GALLEGGIANDO NELL’INCUBO TEDESCO, di Andrea Zhok

Con le riflessioni di Andrea Zhok pubblicate in calce iniziamo la pubblicazione delle considerazioni politiche e delle analisi riguardanti l’Unione Europea in qualche maniera utili a definire la collocazione e la funzione di questa istituzione frutto di un collasso degli stati nazionali europei, di una occupazione militare e di un processo di progressiva subordinazione politica. Questo sito ha dedicato all’argomento numerosi articoli sulla scia di quanto già prodotto in precedenti esperienze redazionali. Sta di fatto che ogni ribaltamento di politica economica, compreso il tema della promozione della domanda interna non può partire che da un processo di emancipazione politica delle formazioni sociali e degli stati europei. Va ricordato che l’attuale organizzazione istituzionale europea, compresa la struttura lobbistica dei suoi centri amministrativi è nata dal modello e dall’imposizione di modelli istituzionali americani e nei suoi aspetti impropriamente “federalisti” tedeschi, questi ultimi a sua volta imposti nel dopoguerra dagli Stati Uniti stessi, vincitori del conflitto mondiale. Lo stesso successo economico tedesco è stato alimentato e consentito, ponendo però dei limiti precisi nelle dimensioni delle imprese e nell’agibilità nei settori strategici, sino al momento in cui gli squilibri e la fragilità del sistema hanno rischiato di mettere in crisi la coesione della formazione sociale americana. L’avvento di Trump vuole essere una risposta a questi squilibri e può essere la molla principale che può portare alla fine di questa Unione. Con una avvertenza. Se la UE non può fare a meno della NATO (art 42 del Trattato di Lisbona tra i tanti), non è necessariamente vero il suo contrario_Giuseppe Germinario
GALLEGGIANDO NELL’INCUBO TEDESCO
Andrea Zhok·Domenica 16 febbraio 2020·Tempo di lettura: 6 minuti

La forma presa dal progetto europeo sotto la guida della Germania sta portando a picco l’eurozona, e in maniera particolarmente accentuata alcuni paesi, come l’Italia.
Comprendere ciò che sta accadendo è indispensabile per immaginare una via d’uscita e non rimanere a galleggiare in un incubo senza porte né finestre.
Tale comprensione passa attraverso due prese di coscienza, riguardanti rispettivamente
1) la storia tedesca recente, e 2) l’attuale stadio della globalizzazione economica.
In breve.
1) La Germania uscita dalla seconda guerra mondiale era un paese umiliato, devastato e cui veniva vietato di fatto di costituirsi in entità statale indipendente (presenza di basi americane, limitazioni alla ricostituzione dell’esercito). In questo contesto i tedeschi hanno immaginato una forma diversa di ‘rivalsa’, che ha preso l’aspetto di ciò che può essere chiamato ‘neomercantilismo’. Qui l’idea di fondo, semplificata, è che se non posso acquisire potere nella forma classica della potenza militare, allora lo farò a colpi di merci, conquistando progressivamente quote di mercato. Invece di invadere militarmente gli altri per togliergli risorse, gli sottrarrò risorse con la qualità e convenienza dei miei prodotti, che creeranno un perenne trasferimento asimmetrico di denaro nelle mie casse. Intorno a questa sostituzione simbolica del valore militare (centrale in Germania sin dall’unificazione tedesca sotto la Prussia) con la conquista economica si è costruita un’intera concezione del bene e del male, del vizio e della virtù.
L’intera architettura dell’Unione Europea è nata adattando le teorie neoliberali dominanti negli anni ’80 e ’90 a questo paradigma etico, dove idealmente non c’è bisogno di uno stato, se non come funzione economica. Non a caso la Germania è lo stato che prima di ogni altro rende indipendente la propria banca centrale (1957), ponendo la politica come dipendente per la propria legittimazione dall’economia.
L’idea che il debito sia indice di una forma di debolezza morale è qui fondante, così come l’idea che solo chi abbia messo prima da parte un capitale con il sudore della propria fronte, può poi investirlo meritoriamente. Si tratta di una visione etica ritagliata sulla dimensione della vita di una famiglia (e assai funzionale a quel livello), ma profondamente estranea a prospettive e responsabilità di natura statale.
È questa matrice quella che vincola tutte le fondamentali regole europee, così come hanno preso forma nei trattati e così come vengono stabilite ai vertici europei. Le sue implicazioni sono:
a) È legittimato ad investire solo chi ha una condizione economica già florida (si pensi alle direttive recenti sul cosiddetto Green New Deal europeo);
b) Se non si possiedono capitali, ci si deve rendere attrattivi al capitale estero fornendo un ambiente che garantisca elevati profitti agli investitori privati;
c) Se non ci sono margini per incrementare la produttività attraverso gli investimenti, la via maestra per acquisire nuove risorse è la compressione delle condizioni di lavoro, sia in termini salariali che di garanzie. Se si fanno le ‘riforme’ con sufficiente perseveranza, ad un certo punto si raggiungerà un livello in cui si vince la battaglia dell’export e si sfrutta la propria bilancia commerciale positiva per conquistare mercati e capitali.
L’intero sistema è concepito a livello europeo in modo da fare dell’Europa un centro produttivo capace di conquistare il mondo a colpi di merci.
2) E a questo punto entra sciaguratamente in questo ‘sogno tedesco’ la realtà dell’odierno mondo globalizzato, che trasforma il sogno tedesco nell’incubo europeo.
Quali sono i tasselli che mancano in quel quadro immaginato dal ‘revanscismo mercantile’ dei tedeschi dopo il 1945?
Manca innanzitutto la comprensione che il gioco del ‘libero commercio’ era un gioco che avveniva per gentile concessione degli USA, che si facevano carico delle funzioni tipiche degli stati tradizionali in maniera vicaria: erano gli americani a provvedere alla difesa europea, permettendo così agli europei di dedicarsi al gioco del libero mercato. Gli americani – naturalmente non gratis – operavano da stabilizzatori e garanti legali del sistema. Il fatto di non doversi occupare seriamente della questione militare ha creato nella cultura europea una sorta di infantilismo perenne, in cui fantasticherie astratte di matrice illuminista e liberale hanno prodotto un quadro fittizio di irenismo mondiale. I tedeschi, e di rimando gli europei tutti, hanno pargoleggiato per anni immaginando che il mondo fosse lì pronto a riconoscere cavallerescamente le virtù commerciali e produttive europee, facendosi gaiamente conquistare a colpi di merci.
Il secondo tassello mancante è un’implicazione del primo. Un sistema come quello europeo, che è di fatto un coacervo di interessi economici senza alcuna politica statale comune, senza un popolo comune, senza un governo con legittimazione democratica, e senza nessuna delle tradizionali competenze degli stati, trae (proprio come la Germania del dopoguerra) la propria intera legittimazione dal successo economico. E tale successo, però, dipende in maniera massiva dal successo della politica neomercantilista. (Ad esempio nei confronti dei soli USA il saldo commerciale europeo è positivo per oltre 170 miliardi di dollari – dati 2018). Ma con un sistema di scambi che oramai ha raggiunto estensione planetaria, emergono con sempre maggiore chiarezza due ordini di problemi.
Il primo è che – surprise, surprise – molti paesi, Stati Uniti in testa, mostrano insofferenza a subire un drenaggio costante di risorse da parte europea, e possono perciò chiedere un riequilibrio a colpi di tariffe e dazi.
Il secondo è che estensioni mondiali delle catene di approvvigionamento (supply chain) sono, proprio per la loro estensione e capillarità, sempre più massicciamente esposte a turbative, come mostra il caso attuale dell’epidemia di coronavirus. E se non è un virus sarà un conflitto armato che minaccia il trasferimento merci o, appunto, una guerra commerciale, o altro.
Entrambe queste tendenze sono destinate ad esacerbarsi con il passare del tempo, perché il funzionamento ordinario e autoregolato del commercio mondiale crea continuamente differenziali di potere, squilibri, crisi locali, che chiedono maleducatamente risoluzione. E di fronte a traffici mondiali che hanno già raggiunto un livello estremo di capillarità e libertà (nessun’altra epoca nella storia ha avuto tassi maggiori di libero commercio) la tendenza non può che essere verso un riflusso (più o meno accentuato).
Il quadro che si presenta all’organizzazione chiamata Unione Europea è dunque tale per cui il sogno tedesco di vincere la battaglia per la conquista del mondo a colpi di merci sta arrivando alla sua Waterloo. Per salvare un sistema europeo sarebbe necessaria una inversione di rotta radicale dello spirito che ha nutrito dall’inizio la storia dell’Unione Europea: da coacervo di interessi economici rivolti alla conquista di nuovi mercati esterni, a coordinamento di iniziative politiche rivolte ad alimentare il mercato interno. Dunque l’ordine delle priorità dovrebbe andare allo sviluppo interno e alla piena occupazione, e non alla compressione dei costi di produzione e alla stabilità monetaria. Questo spostamento richiederebbe una completa riscrittura dei trattati, a partire dallo statuto della BCE.
È idealmente possibile un tale stravolgimento? Sì, di principio lo è.
È concretamente plausibile che gli attuali plenipotenziari dell’UE, e specificamente la Germania, accettino una tale prospettiva? No, non lo è affatto.
Dunque ci avviamo ad altri anni, forse decenni, di stagnazione o contrazione progressiva, massimamente concentrata nelle aree di subfornitura alla Germania, e la cui produzione ha minore valore aggiunto.
E questo è l’identikit dell’Italia.

Polonia e poi Polonia, di Guillaume Berlat

Fonte: Vicino e Medio Oriente, Guillaume Berlat , 10-02-2020

“ Il mondo che abbiamo creato è il risultato dei nostri pensieri. Non può essere cambiato senza cambiare il nostro modo di pensare ”(Albert Einstein). Arrivato all’Eliseo a maggio 2017, il nostro affrettato Presidente della Repubblica aveva pensieri e idee molto determinati sul nuovo mondo che intendeva plasmare a sua immagine.

Li ha sviluppati durante l’Atto I del suo mandato di cinque anni (2017-2019) con il successo che conosciamo. L’Unione europea ha dovuto essere completamente trasformata come il suo discorso alla Sorbona. La coppia franco-tedesca dovrebbe essere rivitalizzata secondo la loro volontà. Donald Trump, a cui era riuscito a schiacciarsi il polso in un memorabile braccio di ferro, lo avrebbe mangiato in mano, all’insaputa dell’inghiottimento dell’Accordo nucleare e sul clima iraniano (COP21) diventando un seguace incondizionato del multilateralismo. Françafrique aveva rinunciato al fantasma di Ouagadougou. La Libia avrebbe trovato le strade della pace. L’Iran si sarebbe messo a tacere con gli Stati Uniti. La Cina diventerebbe il modello del libero scambio. Inoltre, Emmanuel Macron ha distribuito alcuni punti negativi e alcuni mandati alla Russia. Ricevendolo a Versailles, ha impartito a Vladimir Putin una lezione di democrazia, una boccata diplomatica per il suo atteggiamento pauroso portato durante la campagna elettorale (diffusione di “notizie false” e intrusione nel sistema informatico del partito in corso). Fu nel centro dell’Europa (paese del gruppo Visegrad) che vide i cattivi studenti della classe europea: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca. Ha amministrato loro alcuni gravi rimproveri per il loro comportamento intollerabile su vari registri.

Con l’ingresso nell’atto II del suo quinquennio (dalla seconda metà del 2019), il Capo dello Stato sembra essersi reso conto, oltre alle sue grandi difficoltà sulla scena domestica, del suo isolamento sulla grande scacchiera internazionale e della necessità di cambiare il suo fucile. Ne abbiamo un nuovo esempio con la visita ufficiale che ha appena compiuto in Polonia il 3 e 4 febbraio 2020 per completare il tandem franco-tedesco. Con Varsavia, il tono è cambiato. Dopo Haro sulla Polonia, simbolo di una diplomazia di invettiva, siamo improvvisamente andati a Bravo in Polonia 1 , segno di una diplomazia di coccole. Questo cambio di piede fa appello alla diplomazia dell’incostanza che deve valere la pena di essere bravo a Giove.

DIPLOMAZIONE DI INVETTIVO: HARO SULLA POLONIA

Chi non ricorda le parole particolarmente aspre, per quanto riguarda le usanze della lingua diplomatica tradizionale, indirizzate dal Presidente della Repubblica contro le autorità polacche da quando è entrato in carica! Tutto è successo nel corso dei mesi.

Una delle prime azioni europee di Emmanuel Macron riguarda la revisione della direttiva sui lavoratori distaccati. Lodevole in sostanza, questa iniziativa è stata imbarazzante in termini di know-how. Era fortemente rivolto ai lavoratori polacchi, i famosi idraulici polacchi che hanno compensato la mancanza di rappresentanti di questa professione nel nostro paese.

Quindi fu l’allineamento di Varsavia con la politica di sicurezza americana che scatenò l’ira del nostro agosto monarca. Come non comprare aerei europei e non sposare le idee divine sulla politica europea di sicurezza e di difesa che esistono solo nello spirito di Emmanuel Macron?

Abbiamo quindi ricevuto critiche alle violazioni dello stato di diritto imposte (i famosi valori dell’Europa) dai leader polacchi alla loro gente e alle minacce delle sanzioni europee. Di cosa si tratta? Procedimento avviato dalla Commissione e dal Parlamento europeo contro la Polonia e l’Ungheria per ” evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2 ” (Articolo 7 del trattato sull’Unione che sono ” i valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto, nonché del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze.“(Articolo 2 del trattato sull’Unione). Il presidente della Repubblica ha pronunciato parole molto dure per stigmatizzare gli eccessi autoritari della Polonia incompatibili con l’appartenenza alla famiglia delle democrazie. Emmanuel Macron ha menzionato il caso di queste democrazie inaccettabili e democrazie illiberali. Ha parlato di ” spiriti pazzi ” che in Polonia e in Ungheria ” mentono al loro popolo “. Ma non è tutto.

La Francia, custode degli impegni climatici sottoscritti dagli Stati durante la COP21 di Le Bourget (dicembre 2015), non poteva sopportare che Varsavia bloccasse tutti i progressi previsti per proteggere il nostro pianeta dal grande sconvolgimento, ragione per cui non ne poteva fare a meno le sue centrali a carbone particolarmente inquinanti. Era meno attenta alle centrali a carbone tedesche. Questo problema ambientale, caro a Greta Thunberg, si è aggiunto alla già lunga lista di sostanze irritanti tra i due paesi.

È vero che altri rimproveri più gravi hanno pesato sulla testa di questi due cattivi allievi della classe europea. Molto legati alle radici cristiane dell’Europa e alla loro sovranità, gravemente danneggiata durante l’era sovietica, questi stati intendevano rimanere padroni del proprio destino. Ciò significa rifiutare concretamente di accogliere i migranti sul loro territorio (contrariamente a quanto le autorità europee hanno chiesto loro in termini di condivisione degli oneri), di adottare una politica multiculturale (tutti a casa e le mucche saranno ben tenute, rimane il loro valuta) i cui effetti sono particolarmente ” benefici “Nel nostro paese. In una parola, rimanere ciò che era la Polonia e non diventare qualcos’altro sotto la pressione di un’élite globalista ed europeista. D’altra parte, Varsavia non ha disprezzato ricevere sostanziosi sussidi dall’Unione europea che le hanno permesso di ottenere buoni risultati economici. Quello che si chiama volere burro, soldi in burro e il sorriso del caseificio.

In breve, la Polonia, come l’Ungheria di Viktor Orban, era diventata la testa di un Giove turco che non ha mai smesso di inchiodarlo nella gogna. A Emmanuel Macron piaceva opporsi ai ” populisti ” e ai ” progressisti“. Misuriamo così l’estensione del divario tra Parigi e Varsavia sul concetto stesso di costruzione europea, sulla natura delle relazioni bilaterali. Quindi questi non erano problemi minori che i diplomatici sono responsabili di risolvere toccando la loro cassetta degli attrezzi. La controversia era quindi profonda, concernente questioni fondamentali, tra cui quella che è particolarmente importante agli occhi della patria dei diritti umani, quella dei valori. Siamo al centro della famosa diplomazia moralizzante della Francia che non ha nulla a che fare con Realpolitik 2 e che è stata fonte di molte delusioni negli ultimi mesi.

A parte un’inversione di tendenza inaspettata, nessuno normalmente costituito, immaginava nel prossimo futuro che le cose sarebbero cambiate e, ancor meno, che Giove avrebbe fatto il primo passo per tentare un riavvicinamento con la turbolenta Polonia. Ma succede tutto a chi sa aspettare. Lunedì 3 febbraio e martedì 4 febbraio dell’anno di grazia 2020, anno dell’IRON RAT, nell’astrologia cinese (anche quella del coronavirus), il presidente della Repubblica fa una visita ufficiale notata a Varsavia, solo oggetto del suo risentimento.

LA DIPLOMAZIA DELLA CLINOTERAPIA: BRAVO IN POLONIA

I miracoli accadono persino nella diplomazia. Ciò che era impensabile ieri improvvisamente lo diventa. Come ci dice il proverbio, la verità di un giorno non è quella di sempre! Non appena è arrivato sul suolo polacco, il Presidente della Repubblica ha fissato il ritmo e il tono della sua visita ufficiale. È accompagnato dai ministri degli affari esteri, delle forze armate, dell’economia e della transizione ecologica. Ha salutato Varsavia come una ” svoltaNei rapporti con la Polonia, collocandolo nel contesto della Brexit. Diavolo! Che lunga strada percorsa in così poco tempo nella comprensione reciproca … Ripetiamo, una sorta di miracolo diplomatico quando la scena non stava accadendo a Lourdes nella grotta delle apparizioni di Massabielle e Brigitte Macron non è ancora Bernadette Soubirous.

Un anticipo dichiarativo. Le parole del capo dello stato sembravano impensabili solo pochi giorni fa. Ritorniamo a quelli più importanti che danno il tono per questa visita alla riconciliazione. ” Spero che questa visita, i nostri scambi, segnino una vera svolta nel ruolo che insieme potremo svolgere per l’Europa di domani ” , ha dichiarato Emmanuel M. Macron molto solennemente, parlando alla stampa insieme al suo La controparte polacca Andrzej Duda, dopo le loro interviste. Duda ha parlato di una ” svolta “, accogliendo con favore la firma di un programma di cooperazione polacco-francese come parte del loro ” partenariato strategico “. Ha detto di esserne convinto dopo la Brexit“L’Unione europea dovrebbe in qualche modo sposare un nuovo modulo (…) con una nuova distribuzione di carte e una nuova apertura. I diversi ruoli all’interno dell’UE dovranno essere riconfigurati ”. Per Emmanuel Macron, la cooperazione tra Parigi e Varsavia deve servire a ” raccogliere la sfida del clima e sostenere la Polonia, che deve affrontare una sfida che non sottovaluto “. È una domanda, ha il presidente il presidente francese, di ” rafforzare il progetto europeo, perché in effetti oggi c’è (…) dopo la Brexit, una fragilità e un dubbio che hanno risolto“. Sperava che Francia e Polonia avrebbero sviluppato la loro cooperazione nel campo dell’energia e dell’industria militare, evocando il progetto del futuro carro armato europeo. Questo progetto è stato anche citato dal presidente polacco. Il capo di stato francese desiderava tenere un vertice franco-tedesco-polacco nei prossimi mesi, il cosiddetto formato ” triangolo di Weimar ” . Come punto di passaggio obbligatorio, ha dedicato una frase alle controverse riforme della giustizia attuate in Polonia dai conservatori al potere, indicando che le aveva discusse con Mr Duda e che desiderava il dialogo tra Varsavia e il La Commissione europea in materia “si intensifica“. La dimensione economica bilaterale non era assente da questa visita. Infine, rispondendo alle preoccupazioni polacche sulla sua apertura a Mosca e ai suoi critici nei confronti della NATO, ha affermato il suo attaccamento all’alleanza atlantica e l’impegno della Francia a difendere il suo fianco orientale, citando la partecipazione di circa quattromila soldati francesi a esercitazioni e pattuglie in questa regione. “La Francia non è né filo-russa né anti-russa, è filo-europea “, ha affermato, prima di sostenere un ” dialogo politico impegnativo ” con la Russia 3 .

Una grande responsabilità. Un bell’esempio di diplomazia pratica e realistica praticata, per una volta, da Giove. Quando sei stato per molto tempo rimescolato con un amico dal carattere torbido, è meglio dedicarti ai suoi punti di convergenza e mettere il più possibile i soggetti di divergenza sotto il tappeto. Questo è l’approccio adottato da Emmanuel Macron durante la sua visita in Polonia. Il rapporto bilaterale non è stato in buone condizioni, e questo è stato il caso dal 2016, quando la fiducia di Parigi nel suo partner polacco è stata interrotta dopo l’annullamento di un contratto per l’acquisto di 50 elicotteri Airbus. Oggi si pone nuovamente la domanda sull’acquisizione polacca di aerei da combattimento americani. da allora, non si è mai veramente ripreso, soprattutto perché i due paesi hanno una visione antagonista dell’integrazione europea. Ad un’Europa più integrata che Emmanuel Macron desidera, i polacchi rispondono all’Europa delle nazioni. A questa profonda antipatia si aggiunse una grave disputa sulla questione del rispetto dello stato di diritto in Polonia. “Il popolo polacco merita di meglio dei suoi leader ”, aveva lanciato Emmanuel Macron in modo poco attraente. 4

Una preoccupazione per il realismo. Il presidente della repubblica è che la Polonia è diventata inevitabile su molti argomenti. È stato quindi necessario sottoporre la controversia sullo stato di diritto a Bruxelles 5 e concentrarsi sugli aspetti essenziali: negoziati di bilancio, difesa dell’Europa, ambiente (adozione dell’obiettivo della neutralità del carbonio). A Varsavia, Emmanuel Macron sperava ancora una volta che ” l’integrazione e il lavoro congiunti europei saranno rafforzati” in difesa e “che l’Europa disporrà di un bilancio degno di questo nome in questo settore“. I comunicatori del castello confessano che non ci saranno progressi duraturi su tutti questi argomenti senza la benevola cooperazione di Varsavia. Sulla questione del piano verde adottato dalla Commissione europea, Emmanuel Macron intende cambiare la posizione polacca promettendo alcune specie ostinate e ostinate. La buona vecchia pratica del dare e avere. La Francia ritiene che la Polonia abbia il suo posto in Europa. Lo ha associato al progetto Europa delle batterie con la Germania 6 . Vorrebbe fargli capire che non esiste competizione ma complementarità tra NATO e difesa europea. Una lunga opera di persuasione. Un giornale polacco intitola ” Macron seppellisce l’ascia di guerra “. Ciascuno dei due leader vede nella ” Brexit»L’opportunità di rivitalizzare un’Europa in cattive condizioni dandogli il bellissimo ruolo. L’idea è di dimostrare che l’Europa protegge i suoi cittadini. È chiaro che i due capi di stato hanno insistito sulla necessità di costruire un’Europa forte con un’industria forte e innovativa. 7In una parola, enfatizzare tutto ciò che unisce le persone piuttosto che tutto ciò che le divide. Per sigillare il riavvicinamento franco-polacco, è stato necessario mettere tra parentesi i soggetti arrabbiati. Ma allo stesso tempo, ascolta l’ora di una cena nella residenza francese, gli oppositori polacchi al regime praticato durante la guerra fredda durante le visite presidenziali. Ha cercato di spiegare le ragioni della sua apertura verso Mosca dopo l’incontro di Brégançon. Un esercizio delicato che può offendere i suoi ospiti e portare al contrario dell’effetto previsto.

Un esercizio sottobicchiere. Sentendo che potrebbe essere andato un po ‘troppo in una direzione il 3 febbraio, ne prese un altro il 4 febbraio. Il secondo giorno della sua visita in Polonia, Emmanuel Macron ha messo in guardia Varsavia martedì contro la ” negazione dei principi europei “, avvertendo che i sussidi UE per la transizione energetica saranno compensati da un cambiamento nelle politiche polacche. In un discorso all’Università Jagellonica di Cracovia (sud), il presidente francese ha quindi criticato con retorica le riforme che minacciano lo stato di diritto e l’indipendenza dei giudici in Polonia, obiettivi di una procedura di infrazione di la Commissione europea 8. Ribadendo che l’Europa deve aiutare finanziariamente questo paese a ridurre il posto del carbone e le sue emissioni di CO2, Macron ha menzionato un collegamento con questa procedura. ” Non commettere errori! Ha lanciato agli studenti presenti nel pubblico. “La Polonia non può mai fare un tale cambiamento da sola, può farlo solo attraverso l’Europa, con l’Europa “. ” E non commettere errori: non credere a chi te lo dice, l’Europa mi darà dei soldi con una mano per fare la mia transizione climatica ma mi permetterà di (fare) le mie scelte politiche altro. Non è vero! Ha continuato. “L’Europa è un blocco, un blocco di valori, un blocco di testo, un blocco ambizioni “, ha insistito 9. Astenendosi dal ” dargli lezioni “, ha messo in guardia la Polonia da ” una rinascita nazionalista in negazione dei principi politici europei “. La Polonia non può scegliere ” su una parte dell’Europa che (noi) si adatta ma che si allontana dai suoi valori fondamentali “, ha insistito, dopo aver celebrato i legami franco-polacchi. Il suo discorso pieno di riferimenti storici ha lasciato gli studenti presenti sulla loro fame. “Il presidente Macron mancava di elementi concreti, parlava molto di ideali ma non diceva quali interessi comuni potessero difendere Francia e Polonia ” , ha dichiarato Michal Klusek, 29 anni. “Il suo discorso sembrava piuttosto vago, i popoli dell’Europa centrale sono più abituati a uno stile di discorso anglosassone ”, ha aggiunto Johana Klusek, sua moglie ceca. Emmanuel Macron, d’altra parte, ha espresso la sua solidarietà con i suoi ospiti polacchi contro gli attacchi della Russia, che ha accusato la Polonia di collusione con Hitler e antisemitismo, anche di aver contribuito allo scoppio del conflitto mondiale. ” Voglio ribadire la solidarietà della Francia con il popolo polacco di fronte a coloro che vogliono negare la realtà ” e contro ” qualsiasi tentativo di falsificare la” Storia “ . “ Vedo l’approccio russo alla reinterpretazione della seconda guerra mondiale, per far sentire in colpa il popolo polacco. È un progetto eminentemente politico ”, ha osservato. “La Polonia non è responsabile dello scoppio della seconda guerra mondiale, è stata una vittima. La Polonia non ha scelto di essere il luogo dell’orrore ” , ha detto. Il presidente polacco Andrzej Duda ha anche annunciato martedì che la sua controparte francese lo aveva invitato in modo informale a un vertice del “triangolo di Weimar” (con la Germania) il 14 luglio a Parigi 10 .

Ottimo esempio di diplomazia allo stesso tempo in cui mescola le carte! Capire chi può.

Resta da vedere come dovrebbe essere compreso questo improvviso sviluppo diplomatico, sia nel tempo che nello spazio?

DIPLOMAZIA DI INCONSTANCE: BRAVO A GIOVE

Il viso polacco di Emmanuel Macron, una sorta di valzer di Chopin a due tempi, deve essere imperativamente inserito nel contesto più generale della pratica diplomatica del Capo dello Stato. La relazione che il mondo ne fa si basa sull’analisi di un falso problema che ignora un problema reale.

Un falso problema. Il quotidiano di breve durata Le Monde : ” Macron rivisita il rapporto con la Polonia “! 11Bugger. Il problema della diplomazia di Giove non è compreso dalla piccola estremità del cannocchiale, grande specialità del nostro follicolare incolto? Non mancano il punto? Questa è la vera domanda. Per dettagliare tutti i soggetti bilaterali ed europei affrontati durante questa visita ufficiale è certamente necessario per la prima comprensione della materia. Tuttavia, è lungi dall’essere sufficiente per la sua analisi più dettagliata. L’articolo dei nostri due pappagalli di carte stampa si diletta nella descrizione dei dettagli senza la minima importanza della dimensione geopolitica e geostrategica di questa visita. Ancora una volta, i problemi reali vengono toccati nella migliore delle ipotesi, nella peggiore delle ipotesi ignorati dalla grave ignoranza dello stato del mondo, dalle sue grandi sfide e dalle risposte che vengono loro fornite. Tutto ciò non fa parte della cultura generale dei nostri due esperti, generale e informale, il segno distintivo del grande quotidiano serale. Come direbbe l’altro, sanno tutto ma non capiscono niente. Ancora più serio, non si preoccupano di pensare, di porsi le stesse domande durante una simile visita. Sono biblicamente semplici: perché, come, quando, per quali obiettivi a breve e lungo termine? Tutta questa insalata ovviamente manca del minimo di spirito critico che ci si può aspettare da un giornalista che afferma di essere indipendente. Per leggere questa prosa indigente, capiamo meglio perché i cittadini si stanno allontanando da questi panni che sono chiamati grandi quotidiani nazionali e che non hanno nulla di grande, soprattutto non l’altezza della vista essenziale per affrontare questioni così importanti. Ma dov’è il nocciolo del problema di questa inaspettata visita ufficiale in Polonia dopo il flop del viaggio in Israele della settimana precedente.

Un vero problema Non esitate a chiamare una vanga una vanga come facciamo regolarmente nelle nostre riviste! Dopo la Russia (incontro con Brégançon) e l’Ungheria (ricevimento di Viktor Orban all’Élysée 12 ), è ora la volta della Polonia di essere al centro dell’attenzione di Emmanuel Macron. Perché quelli che sono stati diffamati ieri sono l’oggetto di tutti i pregiudizi di Giove? La risposta è semplice e doppia.

In sostanza, in primo luogo, l’atto I del quinquennio ha ampiamente dimostrato che tutti i piani proposti da Giove e dalla sua brutta truppa di consiglieri non sofisticati hanno reso pschitt. Alleanza con Donald Trump, rilancio delle relazioni franco-tedesche, costruzione europea, molteplici mediazioni e altre interferenze in questioni sulle quali la Francia non ha apportato il minimo valore aggiunto … Dopo due anni, i risultati sono catastrofici, La Francia si ritrova isolata e la sua voce non è più udibile sulla scena internazionale ed europea. Il tempo delle imprecazioni è finito. È urgente cambiare registro se vogliamo influenzare la soluzione dei principali problemi di domani e la ridefinizione della grammatica delle relazioni internazionali nel 21 ° secolo.

Sulla procedura, quindi, l’atto I del quinquennio ha ampiamente dimostrato i limiti della diplomazia di anatema e invettiva. Come giustamente Talleyrand sottolinea: ” Per diventare un buon diplomatico, devi non solo essere ignorante, ma anche educato”.Il minimo che si può dire è che Emmanuel Macron mancava di educazione elementare nei confronti di alcuni dei suoi omologhi, compresi e soprattutto quelli che difficilmente apprezziamo. Confuse moralità e diplomazia. Tuttavia, questi due concetti sono contraddittori se vogliamo praticare una diplomazia del reale, a lungo termine. Il Presidente della Repubblica ha il dovere di non essere scortese con i leader di altri popoli, specialmente quando questi ultimi sono stati scelti democraticamente. È importante spazzare fuori dalla tua porta prima di somministrare lezioni di etica e rettitudine all’intero pianeta.

Il risultato è lì sotto i nostri occhi. Dopo aver interpretato i volgari piromani – cosa che nessuno gli ha chiesto – ora interpreta i vigili del fuoco in un patetico pas de deux se si desidera misurare la distanza percorsa da maggio 2017. La diplomazia francese è apertamente aperta per quello che ‘è: una diplomazia di caos, negazione permanente, incoerenza, incoerenza, incoerenza, vuoto … E si potrebbero moltiplicare all’infinito le qualificazioni negative che lo caratterizzano. È perché il male che lo rosicchia è profondo. La diplomazia francese non è più credibile in quanto manca di coerenza e coerenza nel tempo e nello spazio. Questi non sono alcuni atti contrari, che non ingannano nessuno, che ripristineranno la fiducia nella parola di Francia.

“Di fronte a situazioni tragiche negli ultimi anni, in particolare a Gaza, la diplomazia emotiva e quindi il breve periodo hanno prevalso sulla diplomazia dell’anticipazione e sul lungo tempo” 13 . Come meglio riassumere il dramma della diplomazia francese di Giove rispetto a questo ex ambasciatore, esperto di questioni del Vicino e Medio Oriente che non ha lingua in tasca? Emmanuel Macron ha impiegato più di due anni per iniziare a imparare dai suoi errori, i suoi errori come principiante inesperto sulla scena internazionale. Prima di tuffarsi, avrebbe dovuto leggere La Géopolitique pour les nuls 14, Si immergono al fine di evitare di cadere nelle trappole lui stesso armato e ha tutta la difficoltà di uscire 15 . È tutt’altro che glorioso di un uomo che ha pensato di inventare un nuovo uomo. Ancora una volta il fallimento è amaro. Abbiamo bisogno di altre idee e di altri uomini oltre a quelli che abbiamo che non implementano in nessun momento la diplomazia fino alle sfide che affrontano. La vita è spesso responsabile della somministrazione di lezioni ai presuntuosi.

Nella diplomazia, come in altre discipline, la condanna non è sufficiente. È spesso controproducente. Emmanuel Macron ha iniziato la spirale discendente della diplomazia francese con i suoi colpi del mento, le sue frasi inadeguate, le sue stupide lezioni morali, il suo totalitarismo del pensiero … Il suo ridicolo aumenta solo con il tempo in un momento in cui giudichi parole più che atti. Con le sue ripetute focacce, la macchina diplomatica macroniana è condannata all’esaurimento (come i suoi collaboratori minacciati di ” esaurimento”“) Mentre il divario si allarga solo tra la sua finzione diplomatica e la realtà. I fantasmi non ne sanno nulla nelle relazioni internazionali. Questo è anche il motivo per cui fanno film. E questo è in definitiva ciò di cui si tratta con Giove. La visita ufficiale di Emmanuel Macron potrebbe facilmente dare origine alle riprese di un film di fantascienza, in cui la realtà supera la finzione, che potremmo chiamare Operation Demining and Seduction a Varsavia !

Guillaume Berlat
10 febbraio 2020

1 Sylvie Kauffmann, l’ Europa cura la sua Brexit a Varsavia , Le Monde, 6 febbraio 2020, pag. 32.
2 Catherine Chatignoux, realpolitik di Macron in Polonia , Les Échos, 5 febbraio 2020, pag. 9.
Macron accoglie una “svolta” con Varsavia , AFP, 3 febbraio 2020.
4 Catherine Chatignoux, Emmanuel Macron in Polonia per rilanciare il dialogo , Les Échos, 3 febbraio 2020, p. 11.
5 Jean-Pierre Stroobants, Bruxelles è allarmato dall’acquisizione della giustizia da parte del PiS, Le Monde, 5 febbraio 2020, pag. 2.
6 Laure Mandeville (osservazioni raccolte da),Andrzej Nowak: “Varsavia ha il diritto di definire l’Europa come Parigi o Berlino”, Le Figaro, 7 febbraio 2020, pag. 17
7 Laure Mandeville, Francia e Polonia si avvicinano per servire l’Europa. A Varsavia, i presidenti Macron e Duda volevano dimenticare le vecchie lamentele e manifestare un’ambizione comune , Le Figaro, 4 febbraio 2020, p. 7.
8 Laure Mandeville, Before the young Poles, motivo europeo di Macron , Le Figaro, 5 febbraio 2020, pagg. 6-7.
9 Olivier Faye / Piotr Smolar, a Cracovia, Macron chiede valori europei , Le Monde, 6 febbraio 2020, pag. 4.
10 Macron chiede il rispetto dei valori europei, AFP, 4 febbraio 2020.
11 Olivier Faye / Piotr Smolar, Macron rivisita il rapporto con la Polonia , Le Monde, 5 febbraio 2020, pagg. 1-2.
12 Anne Rovan, Il caso Orban pone i Ventisette di fronte alle loro contraddizioni , Le Figaro, 5 febbraio 2020, pag. 7.
13 Yves Aubin de la Messuzière, Sul conflitto israelo-palestinese, la voce della Francia si è spenta , Le Monde, 4 febbraio 2020, pag. 28.
14 Philippe Moreau Defarges, Geopolitica per i manichini . Per mettere in tutte le mani ! Primo, 2019.
15 François Bonnet, Macron 22, potere solitario in un vicolo cieco ,www.mediapart.fr , 6 febbraio 2020.

Per aiutare il sito del Vicino e Medio Oriente è qui

Fonte: Vicino e Medio Oriente, Guillaume Berlat , 10-02-2020

LA REPUBBLICA DIMEZZATA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA REPUBBLICA DIMEZZATA

Ha suscitato un modesto interesse che la Corte di giustizia UE abbia condannato la Repubblica italiana perché (cito testualmente)  “Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni”.

Che l’interesse sia stato modesto lo si deve probabilmente da un lato al fatto che tutti sanno – anche se nei mass-media se ne legge poco – che i ritardi nei pagamenti dei creditori del settore pubblico sono enormi, molto peggiori di quanto risulti dagli atti citati dal Giudice europeo nella sentenza, dall’altro che le decisioni giudiziarie sui ritardi sono tante che non “fanno più notizia”.

Ciò stante, dall’arresto suddetto della Corte risulta che l’argomentazione dell’Italia per difendere la prassi (costante e reiterata) del ritardato adempimento (spesso di anni e talvolta di lustri) consisteva in ciò che (cito testualmente) “le direttive europee…non impongono, invece, agli stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi circostanza, dei suddetti termini da parte delle loro pubbliche amministrazioni. La direttiva 2011/7 mirerebbe ad uniformare non i tempi entro i quali le pubbliche  amministrazioni devono effettivamente procedere al pagamento… ma unicamente tempi entro i quali essi devono adempiere alle loro obbligazioni senza incorrere nelle penalità automatiche di mora”. Cioè non conta se il creditore è stato pagato, perché ad avviso della nostra Repubblica “non implicherebbe uno stato membro sia tenuto ad assicurare in concreto il rispetto di detti termini”… perché le “direttive non assoggettano…. lo Stato membro… ad obblighi di risultato, ma, tutt’al più ad obblighi di mezzi”. Traducendo tali espressioni tecniche in linguaggio più corrente, lo Stato membro europeo avrebbe l’obbligo di tradurre in norme nazionali le direttive U.E., ma se poi queste vengono aggirate o di fatto disapplicate dalle pubbliche amministrazioni o dai giudici, col lasciare i creditori “a becco asciutto” il tutto non darebbe adito ad alcun dovere né responsabilità dello Stato. Cioè i creditori dovrebbero essere appagati che il (loro) diritto al (sollecito) pagamento sia stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, che magari  sia stato anche statuito in altra sede, tuttavia, senza poter pretendere che lo Stato si attivi perché il pagamento sia effettuato. A parte la sottile quanto involontaria comicità di tale impianto argomentativo, dato che per i creditori veder riconoscere il proprio diritto al pagamento è qualcosa, ma essere pagati è tutto (mentre per la Repubblica italiana è il contrario), va esaminato non solo perché la prassi è reiterata, ma perché rientra nel dibattito sul sovranismo (o meglio sulla sovranità) tanto demonizzata.

Lo stato moderno è responsabile in linea generale dell’applicazione del diritto sul proprio territorio. Scriveva (tra i tanti) un maestro del diritto internazionale come Triepel che, in caso di violazione di un diritto garantito da norme internazionali “per quanto lo Stato col mantenersi inattivo verso chi lede un altro Stato non diventi complice di costui, è tuttavia esatto dire che è responsabile se non procede contro di lui”. E ciò avviene perché “la responsabilità ha nel nostro caso un carattere schiettamente territoriale, essa è conseguenza necessaria della sovranità territoriale… tale responsabilità è giustificata dal fatto che determinati interessi furono lesi entro la cerchia cui si estende la esclusiva sovranità di uno Stato”.

Onde lo Stato è responsabile anche per gli atti dei suoi organi; degli enti pubblici e comunque “per la condotta delle persone che ha investito di una pubblica funzione” sia che abbiano commesso atti illeciti che leciti (secondo il diritto internazionale). Le norme che consentono di sanzionare i funzionari che li abbiano commessi secondo il giurista tedesco “costituiscono diritto internazionalmente indispensabile”.

Diversamente da quello che pensano gli adepti del “politicamente corretto” è proprio la sovranità territoriale a garantire non solo l’esistenza politica delle comunità umane, ma anche l’effettiva applicazione del diritto; e così a prendersi carico dei relativi obblighi e responsabilità, sia che derivino da fonti del diritto interne che internazionali. Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”. È questo un aspetto peculiare dello Stato moderno che consiste anche di un’organizzazione di applicazione del diritto, la cui funzione è di rendere reali e concreti i diritti enunciati nella legislazione o comunque vigenti. Diversamente dalle monarchie feudali in cui la realizzazione delle pretese era spesso rimessa agli interessati medesimi (così, in genere, come nelle forme arcaiche di ordinamenti politico-sociali).

Situazione pericolosa. Lo Stato moderno, anche per questo, conquistò oltre al monopolio della violenza legittima, quello dell’applicazione del diritto (ne cives ne arma ruant). che non è il monopolio del diritto, giacché questo è generato in parte considerevole, spesso la più importante, non da organi statali: ma è quello della sua concreta esecuzione e realizzazione.

Se la Repubblica si difende in giudizio sostenendo che non è suo compito assicurare che il diritto sia realizzato, vuol dire che sta regredendo verso forme pre-moderne di ordinamento: o meglio che è in de-composizione. Come, in effetti, è ogni Stato che non pretende di essere sovrano.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO…., di Teodoro Klitsche de la Grange

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO….

Da quando è in sella il governo giallorosso i suoi sostenitori decantano che i rapporti con l’Europa sono tornati al bello stabile, che il governo è tra i più considerati a Bruxelles e così via.

Nessuno, che mi risulti, ha notato, all’apertura di tali cori, che l’Unione Europea aveva concesso all’Italia un incremento del rapporto deficit/PIL del di 2,2% per il corrente anno, a fronte del 2,04% assicurato al governo “nemico” Lega-M5S.

Questo (misero) 0,16% del PIL, pari a poco più di 2,5 miliardi di euro, ci ha dato la misura dell’amicizia nutrita dall’establishment europeo nei confronti del nuovo governo. Per fare un paragone è assai meno del deficit concesso alla Francia e comunque inferiore a quello realizzato dalla Spagna (2,5%) che non sembrano preoccupare granché i vertici europei. Anche in passato sono stati tollerati rapporti deficit/PIL superiori al 10% senza ansie eccessive. Vero è che per l’Italia – a differenza di altri Stati (come l’Irlanda e il Portogallo) – le dimensioni economiche e il complesso del debito pubblico rende l’incremento più rischioso.

Ciò stante resta il fatto che laddove esiste un rapporto d’amicizia politica o quanto meno un interesse comune degli Stati i rapporti economici non si misurano col bilancino e la partita doppia, ma seguono esigenze e criteri di carattere politico. Facciamo due esempi di questa costante nel secolo scorso.

Il primo: quando la Gran Bretagna, già in guerra con il III Reich, si trovò a corto di contante, Roosvelt ne finanziò l’armamento con la legge “affitti e prestiti” con cui praticamente concesse un credito amplissimo alla Gran Bretagna (e non solo). Rischiando grosso, perché questa era esposta all’invasione delle Panzer Divisionen, per cui i creditori americani correvano il rischio di ritrovarsi il debitore inglese “al gabbio” tedesco.

Qualche anno dopo, di fronte ad un’Europa distrutta dalla guerra, il Presidente Truman col piano Marshall decise di aiutarne la ricostruzione con copiosi aiuti economici. Anche in tal caso determinante fu l’esigenza politica di bloccare l’espansionismo sovietico e di consolidare il rapporto con i governi amici dell’Europa occidentale; comunque il piano si rivelò una mossa azzeccata anche economicamente, perché consentì di accelerare il recupero delle economie europee con notevoli benefici anche per quella USA.

Se i Presidenti USA avessero valutato le situazioni ricordate in base al giornalmastro, forse l’Inghilterra sarebbe finita sotto un Gauleiter o qualche paese europeo-occidentale sotto un governo comunista o para-comunista (di “larghe intese”) con notevole ridimensionamento della potenza USA (e probabilmente, anche  dell’economia). Quindi era stata una scelta corretta e provvida quella di aiutare gli amici politici, anche correndo un rischio elevato.

Se questo è vero, occorre capire perché i governanti europei sono così avari nei confronti dei loro “alleati” italiani e lesinino loro anche gli zerovirgola.

La prima spiegazione è che gli eurocrati pensino che l’economia debba prevalere sulla politica; ma l’ipotesi non è del tutto credibile – anche se in linea col pensiero prevalente (oggi al tramonto). Questo perché l’ascesa del popul-sovranisti rischia di mandare a casa gran parte degli attuali governanti europei (in particolare quelli di centrosinistra, debilitati dalla disaffezione del loro elettorato); e in politica, l’obiettivo di conservazione del potere è primario onde non è credibile che, per  qualche zerovirgola si ripeta quanto già successo nel 2018: che l’Italia è stata il primo paese dell’Europa occidentale ad avere un governo popul-sovranista.

Tenuto conto che comunque c’è un interesse a dare una mano al governo giallorosso, occorre cercare i motivi perché, a Bruxelles si limitino alla falange del mignolo. All’uopo possono formularsi due ipotesi.

La prima è che si considera il governo giallorosso poco o punto affidabile, per due ragioni concorrenti. L’una che tutti i governi italiani dal 2008 ad oggi, pur applicando, spesso con zelo, le direttive europee, non hanno fatto altro che aumentare l’indice deficit/PIL.

Per cui il PD che di quei governi (con l’eccezione del Conte 1) e dell’attuale è il sostegno più qualificante è considerato poco affidabile. Alla fin fine coniuga le direttive europee con la conservazione degli assetti vintage e la strategia delle mance (alle banche, alle concessionarie “privatizzate”, ai tax-consommers) per cui l’aumento del deficit e della spesa non ha alcun effetto politico gratificante. La crescita dei consensi, anche rispetto alle politiche 2018, dei partiti sovranisti (LEGA e          FDS) lo comprova. Come parimenti il crollo rovinoso dei 5S, aumentato dopo il varo del governo Conte-bis. E qua veniamo alla seconda ragione: se il governo attuale, già minoritario, continua a perdere consensi, l’aiuto è politicamente inutile. Meglio trattare con chi ha una reale legittimazione democratica, e cioè il consenso del potere maggioritario, perché quanto meno, ha più autorità nel far valere poi gli accordi stipulati e mantenerli.

Insomma c’è un grave sospetto che quello 0,16% in più di deficit sia dovuto alla scarsa considerazione che “la dove si puote ciò che si vuole” si ha delle declinanti élite italiane. Altre ragioni si potrebbero enumerare, ma paiono d’impatto minore. La sostanza è che in Europa si aspettano l’imminente tracollo – se non definitivo, almeno per un decennio – degli “amici” italiani.

Per cui come succede in guerra dove gli ascari o gli auxilia erano i primi ad essere sacrificati, così lo saranno gli “amici” italiani, a prova di un rapporto ineguale più che di amicizia, di sudditanza. Politicamente normale per chi la accetta.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il gioco dell’oca, di Andrea Zhok

Sul Financial Times di una settimana fa è apparso un articolo cui è utile dedicare qualche riflessione (vedi estremi nei commenti).

https://amp.ft.com/content/b9dea3b6-3384-11ea-a329-0bcf87a328f2?__twitter_impression=true&fbclid=IwAR3GtZdXmuER3AtBlxH1Bz4aGW3DSJ9HWj_8gVMxgpuGDWFhheSuh0g2vXg

In sostanza vi si sostiene che:

1) L’Italia sta bloccando la firma del MES con specifico riferimento al regolamento bancario.

2) Il blocco per il presente governo avrebbe ragioni di ‘vendibilità politica’ presso l’opinione pubblica, ragioni che potrebbero essere rimosse di fronte a eventi politici che indebolissero l’opposizione (Lucrezia Reichlin, intervistata, cita esplicitamente una possibile vittoria del PD nelle prossime elezioni regionali).

3) L’oggetto fondamentale del contendere sono le limitazioni agli istituti bancari privati nel detenere titoli del debito pubblico. Va notato che tale possibilità è considerata dall’articolista del Financial Times come “un potere attraente per i governi di farsi finanziare il debito quando nessun altro sarebbe disponibile a farlo”. In altri termini il debito pubblico in pancia agli istituti privati viene visto – coerentemente con posizioni neoliberiste – come una comoda valvola di sfogo per i governi, che disporrebbero così di margini di spesa altrimenti inaccessibili e non sarebbero costretti alla piena ‘disciplina dei mercati’.
A questo proposito è utile sottolineare tre punti:

3.1) I titoli del debito pubblico, italiano e non solo, si trovano in grande quantità in possesso di istituti bancari privati perché così era concepito il sistema del Quantitative Easing (LTRO e TLTRO): la concessione di credito facile da parte della BCE avveniva rigorosamente solo al sistema bancario privato, che lo usava per acquistare titoli di stato, come collaterale. Non si trattava dunque di un ‘trucco’, ma di un’operazione concepita per funzionare esattamente in quel modo e di cui si conosceva perfettamente l’esito.

3.2) Incidentalmente il QE serviva a tappare i buchi creati dalla crisi subprime e dai suoi postumi, crisi creata non da ‘governi dalla spesa facile’, ma dai mercati finanziari, quelli che poi sarebbero chiamati a bacchettare severamente gli stati per ‘disciplinarli’.

3.3) Togliere quello che il FT presenta come una sorta di ‘privilegio dei governi’, e dunque obbligare il sistema bancario italiano a disfarsi di parte significativa dei titoli di stato in suo possesso significa simultaneamente mettere in ginocchio il sistema bancario italiano, e devastare l’equilibrio finanziario dello stato, obbligando quest’ultimo ad un’operazione austeritaria rispetto a cui il governo Monti sembrerà un Luna Park.

4) La posizione sostenuta anche da Ignazio Visco (non da Che Guevara) che tali limitazioni all’esposizione bancaria in titoli di stato sarebbero sopportabili dal sistema italiano solo con l’istituzione di ‘eurobond’ (cioè di una corresponsabilità sui debiti pubblici a livello europeo) non è neppure lontanamente presa in considerazione, per la semplice ragione che sono “anatema” per Germania e paesi satellite del Nord Europa. Questo ci ricorda quanto contino le frasette “vogliamo un’Europa diversa”, e “cambieremo l’Europa dall’interno”.

————————

A questo punto qualcuno dovrebbe chiedere al presente governo di prendere una ferma ed inequivoca posizione, negando solennemente che la firma del MES, con quelle clausole, sia all’ordine del giorno nel caso di una sconfitta di Salvini alle regionali (con conseguente consolidamento della durata del governo).

In mancanza di chiare garanzie su questo punto, la cui portata è potenzialmente drammatica, bisognerà prendere dolorosamente atto che gli italiani – almeno quelli consapevoli – vengono spinti a forza nelle braccia di Salvini.

Potenza e vicolo cieco dell’europeismo in Francia – Di Éric Juillot

Considerazioni che possono tranquillamente essere trasposte in gran parte alla situazione italiana_Giuseppe Germinario

ps_ la traduzione sarà perfezionata appena possibile

Potenza e vicolo cieco dell’europeismo in Francia – Di Éric Juillot

Fonte: Les Crises, Éric Juillot , 23-12-2019

Nell’ambito ideologico, l’attuale situazione in Francia è paradossale: l’europeismo domina in modo egemonico i mondi politico, mediatico e accademico, ha scavato un profondo solco nella vita politica nazionale per più di trenta anni – fino a “determinarne il corso e persino le finalità – anche se è in minoranza all’interno dell’elettorato e le scelte politiche a cui ha guidato si sono tutte rivelate dannose, se non catastrofiche per il nostro paese [1] .

Quindi qual è la forza dell’europeismo, perché è ancora l’ideologia dominante, in gran parte impermeabile ai suoi fallimenti?

Un nocciolo duro: ” Europa ” salvifica e redentrice

Come tutte le ideologie, l’europeismo si basa su un certo numero di credenze, stabilite come certezze assolute e razionalmente supportate da argomentazioni apparentemente oggettive. Il tutto in realtà non produce un sistema, in cui ogni idea si adatterebbe a un insieme coerente e gerarchico, ma questo non è un requisito essenziale per la solidità dell’edificio ideologico. In effetti, la vaghezza dei contorni e l’incertezza riguardo ai dettagli del discorso ideologico aiutano a rafforzarlo; prospera molto più sugli elementi di credenza che sugli argomenti passati nel calore di un lontano esame critico.

L’attuale dominio dell’europeismo è un esempio lampante: per trent’anni la retorica filoeuropea non è mai andata oltre il palcoscenico del generale banale; gli stessi argomenti continuano all’infinito nonostante la loro povertà; sono ripresi senza batter ciglio da ogni nuova generazione di militanti, convinti – apparentemente giustamente – che esaltazione e fervore rendono gli argomenti spessi e sottili [2].

Ciò consente a questo discorso di diffondersi su larga scala in modo più efficace di quanto farebbe un sistema, la cui chiarezza razionale darebbe facilmente luogo a posizioni forti che potrebbero alimentare un dibattito sostanziale che è necessariamente pregiudizievole per la causa. Chiunque osservi l’europeismo da lontano, senza distinguerne i contorni, può aderire ad esso inerte, senza pensarci troppo; chiunque lo osservi da vicino nel contesto di un esame critico è obbligato a osservare i suoi vizi e difetti.

Alla radice dell’europeismo, quindi, una convinzione tanto diffusa quanto irremovibile: è l’Unione europea (UE), sistematicamente chiamata “Europa” – secondo una logica usurpante – che i francesi e gli altri popoli del il continente otterrà la redenzione e la salvezza durante questo secolo. Redenzione per i nostri crimini politici del ventesimo secolo (guerre mondiali, guerre di decolonizzazione con i loro numerosi massacri e atrocità, ecc.) E salvezza, perché il Male è ancora dentro di noi e chiede solo di rinascere, per meno, appunto, di “Europa” ci libera distruggendola.

Una simile prospettiva potrebbe essere facilmente descritta come escatologica – “Europa” o morte! – se la nostra era disincantata non impedisse l’espressione di questo tipo di assoluto. È piuttosto necessario parlare, in materia, di un’escatologia alla moda borghese. La formula è priva di significato a priori, ma esprime l’idea di un vago imperativo categorico, di un requisito morale per il futuro, conferendo all’europeismo proprio ciò di cui ha bisogno dell’idealismo in modo che i suoi sostenitori affrontare senza fatica le ingiustizie e le crisi che il suo spiegamento provoca nella cascata immediata.

L ‘”Europa” è stata così eretta, dalla fine degli anni ’80, fine a se stessa , quando la costruzione europea era fino a quel momento solo un mezzo al servizio degli Stati. Fu da questa inversione di prospettiva che nacque l’europeismo [3], la cui formalizzazione concettuale fu poi effettuata negli anni ’90, secondo le idee ideologiche allora di moda [4]: ​​fine della politica e persino fine della storia superando lo stato, la nazione, la sovranità, il territorio … così tanti pilastri dell’universo politico moderno distrutti dal trionfo dell’individuo, della legge e del mercato, eccetera “Europa” come traguardo finale dell’umanità, fase finale della sua evoluzione [5].

L’europeismo deve quindi parte del suo successo a ciò che sembra in grado di materializzare, a breve o medio termine, le idee e le speranze politiche portate brevemente al culmine della vita intellettuale alla fine del XX secolo. È l’ennesimo avatar del mito del progresso, un mito in crisi da oltre un secolo, ma la cui versione soft ha trovato un comodo ricettacolo nell’UE.

Il paradosso è che la sua morbidezza gli conferisce una resistenza innegabile: ci crediamo, ma non troppo (nessuno morirà per questo) e questa convinzione dà a coloro che vi aderiscono una piacevole base di tempo, a causa di un leggero ancoraggio nel futuro raggiante, così come il conforto di appartenere, per il momento, al campo Buono. Dalla tribù gallica all’incarnata “Europa”, l’evidenza di un’evoluzione lineare e graduale verso un grado sempre più elevato di civiltà, la certezza di un arrivo imminente a questo risultato ci incoraggia a sbarazzarci dell’ultimo il più rapidamente possibile. vestigia politiche del 20 ° secolo, a partire dall’appartenenza nazionale.

L’europeismo è effettivamente dispiegato, in certi ambienti, tanto più facilmente quando non incontra più l’ostacolo che l’idea nazionale rappresentava storicamente prima di esso. Dagli anni ’50 agli anni ’80, questa idea era ancora abbastanza forte da resistere con successo al dilagare del progetto della comunità. Il grande passaggio che rende possibile la nascita dell’UE ha come condizione fondamentale il declino della nazione in senso politico. Ora è possibile toglierne la sostanza – in questo caso, la sua sovranità – nella speranza di vestire di nuovo la dea “Europa”.

Tale operazione potrebbe essere concepibile solo grazie a un profondo cambiamento nella cultura politica del nostro paese: il declino, in pochi decenni, del sentimento di appartenenza alla nazione. Questo sentimento fu oggetto di desacralizzazione , dal 1918 alla seconda guerra mondiale, poi di una demitificazione dal 1945 agli anni ’70 per arrivare finalmente allo stadio della negazione dagli anni ’80 [6]. È l’abbassamento del punto di riferimento nazionale, particolarmente marcato tra le élite culturali del paese, che consente la transizione verso “l’Europa”. La nazione non è più nient’altro che una forma vecchia e pericolosa, o una forma vuota, senza altro contenuto che artificiale e superfluo. In breve: un’illusione ingannevole di cui è tempo di liberarsi.

La convinzione di salvare “l’Europa” corrisponde quindi a un momento molto particolare della nostra storia nazionale. È particolarmente osservato negli strati superiori della popolazione, dove funge da indicatore di identità e dove determina convinzioni tanto vaghe quanto irremovibili.

Caratteristiche sociologiche del blocco d’élite

“Blocco Elite” [7] o “blocco borghese” [8]: qualunque sia l’espressione scelta, designa questa frazione del popolo francese che comprende la stragrande maggioranza delle persone con un livello di istruzione, qualifica e redditi significativamente al di sopra della media. Se questi contorni non sono chiari, le ultime elezioni ci consentono comunque di stimare che rappresenta tra il 20 e il 30% dell’elettorato.

Se ovviamente presenta un’eterogeneità politico-ideologica interna, l’europeismo contribuisce fortemente alla sua omogeneità. Ne costituisce il cemento e la forza politica, poiché spiega quasi da solo il successo del campione che il blocco ha trovato nelle ultime elezioni presidenziali. L ‘”Europa” era in effetti il ​​tema unificante del suo programma, nonché un efficace schermo idealista, utile per nascondere l’impresa neoliberista di regressione sociale portata avanti dal nuovo presidente.

Dal punto di vista sociologico, il blocco è composto dai seguenti gruppi: il più ricco “1%” nel paese è completamente compreso. Il loro sostegno all’UE è ovvio poiché è uno dei più solidi garanti del capitalismo finanziario in tutto il mondo da cui derivano la loro immensa fortuna. Numericamente molto deboli, hanno una forza di sciopero finanziario che dà loro una reale influenza politica (in particolare per il loro peso nel mondo della stampa scritta).

A questo piccolo gruppo si aggiunge quello dei più grandi dirigenti senior del settore privato, residenti nel cuore delle grandi città, fluenti in inglese, che sono chiamati a viaggiare frequentemente all’estero come parte della loro professione, ma anche durante le vacanze. Questo gruppo costituisce i grandi battaglioni di élite nomadi, deterritorializzati, che credono di vivere “l’Europa” su una base quotidiana dalla loro apertura al mondo, per il quale il patriottismo è un valore obsoleto e il decentramento quale espatrio fornisce una fine morale più alta. L ‘”Europa” è una prova inquieta in questi ambienti, tanto più facilmente perché il loro radicamento nel cuore delle metropoli li esime dal notare gli effetti deleteri in altre parti del paese.

A questo gruppo deve essere aggiunta la maggioranza degli alti dirigenti del servizio pubblico. Se non hanno un livello di reddito paragonabile alle loro controparti nel settore privato, dall’altra parte hanno la sensazione di formare un’élite culturale il cui indicatore principale risiede in un cosmopolitismo di buona qualità, un vuoto universalismo e, di conseguenza, , una profonda aderenza a un “ideale” europeo che consente di superare la ristrettezza e l’egoismo di un’identità nazionale identicamente onerosa.

È inoltre necessario sottolineare la dimensione sacrificale del loro europeismo, nella misura in cui quest’ultima induce una politica economica obiettivamente sfavorevole ai loro interessi: tutti, nel loro rispettivo ambiente professionale, hanno notato per decenni il continuo deterioramento delle loro condizioni di lavoro, rispetto alla loro sotto-remunerazione, in un contesto globale di ritirata statale imposta dal neoliberismo di Bruxelles. Il loro attaccamento alla causa europea è ancora più sorprendente, anche se la sicurezza del lavoro di cui beneficiano contribuisce notevolmente al suo mantenimento. Infine, è la frazione del blocco d’élite più propensa a sviluppare un discorso critico nei confronti dell’UE, limitato tuttavia a poche imprecisioni generali sulla necessità di un’altra “Europa”.

Su base giornaliera, la coesione del blocco è assicurata dai media ideologicamente conformi. I cittadini di questo blocco leggono gli stessi giornali, le stesse riviste; tutti ascoltano le stesse stazioni radio e guardano le stesse trasmissioni politiche, il cui spettro ideologico si è ridotto come un granello di dolore nel corso dei decenni.

Se alcune sfumature di dettagli le differenziano ancora, tutti concordano sull’essenziale. Poiché gli uffici editoriali di questi media sono tutti popolati da giornalisti della sociologia del blocco e che sono conquistati incondizionatamente dall’europeismo, il mantenimento delle proprie convinzioni e convinzioni è pura routine intellettuale, conformismo in ogni momento, d ‘igiene mentale di base in nome della quale tutte le critiche un po’ stridenti all’UE vengono immediatamente scartate come populismo grossolano. L’europeismo mediatico merita pertanto una validazione istituzionale e quotidiana di questa ideologia; è una parte essenziale della sua forza di resistenza alla realtà.

Questo blocco d’élite è oggi forte nella sua coesione ideologica, nella sua posizione sociale e nel suo controllo egemonico dell’universo dei media. Se domina politicamente, sebbene sia una minoranza, è dovuto alla sua posizione centrale sulla scacchiera politica che lo deve. Nel 2017, durante le elezioni presidenziali, gli elettori del blocco hanno formato la piazza attorno al loro campione, per garantire la vittoria della loro causa. Ma il catastrofico fallimento del progetto europeo e le prime convulsioni sociali e politiche che seguirono in Francia a breve termine costituirono una minaccia mortale per il bastione “centrista” [9].

Aspettando la prossima ondata

Il tempo in cui potremmo sentirci in colpa per le masse riluttanti con argomenti bludgeon del tipo “Europa-è-pace” o “Unione-fa-forza”, questa volta è andato [10]. Oggi non è più possibile vietare tutte le critiche all’UE nel suo principio, sulla base del fatto che questo sarebbe un modo stupido e pericoloso di pensare alle cose. Ma la cecità regna sovrana all’interno del blocco d’élite, dove nessuno capisce che la rabbia popolare è radicata nei fallimenti a cascata del progetto europeo, portando allo stesso tempo devitalizzazione democratica, regressione sociale e declino economico per il nostro paese.

Mentre si aggrappa al suo universo ideologico fallito, il blocco d’élite inchioda la sua bara elettorale, come sicuramente fece il precedente partito socialista, il cui europeismo era la tomba. Se non avesse ricoperto la posizione centrale – quella dei partigiani dell’immobilità – non avrebbe alcuna possibilità di rimanere alla fine dell’attuale mandato presidenziale. Ma non può sperare in nient’altro che guadagnare tempo, a rischio di aggravare in proporzioni vertiginose la crisi politica che scuote la Francia oggi e in attesa di essere spazzato via quando il suo posizionamento politico sarà chiaramente percepito da tutto per quello che è, vale a dire un nuovo tipo di estremismo, tanto più pericoloso dal momento che è al potere.

Il divario ideologico che sta rovinando il paese oggi deve essere ridotto al più presto; il blocco dominante non può continuare a governare secondo le sue convinzioni ideologiche e interessi ben compresi, poiché ciò equivale a una usurpazione così grave dell’interesse generale che mina la democrazia nelle sue basi.

Per il futuro, la sovversione dell’ordine ideologico in atto può seguire due strade: quella del rinnovo immediato, o quella del rinnovo differito, preceduta da una fase di decomposizione e convulsioni. Il rinnovo immediato può provenire solo dalla cima del blocco d’élite stesso. Dopo l’ irrigidimento in difesa di un regime di dominio ideologico ingiusto e senza fiato, logicamente dovrebbe arrivare il momento di rinunciare alle credenze che lo strutturano; una rinuncia legata al riconoscimento dei suoi fallimenti, del suo impasse e del suo rifiuto da parte del maggior numero.

Il governo al potere è in grado di un tale aggiornamento ideologico? Nessuno può prevederlo, ma la chiara consapevolezza del suo immediato interesse, unita alla volontà dei suoi elettori di mantenere la loro posizione sociale dominante, potrebbe agire in questa direzione – soprattutto dal momento che anche coloro che hanno storicamente beneficiato del sistema in atto iniziano a soffrire delle sue contraddizioni terminali [11].

Un’altra ipotesi, quella del rinvio ritardato, in altre parole, nell’immediato, della putrefazione: può derivare dalla fuga in avanti e dall’aumentato autoritarismo del potere in atto; può essere esteso dalla sua possibile vittoria nel 2022, nonché dalla vittoria del suo principale avversario, l’RN, i due partiti rivali che comunicano nella stessa nullità ideologica. Durante questo periodo di decadenza, l’ordine ideologico in atto potrebbe essere improvvisamente spazzato via da un’emozione popolare di una grandezza ancora maggiore di quella dei giubbotti gialli nel 2018-2019.

Comunque sia, a breve o medio termine, la distruzione dell’europeismo come l’ideologia dominante è davanti a noi: non può sopravvivere per sempre al fallimento di tutti i suoi tentativi di materializzarsi e alla crescente rabbia della gente. Solo la ricostruzione di un ordine economico sovrano rigenera la vita politica e ripristina la prosperità economica nel nostro paese.

Eric Juillot

fonti:

[1] È necessario richiamarli? A livello economico, la costruzione europea, che doveva renderci più forti, non ha ridotto (piuttosto li ha rafforzati) questi mali che sono la disoccupazione di massa, la deindustrializzazione, il deficit commerciale, l’interrogatorio della protezione e diritto del lavoro … In termini geopolitici, l’UE è rimasta nana, ma la speranza di vederla crescere è stata una delle forze trainanti del ritorno della Francia alla NATO nel 2008, venti anni dopo la fine del la guerra fredda (era necessario dare impegni di atlantismo ai nostri partner europei per ottenere il sostegno dell’idea di difesa europea)![2] Questo anche se al cuore militante – in questo caso, gli intellettuali organici che dominano lo spazio mediatico – piace essere convinti del contrario. Per usare la formula di Alain Besançon, se i fedeli di una religione “sanno di credere”, gli stessi ideologi “credono di sapere”.[3] Istituito istituzionalmente dal passaggio dalla CEE all’UE nel 1992.[4] Vedi in particolare il lavoro di Fukuyama e Hobsbawm, emblematico di questo periodo.[5] L’uso massiccio del prefisso “post”, tuttavia, riflette l’incertezza e la difficoltà di pensare al di fuori del vecchio quadro: post-nazionale, post-politico, post-democratico, ecc.[6] Per uno sviluppo discusso, vedi E. JUILLOT , La déconstruction européenne , 2011, edizioni Xénia.[7] Espressione usata da Jérôme Sainte-Marie, da cui si ispirano le seguenti righe. Vedi in particolare: https://www.marianne.net/debattons/entrfaits/jerome-sainte-marie-la-dynamique-elitaire-du-macronisme-prepare-l-ascension-du[8] B. AMABLE e S. PALOMBARINI, L’illusion du bloc borghese , Raisons d’Agir, Parigi, 2018.[9] Questa è, inoltre, la causa fondamentale dell’irrigidimento autoritario dell’apparato politico-mediatico nel trattamento della rivolta dei giubbotti gialli: tutti sentono in cima che la fine si sta avvicinando, tranne forse per ricorrere al violenza per contenere le orde barbariche.[10] In effetti, per quindici anni. La debole portata concreta di questi argomenti era già osservabile durante la campagna referendaria del 2005 a favore o contro la “costituzione” dell’UE.[11] In particolare per il calo del rendimento del capitale investito dell’assicurazione sulla vita sotto l’effetto distruttivo di tassi negativi sui titoli di Stato.Fonte: Les Crises, Éric Juillot , 23-12-2019

https://www.les-crises.fr/puissance-et-impasse-de-leuropeisme-en-france-par-eric-juillot/

Il rebus turco in Libia, di Bernard Lugan

Tre eventi di grande importanza rimescolano il gioco geopolitico del Mediterraneo:
1) Il 7 novembre 2019, per controllare il percorso dell’oleodotto EastMed attraverso il quale procederanno le future esportazioni di gas dagli enormi giacimenti nel Mediterraneo orientale verso l’Italia e l’Unione europea, la Turchia ha firmato con la GNU (Governo cittadino libico Union), uno dei due governi libici, un accordo di delimitazione delle zone economiche esclusive (ZEE) di entrambi i paesi. Conclusi in violazione del diritto marittimo internazionale e a spese di Grecia e Cipro, questo accordo traccia anche, artificialmente ed illegalmente, un confine marittimo turco-libico nel bel mezzo del Mediterraneo.
2) La salvaguardia di questo accordo dipende dalla sopravvivenza militare del GUN; il 2 gennaio 2020 il Parlamento turco ha quindi votato l’invio di forze di combattimento in Libia per impedire al Generale Haftar, capo di un altro governo libico, la presa di Tripoli.
3) In risposta, sempre il 2 gennaio, la Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo sulla rotta del futuro gasdotto EastMed il cui tracciato è collocato parzialmente  nella zona marittima turca sancita unilateralmente dall’accordo Turchia-GUN del 7 novembre 2019.
Questi eventi meritano una spiegazione:
Perché la Turchia ha deciso di intervenire in Libia?
La Libia era un possedimento ottomano dal 1551 al 1912, quando, sopraffatta militarmente, la Turchia ha firmato il Trattato di Losanna-Ouchy con il quale lei ha ceduto Tripolitania, Cirenaica e il Dodecaneso all’Italia (vedere sulla mia bacheca due libri di storia della Libia   e Storia del Nordafrica dalle origini ai giorni nostri ).
Dalla fine del regime di Gheddafi, la Turchia conduce una politica molto attiva nel suo antico possedimento basandosi sulla città di Misurata. Da quest’ultimo alimenta il terrorismo dei gruppi armati del Sahel ricattando la Francia: “Tu aiuti i curdi, allora noi sosteniamo i combattenti jihadisti” …
A Tripoli, militarmente messo alle strette dalle forze del generale Haftar, GNU ha chiesto alla Turchia di intervenire per salvarlo. Il presidente Erdogan ha accettato in cambio della firma dell’Accordo marittimo del 7 Novembre 2019 che consente, aumentando la estensione della sua zona di sovranità, di tagliare la zona marittima economica esclusiva (ZEE) della Grecia tra Creta e Cipro, dove deve passare il futuro gasdotto EastMed.
Come la questione del gas nel Mediterraneo orientale e l’intervento militare turco in Libia si sono collegati?
Nel Mediterraneo orientale, nelle acque territoriali di Egitto, Gaza, Israele, Libano, Siria e Cipro, si distende un enorme giacimento di gas di 50.000 miliardi di m3, quando le riserve mondiali sono stimate in 200,000 miliardi di m3. Ulteriori riserve di petrolio stimate in 1,7 miliardi di barili di petrolio.
A parte il fatto che occupa illegalmente una parte di Cipro, la Turchia non ha alcun diritto di rivendicazione territoriale su questo gas, ma l’accordo militare firmato permette di tagliare l’asse del gasdotto EastMed proveniente da Cipro per l’Italia in quanto passerà attraverso le acque dichiarate unilateralmente … Il presidente turco Erdogan è stato chiaro nel dire che qualsiasi futuro gasdotto o oleodotto richiedono un accordo turco !!! Comportandosi da “stato pirata” la Turchia è ora condannata a impegnarsi miltarmente, in quanto se le forze del maresciallo Haftar dovessero prendere Tripoli, l’accordo sarebbe stato reso obsoleto.
Come fanno gli stati derubati dalla decisione turca?
Di fronte a questa aggressione, che, in altri tempi, avrebbe inevitabilmente portato ad un conflitto armato, il 2 gennaio la Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo ad Atene sul futuro gasdotto EastMed, importante collegamento approvvigionamento energetico d’Europa. Italia, punto terminale del gasdotto dovrebbe aderire all’accordo.
Da parte sua, il maresciallo Sissi ha dichiarato il 17 dicembre 2019 che la crisi libica era parte integrante de “la sicurezza nazionale dell’Egitto” e il 2 gennaio ha incontrato il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Per l’Egitto, un intervento militare turco che avrebbe dato la vittoria al GUN sul generale Haftar avrebbe infatti rappresentano un pericolo politico mortale, perché il “Fratelli Musulmani”, i suoi nemici implacabili, sostenuti dalla Turchia, si posizionerebbero ai suoi confini. Inoltre, essendo in acque disastrose economicamente, l’Egitto, che basa le sue speranze sull’avvio della costruzione del gasdotto verso l’Europa non può tollerare questo progetto, di vitale importanza ma rimesso in questione dall’annessione turca delle acque marittime.
Qual è l’atteggiamento della Russia?
La Russia sostiene sicuramente il generale Haftar, ma in che misura? Quattro problemi principali sorgono in effetti per quanto riguarda le priorità geopolitiche russe:
1) La Russia ha l’interesse a litigare con la Turchia opponendosi al suo intervento in Libia, quando Ankara può allontanarsi ulteriormente dalla NATO?
2) Ha interesse alla creazione del gasdotto EastMed, fortemente in concorrenza con le proprie vendite di gas verso l’Europa?
3) Non può essere che la rivendicazione turca geli l’interesse alla realizzazione di Turkstream, trascinando la Russia per anni se non per decenni in un contenzioso giudiziario presso la Corte Internazionale?
4) Ha interesse a indebolire la collaborazione con la Turchia nella realizzazione, ormai prossimo alla messa in esercizio, del gasdotto Turkstream, il quale, attraverso il mar Nero, aggira l’Ucraina? ? Tanto più che il 60% del fabbisogno di gas della Turchia sono forniti dal gas russo; se Ankara potesse, in un modo o in un altro, trarre vantaggio dal Mediterraneo orientale, questo le permetterebbe di essere meno dipendente dalla Russia … il che non sarebbe un grande affare per quest’ultima …
E se alla fine non fosse una costruzione da parte del Presidente Erdogan per imporre una rinegoziazione del Trattato di Losanna del 1923?
La Turchia sa molto bene che l’accordo marittimo con GUN è illegale in termini di diritto internazionale del marittimo in quanto viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) che la Turchia non ha firmato per altro. Questo trattato è illegale anche anche riguardo agli accordi sotto di Skrirat del mese di dicembre 2015 firmato sotto l’egida delle Nazioni Unite e che costituivano il GUN in quanto non danno un mandato al suo leader, Fayez el-Sarraj, a concludere tale accordo di confine. Inoltre, con solo il Qatar alleato, la Turchia è completamente isolata diplomaticamente.
Riconoscendo queste realtà, puntando sia sulla solita viltà degli europei che sull’inconsistenza della NATO in realtà in uno stato di “morte cerebrale”, il presidente Erdogan si rivela inconsciente nel giocare con la dinamite o, al contrario, un calcolatore abilissimo ad avanzare le sue pedine sul filo del rasoio.
Se la seconda ipotesi fosse corretta, l’obiettivo della Turchia sarebbe quello di aumentare la pressione per rendere chiaro ai paesi che attendono con ansia l’impatto economico della messa in servizio del futuro gasdotto EastMed, che potrebbe bloccare il progetto . A meno che la zona marittima turca possa essere estesa per permettere che sia parte nello sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo marino del Mediterraneo orientale. Ma per questo, si dovrebbero rivedere alcuni articoli del Trattato di Losanna del 1923, una politica che ha già sperimentato una rapida attuazione nel 1974 con l’occupazione militare, anche illegale, ma efficace, della parte settentrionale dell’isola Cipro.
La scommessa è rischiosa, perché la Grecia, un membro della NATO e di UE e Cipro, un membro dell’Unione Europea, non sembrano disposti a cedere al ricatto turco. Per quanto riguarda l’Unione europea, nonostante la sua indecisione congenita, è dubbio che accetterà di lasciare il controllo alla Turchia di due delle principali valvole della fornitura di gas, vale a dire EastMed e Turkstream.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

UN CRESCENTE MALESSERE FRANCESE NEI CONFRONTI DELL’ALLEANZA, di Hajnalka Vincze

Qui sotto ancora un articolo particolarmente interessante di Hajnalka Vincze sul dibattito e le divergenze, forse il conflitto, che si sta insinuando tra i paesi della NATO. A parere dello scrivente pecca però di un certo ottimismo riguardo l’anelito autonomista di Macron. Le sue parole e i suoi propositi dichiarati stridono con i suoi atti concreti, in primo luogo con la salvaguardia strenua del complesso militare industriale francese. Macron è l’artefice, ma sul solco almeno delle due precedenti presidenze, degli atti più compromettenti riguardanti l’esposizione di AIRBUS alle mire dell’industria aeronautica americana, la liquidazione, dietro pesanti ricatti e pressioni di ogni tipo, di Alstom energia, in particolare la produzione di turbine a General Electric, la cessione ai fondi americani del settore della trasmissione e componentistica interna dell’aereonautica. I risultati cominciano a vedersi rapidamente, a cominciare dalla perdita di controllo del settore della manutenzione delle turbine dei sommergibili e delle centrali nucleari e dallo svuotamento e trasferimento negli States del grande centro ricerche di Parigi. Per non parlare della pesante esposizione militare in Africa, legata malinconicamente alla condiscendenza americana. Una classe dirigente che non vuole e non sa difendere i propri settori strategici, tanto più se legati alla difesa, non può ambire credibilmente ad assumere  la direzione di una linea europea di politica estera e di difesa realmente autonoma dagli Stati Uniti; tanto più che ad essa si accompagna una politica predatoria particolarmente gretta, subalterna alla Germania, ai danni di potenziali ed imprescindibili sostenitori, in primo luogo l’Italia, di questa presunta ambizione. Una politica tesa piuttosto a spingere le vittime verso lidi più scontati e ad acuire i conflitti intraeuropei. Conoscendo la provenienza e il retroterra culturale, il brodo di coltura del personaggio, la sua vanagloria e prosopopea nascondono o conducono ad altri propositi se non suoi, “pauvre homme”, certamente dei suoi mentori. Paragonarlo a de Gaulle mi pare quindi un po’ troppo generoso. Buona lettura_Giuseppe Germinario

OLTRE LE CRITICHE DI MACRON ALLA NATO: UN CRESCENTE MALESSERE FRANCESE NEI CONFRONTI DELL’ALLEANZA

Istituto di ricerca sulla politica estera – Nota del 26 novembre 2019

Parlando, in un’intervista a The Economist , della “morte cerebrale” dell’Alleanza atlantica, il presidente Macron poteva sicuramente essere certo di provocare l’ira dei suoi omologhi europei. Se ha scelto di imbarcarsi in questo, è perché lo vede come una necessità urgente. A un anno dalle prossime elezioni americane e con l’affondamento della Brexit, si sta chiudendo una finestra di opportunità senza precedenti. Questo allineamento unico dei pianeti, che secondo la visione francese avrebbe dovuto finalmente portare i partner dell’UE sulla strada dell’autonomia strategica, non ha davvero dato i suoi frutti.

Peggio ancora, la maggior parte dei governi europei, confrontati senza mezzi termini alla realtà della loro dipendenza dagli Stati Uniti, sembrano preferire gesti di fedeltà discreta ma concreta nei confronti dell’America. Agli occhi di Parigi, è tutt’altro che logico. Ma, come giustamente ha detto l’ex consigliere di Tony Blair, Robert Cooper, a proposito di Europa e di autonomia: “il mondo non segue la logica, procede per scelte politiche” . Il presidente francese ha quindi deciso di esporre la scelta che attende gli europei secondo lui – per quanto “drastica” .

La minaccia che la Francia percepisce

Agli occhi di Parigi, anche se la possibilità di un disimpegno americano menzionata più volte dal presidente Trump avrebbe dovuto provocare uno slancio “autonomista”, la maggior parte dei partner europei preferisce piuttosto una tensione atlantista. L’alternativa era già stata esposta in un acceso scambio di opinioni presso il Centro europeo per le relazioni estere nel 2011, tra il britannico Nick Witney (ex direttore dell’Agenzia europea per la difesa) per il quale vige l’alternativa di avere una difesa europea autonoma oppure “vivere in un mondo guidato da altri “ e dal tedesco Jan Techau (direttore degli affari europei alla Carnegie Endowment), che vede nell’autonomia europea un ” villaggio Potemkin “che dovrebbe essere rimosso a favore di “un’intensa preoccupazione per il legame transatlantico” . Se la retorica europea nell’era di Trump a volte prende in prestito le arie della prima visione, le azioni, d’altra parte, vanno nella seconda direzione. Sulla NATO, in particolare, per placare il presidente Trump, gli europei sono pronti a far evolvere l’organizzazione in una direzione che, per loro, significa più abbandono e confinamento nella dipendenza.

(Credito fotografico: CNN)

Questa inclinazione è stata evidenziata in un esercizio di simulazione di alto livello, le cui conclusioni sono state pubblicate alla fine di settembre. L’ultimo Körber Policy Game , organizzato congiuntamente da un think-tank tedesco (lo stesso in cui il Segretario Generale della NATO ha pronunciato il suo discorso quando è stata pubblicata sulla stampa l’intervista al presidente francese) e il prestigioso IISS ( International Institute for Strategic studi) Britannici, in un consesso di esperti e funzionari di Francia, Germania, Regno Unito, Polonia e Stati Uniti. Divisi in squadre nazionali, si trovarono di fronte a uno scenario fittizio in cui l’America si ritira dalla NATO e alla sua partenza seguono molteplici crisi scoppiate nell’Europa orientale e meridionale. I risultati sono illuminanti. È emerso, tra le altre cose, che invece di raccogliere la sfida della propria sicurezza, “la maggior parte delle squadre” ha cercato piuttosto, inizialmente, di convincere gli Stati Uniti a tornare alla NATO, a spese di essa cedere a “concessioni prima inimmaginabili” . Ciò lascia pochi partner propensi alla visione “autonomista” sostenuta dalla Francia.

L’urgenza che prova Parigi

La scelta del momento non è banale. L’intervista a The Economist ha avuto luogo tre giorni dopo la conferenza stampa in cui Macron ha dichiarato di essere indignato per il modo in cui ha appreso, tramite tweet, del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, seguito dall’incursione turca nel Paese: “mette in discussione anche il funzionamento della NATO. Mi dispiace dirlo, ma non si può fingere ”. In realtà, per quanto spettacolare possa essere l’episodio siriano, è solo l’ultimo di una serie di atti, composta da sanzioni extraterritoriali, abbandono del trattato sul controllo degli armamenti, pressioni commerciali e altre decisioni unilaterali percepiti come umilianti dagli altri membri dell’Alleanza – tranne per il fatto che quest’ultimo incidente è avvenuto a malapena un mese prima della prossima riunione dei leader della NATO. Il timore di Parigi è che per convincere il presidente Trump, gli europei cederanno troppo su temi come la designazione della Cina come nuovo nemico comune , l’inclusione dello spazio tra i teatri delle operazioni della NATO o ancora l’accesso degli Stati Uniti ai programmi di armamento finanziati dall’UE con il denaro dei contribuenti europei.

In effetti, la Francia continua a sostenere una “rifocalizzazione” della NATO, in contrapposizione alla sua crescente pressione ai confini dell’UE. sforzi degli Stati Uniti dalla fine della guerra fredda hanno portato a “globalizzare” la NATO , in modo che il maggior numero di settori sono trattati nel quadro della NATO, che, come ha detto Joachim Bitterlich, ex consigliere del cancelliere Kohl: “gli americani si trovano in una situazione conveniente perché hanno l’ultima parola e tutto dipende da loro”. Precisamente, Parigi è preoccupata che su un numero crescente di dossier (oltre la Cina, lo spazio e gli armamenti, si tratta anche di cyber, energia, intelligenza), gli alleati europei – presi dal panico dalle ricorrenti minacce del presidente Trump di “moderare il suo impegno” – acconsentano al trasferimento di competenze nazionali e / o europee alla NATO. E lasciarsi bloccare ancora di più in una situazione di dipendenza.

Il bersaglio scelto da Macron

Non è un caso che al centro delle domande di Macron sull’Alleanza vi sia l’articolo 5 – quello che incarna la difesa collettiva, in altre parole il fatto che un attacco contro un alleato è considerato un attacco contro tutti gli stati membri. Tradizionalmente, è per non compromettere questa garanzia di protezione degli Stati Uniti che gli alleati europei fanno concessioni e testimoniano, come osserva Jeremy Shapiro, ex pianificatore e consigliere del Dipartimento di Stato americano, “di un patologico compiacimento e eccessiva deferenza “ verso gli Stati Uniti. Il paradosso, sotto il presidente Trump, è che evidenzia in maniera cruda e pubblica questa logica transazionale dell’Alleanza, mentre mette in dubbio ,ancora e sempre , le sue fondamenta. Per la Francia, è un vantaggio. Come lo ha dichiarato il ministro degli affari europei Nathalie Loiseau nel 2017: “Mentre le parole del presidente americano potrebbero aver creato una certa confusione riguardo al suo attaccamento all’Alleanza atlantica, l’interesse ad un’autonomia strategica dell’Unione. Europea è apparsa molto più chiaramente di prima a molti dei nostri partner europei. Ne eravamo convinti; altri lo sono molto di più oggi rispetto a ieri . 

Solo che gli atti non seguono. Emmanuel Macron ha quindi deciso di insistere sul fatto che “il garante di ultima istanza non ha più le stesse relazioni con l’Europa. Ecco perché la nostra difesa, la nostra sicurezza, gli elementi della nostra sovranità, devono essere pensati a pieno titolo ” . E il Presidente ha continuato: la NATO “funziona solo se il garante dell’ultima risorsa lavora come tale. Direi che dobbiamo rivalutare la realtà di cosa sia la NATO in termini di impegno degli Stati Uniti d’America ” . Alla domanda se “l’articolo 5 funziona” o no, ha risposto “Non lo so, ma che cosa sarà l’articolo 5 domani?” “ . Fare attenzione a specificarlo“Non è solo l’amministrazione Trump. Devi guardare cosa sta succedendo molto profondamente dalla parte americana . ” In realtà, ciò che dice non è né nuovo né eccezionale. La British Trident Commission , ad esempio, è giunta praticamente alle stesse conclusioni nel 2014. Composta, tra l’altro, da ex ministri della difesa, affari esteri e ex capo dello staff della difesa, fu incaricato di rivedere i meriti del rinnovo dell’arsenale nucleare del Regno Unito. Arrivarono alla spinosa domanda: “Possiamo contare sugli Stati Uniti per avere la capacità e la volontà di fornire  [protezione] indefinitamente, almeno entro la metà del 21 ° secolo?” “ E ha risposto che“Alla fine, è impossibile rispondere” . La differenza con Macron è che gli inglesi si preoccupavano principalmente di “non inviare un messaggio sbagliato sulla credibilità” della protezione americana, mentre il presidente francese desidera, al contrario, avvisare e provocare un soprassalto tra i suoi Partner europei.

La rinnovata visione francese

Nonostante le reazioni indignate di esperti e funzionari , le osservazioni del presidente francese erano tutt’altro che “bizzarre”. Al contrario, sono in linea con la tradizione gaullista-mitterandiana che Macron ha deciso di esporre già, davanti agli ambasciatori, nel suo ultimo discorso annuale . La chiave di volta di questa visione è sempre stata la nozione di sovranità – un termine che Macron pronuncia venti volte in The Economist. Questo ritorno alle basi richiede tre osservazioni. Primo: l’imperativo dell’autonomia non è mai stato diretto contro gli Stati Uniti. Nel pensiero francese, o manteniamo la nostra sovranità su qualsiasi paese terzo, oppure no. Se gli europei decidono di farne a meno in un caso, in particolare nei confronti dell’America, le matrici di soggiogazione che ciò implica (la perdita delle proprie capacità materiali e la mancanza di potere psicologico) le metteranno in balia di qualsiasi altro potere in futuro. In altre parole, non assumendo la sua piena autonomia, l’Europa diventerà, domani, una facile preda per chiunque. Come spiega Macron: “L’Europa, se non si considera una potenza, scomparirà” .

(Credito fotografico: Financial Times)

Secondo: nella visione francese, la sovranità, oltre ad essere un imperativo strategico, è anche una condizione sine qua non della democrazia. Senza indipendenza dalle pressioni esterne, ha poco senso votare per i cittadini. Macron ha chiaramente messo in luce questo legame intrinseco alla vigilia delle ultime elezioni europee: “Se accettiamo che altre grandi potenze, compresi gli alleati, compresi gli amici, si mettano in condizione di decidere per noi, la nostra diplomazia, la nostra sicurezza, allora non siamo più sovrani e non possiamo più guardare in modo credibile alle nostre opinioni pubbliche, ai nostri popoli dicendo loro: decideremo per voi, venite, votate, venite e scegliete. “ È la stessa idea che ha sostenuto davanti agli ambasciatori, ricordando loro: “È un’aporia democratica che consiste nel fatto che il popolo può scegliere sovranamente leader che non avrebbero più il controllo su nulla. E così, la responsabilità dei leader di oggi è di darsi anche le condizioni per avere il controllo sul loro destino . 

Infine: oltre questo ritorno all’essenza stessa del gollismo, l’intervista di Macron a The Economist segna anche il desiderio di riconnettersi con un atteggiamento, con un modo specificamente francese di fare diplomazia. Infatti, dal suo fragoroso rifiuto della guerra in Iraq, la Francia si è comportata come spaventata dalla sua audacia: aveva in parte abbandonato la sua posizione di “cavaliere solitario”, a favore della ricerca di compromessi e del cosiddetto pragmatismo . Senza molto successo. Il punto di forza della diplomazia francese è sempre stata la sua capacità di assumere una posizione chiara, affermare principi ovvi e tradurli in termini pratici con logica implacabile – al punto che i suoi interlocutori si sono trovati esposti, di fronte alle loro incoerenze. . Questo è esattamente ciò che Macron sta cercando di fare ora riguardo alla NATO. Di fronte alla palese umiliazione da parte dell’amministrazione Trump, deplorare pubblicamente la loro situazione di dipendenza. Il presidente francese li chiama quindi, semplicemente, a “trarne le conseguenze” .

Il testo è la versione originale dell’articolo originale: Hajnalka Vincze, Beyond Macron’s Sovversive NATO Commenti: France’s Growing Unease with the Alliance , Foreign Policy Research Institute ( FPRI ), 26 novembre 2019.

Il recupero dello spirito dei Tory, di Grey Connolly

Qui sotto un articolo molto significativo che offre una chiave interpretativa originale dell’esito delle elezioni britanniche e della scelta dirimente, oggetto centrale del contenzioso politico, della Brexit- Il testo offre spunti particolarmente interessanti per spingere anche in Italia ad una analisi della trasformazione delle correnti politiche che rifugga dall’ostinata collocazione della totalità di esse nei vecchi parametri di destra/sinistra degli ultimi tre decenni. Una dinamica particolarmente difficile da decifrare per le grette ambiguità e la scarsa consapevolezza di classi dirigenti italiche così timorose e inette nell’affrontare gli scenari geopolitici e i problemi interni al paese da nascondere i termini sostanziali del contenzioso sul tappeto. Un atteggiamento che impedisce di cogliere le possibilità di costruzione di un blocco sociale e politico alternativo sufficientemente ampio e maggioritario e di comprendere la natura del dibattito sia pure sotto traccia in corso in particolare nelle formazioni politiche riemerse o emerse negli ultimi tempi come la Lega e il M5S. Una scarsa lungimiranza che sta portando alla crisi e relegando alla insignificanza le nasciture formazioni che continuano a fibrillare nel cosiddetto bacino sovranista_Giuseppe Germinario

Il recupero dei Tory

Grey Connolly

“Signori, il partito Tory, a meno che non sia un partito nazionale, non è niente.” —Benjamin Disraeli

Nella sua ultima campagna nel 1951, il Primo Ministro laburista, Clemente Attlee, concluse il suo discorso alla conferenza laburista citando il Gerusalemme del poeta William Blake:

Non smetterò di combattere mentalmente,
Né la mia spada dormirà nella mia mano:
Finché non abbiamo costruito Gerusalemme,
Nella terra verde e piacevole dell’Inghilterra.

Mentre Attlee si accingeva a perdere l’incarico a favore di Winston Churchill nel 1951 – il Labour sarebbe rimasto senza potere per 13 anni – è stato il Labour di Attlee che ha costruito gran parte dello stato britannico su quello che il governo di Churchill in tempo di guerra (in cui Attlee aveva servito come ministro) aveva creato durante la seconda guerra mondiale.

Clemente Attlee e il suo governo laburista avevano arruolato la Gran Bretagna nella NATO, costruito un’arma atomica britannica, sostenuto le cause del mondo libero in Grecia e Corea del Sud e costruito gran parte dell’establishment della sicurezza e dell’intelligence alleata che, fino ad oggi, attraversa il globo. Anche il peggior critico riconoscerebbe il ruolo svolto nella creazione della Gran Bretagna moderna da Clement Attlee e, anche, dal suo segretario agli esteri, l’ex leader sindacale Ernest Bevin, che Churchill considerava il miglior laburista conosciuto nella sua vita. Come Margaret Thatcher direbbe di Attlee, ‘Ero un suo ammiratore. Era un uomo serio e un patriota. Era tutto sostanza e niente spettacolo. ‘ L’altra creazione di Attlee – che, va notato, era sostenuta sia dai conservatori che dai liberali (il progenitore del SSN, Sir William Beveridge, era lui stesso un liberale) – era il National Health Service, che nessun politico britannico attenta se non al rischio della propria carriera politica.

Se Churchill e lo spirito di sfida a Dunkerque e alla Guerra Lampo si aggirano sempre dal lato conservatore della politica, mettendo in ombra lo stigma dell’appagamento di Chamberlain, così lo spirito pervade il governo di Major Attlee, timido avvocato e coraggioso e dignitoso veterano di Gallipoli e del fronte occidentale, che guidò una Gran Bretagna formalmente vittoriosa attraverso la sostanza di un austero dopoguerra.

Cito Attlee e Churchill, ma dovrei anche menzionare l’ex primo ministro Harold Macmillan, uno degli ultimi grandi del partito Tory. A modo loro, tutti e tre gli uomini sono stati gli ultimi veramente britannici tra i recenti primi ministri: tutti avevano condiviso le esperienze formative delle trincee della Grande Guerra, tutti erano rimasti inorriditi dalle conseguenze di quella guerra e quindi dagli effetti della depressione sulla società britannica, ciascuno aveva ricoperto i ruoli più critici nel secondo sforzo di guerra della Gran Bretagna, e tutti furono, fondamentalmente per il nostro tempo, o profondamente contrari alla Gran Bretagna che si impigliava nel progetto europeo o, nel caso di Macmillan, fingevano semplicemente di essere entusiasta.

Nel mentre, in questo 2019, questi uomini potrebbero apparire come fantasmi di un passato lontano, la verità è che questi tre uomini e le loro eredità non sono mai stati così rilevanti negli ultimi tre anni dal referendum sulla Brexit, in particolare in questi ultimi giorni, dal terremoto elettorale del 12 dicembre. Prendendo in prestito da Sir Isaac Newton, se Boris Johnson ha visto più avanti di qualsiasi altro nel futuro elettorale, è perché Johnson era disposto a guardarsi indietro e quindi poggiarsi sulle spalle di giganti come questi tre uomini.

Bisogna dirlo, gli inglesi sono sempre stati i più strani e diffidenti riguardo il progetto europeo. Gli inglesi avevano combattuto Napoleone, il Kaiser e i nazisti, in lunghe guerre, e avevano mantenuto un impero globale sul quale, si diceva, il sole non tramontava mai. L’Unione europea era, al contrario, una confederazione formata dai francesi e dai tedeschi – i vecchi nemici – e, con loro, da quelle “nazioni” che erano state le loro conquiste storiche. Gli inglesi non si erano mai arresi a Parigi e a Berlino e, nel corso dei secoli, avevano sempre combattuto contro di loro, con le parole di Churchill, “se necessario, da soli”. La consapevolezza britannica di se stessa fu forgiata nella dura sfida con i nemici continentali e con i loro sconvolgimenti: un duro Tommy agita perpetuamente il pugno, con aria di sfida, contro il nemico storico. Quindi, in termini storici, la questione elettorale, specialmente dopo il congedo del 2016, riguardava sempre la nazione britannica, questi “isolani offshore”, la loro storia e il loro futuro.

Le elezioni generali del 2019 sono state, quindi, più rilevanti della fortuna di qualsiasi singolo politico, e certamente non sono state decise dalla biografia di una sola persona, nemmeno da una figura controversa come il leader laburista, Jeremy Corbyn. La sua biografia colorata o sovversiva, a seconda del punto di vista, era ben nota nel 2017, quando Corbyn ha fatto molto bene alle elezioni britanniche in cui, secondo la saggezza convenzionale, non era selezionabile. Tutti sapevano tutto di Corbyn il radicale nel 2017 eppure milioni avrebbero votato ancora per Corbyn e il suo partito. Non c’era nulla che impedisse a Corbyn di fare altrettanto bene nelle elezioni generali del 2019.

No, ciò che è cambiato negli ultimi due anni è stato il cambiamento sia dei conservatori che dei partiti laburisti. I Tories sono tornati alle loro posizioni storiche di sostegno alla società del dovere e all’opposizione a un progetto europeo “straniero”, mentre il Labour ha cessato di puntare ai voti della sua gente, come Corbyn sembrava aver promesso nel 2017, e invece ha puntato al “New Labour “per strattonare indietro il partito e guidarlo verso la destinazione preferita della” terza via “blairiana: la Gran Bretagna come solo un’altra stella sulla bandiera europea. In qualche modo il partito che Corbyn ha conquistato nel 2015 ha voltato le spalle, ancora una volta, non solo alla fiera tradizione orgogliosa e elettoralmente proficua di Attle, ma, sulla questione stessa dell’Europa, allo stesso Corbyn, per tornare invece, ancora una volta, per ragioni che nessuna persona ragionevole può articolare, al partito londinese di Tony Blair.

Dal 2017 in poi, con, prima, Theresa May e poi Boris Johnson, i conservatori, infine, hanno voltato le spalle agli eccessi di Thatcherismo degli zombi e alle infiltrazioni liberali degli anni ’80, per riportare i Tories dove un tempo si trovavano come un partito naturale di governo per la maggior parte dei britannici. Sia May che Johnson sono animali politici – sono ex studenti politici e non veri credenti – e non sono altri Churchill. Ma erano entrambi abbastanza esperti da sapere che la vecchia filosofia Tory – l’etica di Pitt e Wilberforce, che avevano resistito a Napoleone e abolito la tratta degli schiavi, e il Torismo di ” una unica nazione ” di Disraeli, che aveva dato il voto al lavoratore —È stato quello con il più ampio richiamo storico e che, una volta fatto la campagna, aveva, prima di Heath, Thatcher ed Europa, assicurato un’egemonia conservatrice sui banchi della Camera dei Comuni. Con il Whiggismo di Thatcher e John Major esorcizzato, si potrebbe vedere il rilancio dell’ideale di “Red Tory”, in particolare nella frase di maggio, “Riusciamo o falliamo insieme”.

Allo stesso tempo, anche il partito Labour parlamentare britannico era cambiato e divenne un partito del “remain”. Il Labour che diventava un partito del “remain” era, semplicemente, un disastro moralmente, oltre che un disastro a livello elettorale. I minatori di Durham, per tutta la loro storia e fatica, non potevano mai, secondo la stima del New Labour, importare tanto quanto le classi generose della City, un calcolo che, se fatto in tutto il Regno Unito, avrebbe portato alla rovina nelle urne .

Guardando alla storia del Labour, anche il peggior critico di Jeremy Corbyn ammetterebbe che i suoi vecchi predecessori della sinistra, come Hugh Gaitskell e Tony Benn, qualunque cosa avessero sbagliato, avevano ragione di opporsi all’entrata britannica e quindi all’adesione all’Unione Europea, la Comunità e Unione Europea. Gaitskell riconobbe, giustamente, che l’adesione al progetto europeo sarebbe stata la fine della sostanza di uno stato-nazione britannico, mentre Benn, più chiaramente, vide l’ovvio problema posto dalla Gran Bretagna che si univa a qualsiasi istituzione in cui il popolo britannico non poteva liberarsi dei loro presunti governatori. Che gli ultimi tre anni di ostruzionismo di Bruxelles e dei rimanenti abbia visto adempiere le loro profezie è semplicemente la più amara delle ironie.

Quindi, al momento del circo di Westminster fatto di ostruzione e contenzioso sulla Brexit nel 2019, quello che si vedeva era un partito Tory che cresceva solo nel suo appello alla centralità della Gran Bretagna, mentre il Labour si era progressivamente incastrato nel vicolo cieco del Remainerismo. Forse non sorprende che Corbyn non potesse vedere la trappola che aveva consentito al suo partito di organizzare per sé, pensando che l’approvazione sui social media del “Westminster Village” avrebbe superato l’ovvia richiesta, specialmente nelle aree di dissenso del Labour, per la partenza britannica dall’Unione Europea. Le vittorie del partito Brexit di Nigel Farage alle elezioni europee di maggio sono state un messaggio che il nuovo partito laburista riteneva di poter ignorare. Quel Farage stava ottenendo il sostegno nelle stesse aree della Gran Bretagna in cui l’eredità di Attlee era ed è più apprezzata; un evidente presagio del destino elettorale volutamente ignorato da un media privo di cognizione.

Il risultato della ribellione elettorale del 12 dicembre è che i Tories hanno infranto il “Muro rosso” settentrionale e conquistato seggi nel nord del Galles e di Inghilterra che, finora, non sono mai stati o quasi mai rappresentati se non dai laburisti. Non si trattava solo di un’elezione, ma di una ribellione contro un’istituzione politica che aveva trascorso più di tre anni nel tentativo di negare la Brexit che 17,4 milioni di britannici (di ogni classe e provenienza) avevano sostenuto con i loro voti.

I conservatori di Boris Johnson hanno ora una schiacciante maggioranza parlamentare e un mandato rinnovato – il terzo dopo il referendum del 2016 e i Tories vincitori delle elezioni generali del 2017 su una piattaforma di congedo – per portare la Gran Bretagna, finalmente, fuori dall’Unione Europea. Ciò che della sovranità britannica è stata persa in quasi 50 anni fa sarà ora recuperata. Resta la sfida dei conservatori di riunire il Regno Unito, di ricucire le ferite dell’Unione britannica e, inoltre, di garantire che la frangia celtica britannica, così alienata da un’élite londinese e da un’economia finanziaria, ritenga che le loro legittime lamentele vengano affrontate all’interno dell’Unione britannica. Come Disraeli, il fondatore del moderno partito Tory, ha giustamente osservato: “Non c’è nulla di meschino, gretto o esclusivo nel vero carattere del Toryismo. Dipende necessariamente da simpatie allargate e aspirazioni nobili, perché è essenzialmente nazionale “.

Considerando più a lungo, tuttavia, il futuro dei Tories come movimento politico, è il caso che, almeno dalla Rivoluzione francese, la ragion d’essere del conservatorismo in tutto il mondo di lingua inglese era e rimane l’utilizzo della legge e del potere dello stato per aiutare a conservare e tenere insieme la società costituente. Non si tratta solo di rendere giustizia, ma di riconoscere la realtà che le ingiustizie irrisolte e i sistemi truccati seminano semplicemente i semi del disordine futuro.

A tal fine, è giunto il momento che Tories (non solo nel Regno Unito, ma in tutto il mondo di lingua inglese) deplori, ancora una volta, la distruzione spesso sfrenata delle comunità ad opera del capitalismo e, nelle parole di una generazione Tory più anziana, ripudiare gli aspetti spiacevoli e inaccettabili del capitalismo. In breve, è passato molto tempo per scacciare i Whigs e le loro repellenti perversioni ed egoismi dai ranghi della Destra. La missione di Tory è, ancora una volta, far rispettare lo stato di diritto, garantire la sicurezza e la solvibilità dello stato-nazione e, ancora una volta, inclinare la cultura e i suoi costumi a favore di ciò che rende una vita fiorente e virtuosa, come soprattutto a migliorare la vita delle classi lavoratrici, medie e, soprattutto, regionali e rurali. È tempo che un toryismo di ” noi” sostituisca l’insidioso Whiggism di ” me” .

A distanza di un secolo, possiamo vedere che il socialismo è stato provato e ha fallito, e dovremmo anche ammettere, con la fine della “post guerra-fredda”, che anche il liberalismo è stato provato e ha fallito. Tra i popoli di lingua inglese, in particolare, il socialismo e il liberalismo, nella loro avarizia e laicità, sono credenze estranee. Entrambi erano credi di minoranze rumorose ma piccole, che cercavano di usare la legge e lo stato per attuare il loro utopismo – sia di guerra di classe che di indulgenza individuale – ai danni di famiglie e comunità che desideravano controllare i propri destini e vivere la propria vita.

Insomma, la lezione delle convulsioni elettorali degli ultimi anni non riporta a Destra o Sinistra, o semplicemente insider contro outsider, ma, più semplicemente, che la nazione conta più delle astrazioni liberali. E quindi che l’abbraccio bipartisan del liberalismo – da Thatcher a Major a Blair a Brown a Cameron – aveva portato a società grossolane, e in una frase, perennemente in pericolo di “disgregazione”. Il problema non è risolto da più statalismo ma da un senso di solidarietà comunitaria: l’idea biblica che abbiamo doveri, diritti, obblighi e libertà, che siamo concittadini della res publica insieme, che siamo, infatti, custodi di nostra sorella e nostro fratello.

È opportuno, quindi, finire, come ho iniziato, con la citazione di Gerusalemme di Attlee. Sarebbe difficile immaginare un leader laburista, in particolare di stampo Blairista del brutto “terzo wayism”, sapendo chi era William Blake o quali domande Blake poneva nella sua poesia, figuriamoci seguendo l’esempio di Attlee. Le domande dei liberali moderni sono molto più “razionali”: che cos’è ” moderno “? Cosa è ” progressivo “? Cosa penseranno gli altri di noi? La protesta di Blake di due secoli fa contro la distruzione della Gran Bretagna tradizionale da parte della rivoluzione industriale sembra quasi singolare per il liberale moderno, sempre desideroso di seguire il “progresso” ovunque il suo zeitgeist porti, qualunque sia il costo.

Eppure la poesia di Blake sarebbe diventata, nel secolo scorso, l’inno nazionale cantato da così tanti perché è stato reso popolare e messo in musica da Sir Hubert Parry nel 1916 durante il momento più critico del trauma della Grande Guerra. Le parole di Blake, scartate ai suoi tempi, sarebbero diventate l’inno nazionale britannico, cantato in chiese, scuole, campi da calcio e in lontani teatri di guerra. La popolarità e la longevità dell’inno di Blake e la sua determinazione a recuperare ciò che era stato perso, parla di un antico desiderio britannico di ” casa “.

Quando questa storia recente e queste elezioni sismiche, a un secolo dalla Grande Guerra, guardando al futuro, le vecchie domande si erano sempre presentate al popolo britannico: quali saranno le relazioni britanniche con l’Europa? E come preservare il meglio e riformare il peggio di “casa” propria? Dopotutto, esiste una società contraria al Thatcherismo, e ci sarà ancora uno stato-nazione indipendente contro la Terza Via?

Per il prossimo futuro, la prima domanda è stata risolta dagli elettori, mentre la seconda è nelle mani del nuovo parlamento a maggioranza conservatrice.

L’ultima domanda – che dire di noi? – rimane la più interessante su cui riflettere. I proclami mentali di cui parla Blake saranno traditi per compromessi rassicuranti? Le spade dormiranno in mani troppo timide per combattere buoni combattimenti? Gerusalemme sarà costruita in terre verdi e piacevoli? Tutte queste domande eterne attendono ancora le loro risposte.

Grey Connolly è avvocato e scrittore di Sydney.

https://meanjin.com.au/blog/the-tory-restoration/?fbclid=IwAR1LHNri9iEApLZIZsDeGNtk7ePI9y_zlSJpWTc7LZVLTCMj9SM1py_I54A

Cont(e)i che non tornano, di Giuseppe Masala

Continua la marcia trionfale della nostra Bilancia Commerciale.

Ieri l’Istat ha divulgato i dati sulla nostra bilancia commerciale aggiornata al mese di Ottobre 2019. Possiamo dire senza tema di essere smentiti che siamo di fronte ad una vera e propria marcia trionfale delle nostre aziende esportatrici che evidentemente sono aggressive e assolutamente competitive a livello mondiale. A livello congiunturale (ovvero raffrontando il dato su quello del mese precedente) le esportazioni sono aumentate dello 0,7% sui mercati UE e del 6,1% sui mercati extra UE. Su base annua e dunque a livello tendenziale l’aumento dell’export è pari al 4,3% trainata dal fortissimo exploit sui mercati extra UE (+ 8,3%). Dal punto di vista delle importazioni invece si rileva una diminuzione del 2,3% a livello congiunturale e del 5,8% su base annua (dato tendenziale). Il contemporaneo aumento delle esportazioni e della diminuzione delle importazioni (dovuto ovviamente a politiche economiche improntate all’austerità e alla conseguente compressione dei consumi interni) comporta un saldo della bilancia commerciale a livello congiunturale pari a + 8,057 miliardi di euro e nei primi dieci mesi dell’anno pari ad un surplus mostruoso di ben 43,038 miliardi di euro.

Non è azzardato dire che siamo una nazione che vive al di sotto (e di molto) delle sue possibilità che ormai accumula surplus di bilancia commerciale “alla tedesca”. Dunque conseguentemente siamo una nazione che risparmia molto e che consuma molto al di sotto a ciò che i conti e i rapporti con l’estero le permetterebbero. Attendiamo a questo punto l’aggregazione con le altre poste dei conti con l’estero (redditi primari, secondari, ecc. ) per vedere il saldo delle partite correnti. Ma, appare evidente che continuiamo a marciare a tappe forzate verso ulteriori record di surplus di partite correnti e verso il pareggio del Niip (Net international investment position; posizione finanziaria netta).

Inutile ricordare che un sistema-paese con posizione finanziaria netta in pareggio e con forte surplus di Bilancia Commerciale e di Saldo delle Partite Correnti è un paese solvibile ed inaffondabile e che il focus truffaldino sul livello del debito pubblico è assolutamente fuorviante perchè non tiene conto che avendo un Niip positivo significa che esso è debito detenuto da cittadini o comunque facilmente riacquistabile con risorse interne: dunque ciò significa che è un debito nei confronti di noi stessi. Ma i soloni dell’UE fanno finta di non vedere e non capire questa correlazione per motivi ideologici (“affamare la bestia”) e per costringere il paese ad ulteriori dosi di chemioausterità inutile ed insensata con il risultato di frenare lo sviluppo interno di un concorrente e con il malcelato intento di costringere i redditi figli del surplus a finanziare paesi evidentemente “figli di un Dio Maggiore” (ogni riferimento a Francia, Germania e Olanda non è casuale). E così assistiamo al paradosso di rappresentanti di paesi con i conti con l’estero completamente sfasciati – e dunque dipendenti dai capitali esteri – che fanno la morale a paesi come l’Italia in perfetto equilibrio dei conti (ogni riferimento a Dombrovskis è assolutamente voluto). Così va la vita nell’Universo Orwelliano europeo.

Nessuna descrizione della foto disponibile.
Nessuna descrizione della foto disponibile.
Nessuna descrizione della foto disponibile.
tratto da facebook
1 42 43 44 45 46 58