propria corte CCG la ritiene illegale. Le conseguenze di un simile scontro sarebbero “devastanti per l’Ue”.

Se non si vuole costringere la Germania ad uscire resta, in altre ed ultime parole, solo la strada di sviluppare ulteriormente la Ue in direzione chiaramente federale (e chiaramente “imperiale”). Non c’è altra via. “Non può essere sviluppato arbitrariamente espandendo la giurisdizione della CGUE o attraverso le decisioni di un organo tecnocratico come il Consiglio direttivo della BCE”.

Qualora si volesse proseguire in questa direzione, e qui l’invito è rivolto alla Francia, la strada dovrebbe essere di aumentare il bilancio europeo, e, se non bastasse, di introdurre una moratoria sul debito pubblico italiano[12], con tutte le condizionalità e le regole stringenti dei creditori (ovvero con commissariamento del paese), e bloccare la fuga di capitali.

Ma il colpo è alla fine.

“Ciononostante, gli Stati membri dell’UE dovrebbero riunirsi per formare un’unione politica che consentirà di fatto al blocco di raggiungere la sovranità desiderata. Una tale unione dovrebbe principalmente comportare la creazione di un esercito europeo, con tutto ciò che ciò comporta. Una semplice unione fiscale, infatti, bloccherebbe la strada verso l’unione politica, perché alcuni Stati membri avrebbero fornito i soldi mentre altri avrebbero le carte vincenti militari”.

Bisogna giungere ad un’Unione Politica in grado di essere effettivamente sovrana. Ma ciò significa che se si mette insieme la cassaforte, ovvero si attiva una qualche forma di unione fiscale, diretta e non surrettizia, bisogna anche condividere le armi. Tutte, ovvero “un esercito europeo con tutto ciò che ciò comporta”.

Insieme ai soldi bisogna mettere insieme “le carte vincenti militari”.

Si può scrivere in modo più secco: la destra tedesca intende bloccare la strada all’integrazione europea asimmetrica, ‘a la carte’, come fino ad ora sviluppata, sfruttando il momento di acuta necessità, perché vuole tornare al gioco di dominio imperiale del mondo che per due volte ha fallito nel novecento. Lo scambio è chiaro e semplice: se volete i nostri soldi e le nostre garanzie allora la Seconda guerra mondiale è veramente finita.

Noi siamo tornati[13].

[1] – Ovvero “Verso lo scontro finale? Germania, Ue e cronache del crollo”.
[2] – Duello sacro per definire chi ha il favore degli dei e dunque ha ragione.
[3] – Hans-Werner Sinn, “Germany’s constitution ande european sovereignty”, 15 marzo 2020.
[4] – Il Regno Unito dispone di ca 160 testate operative e si giova di una stretta collaborazione avviata già negli anni sessanta.
[5] – Il Nuclear non-proliferation treaty, siglato nel 1968, designa solo cinque nazioni (NWS) autorizzate a disporre legittimamente di armamento nucleare. Si tratta di Usa, Russia, Regno Unito, Francia e Cina. Che sono non a caso anche i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e i vincitori ufficiali della Seconda guerra mondiale.
[6] – Che sono India, Pakistan, Corea del Nord e Israele. Di queste, come noto, la Corea del Nord è presente solo in quanto si è fatta strada letteralmente a forza.
[7] – Si veda questo link.
[8] – Richard A. Grenell “A credible nuclear deterrent remais needed”, U.S. Embassy   Consulate in Germany, 14 maggio 2020.[9] – Al momento si tratta di quattro sottomarini nucleari con 16 missili M51 ciascuno, 2 squadriglie di Rafale con 54 missili ASMP-A, e 2 di Rafale-M imbarcati sulla portaerei Charles de Gaulle.
[10] – “Per quanto riguarda la controversia relativa agli acquisti di titoli di stato da parte della BCE, considerate questo: anche negli Stati Uniti, la Federal Reserve non ha acquistato il debito pubblico dei singoli stati, una questione che è diventata un osso della contesa in Europa. Quando la California, il Minnesota e l’Illinois erano sull’orlo della bancarotta, la Fed non è venuta in soccorso di questi stati acquistando le loro obbligazioni”. È evidente che l’assetto costituzionale americano, nel quale i titoli di stato sono emessi a livello federale, e gli stati federati sono tenuti al pareggio di bilancio, ma nel contesto di significative spese federali diffuse, non è comparabile. L’esempio è mal portato. Peraltro l’atto di fondazione della capacità finanziaria dello stato federale è stato proprio l’assorbimento del debito degli stati federati dopo la guerra di indipendenza.
[11] – “Anche con una maggioranza di due terzi a favore, il Bundestag tedesco non ha potuto approvare le disposizioni del trattato UE che consentirebbero alla BCE di perseguire una politica di salvataggi statali che comportasse gravi rischi prevedibili per i contribuenti della zona euro. Invece, la Repubblica federale dovrebbe prima essere rifondata e una nuova costituzione adottata con referendum.”
[12] – “A dire il vero, gli stati sovrani dell’UE dovrebbero stare insieme e aiutare quelli più colpiti dalla crisi – soprattutto l’Italia, che è stata la prima nazione europea a essere colpita dalla pandemia e ha subito 31.000 morti COVID-19, il numero più alto nella UNIONE EUROPEA. Oltre ai trasferimenti unilaterali, che ogni governo nazionale può decidere liberamente, gli Stati membri dovrebbero aumentare il bilancio dell’UE per fornire aiuti speciali alle persone e agli ospedali italiani.
Se ciò non bastasse, allora potrebbe essere introdotta una moratoria del debito per l’Italia secondo le regole del Club dei paesi creditori di Parigi. Ciò dovrebbe essere combinato, come nel caso della Grecia, con controlli di capitale per fermare l’enorme fuga di capitali dall’Italia alla Germania e agli Stati Uniti che si sta verificando da marzo.”[13] – Certo ci sarebbe da capire cosa pensano di questi i cinque paesi che quella guerra la vinsero, pagando un immane tributo di sangue e di dolore. In primo piano cosa ne pensa la Francia, che talvolta percorre terreni simili, e poi, soprattutto, che ne pensano gli Usa. Ma questo, penso, lo capiremo presto.

TRA CONSIGLIO EUROPEO e CORTE COSTITUZIONALE TEDESCA, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto una piccola raccolta di note e considerazioni di FF e Giuseppe Masala_Giuseppe Germinario

GIUSEPPE MASALA

Davvero ma come fa qualcuno a credere che le norme del trattato istitutivo del Mes possano essere sospese/abrogate con la letterina di due commissari europei? E magari una legge dello stato italiano o direttamente una norma di rango costituzionale possono essere abrogate con una dichiarazione di Conte scritta da Casilino. Ma per favore, levate la scolarizzazione di massa, dite che all’Università possono andare solo coloro che hanno conto in banca in Svizzera, ditta con domicidio fiscale in Olanda e possibilmente doppio cognome nobiliare. Dite che dobbiamo andare a zappare e non fate più studiare nessuno. Però non provate a prenderci per il culo così. PS L’Unione Europea va abbattuta.

<<The ESM will also implement its Early Warning System to ensure timely repayment of the Pandemic Crisis Support.>> (Punto 5 Eurogrup Statement). Post sorveglianza. Ecco, l’ombrello di Altan

https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/05/08/eurogroup-statement-on-the-pandemic-crisis-support/?fbclid=IwAR1pBZr0RTe3QNKjLgoCdNxG89xfMfuI12lsQtdmEOgVBJcFzPO4efNybYI

traduzione (con traduttore):

Dichiarazione dell’Eurogruppo sul sostegno alla crisi pandemica

1. Il 23 aprile 2020, Leaders ha approvato l’accordo dell’Eurogruppo in formato inclusivo del 9 aprile 2020 sulle tre importanti reti di sicurezza per lavoratori, imprese e sovrani, pari a un pacchetto del valore di 540 miliardi di EUR, e ha chiesto la loro attuazione da parte del 1 ° giugno 2020. I leader hanno anche convenuto di lavorare per istituire un fondo di risanamento e hanno incaricato la Commissione di analizzare le esigenze esatte e di presentare urgentemente una proposta commisurata alla sfida. L’Eurogruppo in un formato inclusivo continuerà a monitorare attentamente la situazione economica e preparerà il terreno per una solida ripresa.

2. L’Eurogruppo accoglie con favore gli sforzi ben avviati in seno al Consiglio sulla proposta SURE e negli organi direttivi della BEI sull’istituzione del fondo di garanzia paneuropeo a sostegno dei lavoratori e delle imprese europee e conferma l’accordo per l’istituzione di ESM Pandemic Crisis Support per sovrani.

3. Oggi abbiamo concordato le caratteristiche e le condizioni standardizzate del sostegno alla crisi pandemica, disponibili per tutti gli Stati membri dell’area dell’euro per importi del 2% del PIL dei rispettivi membri alla fine del 2019, come parametro di riferimento, per sostenere il finanziamento interno di e i costi indiretti dell’assistenza sanitaria, della cura e della prevenzione dovuti alla crisi COVID-19. Abbiamo inoltre accolto con favore le valutazioni preliminari delle istituzioni sulla sostenibilità del debito, le esigenze di finanziamento, i rischi di stabilità finanziaria, nonché sui criteri di ammissibilità per l’accesso a questo strumento. Concordiamo con l’opinione delle istituzioni che tutti i membri ESM soddisfano i requisiti di idoneità per ricevere supporto nell’ambito del supporto per crisi pandemiche. Con riserva del completamento delle procedure nazionali, prevediamo che il consiglio dei governatori del MES adotti una risoluzione che confermi questo ben prima del 1 ° giugno 2020. Seguiranno le disposizioni del Trattato MES.

4. L’Eurogruppo ricorda che l’unico requisito per accedere alla linea di credito sarà che gli Stati membri dell’area dell’euro che richiedono assistenza si impegnino a utilizzare questa linea di credito per sostenere il finanziamento interno dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta, i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti al COVID 19 crisi. Questo impegno sarà dettagliato in un singolo piano di risposta pandemica da preparare sulla base di un modello, per qualsiasi struttura concessa nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica.

5. Concordiamo sul fatto che il monitoraggio e la sorveglianza dovrebbero essere commisurati alla natura dello shock simmetrico causato da COVID-19 e proporzionati alle caratteristiche e all’utilizzo del sostegno per la crisi pandemica, in linea con il quadro dell’UE [1] e le pertinenti linee guida ESM . Accogliamo con favore l’intenzione della Commissione di applicare un quadro di monitoraggio e monitoraggio semplificato, limitato agli impegni dettagliati nel piano di risposta pandemica, come indicato nella lettera del vice presidente esecutivo Valdis Dombrovskis del 7 maggio e del commissario Paolo Gentiloni indirizzata al presidente dell’Eurogruppo . L’ESM implementerà inoltre il suo sistema di allarme rapido per garantire il rimborso tempestivo del sostegno alla crisi pandemica.

6. Concordiamo con la proposta ESM sui termini e le condizioni finanziarie comuni applicabili a qualsiasi struttura concessa nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica. Ciò include una scadenza media massima di 10 anni per i prestiti e modalità di prezzo favorevoli adattate alla natura eccezionale di questa crisi [2].

7. L’Eurogruppo conferma che il sostegno alla crisi pandemica è unico, dato il diffuso impatto della crisi COVID-19 su tutti i membri del MES. Le richieste di sostegno alla crisi pandemica possono essere presentate fino al 31 dicembre 2022. Su proposta del direttore generale dell’ESM, il consiglio dei governatori dell’ESM può decidere di comune accordo di adeguare tale termine. La proposta dell’amministratore delegato si baserebbe su prove oggettive sull’andamento della crisi. Successivamente, gli Stati membri dell’area dell’euro rimarrebbero impegnati a rafforzare i fondamenti economici e finanziari, coerentemente con i quadri di coordinamento e sorveglianza economica e fiscale dell’UE, compresa l’eventuale flessibilità applicata dalle competenti istituzioni dell’UE.

8. Il periodo di disponibilità iniziale per ciascuna struttura concessa nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica sarà di 12 mesi, che potrebbe essere prorogato due volte per 6 mesi, conformemente al quadro ESM standard per gli strumenti precauzionali.

9. A seguito di una richiesta nell’ambito del sostegno alla crisi pandemica, le istituzioni dovrebbero confermare le valutazioni con il minor preavviso possibile e preparare, insieme alle autorità, il singolo piano di risposta pandemica, basato sul modello concordato.

10. Fatte salve le procedure nazionali relative a ciascuna richiesta, gli organi direttivi del MES approveranno i singoli piani di risposta pandemica, le singole decisioni di concessione dell’assistenza finanziaria e gli accordi relativi alle strutture di assistenza finanziaria, in conformità dell’articolo 13 del trattato MES.

[1] In particolare il considerando 4 del regolamento (UE) n. 472/2013: “l’intensità della sorveglianza economica e di bilancio

FF

Molti si chiedono che avrebbe da guadagnare la Germania a sfasciare l’UE.
Per rispondere a questa domanda si dovrebbe tener presente che gli strateghi tedeschi del capitale ragionano in modo simile ai generali tedeschi della I e della II guerra mondiale, ossia nessuna autentica strategia ma solo efficienza tattico-operativa. Perfino Erich von Manstein, considerato il miglior generale tedesco della II guerra mondiale, nelle sue memorie, “Vittorie Perdute”, e che pure ambiva a dirigere tutte le operazioni sul Fronte orientale, si occupa solo del settore del Fronte di cui era responsabile. Di strategia e dei complessi problemi, non solo militari, di un Paese che combatteva pure nell’Atlantico, nel Mediterraneo e nel Nord Europa contro gli anglo-americani, non vi è traccia nel suo libro.
Certo, sotto il profilo tattico-operativo i tedeschi furono sempre superiori agli Alleati (ma a partire dal 1944 non ai russi, anche se questo aspetto della II guerra mondiale è poco conosciuto) in entrambe le guerre mondiali.
Anche sotto l’aspetto economico ragionano quindi soprattutto in termini di organizzazione, di efficienza e di dominio, anziché in termini di egemonia, di intelligence e perfino di mero interesse (nel senso di business).
Da qui si dovrebbe dunque partire per capire il comportamento della Germania.

GIUSEPPE MASALA

Le linee di credito sanitarie del Mes soprannominate Mes Light stanno diventando un caos completo.

Conte dice che non ne abbiamo bisogno (Renzi sì così come tutto l’apparato piddin-confindustriale) ma che lo approveremo per non far dispetto alla Spagna che lo vuole.
La Spagna oggi risponde che manco per nulla lo vuole.
La Francia oggi fa sapere che manco loro sono interessati.
Ma ieri Gentiloni ha detto che non c’è condizionalità.
Però oggi Donbrovskis dice che c’è condizionalità ma light.
Alla fine parla il Direttore Generale del Mes che dice che c’è una novità: un Meccanismo di Allerta Rapido per la restituzione tempestiva del prestito. Tasso al 0,115%. E se uno non caccia i soldi gli mandano la Banda della Magliana.

Insomma, a me pare che siamo in pieno caos. Al di là delle battute caustiche, secondo voi come potrà agire un qualsiasi governo a Roma se avrà sopra la testa una mannaia che ti impone la restituzione dei trentasei miliardi del Mes a semplice chiamata da Bruxelles e dunque con la necessità di fare a tamburo battente una manovra aggiuntiva che copra la cifra da restituire? E’ chiaro che qualsiasi governo sarà eterodiretto da Bruxelles indipendentemente da quello che sarà il voto degli italiani. E temo che tutta questa tarantella del Mes presunto Light (ma molto hard) abbia proprio quello di ingabbiare qualsiasi maggioranza che possa formarsi a Roma e renderla docile rispetto ai voleri di Bruxelles.

FF

La Germania ha chiaramente rinunciato a sfruttare la pandemia per rifondare l’UE secondo una prospettiva geopolitica ed economica autenticamente europea, preferendo invece, come sempre, una politica fondata sulla sottomissione degli altri Paesi europei anziché sulla cooperazione tra i diversi Paesi europei.
In questo contesto, il futuro del nostro Paese appare disastroso. Si prevede difatti un crollo del PIL di quasi il 10% e un debito pubblico superiore al 150% del PIL, ma nel malaugurato caso di una nuova ondata di Covid-19 la situazione potrebbe essere perfino peggiore.
E’ evidente, pertanto, che se l’Italia dovesse cercare di porre rimedio a questa recessione con gli strumenti attualmente messi a disposizione della UE, ossia eseguendo le direttive di Berlino, le conseguenze per il nostro Paese sarebbero catastrofiche.
Una classe dirigente che accettasse questi diktat non sarebbe dunque diversa da una classe dirigente che dichiara guerra al proprio Paese. Del resto, le guerre oggi non si combattono solo con le armi da fuoco. Si possono impiegare altre armi, ma gli effetti, nella sostanza, sono analoghi a quelli delle guerre in cui si impiegano le armi da fuoco.
Tuttavia, le guerre si sa come iniziano ma non come finiscano.
Di questo dovrebbe comunque essere consapevole perfino una classe dirigente di infimo livello come quella italiana notoriamente incapace di agire strategicamente, giacché da decenni si limita ad eseguire le direttive di centri di potenza stranieri, pur di difendere i propri privilegi.

In realtà la Corte Costituzionale tedesca ha posto dei limiti precisi all’acquisto dei titoli di Stato da parte della BCE lanciando a quest’ultima un ultimatum. Pertanto, perfino Repubblica ammette che “la Bce ha tre mesi di tempo per dimostrare che ‘gli obiettivi di politica monetaria perseguiti dal programma di acquisto di titoli pubblici non sono sproporzionati rispetto agli effetti di politica fiscale ed economica derivanti dal programma’. Al momento, questo il cuore del verdetto, quegli acquisti sono sproporzionati”.
In sostanza, nessuna “monetizzazione” del debito da parte della BCE o se si preferisce nessun “whatever it takes”.
In altri termini, ossia in termini politici, comanda la CC tedesca, cioè la Germania, e la BCE deve eseguire quel che Berlino ordina.

GIUSEPPE MASALA

La Frankfurter Allgemeine Zeitung ci informa che il Servizio Studi del Bundestag ha chiarito che il Governo federale e lo stesso Bundestag (che sarebbe la camera bassa del parlamento tedesco, come la nostra Camera) in ottemperanza a quanto sentenziato dalla Corte di Karlsruhe dovranno adoperarsi per controllare che la Bce si attenga a quanto stabilito. A partire dal rispetto del principio di proporzionalità negli acquisti di assets (Capital Key). Come se non bastasse il controllo – sempre per l’Ufficio Studi del Bundestag – non sarà relativo solo al piano ordinario di acquisti di assets (Pspp) ma anche a quelli straordinari dovuti all’emergenza pandemica (Pepp).

Tutto questo significa che la Politica Monetaria dell’Euro sarà fatta secondo i principi stabiliti dalla Corte di Karlsruhe e verrà controllata dal Senato tedesco. Voi avete votato i vostri rappresentanti al Senato tedesco? No? Allora avete cittadinanza presso una colonia tedesca. Tipo la Namibia e il Camerun dei tempi di Guglielmo II. Era già così da prima ma ora la condizione è cristallizzata giuridicamente.

Rimane da parte mia la stima per la Corte di Karlsruhe che ha indicato chiaramente la via d’uscita. Gli stati sono padroni dei trattati e non i trattati padroni degli stati. Ergo, chi non accetta la condizione di colonia tedesca può tranquillamente stracciare i trattati.

PS Chiaro e palese che in Italia sarebbero pronti ad accettare la condizione di colonia. Altri paesi io non credo. Traete voi la conclusione del tutto.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-faz_bce_sotto_osservazione_rafforzata/11_34811/?fbclid=IwAR3sXHL84pA0s4Dq7JKwlOQlyWrYwdx_LdXcAyHs_ttS_ROAeSiQgbgIE1s

Il vice Presidente della Bce, lo spagnolo Luis de Guindos dice che la Banca Centrale Europea è sotto la giurisdizione della Corte di Giustizia Europea e non della Corte di Karlsruhe e che entro fine anno il programma di acquisto di titoli arriverà a 1000 mld di euro. Bene, vanno allo scontro frontale con Karlsruhe fino al punto di continuare anche se la Bundesbank decidesse di interrompere il programma. Del resto la sentenza di Karlsruhe ha prescrizioni talmente stringenti tali da rendere impossibili i soliti trucchi per aggirare trattati e sentenze varie. Sembra che Parigi sia disposta a prendersi il rischio della rottura dell’Euro nel medio periodo

Scusate se ci ritorno ancora, ma lascia abbastanza stupefatti il coro di critiche degli europeisti alla sentenza della Corte di Karlsruhe. Credo sia emblematica di come in Italia e in Europa sia completamente saltato il sistema di valori e dunque di valutazione dei fatti. Secondo i dettrattori di Karlsruhe saremmo di fronte ad una “sentenza nazionalista”. Niente di più sbagliato. Siamo di fronte ad una sentenza che ristabilisce i più elementari principi di democrazia. E che ridà ai miei occhi la massima stima dovuta al popolo tedesco e alle sue istituzioni. Se la Cancelleria ormai da qualche lustro occupata dalla Merkel ha accarezzato grazie all’Euro e all’Unione Europea di ridare vita sotto mentite spoglie al Septemberprogramm di Theobald von Bethmann-Hollweg se non direttamente al funesto piano di Walther Funk dell’epoca del Terzo Reich con una sentenza coraggiosissima la severa Corte di Karlsruhe tiene il punto. I beni primari del Popolo tedesco sono la Democrazia e la Sovranità. Beni primari da tutelare ad ogni costo. Anche a costo di perdere danaro se questo significa ricadere nell’errore secolare dell’Imperialismo tedesco di sottomettere gli altri popoli europei.

La Corte lo dice chiaramente, l’Eu non è uno stato federale conseguentemente la Corte stessa fa da guardia alla Sovranità dello Stato tedesco democratico e alle regole sancite nella sua Legge Fondamentale, di fatto, ingabbiando i demoni di epoche che speriamo siano per sempre passate alla Storia. Ogni qualvolta che le istituzioni europee non rispetteranno quanto scritto tassativamente nei trattati e porranno in essere politiche Ultra Vires la Corte interverrà con un fuoco di sbarramento. Anche se si tratta della Banca Centrale Europea. Anche se la Corte di Giustizia Europea la pensa diversamente. Karlsruhe richiamerà le istituzioni tedesche al rispetto dell’ordine costituzionale, qualunque sia il costo economico e politico.

E’ vera, nella concretezza delle cose a noi ci dice male quello che ha stabilito la Corte. Ma il rispetto della Costituzione è fondamentale: nessuno ha dato alle istituzioni UE potere di porre in essere politiche fiscali. Le politiche fiscali sono in capo ai singoli stati e la Corte lo ribadisce. Certo, dicevo, ci dice male sotto l’aspetto pratico: significa che l’Italia (ma non solo l’Italia) per sostenere la crisi in corso nell’ambito della Ue dovrà accedere al Mes, firmare un Memorandum, svendere la democrazia, e sottoporsi a sacrifici speventosi. Ma quelle sono le regole dei Trattati liberamente accettati dai contraenti. Non c’è via di scampo. La Corte forse sa che le regole dei trattati in materia di finanza pubblica sono state scritte male, o più probabilmente nascondono un patto faustiano tendente a demolire gli stati e il welfare in una logica neoliberista? Probabilmente sì. Lo sanno. Sanno anche che ciò che è stato fatto alla Grecia è un crimine. E hanno posto un punto. Un punto storico e dirimente. La Corte sottolinea con forza – lanciando di fatto un appello a tutti gli stati e popoli europei – che gli stati sono i padroni dei Trattati (testuali parole) e non i Trattati padroni degli stati e della democrazia e della libertà dei popoli. La Corte tedesca ha detto chiaro e tondo ciò che con forza finalmente qualcuno doveva avere il coraggio di dire: ogni stato è libero di uscire dalla Ue rompendo i trattati e riconquistando la libertà da una organizzazione tecnocratica, fondata sulla menzogna e sull’inganno. Questo è il punto storico. La Corte di Karlsrhue non ha emesso una sentenza nazionalista, ma una sentenza che ristabilisce la democrazia e il diritto di ogni popolo di essere artefice del proprio destino. Bello o brutto che sia, ma il proprio.

FF

Da ascoltare attentamente l’intervista al prof. Pastrello, che spiega bene la sentenza della CC tedesca e le disastrose conseguenze che può avere per l’Italia

GIUSEPPE MASALA

Davvero è stucchevole questa polemica sul Mes. Non se ne può più. Eppure è giusto controbattere con le povere armi che abbiamo al profluvio ignobile di menzogne da parte di chi vuole a tutti i costi rinchiuderci in questa gabbia.
Ricapitoliamo:

➡️La cifra di 37 miliardi è sovradimensionata per le spese sanitarie, ed è buona solo per consentire ad una banda di malfattori di prodursi in una operazione di saccheggio. Allo stesso tempo è una cifra risibile per rimettere in carreggiata un’economia da 1800 mld di euro di pil.

➡️Tema delle condizionalità ovvero di come ti fregano con le parole. I gerarchi del regime dicono che non ci sono condizionalità tranne quella banale di spendere i soldi nel settore sanitario. Vero e falso contemporaneamente. L’Eu intende per “condizionalità” una richiesta di “aggiustamenti preventivi” all’erogazione della cifra richiesta. Bene questi aggiustamenti preventivi non sono richiesti perchè ieri l’Eurogruppo ha sancito che tutti i debiti dei paesi europei sono sostenibili. Dove sta il trucco? Il trucco sta nel fatto che sono previste azioni correttive ovvero aggiustamenti su deviazioni future che per ora non ci sono ma che sicuramente ci saranno. Secondo voi ci saranno scostamenti rispetto a quanto ad oggi previsto in un’economia che crolla del -9,5% del pil (stima Commissione Europea)? Si andrà molto peggio, per esempio Uk prevede un -14% e i dati che escono sono terrificanti e -9,5% per noi sarà un miracolo irrealizzabile.

➡️Cosa succederà quando ci saranno queste deviazioni rispetto alle previsioni ottimistiche (si, per quanto possa sembrare strano un -9,5% è ottimistico)? Si attiverà (come da comunicato di ieri dell’Eurogruppo) un Early Warning System ovvero un meccanismo di controllo stringente delle politiche fiscali del nostro Governo da parte del Mes (che è una società di diritto privato lussemburghese). In pratica le scelte di governo saranno dettate non dalla volontà democraticamente espressa dal popolo ma da questo Moloch lussemburghese.

➡️Non basta, tenete anche conto che dopo la sentenza della Corte di Karlsruhe la possibilità della Bce di chiudere gli spread e calmierare i tassi sui titoli del debito pubblico di paesi come l’Italia, nella migliore delle ipotesi, si riduce notevolmente.Quindi entreremo in crisi finanziaria netta.

➡️Entrare in crisi finanziaria significa che dovremmo fare una scelta: rimanere appesi all’Unione Europea che ci condannano alla fame pur avendo fondamentali sanissimi (Niip, Saldo partite correnti, Bilancia Commerciale) per dover rispettare regole ideologiche ormai fuori tempo massimo e condannate dalla storia e avendo come unica colpa quella di esserci indebitati in Euro, una moneta straniera che ha i principi di politica monetaria dettati dalla Corte Costituzionale tedesca e controllati dal Bundestag tedesco, oppure dire – una volta per tutte – leviamo il disturbo e magari accettiamo la il Memorandum propostoci dagli Usa.

➡️Ecco, questo bocconcino da 37 miliardi che tanto ingolosisce i nostri politici serve a legarci una volta per tutte al Moloch Europoide.

➡️Evito di ironizzare peraltro sul fatto che 14 miliardi di questi 37 li abbiamo dati noi al Mes qualche anno fa. In realtà si stanno comprando (conncedendoci un prestito netto da 23 miliardi da restituire in comode rate decennali) giusto il tempo per farci ingoiare la riduzione a Romania post caduta del comunismo.

➡️Faccio infine notare che da questa crisi sono in arrivo altri 5 milioni di poveri assoluti che si aggiungono ai 5 milioni creatisi dopo la manovra di aggiustamento strutturale del governo Monti. Bene, si tenga conto che a questi 10 milioni di persone nessuno potrà chiedere di farsi espiantare un rene da vendere al mercato degli organi per risanare (sic) i conti dello stato. A questo giro l’onere dell’aggiustamento non ricade sui disgraziati ma sull’eletta schiera delle classi medie generalmente benpensanti e garantite.

Per quel poco che vale questo è quanto.

Ipoteche, di Giuseppe Masala

Diciamocela tutta siamo di fronte ad un bivio in questo disastro epocale. O continuare in Eu sapendo che ogni stato usa i suoi margini fiscali per far ripartire la propria economia o uscire dall’Eu perchè noi, margini fiscali non ne abbiamo e abbiamo urgente necessità di attingere ai margini monetari che la Banca d’Italia può garantirci e diciamocelo pure, anche grazie agli aiuti che Trump (certo, lo ha fatto guardando agli interessi geostrategici americani non certo perchè è un francescano) compresa l’opportunità che ha la Banca d’Italia di accendere uno swap con la Federal Reserve.
Badate, fa davvero rabbia andare nel sito della Bce (pagina “Open Market Operations”) e vedere il continuo profluvio di operazioni in dollari che fanno con la Banca d’Italia che garantisce tutto per salvare le banche tedesche e olandesi in piena dollar trap mentre non può far nulla per dare una mano al suo popolo. Uno schifo immenso. Ma cosa volete, questa è la situazione: la bce garantisce il debito privato sull’unghia ma sul debito pubblico fa troppo poco favorendo dunque le nazioni con forte debito privato.

Qualunque scelta comporta sacrifici ed è piena di rischi. Ma quella di rimanere nell’Eu porta ad un esito fatale per noi. Io mi chiedo che diritto hanno le persone della mia generazione, o della generazione precedente a ipotecare la vita di figli e nipoti sull’altare dell’idea piccolo borghese e provincialotta di “sentirsi europei”? Che diritto si ha di dare un futuro alle prossime generazioni da rumeno o da polacco post caduta del Muro di Berlino? Io credo nessun diritto.

Certo, lo so, è difficilissimo da comprendere, le persone sono state educate a considerare l’Europa come il non plus ultra delle magnifiche sorti e progressive. Decine di esperti e di tecnici appaiono in tv a farci la paternale sulla giustezza del destino europeo. Ma lo fanno per voi? Lo fanno in piena coscienza? Oppure parlano pensando alla loro reputazione, alle loro entrate ed al loro personale futuro? Cioè, secondo voi, Prodi può apparire in tv a chiedere scusa e dire che non sa nulla di economia e che ci ha buttato nel baratro? Chiaro che non può dirlo, ne vale anche della sua sicurezza fisica. E così vale per i tanti gerarchi che in trenta anni non hanno fatto altro che chiederci sacrifici per le nuove generazioni che avrebbero beneficiato del paradiso europeo. Se va bene ora sarà un paradiso da camierere magari con una laurea in ingegneria presa in un’inutile università italiana ormai di terza fascia. A voi in questi 20 anni ve n’è fottuto qualcosa della laurea in ingegneria del rumeno che vedevate impegnato nella raccolta di pomodori? Sarà uguale per la nuova generazione di italiani. E forse questa è la Nemesi.

Chi vuole continuare in questa follia sappia che sta ipotecando la vita di figli e nipoti.

 

I dati ferali del mercato automotive in Italia (ma nel resto del mondo non cambia poi molto), dovrebbe indurre a profonde riflessioni i decisori politici. La cosiddetta ripartenza non è una vera ripartenza se si inizia dalle aziende che hanno un enorme peso politico come appunto quella dei produttori di automobili. In questo momento non c’è domanda e riaprire questo settore significa farli lavorare un mese e poi assistere alla richiesta di cassa integrazione straordinaria da parte delle aziende. Bisogna ripartire da quelle aziende che si ha certezza abbiano una domanda sicura. Può sembrare una scemenza, ma barbieri e parrucchieri hanno una domanda certa inevasa che viene soddisfatta costringendoli a farli lavorare in nero a domicilio (non li biasimo, fanno bene, in tempo di guerra ognuno s’arrangia). Si potrebbe farli aprire su prenotazione, almeno riprendono a fatturare e possono garantire Iva all’Erario e stipendi ai propri dipendenti, butta via di questi temi maledetti! Idem il calcio. Si lo so, voi dite che sono un appassionato e lo dico per quello. Ma non è così, il settore è la decima industria del paese, i diritti tv sono già pagati ed è giusto che i contratti siano rispettati, a porte chiuse certamente, facendo i tamponi ai calciatori certamente. Ma devono ripartire per non perdere fatturato. Uguale i negozi d’abbigliamento, devono ripartire, magari anche qui su prenotazione, magari consentendo di fare saldi per svuotare i magazzini non perdendo così la stagione (si tenga conto che se perdono la stagione poi l’anno prossimo le nuove collezioni le comprano in quantità minore rallentando la ripartenza del settore tessile).
Per paradosso è il minuto che può consentire un minimo di ripartenza. E’ inutile far lavorare gli operai dell’alluminio e dell’acciaio se poi l’automotive non chiede alluminio e acciaio per le sue carrozzerie e i suoi motori perchè nessuno compra auto. Ripartire dal tetto dei grandi produttori, lasciando chiusa la base del commercio minuto e dei servizi necessari ci porterà solo ad un doom loop per assenza di domanda.

E’ altrettanto evidente che per riattivare il commercio minuto, le spese di tutti i giorni, è poi necessario mettere in tasca soldi alle persone. Anche con politiche monetarie non convenzionali come sta facendo la Banca del Giappone che sta accreditando soldi freschi sui c/c dei giapponesi. A crisi non convenzionale devono esserci risposte non convenzionali. Qui si sta sbagliando tutto. Mi pare che questa commissione di economari diretta dal Manager Colao sia troppo incentrata sul Big Business ma non riesce a comprendere che le case non si riedificano dal tetto. Bisogna partire dalle fondamenta.

tratti da facebook: https://www.facebook.com/bud.fox.58?epa=SEARCH_BOX

il monolite, di Giuseppe Masala

La logica è un monolite ineludibile. E nella questione dei piani di salvataggio dei paesi mediterranei dell’euro questo fatto emerge in tutta la sua stringente drammaticità.
La Spagna ha margini per agire dal punto di vista del debito pubblico ma ha il sistema bancario che è un colabrodo sovraesposto nei confronti dei paesi emergenti e potrebbe essere necessaria (io direi che sarà necessario senza dubbio) un salvataggio del sistema bancario da parte dello stato che a quel punto avrebbe bisogno di ricorrere al Mes (tutto questo si è già verificato nel 2011), la Grecia ad andar bene farà un -10% di Pil ed è già debitrice del Mes ma con il calo di gettito per pagare le rate del Mes dovrebbe procedere ad ulterirori tagli dal bilancio dello stato acuendo la crisi oppure richiedendo un nuovo finanziamento dal Mes per pagare le rate del prestito del Mes già ottenuto. L’Italia se farà un -10% (ma potrebbe andare peggio) sarà al bivio: o non fa piani di salvataggio ed accettare la distruzione di parte del suo tessuto produttivo e finanziario oppure dovrà ricorrerrere al Mes. Potrei continuare parlando di Portogallo e Irlanda ma tralascio per brevità.
C’è anche il problema che il Mes ha capitale versato che è una parte del capitale sottoscritto. Il primo che farà richiesta prenderà i soldi, ma quando il secondo, il terzo e forse il quarto chiederà i soldi e questi non ci sono e sarà necessario chiamare le cifre sottoscritte ma non versate dai paesi aderenti che succede? Il primo che ha preso i soldi dovrà rifinanziare il Mes? Per esempio se l’italia prende 100 per prima poi dovrà riversare 40 quando la Spagna chiederà i soldi e a loro volta Spagna e Italia dovranno riversare altri 10 a testa quando sarà la Grecia a chiedere i soldi al Mes (peraltro per poter ripagare le rate del Mes acceso nel 2011)?
Non basta. Poi c’è il Recovery Fund che deve essere finanziato se nascerà: dunque i paesi che richiedono il Mes dovranno versare parte di quanto preso per finanziare il Recovery Fund per poter prendere a prestito soldi dal Recovery Fund che poi verranno – ironizzo – ripagare magari facendo un altro prestito al Mes che però non ha i soldi che dovranno essere versati dagli stati tramite un aumento di capitale che gli stati in crisi non possono sostenere e dovranno magari utilizzare i fondi del Recovery Fund oppure tramite l’accensione di un prestito al Fondo Monetario Internazionale che però a quel punto farebbe intervenire la sezione psichiatrica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per andare a Bruxelles – possibilmente al suono della Fiera dell’Est di Branduardi -, prenderli e rinchiuderli tutti in un manicomio. Amen.

La logica è ineludibile e qui stiamo parlando di un delirio di gente totalmente pazza oppure di cinici che hanno preso tempo con un piano senza capo ne coda in attesa degli eventi.

 

S&P conferma il rating dell’Italia a BBB. Gli americani continuano a tenderci la mano e peraltro si confermano onesti. Di che aggiustamento strutturale può mai aver bisogno un paese che è in avanzo di Bilancia Commerciale e di Saldo Partite Correnti per decine di miliardi e con un Niip in pareggio. Colpevole solo di essere prigioniero di trattati deliranti – senza capo ne coda – che pongono la misura debito pubblico in rapporto al pil come parametro per valutarne la stabilità finanziaria non considerando che se abbiamo un Niip in pareggio significa che la Repubblica Italiana ha un debito nei confronti dei suoi cittadini che però sono la Repubblica Italiana stessa. Senza contare il fatto che se valutassero il debito pubblico dovrebbero degradare a spazzatura il debito degli Usa, del Giappone e dell’Uk per dare l’ambitissima AAA al Congo che ha un invidiabile (sic) rapporto debito/pil del 30%.

Tutto il mondo sta dicendo che i nordeuropei sono o completamente pazzi o dei criminali.

Essere, avere e potere nella crisi, di Dominique Strauss-Kahn, a cura di Roberto Buffagni

Qui sotto la traduzione di un importante saggio di Dominique Strauss-Kahn, già direttore del FMI ed influente opinionista, liquidato da quell’incarico per uno scandalo sessuale appositamente costruito. La sua prospettiva è distante dal punto di vista del blog; cionondimeno l’analisi e gli spunti che offre sono molto interessanti per individuare i mutamenti di paradigma in corso nei centri decisionali_Giuseppe Germinario

https://www.leclubdesjuristes.com/blog-du-coronavirus/libres-propos/letre-lavoir-et-le-pouvoir-dans-la-crise/?fbclid=IwAR2Hz9MV49hy-11KvemmoULZR-2jCeMhKCZw_tzv1-jX7j8djpZuPtDR2aI

Essere, avere e potere nella crisi, di Dominique Strauss-Kahn

di Dominique Strauss-Kahn, ex ministro dell’Economia e delle finanze, ex amministratore delegato del Fondo monetario internazionale

 

Questo importante articolo è stato scritto da Dominique Strauss-Kahn, ex capo del FMI, per l’influente rivista Politique Internationale, che lo pubblicherà nel prossimo numero (numero di primavera). Un ringraziamento speciale a Patrick Wajsman per aver autorizzato la sua distribuzione e Dominique Strauss-Kahn che lo accetta a beneficio dei lettori del blog del Club des juristes.

 

La crisi sanitaria che stiamo vivendo è diversa da qualsiasi altra conosciuta dalle generazioni precedenti. Le rievocazioni della grande peste nera del 1348 o dell’influenza spagnola del 1918-1919 sono interessanti in quanto ci consentono di ripensare le conseguenze delle pandemie. Ma non dicono nulla sulla resilienza di una società la cui economia è integrata a livello globale e che ha perso quasi tutta la memoria del rischio di infezione.

 

Anzitutto, se la crisi attuale è diversa, è per la velocità di diffusione di questa malattia. Tre mesi dopo l’inizio della crisi sanitaria, quasi la metà della popolazione mondiale è chiamata in isolamento. Anche se la contagiosità del virus ha probabilmente avuto un ruolo in questo passaggio, dallo stadio epidemico a quello della pandemia, la globalizzazione, contrassegnata dall’accelerazione della circolazione delle persone, è al centro del processo di propagazione (1). Anche i tempi di reazione dei paesi sviluppati, i cui sistemi sanitari sono stati rapidamente sommersi, devono senza dubbio essere incolpati. Attesta la mancanza di lungimiranza e una – infondata – fiducia nella capacità dei sistemi sanitari di proteggere in maniera massiccia la loro popolazione, ottenendo al contempo dispositivi di protezione e test di monitoraggio da  fornitori esteri, principalmente cinesi. Non c’è dubbio che questo non fosse inevitabile. Taiwan, con la sua esperienza in precedenti epidemie, aveva molti dispositivi di protezione (2), le sue capacità di produzione e un dipartimento dedicato alla gestione delle malattie infettive in grado, in particolare, di gestione rapida, e applicazioni di condivisione dei dati sui pazienti infetti. È senza dubbio normale che un sistema sanitario non sia realizzato per far fronte a un’esigenza brutale e temporanea. Ma, in questo caso, è importante che sia reattivo, cioè capace di reindirizzare la sua offerta e mobilitare riserve predefinite e identificate. Questa agilità sembra mancare.

 

L’altra differenza strutturale tra questa crisi sanitaria e le crisi precedenti è la sua entità. Molte persone hanno prima cercato di mettere in prospettiva la gravità della situazione ricordando il numero di decessi dovuti all’influenza stagionale, alle epidemie di HIV ed Ebola e persino alle conseguenze sulla salute di pratiche di dipendenza come l’alcool o tabacco. Oltre a non conoscere le conseguenze letali di Covid-19 fino a quando non avremo interrotto la sua trasmissione, avanzare questo tipo di argomento equivale a ignorare la natura globale e assoluta di questa pandemia. Globale in quanto nessuna area geografica è più risparmiata e perché la pandemia attraversa una demografia mondiale che non ha paragoni con quella del 1919: il semplice numero di individui chiamati a rimanere a casa è oggi il doppio del la popolazione mondiale totale durante l’episodio di influenza spagnola. Assoluto, perché è ovvio che nessuno può considerarsi al sicuro dal rischio di contaminazione.

 

Ed è quest’ultima specificità della crisi sanitaria che la distingue da tutti gli episodi precedenti: il suo carattere altamente simbolico colpisce e sconvolge una popolazione mondiale che aveva quasi dimenticato il rischio di infezione. In questo, mina l’accogliente comfort in cui i paesi economicamente sviluppati si sono gradualmente accomodati. La morte non solo era diventata distante a causa della maggiore aspettativa di vita, ma era anche diventata intollerabile, come dimostrato dalla riluttanza a ingaggiare truppe di terra nei conflitti più recenti. Il “valore” della vita umana è aumentato considerevolmente, nell’inconscio collettivo dei paesi più ricchi. Oggi stiamo realizzando la precarietà dell’essere. Questa crisi dell’essere avrà certamente conseguenze considerevoli che potrebbe essere troppo presto per affrontare qui, ma è anche indicativa di una crisi di avere e una crisi di potere la cui analisi è necessaria per guidare le decisioni da prendere.

 

Una crisi di avere

Abbiamo conosciuto crisi economiche. Ma questa è diverso. Questa recessione è solo in parte molto simile a quella che abbiamo vissuto, perché che mescola uno shock all’offerta e un altro alla domanda.

 

Uno shock sull’offerta e uno shock sulla domanda.

 

Difficilmente possiamo evitare le conseguenze in termini di impieghi dello shock sull’offerta. Ciò deriva dalle istruzioni di confinamento che, per impostazione predefinita, si sono rivelate essenziali dal punto di vista sanitario. Con una parte della forza lavoro confinata per un periodo indefinito, è inevitabile che la produzione diminuisca. Le aziende ridimensioneranno, altre chiuderanno. Questi lavori vanno persi, probabilmente per molto tempo. Questo è ciò che accade in caso di catastrofe naturale, ma di solito colpisce solo una parte dell’economia.

 

Alcune di queste compagnie potrebbero essere salvate dallo stato. E il ricorso a “nazionalizzazioni temporanee”, che io non immaginavo se non in rari casi in cui fosse in gioco l’indipendenza nazionale (3), può salvarne alcune, ma non tutte.

 

Lo shock alla domanda ha ovviamente diverse cause cumulative. Il reddito di una parte della popolazione che sta svanendo, il consumo ritenuto non essenziale che viene rinviato, ciò che è reso impossibile dal confinamento e, poiché “le mie spese sono le tue entrate”, la domanda si indebolisce ulteriormente. Questo è il noto ciclo della recessione.

 

A questo si aggiunge la fusione degli attivi finanziari. In una recessione classica, la gestione più saggia delle attività finanziarie è attendere il ritorno alla normalità, se non è necessario vendere per un motivo o per l’altro. Qui, il ritorno alla normalità non sarà come prima. Alcuni attivi finanziari scenderanno a zero perché le società che rappresentano chiuderanno in proporzioni maggiori rispetto alle crisi precedenti. Questa fusione degli attivi  finanziari rinvia a comportamenti precauzionali che deprimono ulteriormente la domanda complessiva. Questo “rischio di rovina” di alcuni risparmiatori era in gran parte scomparso dalla Grande Depressione, e qui è tornato.

 

È questa simultaneità di shock di domanda e offerta che rende la situazione attuale così eccezionale e così pericolosa.

 

A breve termine, le perdite sono inevitabili.

Negli Stati Uniti, ci sono volute solo due settimane per disoccupare quasi 10 milioni di americani. In Europa, 900.000 spagnoli hanno già perso il lavoro. In Francia, l’INSEE stima che un mese di reclusione dovrebbe costarci 3 punti del PIL. Nessuno è stato risparmiato. E a sentire il FMI: “Non abbiamo mai visto l’economia mondiale fermarsi. È molto peggio della crisi del 2008 “. Queste cifre terribili portano alcuni ad adottare una griglia di letture marziali della nostra crisi. I governi, le Nazioni Unite, il FMI, parlano tutti di una “guerra” contro Covid-19. Tuttavia, un conflitto armato non sembra necessariamente riflettere la natura della paralisi economica che ci colpisce. Più che una distruzione di capitale, è un’evaporazione della conoscenza, specialmente quella nascosta nelle aziende che andrà necessariamente in bancarotta, il che deve essere temuto. Più che un reindirizzamento della produzione verso un’economia di guerra, stiamo assistendo a un coma organizzato e una disintegrazione sostenuta ma probabilmente duratura delle catene di approvvigionamento.

 

Per i paesi più fragili, la pandemia promette di essere catastrofica. Un certo numero di esportatori di materie prime, in primo piano i produttori di petrolio, stanno entrando in crisi con un livello insufficiente di riserve valutarie. Il prezzo di un barile è sceso sotto i $ 20 e il prezzo del rame, del cacao e dell’olio di palma è precipitato dall’inizio dell’anno. Per i paesi che beneficiano in gran parte delle rimesse dall’estero (4), il 2020 potrebbe registrare un netto calo dei consumi e degli investimenti. Per quanto riguarda le destinazioni turistiche, queste dovranno sopravvivere a una cessazione quasi totale dell’attività economica nella prima parte dell’anno (5).

 

Questa battuta d’arresto economica rischia di riportare milioni di persone della “classe media emergente” in condizioni di estrema povertà. Tuttavia, più povertà implica anche più morti. I paesi africani sono più giovani, ma anche più fragili, con i più alti tassi di malnutrizione, infezione da HIV o tubercolosi nel mondo, il che potrebbe rendere il coronavirus ancora più letale. Inoltre, dove i paesi sviluppati possono adottare drastiche misure di confinamento, ciò è spesso impossibile nei bassifondi urbani sovraffollati, dove è difficile accedere all’acqua corrente e dove smettere di lavorare o andare al mercato per comprare cibo non è un’opzione. L’esperienza di Ebola ha dimostrato che la chiusura delle scuole – adottata da 180 paesi in tutto il mondo – spesso si traduce in abbandono permanente, gravidanza non intenzionale e istruzione sacrificata per una generazione di studenti

 

Potremmo evitare queste drammatiche conseguenze? Senza dubbio non del tutto, ma sicuramente in parte sì, se siamo in grado di evitare gli effetti cumulativi della recessione combattendo il collasso della curva della domanda aggregata.

 

I limiti dell’azione monetaria

La risposta è iniziata e le banche centrali stanno facendo la loro parte per inondare il mercato di liquidità. A differenza della crisi del 2008, questi ultimi sono stati particolarmente rapidi e coordinati. A partire dal 3 marzo, la Fed ha abbassato i tassi di 50 punti base, seguita dalla Banca d’Inghilterra l’11 e il 19 marzo. Il 15 marzo, i tassi della Fed scendono a zero. Allo stesso tempo, vengono implementati interventi non convenzionali utilizzando gli strumenti sviluppati dal 2008. Il 18 marzo la BCE ha annunciato un programma per l’acquisizione di titoli per una dotazione totale di 750 miliardi di euro. Il coordinamento delle banche centrali, sotto la guida della FED, contrasta con la risposta sconclusionata della Casa Bianca. Il 15 marzo, la Fed ha esteso i suoi swap a nove nuovi paesi che devono fronteggiare una evaporazione del dollaro prima di aprire un meccanismo di pronti contro termine per le banche centrali che desiderano scambiare i loro buoni del tesoro statunitensi con dollari (6).

 

Ma ciò influenzerà solo indirettamente le economie emergenti che non hanno una banca centrale in grado di svolgere questo ruolo. D’altro canto, è possibile utilizzare un meccanismo che ha già dimostrato la sua efficacia nella crisi finanziaria globale: i diritti speciali di prelievo dell’FMI (7). Niente impedisce di riattivarli; niente, tranne l’allergia americana a qualcosa che assomiglia all’azione multilaterale, un’allergia che la tiepidezza degli europei non aiuta a controbilanciare (8). La riduzione del debito per i paesi a basso reddito e la massiccia emissione di DSP sono ora un passo necessario per contribuire a evitare una catastrofe economica, le cui conseguenze si estenderanno oltre le sponde del Mediterraneo.

 

Prima dell’attuale crisi, l’Europa stava già lottando per far fronte all’afflusso di alcune centinaia di migliaia di migranti che si sono abbattuti sulle sue porte. Cosa succederà quando, spinti dal crollo delle loro economie nazionali, ci saranno milioni di persone che tenteranno di farsi strada? Sebbene ciò possa sembrare molto lontano dall’attuale emergenza, anche se l’opinione pubblica ha altre preoccupazioni da affermare, è dovere di chi è al potere anticipare le crisi dopo la crisi. Per gli europei, unire le forze per estendere l’efficacia delle misure monetarie che adottano per i paesi emergenti, a cominciare dall’Africa, è una necessità assoluta.

 

Tuttavia, l’azione monetaria ha i suoi limiti e, come nel caso di qualsiasi calamità naturale, è necessario mobilitare il sostegno di bilancio. In parte lo sono stati, e meccanismi di supporto come l’estensione della disoccupazione parziale in Francia sono un passo nella giusta direzione. Ma sono insufficienti di fronte all’entità dello shock. Non si può sostenere l’offerta finanziando solo l’offerta ed è probabilmente la più grande debolezza del piano di sostegno originale di Trump (9). Inoltre, mentre nel 2009 la Cina aveva lanciato un titanico piano di ripresa per sostenere la sua economia e guidare la crescita globale, il paese sembra per il momento più circospetto. È vero che il margine di manovra cinese oggi è più debole: la crescita si è indebolita e il debito totale del paese, pubblico e privato, supera il 300% del PIL, contro il 170% prima della crisi “subprime”. Tanto che le misure annunciate da Pechino non superano attualmente l’1,2% del PIL.

 

Naturalmente, parte di questo supporto provocherà un rialzo dei prezzi. Quando l’offerta è limitata dal contenimento, la capacità di produzione è necessariamente limitata. Ma questa pressione al rialzo sui prezzi, oltre a non essere sgradita altrove, costituirà un supporto per il sistema produttivo tanto efficace quanto le misure finanziarie che gli verranno offerte.

 

Questo è mostrato nel grafico I. In questa presentazione classica delle curve della domanda e dell’offerta aggregata con uno shock sulla domanda probabilmente più forte di quello sull’offerta, vediamo come parte delle perdite di produzione è impossibile da evitare a breve termine, ma anche come il danno può essere limitato da un’adeguata azione politica sulla domanda. Inoltre, il rischio di non fare nulla può peggiorare notevolmente la situazione. Il calo della domanda, non compensato da misure di sostegno, creerà un secondo shock dell’offerta e così via. La spirale deflazionistica è quindi in corso con le sue conseguenze funeste.

 

Inevitabilmente, queste misure di sostegno alla domanda non saranno pienamente efficaci fino a quando il contenimento non sarà gradualmente rimosso, consentendo di riavviare la produzione. Ma devono essere immediatamente al lavoro, da un lato per essere in atto quando arriva il momento, dall’altro per combattere l’ansia dei consumatori, che può soltanto spingerli a tesaurizzare quel che possiedono, l’esatto contrario di ciò che è desiderabile.

 

 

A medio e lungo termine, sparigliamento delle carte

a /La globalizzazione degli scambi è stata ovviamente accompagnata da una nuova divisione internazionale di produzione. Il costo del lavoro relativamente basso nelle economie emergenti combinato con lo sviluppo dei media è stato la fonte di una crescita senza precedenti nel commercio internazionale. Questo vale per quasi tutti i settori, a partire dall’industria automobilistica ed elettronica.

 

Oggi è in gioco questa divisione internazionale del lavoro. Le critiche non sono nuove e la crisi sanitaria agisce principalmente come rivelatore. C’erano molti detrattori.

 

Per alcuni, considerati idealisti, era messa in questione l’assurdità ecologica di transitare merci venti volte da un’estremità all’altra del pianeta, in particolare per le catene del valore degli alimenti. Per gli altri, considerati dottrinari, si trattava della denuncia di un sistema che consentiva agli abitanti dei paesi ricchi di continuare a trarre profitto della rendita coloniale. La globalizzazione è la “fase suprema del capitalismo”, in un certo senso. Altri, considerati pessimisti, erano interessati alla sicurezza dell’approvvigionamento. Stiamo ovviamente pensando alla sicurezza sanitaria; Il 90% della penicillina consumata nel mondo è prodotta in Cina. Ciò vale anche per le terre rare, per le quali la Cina ha di fatto il monopolio della produzione, sebbene si tratti di componenti essenziali per l’intero settore dell’elettronica e delle comunicazioni.

 

Tutti avevano in parte ragione ed è molto probabile che la crisi porterà a forme di trasferimento della produzione, regionali se non nazionali.

 

La globalizzazione in questione non è l’apertura al mondo né la coscienza di un’umanità planetaria, questa progredisce lentamente per molto tempo, è ciò che Hubert Védrine chiama la globalizzazione americana di questi ultimi decenni: “Quello iniziato nel dopoguerra, che ha accelerato con il riorientamento della Cina verso il mercato da parte di Deng nel 1979, poi con la coppia Thatcher-Reagan nei primi anni ’80 e la deregolamentazione finanziaria sotto l’influenza della Scuola di Chicago, e che alla fine si diffuse negli anni successivi alla scomparsa dell’URSS alla fine del 1991, una scomparsa che gli occidentali interpretarono – a torto! – come la fine della storia. (10) ”

 

Questa globalizzazione non ha solo fatto perdenti. I dipendenti dei paesi emergenti che lavorano nei settori di esportazione (e di rimbalzo gli altri) hanno ovviamente beneficiato di un aumento del loro tenore di vita legato a salari più elevati. Per quanto riguarda i consumatori dei paesi sviluppati, non hanno esitato a lungo prima di a rivolgersi a questi prodotti importati, per la rendita che contenevano.  E questo consumatore non rinuncerà facilmente a una parte significativa del suo potere d’acquisto.

 

Il trasferimento di parte della produzione avrà un costo, ma la crisi che stiamo vivendo potrebbe essere sufficiente per renderla pedagogica.

 

b / Al di là delle forme che la globalizzazione prenderà, la crisi potrebbe consentire alle economie sviluppate di sbloccare lo stallo in cui si è persa la crescita economica.

 

Il dibattito è noto ed è stato ripreso da Larry Summers nel 2014 (11). Usando il termine introdotto da Hansen nel 1939, descrive un ritorno alla stagnazione secolare che aveva alimentato così tanto il dibattito dopo la crisi del 1929: è un equilibrio di sottoccupazione da cui le economie non sono in grado di emergere, a causa di un basso tasso di interesse associato a un’inflazione pressoché inesistente nei mercati dei beni e dei servizi quando il prezzo degli attivi finanziari è, al contrario, significativamente aumentato. Il progresso tecnico rilascia pochi nuovi prodotti, le innovazioni portano principalmente al risparmio di capitale, gli investimenti rallentano ed è impossibile ripristinarli perché i tassi di interesse sono già a zero. I risparmi sono quindi sovrabbondanti. Rallenta la crescita economica a causa della mancanza di significativi investimenti pubblici, limitati dal debito già considerato eccessivo in termini di rapporti debito / PIL considerati insostenibili. Negli ultimi decenni, l’ingegneria finanziaria ha risolto l’equazione causando ricorrenti crisi finanziarie che mascherano la realtà dell’economia reale.

 

Di fronte a questa situazione di stagnazione più o meno sperimentata da tutte le economie sviluppate, la crisi economica, distruggendo capitale, può fornire una via d’uscita. Le opportunità di investimento create dal crollo di parte dell’apparato produttivo, come l’effetto del prezzo delle misure di sostegno, possono rilanciare il processo di distruzione creativa descritto da Schumpeter. Il suo imprenditore vincerebbe così sul campo la battaglia teorica che aveva intrapreso molto tempo fa, sia contro stagnazionisti ottimisti come Keynes, sia contro i pessimisti come Marx.

 

Questo rinnovo dell’offerta è reso possibile da uno shock tanto violento da giustificare le misure adottate dai governi a favore del settore produttivo. Esse saranno risibili senza misure a breve termine di sostegno alla domanda, ma essenziali per la ricostruzione dell’apparato produttivo.

 

c / Un altro elemento deve essere preso in considerazione: quello delle disuguaglianze.

 

A livello nazionale, alcune professioni possono lavorare – almeno in parte – a casa, per altre è molto più difficile se non impossibile. Ma questo non influisce su diverse parti della popolazione allo stesso modo. Il grafico II (12), che riguarda gli Stati Uniti, illustra questa situazione che giustifica un maggiore sostegno a favore dei dipendenti meno qualificati.

 

 

 

A livello internazionale, negli ultimi anni è stata posta molta enfasi sul fatto che, mentre la crisi dei subprime aveva comportato un notevole aumento delle disparità tra individui, d’altra parte le disuguaglianze tra i paesi stavano diminuendo costantemente. L’attuale crisi rischia di mettere completamente in discussione questa osservazione. A breve termine, a causa delle possibili, e purtroppo probabili, conseguenze della crisi sulle economie di molti paesi a basso reddito. A medio termine, perché il trasferimento di determinate attività, che è molto probabile che accada, sarà a loro spese. Questo è ciò che rende ancora più essenziale il supporto a queste economie che già menzionato.

 

d / Il futuro economico, difficile in ogni caso, è in gran parte nelle nostre mani.

 

I governi hanno già iniziato ad agire come mostrato nella Figura II (13). Ma questo grafico mostra diversi punti deboli.

 

 

Innanzitutto, l’entità molto diversa degli stimoli già decisi (in rosso). Quindi, la parte preponderante presa dalle garanzie sui prestiti, che è certamente utile, ma si riferisce solo in modo molto indiretto al sostegno della la domanda dei più poveri. Infine, la mancanza di coordinamento nella risposta, mentre ciò che aveva reso un successo il rilancio 2009 è l’ampio coordinamento tra i principali attori (14).

 

L’Unione Europea ha la possibilità, e per me il dovere, di fornire elementi di risposta, ma la molle risposta del Consiglio europeo del 26 marzo e la pantomima dell’Eurogruppo non portano all’ottimismo. Il punto principale è quello della messa in comune del bilancio tra gli Stati membri al fine di poter realizzare azioni significative (15).

 

Tre strumenti sono in discussione all’interno dell’Eurogruppo:

 

sostegno di circa 100 miliardi di euro per meccanismi di sostegno parziale della disoccupazione a breve termine;

un mandato più forte conferito alla BEI che può prestare o garantire prestiti;

un adattamento all’attuale situazione del meccanismo europeo di stabilità (16).

Tuttavia, ognuna di queste opzioni manca dell’argomento centrale che è una risposta di bilancio aggregata per non compromettere la sostenibilità del debito dei paesi più fragili. Ovviamente, tutto ciò ci riporta al dibattito sulla creazione di coronabond e, più in generale, sulla capacità di indebitamento dell’Unione, la cui assenza si fa crudelmente avvertire oggi. È anche una questione politica: la BCE non sarà in grado di mutualizzare i debiti per lungo tempo attraverso operazioni di mercato senza che si manifesti un esplicito sostegno politico.

 

Sono possibili due modi. La prima sarebbe una richiesta esplicita degli Stati di monetizzare l’eccedenza di debiti; ma è rimettere in causa l’indipendenza della banca centrale. Il secondo è andare avanti con coloro che vogliono emettere congiuntamente nuovi debiti al fine di finanziare sia i costi della risposta sanitaria immediata, della solidarietà internazionale che sarà necessaria, in particolare verso l’Africa, sia infine un piano di risanamento massiccio una volta superata l’emergenza sanitaria. La scelta è quindi semplice, l’uno o l’altro di questi due tabù deve essere spezzato: l’indipendenza della banca centrale o l’unanimità degli Stati membri.

 

Perché ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è:

 

  • richiedere piani di sostegno nell’ordine di grandezza della produzione persa (diversi punti del PIL solo per il 2020). Questi devono basarsi, sia per le famiglie che per le imprese, su un reale sostegno alla loro liquidità attraverso misure fiscali e di bilancio;
  • coordinamento di tali politiche con le azioni svolte dalle banche centrali in materia monetaria;
  • uno strumento per mobilitare risorse di bilancio e debito congiunto in Europa. Senza mutualizzazione, la risposta di bilancio sarà insufficiente;
  • un’azione concertata a livello internazionale, compresa l’estensione di questa liquidità oltre i paesi sviluppati.

Una crisi di potere

È forse la più inquietante. Crisi della sovranità, che pertiene all’autonomia degli Stati in un mondo in cui le istituzioni multilaterali stentano a organizzare il processo decisionale necessario su scala globale. Crisi rappresentativa, colpisce anche per l’esercizio del potere, la garanzia delle libertà pubbliche e la legittimità delle autorità, in particolare nelle democrazie. Ma non sono la crisi sanitaria e l’epidemia di Covid-19 a creare queste crisi. Rivelano solo punti deboli che già esistono ampiamente.

 

La crisi getta una luce dura sulla relatività della nostra sovranità.

 

Sottolinea una dipendenza tecnologica che, per ignoranza o orgoglio nazionale, tendiamo a sottovalutare.

 

Questo ovviamente vale in campo sanitario. Scopriamo, sbalorditi, che gran parte della nostra offerta di medicinali dipende dalla Cina. Lasciando che questo paese diventi la “fabbrica del mondo” non ci siamo arresi in aree essenziali per garantire la nostra sicurezza?

 

Ci sono segnali allarmanti anche all’interno di un insieme molto integrato come l’Unione Europea. La carenza di curaro necessaria per l’intubazione di persone in gravi condizioni sembra in parte dovuta all’origine italiana e spagnola degli ingredienti. È chiaro che nell’Unione, in futuro questa situazione potrebbe trovare soluzioni. Ciò è meno semplice quando si tratta di materiali, tra cui tecnologie avanzate in cui è evidente la dipendenza dagli Stati Uniti.

 

Ma questa dipendenza sanitaria rinvia a una più grave dipendenza tecnologica. L’opinione pubblica è consapevole, ma forse noncurante, della scarsa sicurezza delle comunicazioni e in particolare degli smartphone. Che cosa sa dei contratti tra i nostri servizi di intelligence e Palantir, la società fondata da Peter Thiel? L’intelligenza artificiale fa paura, a ragione o in torto, ma senza dubbio i cittadini preferirebbero che le garanzie fornite dai funzionari che avevano eletto non fossero così dipendenti dal potere straniero e, quanto meno, è probabile che vorrebbero essere informati. Che dire dell’uso di Windows al Ministero della Difesa? Non potendo ritrovare una sovranità digitale ormai perduta, potremmo almeno indirizzare i nostri investimenti verso il software libero, che offre una garanzia di indipendenza. L’Europa, e anche la sola Francia, se non seguita, potrebbe rapidamente contribuire in modo significativo a questo bene comune digitale. Questo punto va ben oltre i soli problemi di sicurezza. Daniel Cohen (17) sottolinea giustamente un’evoluzione verso il capitalismo digitale che questa crisi può accelerare. L’indipendenza nazionale o europea non può essere misurata solo dall’esistenza di una capacità nucleare.

 

La crisi sanitaria alimenta i vecchi impulsi nazionalisti. Per evitarlo, non possiamo accontentarci delle tradizionali esplosioni liriche sugli orrori del fascismo, da un canto, e sull’universalità della condizione umana dall’altro. Se noi, sulla scala delle nostre nazioni, siamo troppo deboli per competere, allora l’Unione europea riacquista il suo pieno significato. Lungi dal riconoscere la sua morte, come alcune persone si sforzano di proclamare, il nuovo interesse mostrato dai popoli europei per il concetto di sovranità può dare all’Europa una seconda possibilità.

 

La frammentazione della globalizzazione che la crisi è suscettibile di causare costituisce un’opportunità inaspettata per riprendere in mano le redini. Ci vuole una volontà popolare, ed essa era diventato così debole che nulla sembrava possibile in questa Unione appesantita dall’allargamento, ostacolata dalla burocrazia e delegittimata dal suo presunto carattere non democratico. Il graduale ritorno dell’egoismo nazionale stava lentamente uccidendo i sogni dei fondatori. I sovranisti di ogni genere ci sono andati a nozze, omettendo di  dire alla gente che non c’è ritorno alla sovranità se non condividendola con altri europei, come ha dimostrato la creazione dell’euro. Ma l’impossibile contabilità dei benefici della costruzione europea non è riuscita a convincere  cittadini sempre più dubbiosi di averne ottenuti.  Così che in questa crisi, l’inefficacia dell’azione europea ha dato argomenti a tutti i suoi detrattori. Nel settore sanitario come in quello economico, l’assenza di una visione politica ha impedito qualsiasi azione preventiva e il potere dell’egoismo nazionale sta ritardando le misure necessarie.

 

Ci voleva uno shock perché riemergese la vera natura dell’Unione; quella del rifiuto di abbandonare i valori collettivi e un modello di società che definisce un’identità. È questa identità che si è fusa nella globalizzazione, e che può rinascere dalla sua frammentazione. Questo shock, ora lo abbiamo. Una rinascita è possibile a due condizioni: che la solidarietà europea si affermi nella risposta alla crisi sanitaria, che uomini e donne portino e incarnino un risveglio dell’Europa politica. I prossimi giorni, settimane e mesi ci diranno se queste condizioni sono state soddisfatte. La sfida è grande, poiché l’Europa ha perso la sua credibilità. Sarà necessario convincere proponendo un metodo Monnet del dopoguerra sanitaria, capace di risultati visibili da tutti, che giustifichino trasferimenti calibrati di sovranità.

 

La crisi pone anche la questione democratica in termini nuovi.

 

Il nostro modello democratico, derivante dalla rivoluzione industriale, ha già subito molti danni. È fondamentalmente un modello di democrazia rappresentativa: si basa sul consenso a delegare il potere che dà il diritto di voto a uomini e donne che lo eserciteranno per nostro conto. Eleggiamo rappresentanti che riteniamo in grado di attuare la politica a cui aspiriamo e di cui ci fidiamo. Tuttavia questo consenso, come questa fiducia, è sempre più sotto attacco, l’aria del tempo è meno nell’interesse generale che nell’accumulo di interessi particolari (18).

 

C’è voluta una combinazione di diversi fattori per arrivarci. Innanzitutto, e soprattutto, la delusione legata ai risultati meno felici del previsto; ma anche lo sviluppo di social network che danno a tutti la sensazione fallace di sapere meglio di chiunque altro cosa fare; il lento passaggio da un mandato di rappresentanza a un mandato imperativo a causa della pressione diretta e talvolta fisica che questi stessi social network consentono; infine, la lenta scomparsa di organi intermedi come sindacati e partiti politici. Tutto ha contribuito alla lenta decrepitudine della democrazia rappresentativa.

 

È questa cachettica democrazia parlamentare, nata due secoli fa, che la crisi sanitaria ha colpito in pieno.

 

La gestione della crisi sanitaria ha quindi causato una crisi rappresentativa. Se, come afferma Max Weber, “uno stato è una comunità umana che rivendica il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica su un determinato territorio” (19), questo monopolio trova la sua legittimità in quella della rappresentazione. Questo era già in questione prima della crisi. È stato messo alla prova dalla crisi.

 

Può essere facilmente ammesso Il principio che, in tempi di crisi, le democrazie possano ricorrere a misure coercitive “su una base eccezionale”, ma la questione dei limiti non manca di essere sollevata da parte dell’opinione. Ovunque, la domanda che sta al cuore del pensiero di Giorgio Agamben: “Possiamo sospendere la vita per proteggerla?” Ho trovato una risposta temporanea: vale a dire la vita (e persino l’economia) prima delle libertà pubbliche. Ma sarà lo stesso in futuro se le misure autoritarie, a partire dal contenimento, dovessero durare o essere rinnovate?

 

La democrazia deriva dal modo di salire al potere più che dal suo esercizio (20). Tuttavia, queste misure di emergenza hanno due conseguenze. Il primo è che la linea di demarcazione tra democrazie e regimi autoritari è confusa. Il secondo è che i governi eletti democraticamente potrebbero essere tentati di usare la crisi per una varietà di scopi: cercare di passare a un regime meno democratico (Ungheria) o gestire altri problemi interni (India, Algeria). In molti paesi, la vita democratica è sospesa dal rinvio delle elezioni come in Polonia o in Bolivia, con il caso particolare della Francia.

 

I tempi di crisi hanno spesso portato a una forma di unità nazionale. In una certa misura, il senso di urgenza e la necessità di sopravvivere hanno provocato un’esplosione di lealtà tra i cittadini. Il più delle volte, le persone hanno sostenuto le forti decisioni prese dal loro governo con consenso / accettazione se non con entusiasmo (21), (22). Tuttavia, nella maggior parte dei regimi democratici, le decisioni sono messe in discussione, le istruzioni sono disattese e, in generale, la pertinenza delle misure raccomandate dagli esperti che, in altri periodi, sarebbero state date per scontate, è ampiamente messa in discussione.

 

Tanto che ci si può legittimamente domandare se la nozione di programma politico abbia ancora un significato. Poiché i funzionari eletti non sono in grado di fare ciò che hanno promesso, i cittadini non si fidano più di loro e intendono intervenire in qualsiasi momento nel processo decisionale; ci allontaniamo molto dalla democrazia rappresentativa per tendere verso forme più o meno organizzate di democrazia diretta. Il rischio è quindi quello di tutto il populismo; verità e ragione contano meno dell’azione anche quando si basa solo sulla passione. Benda ci ha insegnato a quali drammi questo ha portato inesorabilmente  (23).

 

Al contrario, nella maggior parte dei regimi non democratici, la legittimità del potere è conferita dalla capacità dei leader di proteggere il loro popolo e mantenere l’ordine sociale piuttosto che garantire le loro libertà. Nella maggior parte di questi paesi, le autorità hanno imposto una risposta forte e rapida alla crisi e in cambio vediamo una certa sensazione di sostegno e unità nazionale tra la popolazione (Cina, Vietnam, Giordania, ecc.). In altre parole, non solo la fine della crisi potrebbe segnare un indebolimento della legittimità delle autorità pubbliche nelle democrazie, ma allo stesso tempo un rafforzamento del potere nelle autocrazie.

 

Per la rapidità della sua insorgenza e l’impetuosità della diffusione del virus, la crisi sanitaria ha imposto misure legislative e regolamentari di una portata senza precedenti nelle nostre democrazie. In molti paesi, l’esecutivo si è sentito autorizzato a prendere misure di sorveglianza di massa o liberticide utilizzando tecnologie finora riservate all’intelligence militare o antiterroristica! In generale, queste misure in deroga alle libertà pubbliche sono piuttosto ben accolte, persino acclamate dai cittadini che lo vedono come un arsenale che protegge la loro sicurezza.

 

Il fatto che i governi favoriscano l’efficienza non è una specificità della crisi sanitaria. Il fatto che i cittadini siano meno attenti alla salvaguardia dei loro diritti fondamentali riflette senza dubbio l’ansia di fronte al nuovo flagello dopo decenni di assenza di avversità collettive. Queste misure eccezionali e temporanee devono assolutamente rimanere tali. Tuttavia, negli ultimi anni, va detto che altre misure prese in nome della lotta al terrorismo sono passate, quasi nell’indifferenza generale, dallo status di misure eccezionali e temporanee a quello della legge ordinaria.

 

Dobbiamo stare attenti a non indebolire permanentemente lo stato di diritto in nome dell’urgenza di combattere il virus. Lo scorso autunno (ma sembra già così lontano), François Sureau ha ricordato che “lo stato di diritto, nei suoi principi e nei suoi organi, è stato progettato in modo tale che né i desideri del governo né le paure del popolo” potranno travolgere le basi dell’ordine pubblico, e prima di tutto la libertà ”(24).

 

All’indomani della crisi, le questioni politiche saranno quindi numerose. Quali schemi saranno percepiti come capaci di gestire bene la crisi? Quale transizione dovrebbe essere attuata per tornare da misure eccezionali alla vita normale? Se durante la crisi sanitaria non hanno agito all’unisono, quale credibilità avranno i regimi democratici, nella gestione di altre crisi come la sfida climatica o la migrazione?

 

E se gli egoismi nazionali dominano durante la gestione della crisi sanitaria, come impedire all’ondata di populismi nazionali di travolgere tutto sul suo cammino? Inoltre, la cooperazione internazionale non è solo un elemento di un’efficace gestione della crisi, ma una condizione di sopravvivenza democratica dopo di essa.

 

Senza dubbio stiamo entrando in un altro mondo

Un’altra economia: il ritorno dei regolamenti?

 

L’attuale periodo è di disordine, e ovviamente si pone la questione di quale direzione prenderemo quando la crisi sanitaria sarà terminata. Negli ultimi trenta anni, la causa è stata ascoltata. Stavamo assistendo alla vittoria sfrenata del liberalismo economico alla fine della storia di Francis Fukuyama (25). Ma quelli che guardano alla storia tenendo presente il lungo termine oggi trovano motivo per tornare all’idea che il liberalismo ha sicuramente vinto. La lezione tenuta da Karl Polanyi (26) tre quarti di secolo fa è che il liberalismo economico è una fase di disorganizzazione tra due periodi più regolati. Ciò si afferma periodicamente, come parentesi, fino a quando non viene imposta la necessità di nuovi regolamenti, perché i fenomeni economici non sono indipendenti dal resto dell’evoluzione della società.

 

In 150 anni abbiamo conosciuto tre grandi cicli di regolazione del capitalismo. Quello che, proveniente dal XIX secolo, termina con la prima guerra mondiale, dà il via a un altro regolamento basato sulla produzione di massa in un mondo lacerato dal risveglio del nazionalismo e abitato dalla costruzione della democrazia. E poi è arrivata una terza fase perché, contrariamente a quanto previsto da Polanyi, il mercato non è crollato con la crisi del 29 o dopo la seconda guerra mondiale. È che dopo il 1945, la generalizzazione dello stato sociale, l’emergere del dominio americano e la cancellazione del fascismo modellarono le nuove norme dei decenni successivi. Verso la fine degli anni ’70, iniziò una nuova rottura. Colpisce il mondo della produzione, le idee politiche e la scena internazionale. L’emergere della tecnologia dell’informazione, l’ondata liberale di rifiuto delle imposte e il crollo del comunismo hanno segnato la fine del periodo socialdemocratico.

 

Pertanto, abbiamo conosciuto per quasi due secoli un susseguirsi di fasi organiche durante le quali domina un modo di organizzazione dell’economia e della società e fasi critiche durante le quali questi regolamenti restano senza fiato e poi svaniscono , per lasciare il posto ad altri. L’ultima grande regolamentazione collettiva è stata quella dello stato sociale. Non c’è più alcun dubbio che sia finita. E nonostante un lieve balbettio all’indomani della crisi dei subprime, nulla è venuto a sostituirlo.

 

Tra queste fasi di regolazione, i vecchi schemi stanno crollando, l’organizzazione collettiva è in ritirata, gli individualismi ritrovano diritto di cittadinanza. Fino a quando uno shock enorme consentirà alla storia di riguadagnare i propri diritti e gli uomini scolpiranno il quadro della nuova società. Sono queste le strutture  che dobbiamo ricostruire oggi.

 

Questi regolamenti non risparmiano alcuna attività umana, ma al di là del tradizionale spazio di cooperazione economica, ci sono diverse aree in cui la necessità di una regolamentazione è essenziale.

 

Innanzitutto, ovviamente, nel campo dell’organizzazione sanitaria. Paradossalmente, è in quest’area che la cooperazione internazionale ha iniziato a svolgersi nel 1851 con il primo Regolamento sanitario internazionale. La riforma del 2005 ha rafforzato l’indipendenza del direttore generale dell’OMS, ma è necessario fare molto di più, in particolare nel suo coordinamento con l’OMC.

 

Il ruolo dell’OMS può in particolare essere importante nell’attuazione di politiche di prevenzione più attive. Non appena le pandemie non compaiono più come rischi trascurabili, “Black Swans” per usare l’espressione usata nel campo dei rischi finanziari, si afferma fortemente la necessità di tenere conto di queste politiche nelle scelte pubbliche.  Lo smantellamento, da parte di Donald Trump, della cellula responsabile della sicurezza sanitaria alla Casa Bianca dimostra che non ci siamo ancora arrivati.

 

La crisi sanitaria può anche creare l’opportunità di una nuova mobilitazione per combattere i cambiamenti climatici. Al di là dei legami tra clima e salute pubblica, le misure adottate nel contesto della lotta contro la pandemia stanno trasformando il dibattito sui vincoli di bilancio che ci imponiamo come sul controllo del comportamento individuale. Ma esiste anche un collegamento con altre aree di conservazione ambientale e in particolare la conservazione della biodiversità. La distruzione degli ecosistemi da parte dell’inquinamento, la progressiva limitazione dei luoghi in cui vivere o le imprese proibite favoriscono le zoonosi (trasmissione delle patologie dall’animale all’uomo), come hanno dimostrato molti esempi recenti.

 

Ma anche se accettiamo la plausibile ipotesi di una frammentazione della globalizzazione, queste diverse politiche possono essere solo globali. Poi arriva la domanda fastidiosa che attraversa qualsiasi interrogativo sulle conseguenze della crisi sanitaria: c’è un posto per il multilateralismo? E oltre, possiamo concepire un’azione multilaterale che non riguardi solo gli Stati ma che si svilupperebbe tra le regioni o anche le grandi metropoli?

 

Un altro paradigma

 

a / Un cambiamento nel rapporto tra gli Stati: quale nuovo equilibrio geopolitico?

 

Se resta da sperare che la crisi sia la fonte di una rinnovata cooperazione a livello globale ed europeo, è importante esaminare le sue conseguenze più immediate per le relazioni internazionali.

 

Il primo deriva dal vuoto di potere che l’attenzione sulla crisi sanitaria dei principali governi renderà ogni giorno più visibile. Finché sono, come tutti, sommersi dalla pandemia, i gruppi armati sembrano aver scelto di ritirarsi. Ma non appena le condizioni lo consentiranno, non vi è dubbio che i conflitti ricominceranno proprio mentre i principali attori si occuperanno principalmente della loro situazione interna. Si teme che sia così in Siria come in Libia, nel Sahel come nello Yemen. Tanto più che molti Stati scossi dalla crisi troveranno ancora più difficile che in passato esercitare le loro responsabilità sovrane.

 

In questo contesto, è probabile che vi sia una forte tentazione, per alcuni Stati, di aumentare la loro influenza internazionale. La Cina, la Russia in misura minore, hanno già colto questa opportunità distribuendo aiuti medici principalmente ai paesi europei. Alla fine della crisi sanitaria, la competizione ideologica riprenderà con forza in una situazione in cui le popolazioni avranno voglia di intervento statale e di potere forte. Intrappolati tra la loro riluttanza verso qualsiasi azione multilaterale e il loro confronto con Pechino, gli Stati Uniti faranno fatica a evitare una ridistribuzione delle carte, ma ovviamente molto dipenderà dalle elezioni di novembre. La Cina non è in grado di esercitare la leadership mondiale, ma non è certo che gli Stati Uniti ne siano ancora capaci.

 

È quindi chiaramente una frammentazione della globalizzazione che è ragionevole aspettarsi, e potrebbe essere l’occasione per l’Europa, se riuscirà a mettersi insieme.

 

b / La crisi dell’essere porterà a un cambiamento nel rapporto tra uomini?

 

Perché sia possibile un rimescolamento delle carte, il rischio di pandemia deve permeare profondamente, ma soprattutto durevolmente, la sensibilità globale collettiva. La metafora della guerra, che è stata ampiamente utilizzata, può essere applicata solo durante il periodo della mobilitazione: la maggior parte degli studi (27) suggerisce che non può esserci armistizio, né tanto meno una liberazione. Non è quindi solo uno sforzo bellico a lungo termine, ma anche un reinserimento nella coscienza collettiva, la permanenza di un rischio di pandemia infettiva. Di fronte a una tale minaccia strutturante e universale, è probabile che vedremo un profondo cambiamento nelle preferenze collettive.

 

Prima probabile evoluzione delle nostre preferenze collettive: il rapporto con la temporalità. Entrare in un mondo caratterizzato da un pericolo infettivo implica la correzione delle nostre carenze e la realizzazione della nostra incapacità, soprattutto in Europa, di dare realtà al principio di precauzione e coltivare l’approccio preventivo. L’ embolizzazione dei sistemi sanitari dei paesi sviluppati è solo il sintomo di una visione politica a breve termine che si crede premunita contro eventi reali imprevisti grazie alla sola esistenza di mercati interconnessi e reattivi di beni e servizi. Le decisioni future non potranno esonerarsi dall’iscrivere, anzitutto nei bilanci, misure a lungo termine, né da un approccio strategico sistematizzato ai vari settori prioritari della vita delle persone.

 

Al di là di questo primo aspetto, il rischio di infezione ci ricorda con forza l’evidenza dell’interdipendenza tra individui. Questo è l’intero paradosso dell’attuale confinamento: isolati in casa, gli individui non hanno mai lavorato così tanto per il ripristino del collettivo. La salute di tutti non è più, come nel caso delle malattie cardiovascolari e degenerative, la conseguenza del comportamento individuale: dipende dalla responsabilità di ciascuno nei confronti del collettivo e, al contrario, dalla capacità del collettivo di prendersi cura della salute del minimo dei suoi membri. La caratteristica dei virus che questa pandemia ci ricorda, è di non riconoscere confini, né sociali né politici: nessuna barriera, nessun muro proteggerà durevolmente le società da un rischio di contagio, da un “cluster” pronto sciamare.

 

Oltre al necessario rafforzamento del ruolo dell’OMS nell’attuazione delle politiche di prevenzione attiva, questa ricomparsa del sentimento di interdipendenza deve essere accompagnata, in modo che non emerga una società di sfiducia generale. Un recente sondaggio (28) sull’accettabilità di un’applicazione telefonica per tracciare i contatti dei gestori Covid-19 mostra che quasi il 75% degli intervistati installerebbe probabilmente questo tipo di applicazione, se esistesse. Quale apprezzamento sociale verrebbe fatto di un individuo che rifiuta di installare una tale applicazione? Questo rifiuto dovrebbe essere semplicemente autorizzato quando rischia di mettere in pericolo il collettivo? È probabile che questa crisi sanitaria e la sua penetrazione nell’immaginario collettivo stimolino l’emergere di una società di trasparenza medica: è quindi possibile che in futuro il movimento delle persone sia soggetto alla produzione di test di immunità, come la carta di vaccinazione internazionale attualmente richiesta al confine di molti stati. Ma c’è tutto un mondo, tra un semplice taccuino di cartone e i dati del tuo telefono cellulare. Affinché il sistema di trasparenza individuale che si raccomanda di adottare non si trasformi in una società della sfiducia, le autorità pubbliche devono svolgere un ruolo attivo, al fine di garantire non solo l’anonimato degli utenti, ma anche la cancellazione dei set di dati (29). Questo fermo posizionamento pubblico deve costituire la base di un nuovo “sistema provvidenziale” sul quale costruire la fiducia e un rinnovato patto civile.

 

 

 

[1] Jin Wu, Weiyi Cai, Derek Watkins e James Glanz, “Come è uscito il virus”, The New York Times, 22 marzo 2020

 

[1] Anche la Francia ha un vasto stock strategico. Creato nel 2007, lo stabilimento per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie nel 2009, nel contesto dell’epidemia di H1N1, un miliardo di maschere anti-proiezioni, destinate ai malati, e 900 milioni di maschere di protezione, chiamata “FFP2”. Nel 2013 è stata modificata la dottrina della gestione degli stock strategici, con il trasferimento della protezione dai lavoratori ai datori di lavoro. Nel 2016, le missioni dell’EPRUS sono state integrate in un nuovo istituto di sanità pubblica francese.

 

(3) Cfr. Fondazione Jean Jaurès .

 

(4) Come Haiti, ad esempio, di cui il 32% del PIL nel 2018 proviene da questi trasferimenti

 

(5) Alle Maldive, in casi estremi, il 75% del PIL dipende direttamente e indirettamente dal turismo e le riserve valutarie non superano i 2 mesi di importazioni.

 

(6) Di cosa potrebbe beneficiare la Cina, che non ha accesso agli swap.

 

(7) Aumentano le riserve delle banche centrali

e consentire ai paesi in via di sviluppo di ottenere “valute forti”.

 

(8) La Francia ha finalmente presentato una proposta in tal senso

 

(9) Da allora, l’assegno per $ 1.500 per tutte le famiglie ha migliorato la situazione.

 

(10) Terra Nova, marzo 2020

 

(11) Larry Summers “Prospettive economiche statunitensi: stagnazione secolare, isteresi e limite inferiore zero”, Economia aziendale, 49, pagg. 65-73, 2014

 

(12) Paolo Surico e Andrea Galeotti, “L’economia di una pandemia: il caso di Covid-19”, London School of Economics, 2020

 

(13) Paolo Surico e Andrea Galeotti, ibidem.

 

(14) Già nel gennaio 2008, il FMI aveva annunciato a Davos la necessità di uno stimolo fiscale globale. Prenderà forma al G20 del 2009 a Londra e ha salvato milioni di prevedibili disoccupati.

 

(15) Su questi punti, vedi Shahin Vallée “Nota macro: opzioni per l’Eurogruppo e un possibile percorso graduale verso coronabond”, 2 aprile 2020

 

(16) Questo meccanismo, creato nel 2012, può mobilitare fino a 700 miliardi di euro. Talvolta viene erroneamente descritto come un FMI europeo. La principale differenza con l’FMI deriva dal fatto che le risorse del MES stanno prendendo in prestito risorse e non risorse monetarie. Non è un Fondo monetario europeo ma un Fondo di bilancio europeo.

 

(17) Daniel Cohen, “La crisi del coronavirus segnala l’accelerazione di un nuovo capitalismo, il capitalismo digitale”, Le Monde, 2 aprile 2020

 

(18) Max Weber, in Economia e società, insiste sul fatto che la sottomissione volontaria specifica a qualsiasi forma di socializzazione dipende dalle qualità che il dominato presta a chi lo comanda.

 

(19) Max Weber, “Politik als Beruf”, 1919

 

(20) Se ciò che caratterizza la democrazia è la modalità di acquisizione del potere e non il suo esercizio (Adam Przeworski et al., “Democrazia e sviluppo: istituzioni politiche e benessere nel mondo, 1950-1990”, vol.3, Cambridge Univ. Press, 2001) quindi il carattere democratico delle nostre società non è in discussione.

 

(21) “Nelle democrazie, il rapporto tra cittadini e governo si basa sul triumvirato di conformità, consenso e legittimità”. Hardin, “Conformità, consenso e legittimità”, in Boix & Stokes, Politica comparata

 

(22) Chi avrebbe potuto immaginare che quando, 18 mesi fa, la rivolta dei giubbotti gialli in Francia nacque tra l’altro da indignazione contro il limite di velocità a 80 km / h, considerato liberticida.

 

(23) Julien Benda, “La trahison des clercs”, 1927, ristampa Les cahiers rouges, Grasset, 2003

 

(24) François Sureau “Senza libertà”, Tract, Gallimard, 2019

 

(25) Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, The Free Press, 1992

 

(26) Karl Polanyi, “La grande trasformazione. Le origini politiche ed economiche del nostro tempo “, Gallimard, 1944

 

(27) Gideon Lichfield, “Non torneremo alla normalità”, MIT, 2020

 

(28) https://045.medsci.ox.ac.uk/user-acceptance, Università di Oxford, 31 marzo 2020

 

(29) Ciò che l’Europa è stata in grado di attuare con l’adozione precursore del GDPR

 

AQUIS-GRANA, di Pierluigi Fagan

AQUIS-GRANA. Come va la trattativa europea sul fare fronte all’emergenza economica e poi sociale procurata dal virus? Per i dettagli tecnici che tanto appassionano i lettori del mondo con occhiali economici, avrete di che saziarvi altrove. Mi permetto solo di aggiungere una lettura fatta da chi segue quello che succede nei vari paesi europei e nei vari principali giornali di quei paesi. Quindi niente MES, SURE, Conte, Salvini-Bagnai, condizionalità, Grillo folgorato sulla via di Bruxelles et similia. Segnalo solo che:

A. L’asse Parigi, Madrid, Roma esiste. Credo che, contrariamente a quanto detto da Conte, l’idea sia stata di Macron. E credo che sia stato fissato dati i rapporti tra Macron e Sanchez che sono ottimi da lunga data e dato il viaggio che Macron ha fatto in Italia, il c.d. “Patto di Napoli” del 27 febbraio. L’asse era pensato anche precedentemente la pandemia e rispondeva ad un semplice logica di peso nella relazione di Aquisgrana. La Francia ha molto meno peso della Germania in quella relazione e così come oltretutto la Germania si presenta con dietro il codazzo nordico, la Francia ha pensato opportuno presentarsi con un proprio codazzo che in via naturale è quello latino-mediterraneo.

B. Qualche giorno fa, Macron ha rilasciato una intervista a FT, in cui la buttava giù dura “o si risolvono i problemi di Spagna ed Italia o l’UE è finita”, naturalmente in linguaggio trasversale. Ma solo uno sprovveduto da facebook, può immaginare davvero le cose stiano così in termini di amicizia disinteressata e fronti, la faccenda è immancabilmente “più complessa”.

C. Il punto che a molti sfugge è che Macron non sta messo per niente bene. Le previsioni di punti persi di Pil francese fatte da IMF, non sono poi molto migliori di quelle fatte per l’Italia. Alcuni avranno letto di prime “sommosse” qui e lì in Francia e sappiamo che i gilet gialli sono pronti a “tamponare” l’esecutivo nella fase 2 che inizierà, forse, una settimana dopo la nostra.I francesi, che si sa sono piuttosto nazionalisti, pare non stiano prendendo per niente bene le frizioni al confine tra Alsazia-Lorena e Saarland-Renania. Nei sondaggi, dopo un primo momento di “stringiamoci a coorte” di cui hanno beneficiato tutti leader, Macron ora sembra al’inizio di una discesa libera e ricordo che il giovane ha preso poco più del 20% al primo turno. Solo la nostra italica mania di auto-svalutazione può spiegare il fatto che nessuno qui sappia delle polemiche sul disastro logistico francese. La Francia ha 3500 morti meno di noi ma, ammesso li abbia contati tutti e per bene, sopratutto quelli delle RSA, ha una settimana di ritardo nello sviluppo del’epidemia. Ha ancora 5000 persone in TI (di cui “in genere” un terzo muore) e noi la metà. in più proprio perché aveva una settimana di anticipo rispetto a noi, ci si domanda perché non si sia organizzata meglio e per tempo. Segnalo che la Francia ha fatto ad oggi 7.000 tamponi per milione di abitanti, noi 26.000. La Spagna sta messa anche peggio.

D. Il gioco delle parti, ha previsto che Conte facesse “Ivan il pazzo” ovvero “coronabond o morte!”. Nel mentre, è toccato a Sanchez avanzare l’idea di un fondo molto simile al Recovery bond di cui ora si tratta, in cui si noti la clausola di “debito perpetuo” su cui ci sarebbe da scendere in dettaglio ma qui non possiamo. Ieri su le Monde c’era un elogio di Conte. Macron, ha parlato di alta strategia al FT, in quanto caposquadra e mediatore ultimo non può esporsi su i particolari, ovvio.

E. Segnalo che i ben informati transalpini, dicono che il nuovo consigliere speciale dell’inquilino dell’Eliseo, sia Strauss Khan e chissà che la giravolta copernicana di M.me Lagarde alla guida della BCE non sia un nuovo “usami come vuoi” a cui la signora parigina pare sia stata dedita anche in passato.

F. Infine, chi s’immagina che la Merkel voglia finire nei libri di storia come colei che ha distrutto l’euro e l’UE, mi sa che farebbe bene a sospendere un attimo la sua attività di commentatore politico su facebook. Come saprete il prossimo 5 maggio, giorno triste per i napoleonici e gli interisti, si pronuncia verdetto a Karlsruhe sull’ipotetico conflitto tra Grundgesetz e QE tra cui la novità BCE di accettare anche la spazzatura.

Quindi, non so come andrà a finire, chi tratterà più di qui e chi più di là. Sia Parigi che Madrid potrebbero nel frattempo finanziarsi sul mercato ma sopratutto Parigi potrebbe veder lievitare oltre il desiderato il rapporto deficit/Pil, non bello per una aspirante potenza, magari perdendo una A per strad … . In più, “perdere Roma” non conviene a nessuno. Di contro, ognun penserà a sé e non regalerà niente e cercando di “fare il massimo” in realtà cercherà di imporrà condizioni sottilmente capestro all’altro, a seconda dei rapporti di forza.

La “grana” alla fine si troverà il modo di tirarla fuori, ma quanta ed a che condizioni sarà tutto da vedere, la partita è ancora lunga. Infine, appunto, la partita è ancora lunga nel senso che i danni della questione virus non si esauriscono con le cifre di cui oggi si sta parlando.

tratto da facebook

1 49 50 51 52 53 68