IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI. Intervista a Luigi Longo

IL DISADATTAMENTO DELLE ELITES OCCIDENTALI.

Intervista a Luigi Longo

Su questo link la raccolta delle interviste

 

Premessa

 

Non risponderò alle singole domande, che per comodità del lettore riporto in premessa, ma risponderò complessivamente perché c’è un filo rosso che le collega: il conflitto per l’egemonia mondiale tra un mondo monocentrico sostenuto dagli Usa come unico coordinatore egemonico (il polo occidentale) e un mondo multicentrico rappresentato dalla Cina e dalla Russia che è per la condivisione del dominio tra le potenze egemoni storicamente date (il polo orientale). La cesura mondiale, imposta con la guerra che gli Usa hanno dichiarato alla Russia via Ucraina-Nato-UE, ha comportato una accelerazione della costruzione del polo asiatico allargato nella fase multicentrica. Quindi il conflitto è tra un mondo a somiglianza e immagine degli Usa e tra un mondo dialogante tra le diverse potenze egemoni. La visione statunitense porta direttamente alla fase policentrica (la guerra), mentre quella cinese e russa comporta l’affermarsi della fase multicentrica che può evitare la guerra (forse l’ultima della storia umana, considerata la capacità distruttiva delle armi nucleari sulla vita della Terra) (Manlio Dinucci, La guerra. E’ in gioco la nostra vita).

 

Ecco le domande: 1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina? 2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura? 3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché? 4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

La risposta complessiva.

 

Gli agenti strategici statunitensi (perché sono loro che coordinano la guerra alla Russia e non un generico Occidente) credo abbiano commesso l’errore fondamentale, temuto da Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, di aver favorito la svolta decisiva alla costruzione del polo asiatico allargato [attraverso gli strumenti quali l’associazione interstatale dei BRICS, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), l’Unione Economica Eurasiatica (UEE), l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), la RIC (Russia, India, Cina)], intorno alle consolidate potenze Cina e Russia, in grado di sfidare il polo occidentale, ad egemonia Usa, per la realizzazione di un mondo multicentrico. Diventa difficile, ora, per gli strateghi statunitensi, uscire da una situazione di impasse sia interna (crisi e declino strutturale di una nazione-potenza) sia esterna (relazioni con la Cina e la Russia improntate nella logica imperiale del divide et impera). Sullo sfondo ci possono essere anche alcuni loro errori di valutazione: a) il tentativo di frammentazione della Russia; b) la confusione tra economia reale ed economia finanziaria con la conseguenza di imporre sanzioni poco efficaci; sembrerebbe però un errore troppo madornale; a me pare piuttosto che si tratti di un colpo assestato dagli egemoni alla serva Europa per tenerla stretta al guinzaglio del comando, soprattutto nella fase multicentrica; c) il tentativo di ri-presa del controllo sul mar Nero importante per la Russia, per lo sbocco nel Mediterraneo.

L’Ucraina di fatto è già nella Nato, la Russia è circondata da basi Nato (ricordo l’importanza delle basi come controllo del territorio e come modello di sviluppo incastrato nelle strategie statunitensi; gli esempi delle città Nato in Italia sono eloquenti!). Quindi, il velamento dell’adesione ucraina alla Nato è funzionale sia agli Usa nel non dichiarare guerra direttamente alla Russia per equilibri/squilibri interni ed esterni (la fase multicentrica è lunga e spero che non si passi alla fase policentrica), sia alla Russia per tutelare la via del mar Nero e la popolazione delle regioni del Donbass e della Novorussia (Crimea inclusa) che rappresentano i territori (storicamente russi) più sviluppati dell’Ucraina. Ai russi non interessa la parte occidentale dell’Ucraina, sono interessati alla parte orientale meridionale del fiume Dnieper: lo hanno detto dal primo momento.

L’Ucraina, a mio parere, non esisterà più come nazione. La parte occidentale, dove vivono i veri ucraini, sarà trasformata in un territorio-enclave così come è accaduto al popolo palestinese.

Negli Usa non ci sono agenti strategici che propongono una nuova visione di sviluppo della società da portare avanti nel conflitto del mondo multicentrico; mancano, per dirla con Fedor M. Dostoevskij (Delitto e castigo), gli uomini straordinari, gli agenti strategici straordinari, in grado di dire una parola nuova. Ci sono agenti strategici, espressione di blocchi di potere, che lottano tra di loro senza una visione nazionale e gli interessi di parte prevalgono sull’interesse generale del Paese. Gli Usa non sono più un compatto insieme perché il conflitto tra i decisori è insanabile a causa della profonda crisi interna che tocca in maniera strutturale tutte le sfere della società.

Riporto una mia riflessione già sviluppata in altri scritti e, cioè, che la crisi della potenza egemone di coordinamento mondiale è una crisi di declino irreversibile che riguarda tutto l’Occidente, non fosse altro per il modello di sviluppo sociale imposto con il consenso e la coercizione. Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza), ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento americani penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia (Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti). Quindi, non è solo la crisi degli Usa ma è una crisi di civiltà dell’Occidente che si evidenzia con maggiore decisione nella fase multicentrica (una crisi d’epoca, di passaggio verso nuovi equilibri mondiali e nuovi modelli economici e sociali); una crisi che evidenzia il nichilismo occidentale della ricerca del post-umano (intelligenza artificiale, rivoluzione digitale, robotizzazione, recisioni delle radici umane e naturali, eccetera) e non riesce ad esprimere una nuova idea di sviluppo economico e sociale tendente al benessere individuale e sociale. Quale società sarà quella dove il popolo, sempre più plebe, vivrà la sua realtà virtuale tramite la rivoluzione informatica/digitale e le elites vivranno la realtà reale trasformando città e territori e costruendo nuovi paesaggi dove i flussi e il godimento della natura saranno sempre controllati e selezionati? Si va verso un nuovo paradigma sociale che porta dritto nel profondo nichilismo a meno che non si crei la possibilità di frenare questa discesa nel baratro sociale. Il morto afferra il vivo e lo fa prigioniero (Karl Marx).

La cosiddetta civiltà, qui mi riferisco sia all’Occidente sia all’Oriente, ha bisogno di ben altro progresso, di ben altra scienza: vanno ripensati sia la sua produzione sia i suoi obiettivi, tenendo presente la non neutralità della scienza. Abbiamo raschiato il fondo facendo passare per scienza la produzione dei falsi vaccini per combattere la malattia da covid-19 scaturita da un virus Sars-Cov-2 di origine artificiale usato per una guerra batteriologica, prevalentemente statunitense. Abbiamo bisogno di un progresso che aiuti a costruire sensatezza individuale e sociale affrontando i bisogni fondamentali della produzione e riproduzione della vita, innervato con il rispetto delle leggi della natura (di cui non sappiamo molto!).

Come l’Occidente affronta la fine del vecchio nomos e la costruzione del nuovo nomos (Carl Schmitt, Terra e mare)? Come si porrà il nuovo nomos occidentale in rapporto al nuovo nomos orientale che si inizia a intravedere nel costruendo polo asiatico allargato? Riusciranno i due ordini a rimanere nella fase multicentrica della storia mondiale con rispetto reciproco, basando il confronto sul riconoscimento della diversità storica e territoriale (Francois Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti; Luce Irigaray, Tra oriente e occidente. Dalla singolarità alla comunità; Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza) proponendo un nuovo modello di organizzazione di produzione e riproduzione della vita sessuata dei popoli?

Il “continente” Europa può svolgere un ruolo fondamentale (considerato il declino irreversibile dell’egemonia statunitense) nel creare un nuovo ordine, a patto però che crei la rottura con un progetto-percorso di de-americanizzazione (è poco studiata l’americanizzazione del territorio europeo), così come gli Stati Uniti imposero, con la dottrina Monroe, la de-europizzazione del continente America? Occorre, per dirla con Costanzo Preve, “un radicale riorientamento gestaltico” che faccia uscire l’Europa dalla servitù volontaria statunitense e pensare ad un’altra Europa come soggetto politico di nazioni autodeterminate e libere (con una propria idea di sviluppo e di organizzazione sociale, i cui territori facciano da crocevia di interscambio tra Occidente e Oriente), che aiuti gli Usa ad uscire da una logica di padroni del mondo. Una rottura forte e qualitativa che può essere realizzata mettendo in discussione il modello egemonico degli Usa a partire dalla liberazione dei territori europei dalle basi Usa e Usa-Nato che interferiscono nelle scelte di sviluppo imponendo il proprio modello di sviluppo e le proprie linee strategiche per le esigenze di potenza mondiale (l’Europa è piena di basi, di cui 140 in Italia; di 481 bombe nucleari, di cui 70 in Italia, di soldati, eccetera, cfr Redazione de “Il Messaggero”, Bombe atomiche dove sono in Italia? Oltre 70 testate nucleari in due basi, utilizzabili da Jet dell’aeronautica (ma degli Usa); Comidad, Il militarismo è un catalizzatore del crimine, www.comidad.org, 7/9/2023). E’ ideologia, nell’accezione negativa del termine, parlare di territori europei liberi quando sono occupati da basi statunitensi direttamente e indirettamente (Usa-Nato).

Bisogna uscire dalla Nato quale strumento che ha incorporato l’Unione Europea (che è stata un progetto Usa ideato negli anni trenta del secolo scorso e realizzato nel secondo dopoguerra con l’affermazione del dominio occidentale da parte degli Usa) per la realizzazione delle scelte strategiche statunitensi nel conflitto con le potenze mondiali Cina e Russia: la guerra alla Russia e tutte le scelte politiche formalmente europee lo stanno a dimostrare!

Costanzo Preve fa riflettere quando afferma che << […] l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare ed a rischiare una guerra mondiale in Georgia ed in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche dell’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera? Pura ipocrisia >> (Costanzo Preve e Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale).

Fin qui ho parlato di una rivoluzione dentro il capitale (inteso come rapporto sociale) che riguarda sia l’Occidente sia l’Oriente. Occorre invece pensare e progettare una rivoluzione fuori dal capitale, ma questa è un’altra grande e fondamentale questione.

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LA CONOSCENZA MIT-DISCIPLINARE, il SOTTOSTANTE ed altro _ di Pierluigi Fagan

LA CONOSCENZA MIT-DISCIPLINARE. MIT qui sta non per il noto istituto tecno-scientifico americano, ma per Multidisciplinare-Interdisciplinare-Transdisciplinare. La forma della conoscenza MIT-disciplinare è una necessaria evoluzione della forma della nostra conoscenza.
Da quando abbiamo fonti scritte sufficienti, quindi più o meno da soli duemilatrecento anni e solo per alcune selezionate aree del mondo (Occidente, India, Cina), rileviamo gli sforzi conoscitivi umani in senso allargato e precisato. Al tempo dei Greci, la prima rivoluzione fu quella del logos, l’approccio logico-razionale che sfidava il precedente dominio dello spirito mitico-religioso-superstizioso. La conoscenza è ancora un tutto, diviso al suo interno ma indiviso nel suo intero. Lo testimoniano l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico in cui c’erano studiosi che pur condividendo una filosofia comune, seguivano poi linee di ricerca specifiche, dalla aritmo-geometria alla fisica, dalla politica alla grammatica/retorica. La forma “scuola” risaliva a Pitagora e Parmenide ed era condivisa dagli atomisti, poi dagli stoici e dagli epicurei a modo loro anche dai cinici e megarici, infine pure dagli scettici e zetetici. Il tutto culmina in ambiente alessandrino.
Coi Romani, si eclissa il ruolo collante dell’impostazione filosofica comune e si sviluppano saperi pratici, giuridici, ingegneristici, storici. Dopodiché c’è una presa di potere epistemico della religione cristiana che sormonta l’ordinatore filosofico e lo sottomette nel cortile logico mentre a valle si aprono le scuole del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia) ma anche i saperi artigiani e le prime università.
Nel Rinascimento c’è un ritorno della filosofia (e della forma “scuola”) anche in seguito ad alcuni fallimenti concreti della conoscenza religiosa nel secolo che seguì la Peste Nera. Qui si manifesta uno spirito diverso, “olistico”, da “hòlos” ovvero “totale-globale” che ha in Pico della Mirandola il suo profeta.
Ma essendo epoca di transizioni, accanto a questo movimento, si sviluppano i saperi pratici del mondo. Dall’artigianato esplorativo olandese viene fuori il cannocchiale, Galileo incuriosito se ne fabbrica uno suo (con prime nozioni di ottica) e lo puntò su Giove. Copernico aveva già proposto una rivoluzione del punto di vista ponendo il Sole al centro con tutto il resto attorno, cosa per altro proposta già da alcuni Greci, ma a volte le idee non sono importanti solo in sé ma per la posizione che occupano nel contesto.
Da qui inizia un doppio corso della conoscenza. Una linea sviluppa di nuovo la filosofia generale e sempre più diramata nel particolare, che dialoga con la religione con sorti alterne. Dall’altra inizia il percorso delle scienze moderne. Nel XIX secolo accade un terremoto, alcuni sguardi che erano ancora pensati in filosofia (antropologia, cosmologia, psicologia razionali) si emancipano e si fondano come “scienze” propriamente dette. Compare la geologia e la moderna geografia, l’economia si emancipa dalla filosofia morale e si mette in proprio, la grande espansione coloniale porta l’antropologia a contatto con nuovi modi e nuovi mondi concreti. La “società” diventa un ente che merita un suo studio e così la sociologia. La chimica si emancipa dall’alchimia e la biologia prende ramificazioni sempre più complesse. Lingua e linguaggio abbandonano la culla della logica e si mettono in proprio anch’esse. Il movimento all’arborizzazione dei saperi continua lungo tutto il XX secolo, mentre nascono ulteriori sguardi, tra cui l’ecologia e le scienze cognitive mentre lo sviluppo tecnico, dopo il big bang del secolo precedente, arriva a livelli di inimmaginabile potenza e precisione accompagnato da linguaggi e logiche geometrico-matematiche sempre più sofisticate.
Qui, va segnalato lo sconcerto filosofico. Aggrediti da una forma filosofica detta “positivismo” che poi arriva ad occuparsi anche di conoscenza con il “positivismo logico” da cui promanano i presupposti della successiva “svolta linguistica” e l’intero approccio della filosofia anglosassone analitica, i filosofi sembrano perdere ogni oggetto. Ogni oggetto, ogni fenomeno sembra correre verso un suo proprio pensiero.
Ne rimangono smarriti e risentiti. Si creerà una frattura che crescerà sempre più tra gli umanisti che disdegnano il potere epistemico scientifico e quest’ultimo che si autonomina paradigma primo retrocedendo la filosofia e musica per musicisti senza armonia. E dire che sul frontone dell’Accademia platonica, leggenda vuole ci fosse scritto “Non entri chi non è geometra” e del resto l’aritmosofia pitagorica era la base delle famose “dottrine segrete” di Platone, eredità ben conosciuta dall’ultimo “mago”: Newton.
Arriviamo così all’oggi. Oggi i saperi sono esplosi in un albero ormai ampio almeno quanto le sue radici, con saperi, saperi di saperi, specializzazioni che tendono a sapere tutto di niente mentre, sempre più, si sa niente del tutto. Ognuno ha la sua lingua, le sue pratiche, i suoi metodi, la sua gelosa specificità e la presunzione -come le monadi leibniziane- di poter osservare l’universo dalla propria regionalizzata e temporizzata specificità. In effetti, questo corso è parallelo a quello sociale-produttivo della fabbrica, ne riflette la forma.
Due enti, nel frattempo, hanno avuto il loro pari sviluppo di complessità. L’uomo che dal “bipede implume” dei platonici sfottuti dai filosofi delle altre scuole che andavano e gettare polli spennati al di là del muro di cinta della loro comunità di studio e pensiero, ha oggi descrizioni in: fisica, chimica, biologia, scienze cognitive, psicologia, antropologia, sociologia, linguistica, scienze politiche e giuridiche, economia, storia ed ovviamente filosofia, più qualche disciplina intermedia. Ogni studioso di campo, che è finito in una facoltà a volte per puro caso, si è formato a lungo, è diventato un esperto e coltiva il suo sguardo pensando che questo spieghi tutto ed il suo contrario. Oggi poi ogni sguardo disciplinare ha al suo interno svariate teorie per cui lo studioso non pensa solo che con quello sguardo può spiegare tutto ma in particolare con la sua versione teorica. L’altro ente esploso è il mondo la cui complessità è diventata ingovernabile per il pensiero aggiungendovi le forme di conoscenza e pensiero aliene, quelle asiatiche per esempio.
Eccoci qui allora a segnalare il bisogno di una nuova evoluzione della forma della conoscenza umana. Non si tratta, per una volta, di dire questo è meglio di quello, ma di cucire tutti i questi e tutti i quelli, o almeno tendere a…, per affiancare a questo albero sempre più ramificato di particolari, nuove visioni generali composte dal portato delle particolari più la riflessione generale su tutto questo nuovo intero. Una sorta di dialettico ritorno all’olismo, ovvero ritornare all’aspirazione naturale ed umana al sapere qualcosa del tutto o di enti molto complessi, ma con il portato dello sviluppo di tutti i saperi più specifici che nacquero in risposta alle vaghezze quasi sempre a destinazione mistica dell’olismo rinascimentale.
Questo è il sapere complesso, formato dai tanti sguardi specialistici, interrelazioni concettuali tra questi, osservazione dei punti ciechi e parziali che la divisione disciplinare ha creato, messa a dinamica nel contesto storico-sociale, pensando il tutto con le facoltà logico-razionali riflessive e parimenti pensando a come lo pensiamo.
Ne vengono così gli approcci transdisciplinari che cioè attraversano più discipline. Ad esempio, la nozione di “sistema” lavora in fisica, chimica, biologia, scienze cognitive, psicologia, antropologia (in cui per complesse vicende epistemiche lo rinominano “struttura”), linguistica, sociologia, economia, giurisprudenza, scienze politiche, storie e naturalmente filosofia. Cosa ci dice questa applicazione di una forma a priori dello sguardo in così tanti campi, che utilità mostra, che ricchezza esplicativa ha portato, come si fa a mettere assieme tutta questa varietà in una sintesi utile poi per ogni studioso specifico di campo che usa il concetto?
Gli approcci interdisciplinari convergono due o tre discipline sullo stesso oggetto a fenomeno. In biologia è la norma, ma ne nasce anche la geopolitica (geoeconomia), la sociobiologia, l’antropologia economica e molto altro. Si tratta poi di stabilire il metodo, i linguaggi e le logiche comuni di questi approcci che mutuano forme contigue ma diverse.
Infine, il modo multidisciplinare vale soprattutto per gli enti generali e più complessi, l’uomo ed il mondo più di ogni altro. Si tratta “semplicemente” di metterli in osservazione da tutti i punti di vista che pensano di aver qualcosa di utile da dire su quegli oggetti o fenomeni. Questa è, in grande e grossolana sintesi, l’evoluzione MIT-disciplinare, affiancare agli studiosi specifici, studiosi generalisti e farli dialogare per rimettere assieme lo specchio infranto delle nostre immagini di mondo.
Naturalmente questo è solo un post, non mi sfugge il riflesso socio-politico che oppone attrito a tutto questo “facile a dirsi”, solo che lo spazio è già da me abusato. Se ne riparlerà.
Da questo punto di vista si osserva il vociare scomposto degli scientifici contro gli umanistici e viceversa, con scoramento. Si osserva l’ignoranza spesso assai presuntuosa di ogni specializzato o seguace di teorie regionali che ambisce a dire cose significative ed ultime sui campi più vasti, con triste perplessità. Si osserva la patologica proliferazione dicotomica, ad esempio, tra fare e pensare, tra particolare e generale, tra contemporaneo e storico, tra razionale ed emotivo e così via, scuotendo il capo sempre più affranti. Si vede l’eterno ritorno del dogmatismo che è sintomo della fase troppo disordinata del pensiero e la sua pronta antitesi ovvero l’impeto scettico e zetetico, cose viste e riviste nella storia del pensiero ma che ogni volta accadono senza che noi se ne abbia memoria e se ne colga la sintomatologia, il problema sottostante. Tuttavia, proprio dalla conoscenza della storia del pensiero, si sa che è proprio da queste fasi di crisi profonda e necessaria che nasce la fase rifondativa successiva.
Al culmine della modernità abbiamo cambiato radicalmente il mondo, ora si tratta di capire come adattarci a questo nuovo contesto. Impossibile farlo senza considerare le società sistemi complessi, che hanno interrelazioni vitali con altri sistemi complessi, tutti immersi in un contesto o ambiente che perturbiamo, avendo a che fare con qualcosa di radicalmente nuovo sorto in brevissimo tempo e che ci dà pochissimo tempo per trovare la soluzione adattativa.
Occorre rivedere le basi logiche ed aggiornare l’antica dicotomia tra intero e parti, facendo pace col fatto che ogni intero è fatto di parti ed ogni parte dipende da un intero fatti di parti che a sua volta è parte di altri interi nel tutto diveniente. Questo è l’oggetto “mondo”, la sua immagine dovrebbe rifletterne la complessità, altrimenti l’adattamento sarà fallito e le conseguenze saranno assai problematiche, come da più parti e per più motivi stiamo vedendo.
IL SOTTOSTANTE (post di eco-geo-teologia). L’immagine di mondo è il complesso sia del come funziona una mente, sia di ciò che produce, sia di ciò che crede vero o utile. Dell’idm esistono versioni individuali (ognuno ne ha una), di un certo periodo storico, di una certa classe sociale (anche se il concetto di “classe” si è assai complicato da quando veniva usato da Marx), di un certo sesso o genere, di una certa età, di una certa etnia-nazione-civiltà, di vari orientamenti ideologici. Oggetto massimamente complesso, poco indagato, ai più sconosciuto.
Il fatto sia sconosciuto porta spesso a molto tempo buttato nel dibattito pubblico. È praticamente inutile discutere con qualcuno che ha una idm molto diversa dalla nostra, bisognerebbe discutere l’idm non i suoi portati. Discutere i portati è come litigare parlando due lingue diverse e reciprocamente incomprensibili, si capisce che stiamo litigando ma non si capisce su cosa.
Vorrei indicare un sottostante che presto diventerà protagonista delle tempeste polemiche su questo ed altri social.
Il 4 ottobre, papa Francesco (per correttezza voglio specificare che chi scrive non ha credenze religiose) rilascerà la seconda puntata della sua enciclica Laudato sì (2015), nelle intenzioni non una enciclica ma una esortazione. A sue parole: “E’ necessario schierarsi al fianco delle vittime delle ingiustizie ambientali e climatiche sforzandosi di porre fine alla insensata guerra alla nostra casa comune, che è una guerra mondiale terribile” pronunciate nel viaggio di ritorno di quello che pare esser il suo ultimo viaggio apostolico, in Mongolia. Sebbene si chiami Francesco ed il 4 ottobre sia la festa di San Francesco, Bergoglio è gesuita.
Nel XVII secolo, i Gesuiti fecero enormi sforzi coordinati per portare il cristianesimo in Cina. Esemplificativo del movimento, fu Matteo Ricci. I gesuiti prima vissero in Cina per un po’ per capire meglio come funzionava da quelle parti. Conosciuto l’ambiente, cominciarono a tessere le loro reti per cercar di arrivare alla corte imperiale. Capivano che lì bisognava andare alla testa per produrre qualche effetto, ma capivano anche che quella testa era molto complessa ed ereditava credenze secolari difficili da cambiare oltretutto in un auspicato movimento di auto-riforma. Contavano su un set di conoscenze tecno-scientifiche che promettevano di condividere in modo da invogliare ad accettarli a corte, in pratica cercavano di sedurre la casta dei funzionari confuciani stante che il sapere e la conoscenza era centrale nell’idm confuciana.
Nel far ciò si trovarono nel difficile problema della traduzione concettuale e rituale ovvero come rendere compatibili i sistemi di immagine di mondo e rito di celebrazione della sua condivisione, tra confucianesimo e cristianesimo. L’idm confuciana ha al vertice il Cielo che è un concetto di ordine-armonia naturale. L’imperatore -ad esempio- ha o non ha il “mandato celeste” ovvero agisce in armonia all’ordine naturale o meno. Dire che l’imperatore ha perso il “mandato celeste” è metafora del fatto che non va bene, sta deragliando, è fuori il novero dell’armonia naturale. Delle nostre élite contemporanee, potremmo ben dire che hanno perso il mandato celeste anche se per ora vediamo solo la triste collezione degli effetti e non ancora una auspicata loro sostituzione.
I gesuiti pensarono (la faccio facile quindi riduco parecchio la storia) che questo era un buon punto di partenza, il cielo era la casa di Dio, certo tra cielo e Cielo cambia non solo la maiuscola ma il concetto, tuttavia ci si poteva lavorare. Forse però sottovalutarono il problema dei Riti, centrale nella tradizione confuciana. Per mantenere l’obiettivo grosso (la Cina già ai tempi era demograficamente ben più popolosa dell’intera Europa e centrale nell’Asia), si mostrarono molto accomodanti con il problema dei riti che erano immodificabili per i confuciani.
Nella Chiesa, l’ordine gesuita ha un suo concorrente totale, totale significa irriducibile, cani e gatti, juventini ed interisti, progressisti e conservatori, i simmetrici contrari. Questo altro specchiato sono i domenicani. Impegnati in Asia, i gesuiti trascurarono le faide vaticane a cui invece si dedicarono attivamente i domenicani. Così, dal 1704, iniziò la resa dei conti che vide domenicani e francescani prevalere sull’elasticità gesuita, fino a che nel 1742, Benedetto XIV mise la parola fine condannando ogni sincretismo. Qualcuno forse si ricorderà l’omelia di Benedetto XVI la notte in cui stava morendo Giovanni Paolo II in cui chiarì il programma teologico del suo futuro papato puntato prioritariamente contro il “relativismo ed il sincretismo”. “Sincretismo” è quando tenti di mischiare ed amalgamare due cose che c’azzeccano poco una con l’altra. Come si noterà nomi papali e temi ideologici sono collegati ed hanno longeve tradizioni ideologiche. Diventati per ordine papale rigidi sulla faccenda dei nomi e dei Riti, i sacerdoti cristiani vennero espulsi dalla Cina, il progetto gesuita era fallito.
Non è quindi un caso che non potendo andare in Cina, Francesco sia andato almeno in Mongolia lanciando messaggi di pace ed amore verso i cinesi (sono anni ed anni che si lavora per un viaggio del papa in Cina, invano), l’ultimo viaggio, l’ultima missione, l’ultimo onore a Matteo Ricci ed al sogno di portare Cristo e Pechino.
Questa è metà della storia, l’altra metà è l’impegno del papa per la giustizia sociale ed ambientale, da cui sorgerà l’esortazione a sua volta fondata sull’enciclica. Penso sarà il suo ultimo atto significativo per cui prepariamoci per le complesse procedure per avere un nuovo papa, Francesco ha più volte fatto capire che non gliela fa più e da quando Benedetto ha sdoganato le dimissioni papali (atto invero rivoluzionario per un papa ritenuto ultraconservatore, ma Benedetto è anche filosofo e coi filosofi le cose non sono mai semplici), il papa può rimettere il suo mandato celeste. Ratzinger ci ha lasciati l’anno scorso e quindi il ruolo di ex-papa è libero, non si potevano avere due ex-papi quindi Bergoglio ha resistito, ma a fatica.
Visto che andremo prima o poi a nuovo papa, aspettiamoci la guerra dei mondi vaticana ovvero le grandi manovre per spingere un po’ di qui ed un po’ di là, il Conclave. Conclave che Francesco ha riempito di suoi eletti, per pilotare la successione, un po’ come fanno i presidenti americani con le nomine dei giudici della Corte Suprema (analogia stiracchiata ma di qualche utilità per capire le dinamiche dei poteri nelle loro istituzioni).
Grande battaglia sarà svolta con i commenti all’esortazione, soprattutto per quanto riguarda la sensibilità eco-ambientale mostrata in Laudato sì. Tanto per render chiaro il sottostante, il prode Franco Prodi che molti ammirano per le sue sfuriate contro l’ingiustificato allarmismo climatico, è tendente domenicano. Il più anziano dei Prodi, Giovanni, fondò il gruppo Scienza, Fede e Società oggi condotto da padre Sergio Parenti, domenicano, come si evince dal filmato che allego nel primo commento. Secondo questo punto di vista, è impossibile e forse anche un po’ blasfemo pensare che l’uomo possa davvero alterare il clima e l’atmosfera, un ardire prometeico ed al contempo un’ombra su Dio stesso che avrebbe creato una creatura in grado di rovinare la Sua creazione. Un Dio che fa tali errori è un po’ un orrore secondo questa linea deduttiva. Come per altro il simpatico e folkloristico Zichichi, la sciiiiensa, deve dimostrare l’infondatezza di questa assunzione checché ne dicano quelli dell’IPCC ed altri creatori ingiustificati di panico a fini di profitto. Altresì, i gesuiti pensano all’opposto che proprio perché la creazione è di Dio e quindi sacra oltreché vitale, l’uomo deve darsi una regolata se non vuol bruciare prima che nelle fiamme dell’Inferno, in quelle dell’effetto serra e visto che ci siamo, della guerra mondiale a pezzi.
Da dopo il 4.10, quindi, preparatevi alla pioggia di post che ignari del tutto del sottostante confronto tra immagini di mondo tra due longevi ed influenti ordini religiosi cristiani in lotta per l’egemonia della dottrina, inonderanno il social allietandoci per una settimana e passa quando poi verrà fuori un altro Vannacci, Giambruno o un colpo di stato ad Andorra che non è Africa ma come coi virus, quando iniziano i contagi si sa come si va a finire.
Fra un mese potrete sfoggiare le vostre conoscenze sul sottostante teologico tra ordini cattolici facendo un figurone che vi eleverà dalla suburra delle opinioni combattenti.
INIZIARE LE PRATICHE DI DIVORZIO OCCIDENTALE. Abbiamo da una parte società complesse e dall’altra un mondo sempre più complesso a cui queste debbono adattarsi.
Il mondo non è in uno stato omogeneo quindi non possiamo usare il concetto di società complesse come un universale, dobbiamo socio-storicamente determinarle. Altresì, la complessità del mondo è invece un universale, vale per tutti anche se con aspetti e declinazioni diverse.
La determinazione socio-storica che qui ci è propria è inquadrare le società complesse della sfera occidentale. Ma, a sua volta, la sfera occidentale non è un omogeno. Gli interi Stati Uniti hanno pari popolazione ai 20 Paesi dell’euro e per Pil assoluto, UE (27 Paesi) è solo l’80% del Pil americano, UEM (20 Paesi) è solo il 70% del Pil americano.
UE ed Unione europea monetaria sono aggregazioni non sovrane quindi sono imparametrabili, al di là della dimensione (imparametriabile), con una entità sovrana come gli US. Non sono sovrane nel senso che non hanno unità giuridica e politica oltreché fiscale ed economica interna ad una unica sovranità.
Sono profondamente differenti in storia e geografia, gli US, addirittura, sono su un altro continente e la loro superficie totale, quindi l’insieme delle proprie risorse naturali, è il doppio di quello dell’Unione che è comunque una collezione di 27 diversi soggetti.
Sistematicamente, le aziende, il complesso di ricerca, il sistema militare, quello commerciale oltreché industriale, ancora di più quello banco-finanziario americani, hanno molta più massa di ogni pari comparabile europeo vista la diversa demografia. Gli statunitensi sono tra l’altro autonomi energeticamente, gli europei no.
Con il 4,2% della popolazione mondiale, gli americani fanno il 25% del Pil globale mentre con il 5,6% della popolazione mondiale, l’Unione (che è un aggregato statistico) fa solo il 20%, sono quindi e di nuovo condizioni imaparametrabili.
Ne consegue che il problema adattativo per gli americani, per quanto siano “occidentali”, è ben diverso da quello europeo, ammesso esista un soggetto definibile Europa cosa che non è in tutta evidenza.
Onto-politicamente (quindi giuridicamente e militarmente i due fondamentali della sovranità), gli Stati Uniti sono un soggetto, l’Europa è tra una collezione statistica ed una debole e parziale confederazione di soggetti autonomi ed i due comparati, come detto, sono ampiamente difformi e reciprocamente disomogenei, oltre a trovarsi in condizioni di contesto del tutto differenti. Se su taluni aspetti parziali del problema adattativo, questi due diversi mondi possono trovare comune intesa e finalità particolari, sul problema adattativo nel suo complesso non può usarsi la categoria “occidentali” poiché contiene oggetti troppo eterogenei sotto più punti di vista fondamentali.
Non abbiamo ancora invocato altre variabili quali la religione, il pluripartitismo e spesso meccaniche elettive proporzionali, il welfare state, la geografia che vede l’Europa essere una propaggine del continente euroasiatico dirimpetta il continente africano ed il non avere due immensi oceani che la isolano e la difendono dal resto del mondo, la pluralità etno-linguistica, la demografia anagrafica e l’indice di riproduzione, la metafisica. Alcuni, per altro, potrebbero ritenere questo parziale ultimo elenco di tratti soft, anche più decisivi in descrizione di quelli hard prima esposti, tuttavia rimaniamo nelle scansioni logiche quantitative dominanti.
“Occidente” è una categoria parziale e vaga che rischia di dare un senso di unità a qualcosa che non ce l’ha e non può avercela nel profondo. Non ce l’ha a livello descrittivo e non può avercela a livello prescrittivo. Europa è in tutt’altro contesto, ha tutt’altri problemi, ha tutt’altra potenza per poterli affrontare, ha tutt’altra mentalità. Oltre a non essere a sua volta un soggetto ma una categoria in cui infiliamo a forza poco meno di trenta soggetti altamente disomogenei tra loro.
Poiché ogni problema adattativo presuppone un soggetto con una per quanto complessa identità, facoltà e potenza relativa che è colui che deve adattarsi, ne consegue che il principale problema della nostra fase storica ovvero l’adattamento ad un mondo di 8 miliardi di persone che usano i metodi dell’economia moderna per cercare di vivere il più a lungo ed al meglio possibile nel contenitore planetario finito, va affrontato ognun per le proprie condizioni. Ne consegue, in via prioritaria poiché ontologica, che riguarda le fondazioni di ciò che si è, la necessità di prevedere una separazione degli occidenti. Separarsi non è esser contro, è passare da una inesistente comunione ad una possibile e variabile cooperazione o meno.
Chi non segue questo imperativo, presceglie una posizione subordinata del minore (collezione europea) al maggiore e quindi si troverà in condizioni adattative ancora peggiori che non quelle in cui si troverebbe data la sua per altro assai problematica composizione, si troverà cioè strutturalmente in condizione di dipendenza.
La sfida adattiva ha contorni terribili per quantità e qualità delle problematiche, dei cambiamenti, della gestione e dei tempi coinvolti e presupposti, giocarla senza aver capito che l’Occidente è una costruzione fallace e disfunzionale, è condannarsi a fallirla prima ancora di giocarla.
COMPLESSISSIMI NODI. Simpatica intervista a Cacciari che ci illustra temi di dibattito intellettuale italico in quel di Mestre, su cosa ne sarà della globalizzazione in un mondo globalizzato. A me Cacciari sta pure simpatico, quindi nulla di personale, dimentichiamoci il riferimento, seguiamo gli argomenti o meglio le opinioni sugli argomenti. Gli argomenti trattati esistono a prescindere il come e da chi verranno discussi in quel convivio.
C. ha gioco facile a segnalare che il sogno americano del mondo piatto con loro al centro non teneva conto dell’eterogeneità del mondo stesso e della multidimensionalità politico-culturale, ma se è per questo anche economica e finanziaria. Ma fu questo a muovere la prima globalizzazione, quella iniziata col WTO-1994? Questo è quello che hanno raccontato, ma questo “racconto” veniva prima o dopo i fatti? Nel senso, era una strategia pensata o una narrazione posta a dar veste razionale a spinte incoerenti e di breve respiro? Credo che il vero problema di questa storia non stia nel fatto che il racconto s’è rivelato basato su un calcolo sbagliato, ma che è stato steso sopra i fatti “dopo” o “durante” non prima. Non era una vera strategia, in Occidente non si fanno strategie serie da decenni e per l’ottimo motivo che si incontrano difficoltà letteralmente “insormontabili”, si “compra tempo” come ebbe felicemente a notare W. Streeck.
Forse non è ai più chiaro che siamo davvero in un mare di guai sotto diversi aspetti che riguardano potenti e complesse dinamiche storiche, epocali, inedite in senso assoluto. La critica è facile, a seconda di quanto siamo colti sarà più o meno ficcante e precisa, ma il problema sono le soluzioni, non ci sono soluzioni che non implichino fatti che fanno tremare le vene dei polsi, comunque la si pensi in ideologia.
Il personaggio che qui più che filosofo fa il critico letterario cioè tratta narrazioni, passa poi all’UE che -mannaggia- non ha saputo saltare al gradino superiore di unione politica rimanendo in un limbo di vaga struttura economico-monetaria-normativa. Io non so se davvero chi fa questi discorsi crede a quello che dice, sarebbe allarmante. Sono letteralmente anni, più di un decennio che quando sento questi discorsi trasecolo “ma ci fanno o ci sono?”. Non sto dicendo che sono contro o a favore di Europa A o B o C, sto dicendo che sono anni o un decennio che quando sento questa storia dell’unificazione politica dell’Europa rimango allibito come se qualcuno si lamentasse seriamente del fatto che gli asini non volano. Ma c’è qualcuno che davvero dopo l’enunciazione del titolo “Uniamo l’Europa!” ha mai fatto non dico un chilometro, ma almeno qualche metro avanti nella proiezione dell’enunciato? Come? Perché? Con chi? Quando?
Immaginate un parlamento della zona euro, la Germania avrebbe in proporzionale il 25% del parlamento, anche si portasse appresso i voti di Austria, Finlandia, Paesi Bassi ed i tre baltici, arriverebbero scarsi al 35%. Secondo quale razionale questi popoli con loro tradizioni e cultura dovrebbero esser felici di unificarsi col restante 65% che ha tutt’altre tradizioni, culture, modi di intendere l’economia, i valori immateriali e quelli materiali?
Alla prima seduta del parlamento democratico (si spera che questi sognatori dell’Europa Unita vogliano immaginarsela se non davvero democratica quantomeno demo-rappresentativa), il primo ordine del giorno sarebbe la riforma della moneta e l’emissione di debito comune ed i nordici stabilirebbero il primato continentale dei cento metri scappando inorriditi. Da qui, una sfilza interminabile di questioni divisive assolutamente non componibili, sotto nessun aspetto o invocazione di buona volontà. Neanche l’idealista più sfrenato potrebbe davvero prender sul serio una cosa del genere, a meno non sia psicotico. Qui si tratta di avere o non avere in testa minime nozioni di: storia, geografia, demografia, sociologia, economia, finanza, analisi approfondita delle strutture, delle istituzioni e delle culture di tre decine di paesi che vanno dai 400.000 maltesi (fieri di esserlo) agli 80 milioni di tedeschi, cattolici, protestanti, atei, con trenta e più lingue e tradizioni millenarie o secolari divergenti tra cui sistemi giuridici, di educazione, militari, sanitari etc.. Ma di cosa stiamo parlando? Di letteratura e di critica letteraria, appunto.
E di contro, pensate andrebbe meglio riconquistando la piena sovranità (“piena”, si fa per dire, provate gentilmente ad andare a dire a gli americani che dopo la Via della Seta, volete uscire anche dalla NATO) di un paese che perderà altri 5 milioni di abitanti nei prossimi trenta anni? Un paese dipendente strutturalmente ed inevitabilmente su molti aspetti, di 55 milioni di persone con un terzo di anziani, in un mare agitato con americani (330 mio), russi (150 mio ma con 5000 testate nucleari), cinesi, indiani (1,4 mld cad.), arabi e nel 2050, 2,5 miliardi di giovani africani davanti casa?
E la guerra in Ucraina? Come se ne esce? Non come se ne esce, come ci siamo entrati!? È mai possibile che nessuno si domandi come diavolo è possibile che trenta e passa paesi con centri strategici, servizi, think tank, ministeri degli esteri, dell’economia e del commercio, non abbiamo minimamente osservato quale immane casino si stava creando al bordo ucro-russo da almeno sette anni prima che la guerra scoppiasse? È mai possibile che nessuno abbia chiesto il perché di questo immane fallimento predittivo ai propri governi? Ma qualcuno pensa davvero che USA, Russia, Cina, India ma anche molti altri come i sauditi che fanno piani strategici a trenta anni, campino così? Ah oggi, guarda un po’, è scoppiato un conflitto al confine ucro-russo, strano, sarà quel pazzo di Putin che s’è svegliato male, che dici mandiamo un cannone, ma no io sono pacifista. Ma davvero c’è qualcuno che pensa normale pensare che il mondo funzioni così?
E la Cina? Be’ lì c’è il “pazzesco casus belli di Taiwan” dice il nostro. Ma quale diavolo “casus belli”? I cinesi, parecchio tempo fa, avevano annunciato che Taiwan sarebbe tornata in amministrazione cinese entro il 2049. Dopo che l’anno detto nulla è successo, chi mai si occupa di cose così vaghe e lontane nel tempo? Non gliene è fregato niente a nessuno. Ma dopo un bel po’, un secondo dopo l’inizio del conflitto ucro-russo, gli americani hanno cominciato a starnazzare isterici che i cinesi stavano pensando di invadere Taiwan. Prove? Nessuna, non potevano esserci perché era tutto palesemente inventato. Lo stanno creando loro il casus belli, con due anni di continue provocazioni. Queste non sono opinioni, sono fatti, non c’è alcun fatto alternativo che dimostri che i cinesi avrebbero voluto e potuto invadere Taiwan anche perché non sono così dissennati da pensar di fare una cosa del genere, né oggi, né domani. Taiwan al massimo si manipola per qualche decennio fin quando risulterà “naturale” il suo ritorno al limite con vari caveat di statuto più o meno speciale come Hong Kong o Macao. Per i cinesi, ne va della loro reputazione in Asia e nel mondo, prima che preoccuparsi delle nostre paturnie.
Qui il punto è sempre lo stesso, di cosa stiamo parlando di letteratura o realtà? Perché passi l’amore per il genere fantapolitica o fantageopolitica, ma qui il punto, l’urgenza, è che ci stiamo perdendo il mondo, siamo su un binario morto, andiamo a schiantarci e se non parliamo di realtà, finiremo spiaccicati tutti contro spessi muri di fatti duri.
E così arriviamo all’ultima domanda che cita i “complessissimi nodi” di cui il forum discuterà. Ma da questi presupposti i fatti sono esclusi, sono tutti e solo raccontini, desideri, immaginazioni, sarebbe bello che, oh ma guarda come il mondo si sta incasinando eh? Ma a me piacerebbe così e tu? Ah, a me invece anche un po’ così! Eh sì magari hai ragione, dove andiamo a cenare dopo?
Più che discutere il disordine globale, urge discutere il nostro disordine mentale.
Ripeto, non si tratta di un problema Cacciari a cui anzi va riconosciuta almeno una sensibilità politica non banale (almeno in politica interna) e senz’altro un pensiero altrimenti corposo e ben formato (avercene!), è che questo è lo standard intellettuale contemporaneo, a livello europeo direi, non solo italiano. Questo è il modo ed il livello in cui discutiamo di noi, del mondo e della terribile fase storica. L’Europa tutta rifugge la realtà perché troppo complesse le questioni da leggere ed ancor più stretti e radicali i nodi se non da sciogliere almeno da ridurre. E tutti con popolazioni sideralmente lontane dalla corretta percezione dei pericoli che sempre più corriamo e correremo. Vale per il mainstream ma ahinoi anche per molto pensiero critico, vale per gli intellettuali come per la gente comune, passando per politici e giornalisti. Tutti questi strati sono strati di una stessa cosa, non s’è mai visto che al declino di una civiltà ci fosse uno strato (esclusi i visionari individuali che comunque, da soli, possono sì e no andare verso qualche intuizione grezza) che sa quello che gli altri non sanno, vede quello che gli altri non vedono, siamo tutti embedded gli uni con gli altri, siamo tutti nello stesso sistema.
La realtà ci è aliena, siamo tutti seguaci di Calderon de la Barca (La vida es sueño 1635) e siamo in una barca che è “come nave in tempesta” in cui si sogna altri mari, altri tempi, altri futuri o più spesso, passati.
Segue dibattito… (su dove andiamo a cena, s’intende)
[Grazie a G. Passalacqua per lo screenshot, lo posto solo per corredo non è poi così interessante leggerlo davvero]

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A Flavio Piero Cuniberto

Il 23 agosto abbiamo posto ad Aurelien quattro domande[1]. Le abbiamo riproposte, identiche, ad alcuni amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Nella voce “dossier” sulla barra orizzontale abbiamo creato una apposita raccolta delle interviste.

Oggi risponde Flavio Piero Cuniberto, che insegna Estetica all’Università di Perugia[2]. Lo ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità.

 Buona lettura. Roberto Buffagni, Giuseppe Germinario

 

 

INTERVISTA A FLAVIO PIERO CUNIBERTO

 

1)  Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

 

Nel valutare la situazione «sul campo» preferisco lasciare la risposta ad analisti più professionali (analisti di cose militari, anzitutto). Da un punto di vista più generale mi richiamerei a quella che è la mia visione complessiva del conflitto: una sorta di «teorema», che i fatti concreti non hanno finora confutato, e hanno piuttosto rafforzato. E’ l’idea che, nel «teatro» ucraino, e malgrado le dichiarazioni incendiarie, la NATO non abbia finora premuto sull’acceleratore e non intenda farlo: sia allo scopo di evitare uno scontro diretto e una possibile escalation nucleare, sia perché il timone strategico – ecco il teorema – resta comunque ben fermo sull’obiettivo numero uno della crisi ucraina: spezzare una volta per tutte le linee di comunicazione (politico-diplomatiche, commerciali, energetiche) tra lo «spazio» russo e lo «spazio» europeo, e per parlare più concretamente, tra lo «spazio» russo e lo «spazio» tedesco o mitteleuropeo. Vedere nell’indebolimento delle economie europee, a cominciare da quella tedesca e da quella italiana in seconda battuta, un semplice «effetto collaterale» delle sanzioni, del sabotaggio di Nordstream ecc., è probabilmente un grosso errore di interpretazione. La poderosa macchina industriale tedesca – proiettata ostinatamente verso l’export, cioè verso un accumulo di ricchezza reale, non fondata sulla speculazione finanziaria – era da molti anni un vero incubo per la strategia globale di Washington, sempre più convinta – nell’era-Merkel – di avere nella Germania un alleato sì, ma poco affidabile e sempre pronto a spiccare il volo verso una politica di potenza «in proprio». A trasformarsi da potenza geoeconomica in una vera potenza geopolitica. La partnership con Mosca avrebbe spianato la strada in questa direzione. Bisognava dunque (per Washington e Londra) «stroncare» il canale Mosca-Berlino. L’enfasi con cui gli organi di informazione – ad ogni livello – hanno indicato nella sconfitta militare di Mosca e nella liquidazione del regime «putiniano» (o addirittura nella disintegrazione territoriale della Confederazione Russa) l’obiettivo essenziale del sostegno all’Ucraina, è servita a mantenere in sordina, lontano dai riflettori (fino a un certo punto) quello che è l’obiettivo reale – e non, come dicevo, un semplice effetto collaterale – della strategia americana: reale ma non dichiarabile, perché non si può chiamare alle armi i principali alleati dichiarando in conferenza stampa che lo scopo della mobilitazione è di tagliare gli attributi agli alleati. Va da sé che un ostinato «lavoro ai fianchi» del potenziale militare russo è comunque un esercizio utilissimo, forse anche a distogliere l’attenzione del Cremlino da altri possibili «teatri» di guerra.

Se le cose stanno così – e sono convinto che stiano così – il fatto che la situazione militare in Ucraina sia stagnante e volga al peggio per la NATO non impedisce di ritenere che l’obiettivo N,1 della strategia sia stato raggiunto. E’ difficile pensare infatti che i rapporti russo-tedeschi, a questo punto, non siano compromessi anche a medio-lungo termine. Che poi il raggiungimento di questo obiettivo – tramite una sfiancante guerra di posizione in Ucraina – abbia comportato enormi perdite umane, un autentico protratto massacro, è cosa che agli strateghi di Washington non potrebbe importare di meno. Quella che vedo, insomma, è una miscela di finte dichiarazioni (come nel volley, per distrarre l’attenzione) e di infinito cinismo. Ad maiorem gloriam dell’impero USA in difficoltà.

 

 

 

 

 

2)  Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

 

Se è valido il «teorema» di cui sopra, non credo che si possa parlare di veri e propri «errori», almeno da parte della strategia americana. Diverso è il caso dell’Europa occidentale non anglofona, il cui passivo allineamento alla strategia USA sembra, in effetti, un clamoroso errore. Ma chi sono i decisori in Europa (in Germania e in Italia, anzitutto) ?  A decidere è una classe politica che è ormai la longa manus di Washington. Parlerei di un esteso, anzi mostruoso, «collaborazionismo», dove gli infiniti fiancheggiatori europei della strategia americana mirano a un tornaconto personale o «di classe», e non «di sistema». Se anche la Germania, fino a ieri in ascesa, è un paese in declino, si tratta di un suicidio assistito che manifesta una irreversibile crisi di identità.

 

 

 

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

 

È la crisi di identità a cui accennavo. Sono abbastanza informato sul caso tedesco, e qui vedo davvero gli estremi di uno psicodramma, dove l’intero paese, finalmente riunificato, sembra rinunciare a un’identità forte, anche sul piano culturale, come se avesse ormai alzato bandiera bianca di fronte agli irresistibili modelli (soprattutto culturali) d’Oltreoceano.  Non mancano, in Germania, alcune voci più lucide, sia nel comparto «sovranista» dell’AfD che nel comparto post-comunista della Linke (mi riferisco per esempio agli interventi di recenti di Oskar Lafontaine, peraltro anziano e fuori dai giochi). E tuttavia l’occupazione dei «gangli» vitali da parte degli apparati atlantisti (e qui penso anche all’occupazione delle coscienze, alla subordinazione anche inconsapevole della mentalità collettiva ai paradigmi egemonici d’Oltreatlantico) ha raggiunto un livello tale da lasciare poco spazio a un cambio di rotta. Ben difficilmente le voci di cui parlavo – e anche gli ambienti del dissenso, comprese le organizzazioni imprenditoriali, raggiungeranno la massa critica necessaria per rovesciare l’attuale ordine delle cose. Il deep state tedesco è, paurosamente infiltrato e probabilmente eterodiretto. Un eventuale rovesciamento potrebbe verificarsi, credo, solo nel caso di una implosione totale del sistema egemonico americano: in questo senso la crisi sarebbe «reversibile», ma solo per effetto di uno scenario globale drasticamente mutato, cioè per meriti esterni.

Quanto all’America, si sta giocando l’egemonia, e dunque staremo a vedere. Insomma: non parlerei di una «crisi dell’Occidente» tout court, ma distinguerei il ruolo americano da quello europeo-continentale, dove la crisi assume, a mio parere, una fisionomia più lampante.

 

 

4)  Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente ‘reazionario’, può attecchire in una moderna società industriale?

 

Di questo ritorno alle radici tradizionali, in Russia e in Cina, si parla da tempo, ma credo che sia molto difficile valutarne l’effettiva entità. René Guénon sosteneva che l’Estremo Oriente si sarebbe modernizzato solo allo scopo di battere l’Occidente sul suo terreno: ossia nella forma e non nella sostanza, che sarebbe rimasta tradizionale. Per quanto suggestivo, il parere di Guènon non è però infallibile. La spaventosa determinazione con cui la Cina, in particolare, mira al primato tecnologico –  a cominciare dal settore dell’AI, e «sfornando» anno dopo anno milioni di nuovi ingegneri – non sembra compensata da un adeguato «recupero» tradizionale, se non forse come fenomeno «di nicchia», o coltivato negli ambienti molto chiusi delle società segrete (di cui mi sembrerebbe ingenuo postulare la scomparsa). Potrebbe essere un movimento decisivo anche se elitario, o proprio perché elitario: ci si augura che sia così, che una superiore millenarias saggezza governi, anche nascostamente, la transizione dall’arroganza unipolare a un sistema multipolare. Ma non me la sento di trasformare l’auspicio in una previsione.

Quanto alla Russia, le cose non stanno molto diversamente. Il ritorno alla Russia cristiana dopo l’89 non ha coinvolto le masse. Lo stesso Dugin, alfiere del neo-tradizionalismo russo, ha su questo punto una posizione molto ambigua, favorevole a una specie di «Internazionale delle tradizioni» in cui l’elemento cristiano-ortodosso è posto sullo stesso piano delle tradizioni non-cristiane (e per quanto possa sembrare paradossale, l’idea stessa di una «internazionale neotradizionale» è, in fondo, un’idea massonica, cioè squisitamente occidentale). E d’altronde non è affatto chiaro quale sia il peso reale di Dugin «alla corte dello Zar».

 

 

[1] https://italiaeilmondo.com/2023/08/23/il-disadattamento-delle-elites-occidentali-intervista-ad-aurelien-_-a-cura-di-roberto-buffagni/

[2] Flavio Cuniberto (1956) insegna Estetica all’Università di Perugia. Ha studiato a Torino, Monaco, Berlino e Freiburg i.B. I suoi interessi spaziano dalla filosofia e dalla letteratura tedesca moderna e contemporanea (Friedrich & Schlegel e l’assoluto letterario, Rosenberg Sellier 1990; La foresta incantata. Patologia della Germania moderna, Quodlibet 2010; Germanie. Taccuini di Viaggio, Morlacchi 2011) alla tradizione platonica e neoplatonica nei suoi intrecci con l’ebraismo e l’islam (Jakob Boehme, Brescia 2000; Il Cedro e la Palma. Note di metafisica, Medusa 2008), alla questione della modernità e del suo rapporto col paradigma premoderno (Il Vortice Estetico. Elementi di Estetica generale, Morlacchi 2015). È tra i promotori del progetto Laby, Laboratorio per la Biologia delle immagini. Con Neri Pozza ha pubblicato Madonna povertà (2016), Paesaggi del Regno (2017).

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Michael Vlahos: L’Ucraina avrà lo stesso destino del Sud nella guerra civile americana

Michael Vlahos: L’Ucraina avrà lo stesso destino del Sud nella guerra civile americana

Il giornalista danese Flemming Rose intervista Michael Vlahos[1]


AGON
[2]

5 SETTEMBRE 2023

 

 

L’esercito ucraino è destinato al collasso? Lo storico militare americano Michael Vlahos ha una visione eterodossa della questione. Con il giornalista danese Flemming Rose[3] ha discusso dello stato della guerra.

Per la rubrica Pensiero libero di questa settimana ho parlato con l’analista militare statunitense Michael Vlahos, che ritiene che l’esercito ucraino si stia avviando al collasso. Vlahos prevede che la Russia vincerà la guerra e che Putin si attesterà al confine quando inizieranno i negoziati sul futuro dell’Ucraina.

 

L’Ucraina ha il coltello dalla parte del manico?

Non so voi, ma io credo che sia difficile capire l’andamento della guerra in Ucraina.

Nonostante le fosche notizie dal fronte dei principali media statunitensi – “Washington Post”, “Wall Street Journal” e “New York Times” – gli esperti occidentali continuano a insistere sul fatto che l’Ucraina sta avendo la meglio.

La scorsa settimana, l’analista della sicurezza Mark Galeotti ha dichiarato sul quotidiano britannico “The Sunday Times” che “l’Ucraina sta vincendo la guerra”, anche se questa continuerà fino al 2024. Lo stesso quadro viene dipinto da uno dei principali commentatori americani di affari esteri, David Ignatius, sul “Washington Post”, dove prevede che quest’anno, come risultato dell’offensiva in corso, l’Ucraina potrebbe riuscire a tagliare il corridoio terrestre della Russia verso la Crimea, minacciando così il controllo di Mosca sulla penisola di importanza strategica.

Nella rivista “Foreign Affairs”, quest’estate lo storico militare Lawrence Freedman ha sostenuto che il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky è più forte che mai, mentre tutte le tendenze del conflitto – militari, economiche e diplomatiche – vanno a favore dell’Ucraina, e che il Presidente russo Vladimir Putin è quindi sempre più sotto pressione. Secondo Freedman, non gli restano alternative valide.

Infine, l’esperto di sicurezza americano Edward Luttwak riconosce, in un’analisi pubblicata sul media digitale UnHerd, che l’offensiva ucraina probabilmente non è andata come desiderato, ma Luttwak crede ancora che l’Ucraina, con una mobilitazione di 2-3 milioni di uomini, possa vincere la guerra e liberare i territori occupati.

Tuttavia, Luttwak basa la sua previsione su una popolazione ucraina di 30 milioni di abitanti. Questo numero si riferisce al gennaio 2022. In un’analisi del think tank Jamestown Foundation, collegato alla comunità di intelligence americana, si afferma che la popolazione ucraina si è oggi ridotta a soli 20 milioni, un po’ più dei Paesi Bassi, ma meno di Taiwan. E di questi 20 milioni, secondo la Jamestown Foundation, più della metà è costituita da pensionati: 10,7 milioni.

Jamestown stima che circa 2 milioni di ucraini siano mobilitati, il che corrisponde a circa il 10% della popolazione. Si tratta di un numero elevato, che in altre guerre ha avuto conseguenze negative per l’economia di un Paese. È il caso della Finlandia durante la Seconda guerra mondiale e del Vietnam del Sud durante la guerra del Vietnam. Secondo il Parlamento ucraino, c’è una carenza di manodopera nel settore energetico e nella produzione industriale e di armi, perché i dipendenti sono stati mobilitati.

A ciò si aggiunga che negli ultimi tre mesi l’esercito ucraino è riuscito a reclutare solo circa la metà del numero previsto. Questo è il motivo per cui il Presidente Zelensky ha licenziato i capi di tutti gli uffici di reclutamento del Paese, denunciandone la corruzione. Questa è senza dubbio una parte della spiegazione, ma potrebbe anche essere che, semplicemente, non ci sono più abbastanza persone in Ucraina.

Alla luce di ciò, si possono nutrire dubbi sul realismo della previsione di Luttwak di una vittoria ucraina sulla base dei calcoli che presenta.

Ciononostante, un’ampia gamma di esperti occidentali ritiene che l’Ucraina possa ancora vincere la guerra. E forse hanno ragione.

 

Prevedere il collasso dell’Ucraina

 

Il sillabo dice che le democrazie sono più brave delle tirannie a fare la guerra. Non c’è alcuna base empirica e storica per questo. Fa parte della dottrina religiosa americana, che non si cura della realtà.

 

Lo storico militare americano Michael Vlahos è di opinione diversa. Prevede un collasso dell’esercito ucraino, e ritiene che esso si trovi in una situazione che per molti versi può essere paragonata al destino degli Stati del Sud nella Guerra Civile americana. Allo stesso tempo, ipotizza che l’esercito russo uscirà da questa guerra come forse il più forte del mondo.

Vlahos – come suggerisce la valutazione radicale di cui sopra – non è uno di quelli a cui piace marciare a tempo. Una volta ha lasciato il suo lavoro presso un istituto di istruzione superiore perché si era stancato delle persone che dicevano una cosa e facevano il contrario.

Il dottor Vlahos spiega:

Tutti continuavano a parlare di pensiero critico. Gli insegnanti e la direzione hanno detto agli studenti: Siamo qui per insegnarvi il pensiero critico”. E sebbene il “pensiero critico” sia stato menzionato un totale di 24 volte nel programma, lo scopo di un programma dettagliato di 186 pagine, in cui le risposte “corrette” si trovano in una pagina su due, non è quello di insegnare agli studenti a pensare in modo critico. Le risposte “corrette” sono state ripetutamente inculcate nella testa degli studenti. Tutto seguiva un rigido manuale, e tutte le risposte corrette erano note in anticipo. Mi ha provocato una ribellione intellettuale, e alla fine non l’ho più sopportato“.

 

Può fare un esempio?

 

Il programma diceva che le democrazie sono più brave delle tirannie a fare la guerra. Non c’è alcuna base empirica e storica per questo. Fa parte della dottrina religiosa americana, che non si cura della realtà“.

 

Penetrare il mistero della guerra

 

Torneremo su questo argomento quando parleremo della religione civile e della visione dogmatica del mondo degli Stati Uniti, ma prima dobbiamo saperne un po’ di più sul background di Michael Vlahos.

Vlahos ha una lunga carriera alle spalle, durante la quale ha insegnato guerra e strategia alla Johns Hopkins University di Washington e all’università della Marina statunitense, il Naval War College di Rhode Island. Vlahos ha lavorato anche per la CIA, e alla fine degli anni ’80 è stato capo della ricerca del Dipartimento di Stato americano. Negli ultimi anni ha collaborato con l’Institute for Peace & Diplomacy di Washington ed è autore del libro Fighting Identity: Sacred War and World Change[4]. Vlahos fa risalire il suo interesse per la storia della guerra alla prima infanzia, quando i suoi genitori gli regalarono una storia illustrata del mondo, e a quel tempo la guerra occupava gran parte della storia. Spiega:

Ho trascorso la maggior parte della mia vita professionale a capire il mistero della guerra e il motivo per cui la guerra è così centrale nella vita e nella morte delle civiltà e come la guerra sia servita come forza positiva e negativa nell’evoluzione umana“.

 

Tre fattori decisivi

All’inizio di agosto, Vlahos ha pubblicato un saggio sensazionale sulla rivista conservatrice Compact con il titolo drammatico “L’esercito ucraino sta cedendo“.[5]

Secondo Vlahos, è l’interazione di tre fattori che può causare il crollo di un esercito. In primo luogo, quando l’ottimismo iniziale e la fiducia nella vittoria si trasformano nella percezione che la guerra non può essere vinta. Proprio questo cambiamento di umore, dice Vlahos, può essere rintracciato nella società ucraina e al fronte, dove molti esprimono che l’obiettivo dichiarato della vittoria – il ripristino dei confini dell’Ucraina dal 1991 – non è più realistico.

In secondo luogo, sottolinea Vlahos, un punto di svolta critico si verifica se il sostegno esterno degli alleati inizia a diminuire. Nessun alleato occidentale lo dice apertamente, ma i politici ucraini si rendono conto di essere sottoposti a forti pressioni da parte di diversi Paesi occidentali affinché inizino i negoziati per porre fine alla guerra; e questa settimana, uno dei più forti sostenitori dell’Ucraina al Congresso, il repubblicano Andy Harris, che è presidente di un gruppo di sostegno all’Ucraina alla Camera dei Rappresentanti, ha osservato che l’offensiva di quest’estate è fallita e che è improbabile che l’Ucraina vinca la guerra, e che è quindi giunto il momento di ridurre il sostegno americano. Allo stesso tempo, il “Wall Street Journal” ha scritto, in un articolo sensazionale di qualche settimana fa, che i responsabili militari occidentali sapevano in anticipo che Kiev non aveva né l’addestramento necessario né le armi – dalle granate ai jet da combattimento – per respingere le forze russe.

In terzo luogo, la volontà di combattere di un esercito si avvicina a un punto di svolta critico, secondo Michael Vlahos, quando l’atteggiamento nei confronti di coloro che all’inizio della guerra hanno mostrato la via della vittoria e del trionfo, e che sono stati acclamati come eroi, diventano oggetto di critiche e alla fine vengono bollati come bugiardi e truffatori.

 

 

 

Un confronto con la Prima guerra mondiale

 

In Ucraina, questa tendenza si manifesta con una spaccatura tra il capo dell’esercito Valery Zaluzhny, da un lato, e il presidente Zelensky e la sua cerchia ristretta, dall’altro. Gli osservatori sottolineano che Zaluzhny era contrario all’offensiva di quest’estate, mentre Zelensky, a seguito delle pressioni esercitate in particolare dagli Stati Uniti, ha insistito per lanciarla. Se l’offensiva si concluderà con un fallimento, con perdite così pesanti che l’Ucraina non sarà in grado di ricostituire le sue forze, il Paese devastato dalla guerra rischia di precipitare in una resa dei conti politica interna su responsabilità e colpe, si legge nell’articolo.

Come dicevo, Michael Vlahos ritiene che tutti e tre i fattori siano ora in gioco in Ucraina, e che questo mini il morale.

Fa un paragone con la Prima guerra mondiale del 1914-1918, quando sei dei sette eserciti delle grandi potenze crollarono. Questo portò alla resa, all’ammutinamento e alle rivoluzioni. In quattro anni, la Germania perse il 3,1% della sua popolazione e la Francia il 3,6%. Vlahos stima che in un solo anno e mezzo l’Ucraina abbia perso il 2,5% della sua popolazione attuale, sotto forma di morti e feriti che non possono tornare sul campo di battaglia. Ciò corrisponde a 250.000 persone. Vlahos sospetta che i numeri possano essere più alti, ma per preservare il morale della popolazione ucraina sono un segreto di Stato. Secondo i documenti dell’intelligence americana, trapelati in primavera, all’epoca l’esercito ucraino aveva perso circa 130.000 tra morti e feriti. Vlahos insiste anche sul fatto che recentemente è emerso che fino a 50.000 ucraini hanno perso almeno una parte del corpo, un braccio, una gamba o altro. La cifra, per la Germania nella Prima Guerra Mondiale, è stata di 67.000 mutilati, in una guerra in cui la Germania ha perso 1,7 milioni di morti al fronte e 450.000 civili su una popolazione di 65 milioni.

 

Le perdite dell’Ucraina sono maggiori delle russe

 

Ma, sottolinea Vlahos, i dati sulle perdite non sono, alla fine, decisivi per la capacità di un esercito di continuare a combattere. Anche gli eserciti più logori continueranno a combattere, se credono nella causa. L’esercito britannico perse 60.000 uomini nel primo giorno della battaglia della Somme nel luglio 1916, mentre l’Italia ne perse 350.000 in 17 giorni a Caporetto, nell’autunno del 1917. Ma entrambi gli eserciti continuarono la guerra.

In contrasto con una convinzione diffusa in Occidente, Vlahos ritiene che l’Ucraina abbia subito perdite significativamente maggiori rispetto ai russi, salvo che nella prima fase della guerra. Lo sfondo del suo calcolo è il rapporto di forza dei cannoni e dei proiettili di artiglieria, dove si ritiene che i russi abbiano una preponderanza compresa tra 5:1 e 10:1. Proprio questo tipo di armi è stato il più letale in questa guerra, quindi, a meno che l’esercito russo non abbia sparato a casaccio, questa differenza sarà a suo favore, dice Vlahos. Durante la Prima guerra mondiale, le perdite dovute al fuoco dell’artiglieria rappresentavano il 70% di tutte le perdite, e Vlahos ritiene che questa sia un’eccellente linea guida per comprendere le cifre delle perdite nella guerra attuale. Inoltre, ritiene che i russi siano stati più bravi ad adattarsi agli sviluppi sul campo di battaglia.

 

Nessun congelamento del conflitto

Vlahos non crede che la guerra si concluderà con un conflitto congelato. Prevede invece una vittoria russa, in cui l’Ucraina e l’Occidente saranno costretti ad accettare le richieste di un’Ucraina neutrale senza una difesa significativa. L’Ucraina rischia di diventare grande come la Bielorussia, sia in termini di territorio che di popolazione, e proprio come la Bielorussia senza accesso al mare.

Se dovesse indicare un esempio dalla storia della guerra, simile a quello che vediamo in Ucraina, quale sarebbe?

La guerra civile americana ha avuto una dinamica simile, per molti aspetti. L’Ucraina è simile agli Stati del Sud. Anche loro, come l’Ucraina, avevano grandi potenze che li sostenevano. Hanno tenuto in piedi gli Stati del Sud. Gli inglesi regalarono agli Stati Confederati 1 milione di fucili. Furono i britannici ad attaccare segretamente le navi commerciali degli Stati del Nord. Stavano in effetti conducendo una guerra per procura contro gli Stati del Nord. I britannici inviarono anche la loro flotta alle Bermuda, dove protessero il naviglio confederato che attuava il blocco navale. Il modo in cui la Gran Bretagna ha agito nella guerra civile americana è esattamente quello che gli Stati Uniti stanno facendo oggi alla Russia in relazione alla guerra in Ucraina“.

 

Gli Stati del Sud avevano lo stesso obiettivo dell’Ucraina

 

E lei pensa che in Ucraina il risultato sarà lo stesso della guerra civile?

Il Nord era diverse volte più grande del Sud, proprio come la Russia è diverse volte più grande dell’Ucraina. Gli Stati del Nord erano molto più ricchi di quelli del Sud e possedevano la maggior parte dell’industria, e lo stesso vale nel rapporto tra Russia e Ucraina“. Vlahos sottolinea le enormi perdite subite dagli Stati del Sud durante la guerra civile americana. Un milione di uomini servì nell’esercito confederato, di cui 350.000 morirono e circa 200.000 furono feriti.

 

È incredibile che gli Stati del Sud abbiano potuto resistere così a lungo. Hanno perso circa lo stesso numero di uomini degli Stati del Nord, ma gli Stati del Nord avevano una popolazione più che doppia. Gli Stati del Sud avrebbero potuto resistere più a lungo se avessero investito di più nella difesa, ma invece attaccarono e invasero gli Stati del Nord per quattro volte. Subirono perdite enormi“.

 

Perché lo fecero allora?

Volevano convincere la Gran Bretagna e la Francia a entrare in guerra al loro fianco, e credevano che questo sarebbe potuto accadere se avessero ottenuto una vittoria spettacolare. Così il generale Robert E. Lee combatté per molti versi la stessa guerra in cui è costretta ora l’Ucraina. Ma ciò contribuì solo ad accelerare il crollo degli Stati del Sud. Furono completamente distrutti e gli ci vollero 100 anni per riprendersi. È lo stesso tragico sviluppo a cui stiamo assistendo in Ucraina“.

 

Anche gli Stati del Nord sono partiti male

 

E proprio come la Russia in Ucraina, anche gli Stati del Nord sono partiti male all’inizio della guerra civile?

Sì, nonostante la preponderanza demografica, la prosperità e la capacità industriale, all’inizio l’esercito degli Stati del Nord non era molto capace. Persero molte battaglie e diversi generali passarono dalla parte dei Confederati, ma durante i quattro anni di guerra il Nord imparò a combattere, e alla fine fu un esercito superbo a ribaltare le sorti della battaglia“.

 

I media aziendali seguono la narrazione del governo, come faceva la Pravda nell’Unione Sovietica.

 

Pensa che lo stesso stia accadendo all’esercito russo?

Sì. È un elemento di tutte le guerre. Certo, si può perdere e allora è finita, ma se una guerra dura abbastanza a lungo, si impara e si diventa più bravi a combattere. Abbiamo visto la stessa cosa durante le guerre napoleoniche all’inizio del 1800. Nei primi anni, Napoleone travolse un esercito europeo dopo l’altro, ma col tempo gli altri impararono a combattere e la cosa si concluse, come è noto, con la caduta di Napoleone. Ci sono voluti 10 anni, ma la curva di apprendimento dei russi in Ucraina è molto più veloce. Si sono adattati e innovati, e hanno aumentato la produzione di armi e munizioni. I russi potrebbero ora produrre 3-6 milioni di proiettili all’anno, mentre gli Stati Uniti possono fornirne 24.000 al mese“.

 

La battaglia per la narrazione

 

Quando parlano il Presidente Biden, i suoi ministri, i suoi consiglieri e i suoi capi dell’intelligence, sento una storia molto diversa. Tutti dicono all’unisono che la Russia ha già perso la guerra. Come dobbiamo interpretarlo?

Stanno conducendo una guerra con l’obiettivo di controllare la narrazione, e possono farlo perché la maggior parte della popolazione americana non è mai stata interessata a scoprire cosa sta realmente accadendo. I media mainstream seguono la narrazione del governo come faceva la “Pravda” nell’Unione Sovietica. All’inizio della guerra, si pensava che l’economia russa sarebbe crollata a causa di un rigido regime di sanzioni. E poiché l’impresa iniziale dei russi è fallita, si è detto che erano primitivi, selvaggi e irrimediabilmente incompetenti, e che non avrebbero mai potuto imparare perché bloccati nella loro mentalità e dottrina militare sovietica“.

 

Vlahos prosegue:

Quando la realtà ha iniziato a cambiare, non c’è stato alcun adattamento da parte nostra, e quando si è così concentrati a vincere la battaglia per il controllo della narrazione, indipendentemente da ciò che accade nella realtà, si finisce per credere a ciò che si racconta. E il rischio di promuovere una narrazione in contrasto con la realtà è che non solo crea aspettative irrealistiche. Finisce anche per esploderti in faccia e minare la fede e la fiducia in coloro che l’hanno propagata“.

 

La visione apocalittica dell’America

 

E ora arriviamo alla religione civile americana, cioè alla dottrina religiosa che, secondo Michael Vlahos, guida gli Stati Uniti, e di cui vede l’impronta anche in Ucraina.

 

Vlahos afferma che:

L’America è la patria del nazionalismo più riuscito e più estremo, che nasce dall’universalismo e dalla convinzione di aver ricevuto dal Creatore il compito divino di portare l’umanità sulla retta via, e di punire e sradicare tutto il male del mondo. Questa narrazione sacra attraversa la storia americana come un filo conduttore“.

 

Come si manifesta in Ucraina?

Qui vediamo la rievocazione di una narrazione che è stata tramandata dal XX secolo, due guerre mondiali e una guerra fredda, ma che in realtà risale alla Guerra Civile e alla Rivoluzione Americana. Si tratta del fatto che c’è un male nel mondo che deve essere combattuto e che l’America deve salvare il mondo da ogni male. Durante la guerra civile erano gli schiavi a dover essere salvati dal male, oggi sono gli ucraini a dover essere salvati dalla Russia malvagia, anche se la base della visione statunitense della Russia come epitome del male, il comunismo, è scomparsa. Tutti i nostri colpi di Stato e i tentativi di rovesciare militarmente i governi di tutto il mondo sono stati guidati dalla stessa narrazione. Dovevamo salvare tutti gli infelici, ma naturalmente è diventato più difficile perché si vedeva che non stava andando come si predicava“.

 

Non si tratta dell’Ucraina

 

E pensa che questo stia accadendo anche in Ucraina?

L’obiettivo di questa guerra non riguarda l’Ucraina, i bisogni e gli interessi ucraini. Si tratta della visione apocalittica che l’America ha del mondo. Il nostro compito è trasformare il mondo intero in una democrazia, e creare un nuovo ordine mondiale. Secondo questa narrazione sacra, l’America non può perdere perché noi siamo guidati da una provvidenza divina, abbiamo Dio o la Giustizia dalla nostra parte, e anche quando le cose vanno male più e più volte, noi andiamo avanti. Questo perché la nostra strategia è dominata dalla concezione di chi siamo. Non agiamo razionalmente, siamo guidati da un impulso religioso. Questa guerra finirà con l’opposto di ciò che l’America voleva“.

Cosa farà il Presidente Biden se le cose andranno come lei prevede? Dopo tutto, rischia di dover affrontare una sconfitta nel bel mezzo di una campagna elettorale.

Sarà un duro colpo. Possiamo già vedere i primi segni del modo in cui Washington imposterà la narrazione. Si dovrà dire: ‘Abbiamo fatto il possibile per l’Ucraina, abbiamo dato loro tutto ciò che chiedevano e li abbiamo addestrati, ma non erano all’altezza del compito’. Possono anche scegliere di gettare Zelensky sotto l’autobus e sottolineare l’enorme corruzione che è stata fatale per la guerra ucraina. Somiglierà un po’ all’Afghanistan, ma il collasso ucraino sarà qualcosa di completamente diverso, e prima o poi usciranno le cifre delle vittime. Sono gigantesche, quindi a un certo punto diverrà chiaro che gli Stati Uniti hanno bloccato i negoziati di Kiev con i russi, e sacrificato un intero Paese in nome della nostra vanità, del nostro narcisismo e delle nostre ambizioni eccessive“.

[1] https://www.agonmag.com/p/vlahos-ukraine-shares-same-fate-as?utm_source=post-email-title&publication_id=1191729&post_id=136547430&isFreemail=true&r=9fiuw&utm_medium=email

 

 

[2] https://substack.com/@agonmag

[3] https://frihedsbrevet.dk/militaerhistoriker-ukraine-deler-skaebne-med-sydstaterne-i-den-amerikanske-borgerkrig/

[4]  Vlahos, Michael (2008). Fighting Identity: Sacred War & World Change. Westport, Connecticut: Praeger Security International. https://www.libraryofsocialscience.com/ideologies/resources/vlahos-fighting-identity/

[5] https://compactmag.com/article/the-ukrainian-army-is-breaking

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Teodoro Klitsche de la Grange[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. 

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

DOMANDE

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

RISPOSTE

Premesso che, come i lettori di “Italia e il mondo” sanno, la “nebbia della guerra” nel conflitto russo-ucraino è particolarmente fitta – anche se rozza – e pertanto ha, quanto meno, l’effetto di disorientare i giudizi; tenuto conto di tale – fondamentale limite – provo a rispondere:

Al primo quesito: sembra che sia stato di sottovalutare il nemico. Ma non è certo, dato che lo “scopo” politico potrebbe anche (per gli USA) essere di impelagare la Russia in una guerra lunga. Obiettivo, per ora, conseguito.

Quanto al secondo quesito (e in parte al primo), l’errore più evidente (dell’epoca contemporanea) è valutare fatti politici, come per eccellenza è la guerra, con “categorie” e criteri economici. Se è vero che contiene (una parte) di vero il detto “c’est l’argent qui fait la guerre” è vero (per l’altra, prevalente, parte) che se fossero PIL, cambi, spread, ecc. ecc,. e così la sproporzione economica a determinare la vittoria in guerra, non si capirebbe l’esito –  opposto – di tanti conflitti. Già oltre quarant’anni fa Luttwak ironizzava sui rapporti redatti dal pentagono sulla guerra in Vietnam, dove l’impegno militare era commisurato dal numero di proiettili e missili sparati, dal peso delle bombe, ecc. ecc.: con criteri e parametri assai simili a quelli di manager che misurano la produttività in base alla quantità di “pezzi” che escono dalla fabbrica. E dalle vendite dei medesimi.

Circostanze importanti, ma non decisive in politica e in campo militare. Qui essenziale è fiaccare la volontà di combattere del nemico, seguendo la prima definizione della guerra nel “Von Kriege”. Il che spiega come popoli del Terzo mondo, poverissimi, abbiano sconfitto gli eserciti delle grandi potenze, colmi di ogni ben di Dio. Napoleone, che di queste cose s’intendeva, sosteneva che il morale sta al materiale come 3 sta ad 1. Sarebbe bene che se ne ricordassero.

E ovviamente questo non è il solo ambito – ma è il principale – che distorce i giudizi delle élites.

Ma è sicuro che tale errore coinvolge sia le élite che la cultura in cui sono vissute e prosperate (loro): che è quello della “fine della Storia” durato poco più di un decennio, ma che dopo ha continuato a far danni. Secondo la quale i quattro cavalieri dell’Apocalisse erano andati in pensione. Ma negli ultimi anni almeno due: peste e guerra hanno ripreso servizio, anche in Europa, infrangendo i sogni delle anime belle (quanto ingenue o ipocrite).

Il terzo quesito: la crisi è una conseguenza della fuga dalla realtà; della credenza di poter cambiare il reale in conformità ai propri sogni e favole mentre, come scriveva Machiavelli, così si trova “più presto la ruina” propria.

Sul quarto: non mi intendo di Russia e Cina da poter azzardare giudizi. Posso all’uopo ricordare anche qui quello di Machiavelli: che per rigenerare una repubblica occorre “ritornare” al principio

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A Jacques Sapir

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Jacques Sapir[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Anche per il testo di Sapir pubblicheremo le versioni in inglese e francese

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

INTERVISTA A JACQUES SAPIR

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Questi errori sono di vario tipo. Innanzitutto, ci sono errori di natura “tecnica”, legati a un’incomprensione dei dati o della loro natura. Ad esempio, l’affermazione spesso ripetuta che il PIL della Russia fosse più o meno uguale a quello dell’Italia o della Spagna derivava da una mancanza di comprensione – comune a politici e giornalisti – delle statistiche e del loro utilizzo. Quando si confrontano due economie, è importante utilizzare il PIL calcolato in termini di parità di potere d’acquisto (PPA), perché altri metodi sono altamente distorcenti. Questo ha portato a una sottostima del PIL russo (che in realtà oggi è più alto di quello tedesco) e quindi a un grave errore di valutazione sulla capacità della Russia di far fronte sia alla guerra che alle sanzioni occidentali. Allo stesso modo, sono stati commessi errori “tecnici” sulla capacità dell’industria russa di produrre un gran numero di armi e munizioni. Questi errori si basano su una mancanza di conoscenza della Russia o sul fatto che i decisori (e i giornalisti) non hanno ascoltato chi ha una reale conoscenza della Russia. Questo primo livello di errore deriva dal desiderio di non sapere, sia che si tratti dell’argomento (la guerra in Ucraina, la Russia, l’Ucraina, ecc.) sia che si tratti del modo in cui vengono raccolti i dati. Si tratta quindi di un errore importante, perché rivela una forma di “pigrizia” intellettuale da parte dei decisori, una “pigrizia” che può avere molte cause (dalla pigrizia vera e propria a forme di saturazione delle capacità cognitive, soprattutto nel caso di informazioni presentate in forme “tecniche”).

Poi ci sono gli errori che derivano dal filtro ideologico presente nel comportamento di tutti gli attori e i decisori. Questo è un punto importante. Nessuno può liberarsi completamente dalle proprie rappresentazioni ideologiche. Credere di poter arrivare a una rappresentazione non ideologizzata è un errore (e un’impossibilità dal punto di vista dell’analisi cognitiva). Ma si può sapere che le proprie rappresentazioni sono potenzialmente distorte e ascoltare (o consultare) altre rappresentazioni che portano un’ideologia diversa. Non che queste “altre rappresentazioni” siano necessariamente più “corrette” delle proprie. Tuttavia, il confronto tra rappresentazioni diverse può essere un segnale di allarme sulla validità e sulla rilevanza operativa delle proprie rappresentazioni.

Il discorso diplomatico e politico dei russi dall’inizio degli anni 2000 (dalla crisi del Kosovo) avrebbe dovuto essere ascoltato. Dopo tutto, questo discorso è variato molto poco nel tempo e mostra una forte continuità discorsiva. Ciò non implica, ovviamente, che sia totalmente accurato, ma suggerisce che si basa su fatti reali, su “moli di stabilità”, la cui rappresentazione non cambia e che quindi vanno tenuti in considerazione.

Procedere in questo modo avrebbe senza dubbio dato un’idea più precisa delle intenzioni dei leader russi e dei punti che, per loro, costituivano “linee rosse”, il cui superamento avrebbe necessariamente comportato una risposta su larga scala. Se questo non è stato fatto, le ragioni possono anche essere diverse. Può darsi che i decisori occidentali si siano rinserrati in un dibattito troppo chiuso a rappresentazioni diverse dalle proprie. Le ragioni sono molteplici, tra cui il modo in cui i decisori non accettano il pluralismo ideologico tra i loro consulenti, la preminenza di rappresentazioni ideologiche non più “discutibili” e, infine, una “cultura della comunicazione” che porta i decisori a dipendere sempre più da “comunicatori” che a loro volta provengono da circoli chiusi, favorendo il conformismo ideologico (sia nella formazione che nella pratica professionale). La profonda endogamia che esiste in molti Paesi tra il mondo dei decisori politici e quello dei giornalisti ha esacerbato questo fenomeno.

Le cause fondamentali di questi errori si possono riassumere in una mancanza di curiosità, ma anche in un sistema istituzionale chiuso. L’aspetto interessante è che nel febbraio-marzo 2022 questo tipo di disfunzionalità del sistema decisionale è stata attribuito ai leader russi, senza che i decisori occidentali si interrogassero sulla possibilità di essere essi stessi vittime di questo tipo di disfunzione.

Infine, un terzo tipo di errore può essere attribuito a una resistenza politica e psicologica a considerare che il mondo è profondamente cambiato tra gli anni ’90 e il 2022. Alla fine degli anni ’90, il dominio degli Stati Uniti era accettato e, nel complesso, i Paesi occidentali esercitavano una forma di supremazia, sia politica che economica o militare. Ma il mondo è profondamente cambiato negli ultimi vent’anni.

Le relazioni economiche internazionali sono state segnate dall’emergere della Cina, che ha soppiantato gli Stati Uniti dal punto di vista industriale e commerciale, ma anche dall’emergere globale dell’Asia, che ha gradualmente soppiantato l’Europa. Allo stesso tempo, aree che si pensava fossero definitivamente emarginate dagli Stati Uniti e dall’Europa, come l’America Latina e il Medio Oriente, e in misura minore l’Africa, hanno iniziato a emanciparsi. Il vertice dei BRICS tenutosi a Johannesburg alla fine di agosto 2023 ne è stata una dimostrazione lampante.

Questo cambiamento è fondamentale, perché pone fine a un periodo di dominio sul mondo esercitato da quella che può essere definita la zona “nord-atlantica”, che durava almeno dall’inizio del XIX secolo. Per i decisori occidentali rappresenta una duplice sfida: politica (come pensare il posto del proprio Paese nell’equilibrio di potere internazionale) e psicologica (come pensare se stessi quando si passa da una posizione di centralità a una di perifericità). Nel complesso, tuttavia, i responsabili delle decisioni nei Paesi occidentali sono stati poco preparati ad affrontare questa duplice sfida. In alcuni casi, si trattava di persone relativamente giovani con un’esperienza limitata. In altri casi, le condizioni della loro formazione, sia essa intesa in senso universitario o politico, non li avevano preparati ad affrontare una sfida di tale importanza. Di fronte a grandi cambiamenti, che vanno ben oltre le loro possibilità e creano dissonanze cognitive, questi decisori optano per strategie di negazione (questi cambiamenti non esistono, o sono solo temporanei…) o per la riproduzione del comportamento passato. Così, nella migliore delle ipotesi, sono pronti a impegnarsi in una “Guerra Fredda 2.0”, riproducendo il comportamento dei loro predecessori dal 1948 al 1952, ma in una situazione che ora è radicalmente diversa.

Le cause degli errori commessi dai leader “occidentali” sono probabilmente numerose quanto gli errori stessi. Tutte si sommano a una grande crisi decisionale.

 

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Questi errori sono, ovviamente, in primo luogo errori della classe dirigente. Ma la loro portata, la loro varietà e la loro sistematicità sono davvero impressionanti. Un moderno Amleto esclamerebbe senza dubbio: “c’è del marcio nei Paesi occidentali“.

Dopodiché, i problemi sono molti. Il primo è la tendenza delle élite al potere ad auto-replicarsi. Non si tratta di una novità assoluta. Le classi dirigenti hanno sempre avuto la tendenza a operare nel vuoto. Ma dagli anni Cinquanta agli anni Novanta sono diventate più aperte all’ingresso di persone che non avevano legami precedenti con esse. Dagli anni Duemila, tendono a chiudersi in se stesse e, naturalmente, a produrre una cultura specifica. Questo è vero in Francia, Regno Unito e Germania, ma probabilmente di meno nei Paesi scandinavi. Oggi possiamo parlare di una cultura (o più precisamente di una sottocultura) delle élite che è ampiamente distinta dalla cultura (o dalle sottoculture) delle classi lavoratrici in termini di rappresentazioni e comportamenti, ma non necessariamente in termini di rapporti con le istituzioni.

Questa subcultura “d’élite” è stata certamente uno dei fondamenti degli errori commessi, in quanto caratterizzata da un’arroganza autocompiaciuta, da un disprezzo per tutto ciò che non si esprime nel suo linguaggio particolare, da una difficoltà o addirittura da un’impossibilità di fare marcia indietro e di mettere in discussione i suoi “valori”, e infine da una forma abbastanza sistematica di ipocrisia. Questa sottocultura d’élite ha facilitato la riproduzione e la perpetuazione delle strutture che abbiamo menzionato e che sono state all’origine di questi errori, come la fiducia in un discorso semplificato, l’assenza di qualsiasi critica alle proprie rappresentazioni (che si suppone siano “le migliori”) e forme di routine intellettuale che non hanno preparato queste élite al potere per le sfide del periodo. Da questo punto di vista, non è sbagliato parlare dei molti errori commessi dalle classi dirigenti occidentali come di una bancarotta sia pratica che intellettuale.

Ma questo significa che le subculture “popolari” sono state interamente preservate dai difetti e dalle mancanze della subcultura d’élite? In questo caso, sarebbe senza dubbio necessario specificare la diagnosi paese per paese. Se prendiamo il caso degli Stati Uniti, l’eccezionalismo americano, il suo disinteresse per tutto ciò che è esterno, ha senza dubbio giocato un ruolo importante nella non contestazione di alcune affermazioni della subcultura d’élite, e questo ha facilitato per un certo periodo l’opera nefasta dei circoli neoconservatori nelle classi dirigenti.

Per i Paesi europei, invece, questo è molto più difficile da dimostrare. Infatti, la necessità di mantenere una propaganda piuttosto rozza sull’Ucraina, nei media tradizionali, dimostra chiaramente che le sottoculture popolari sono rimaste relativamente resistenti al discorso delle classi dirigenti. Anche in questo caso, dobbiamo affinare i nostri risultati. L’immagine del “russo cattivo” o della presenza di un minaccioso “imperialismo russo” è certamente più presente nelle popolazioni dei Paesi del Nord Europa o di alcuni Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Va notato, tuttavia, che una parte della classe dirigente ungherese ha un discorso piuttosto diverso, che può essere descritto come “realistico” (nel senso che questo termine ha nella politica internazionale), e che questo discorso sembra in gran parte in sintonia con le idee trasmesse tra la popolazione. La stessa cosa sembra accadere in Austria. In Francia, Germania e Italia, nonostante la diversità delle culture, possiamo comunque osservare una certa resistenza delle sottoculture popolari nei confronti della sottocultura d’élite. Il caso della Francia è piuttosto caratteristico a questo proposito. La sottocultura popolare è stata profondamente influenzata dalla macchina di rappresentazione americana di Hollywood. Così, la visione del contributo sovietico (e quindi russo), estremamente positiva alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta e Sessanta, è stata gradualmente ribaltata. Tuttavia, la sottocultura popolare francese non si lascia convincere spontaneamente dagli stereotipi del “russo cattivo” o dell'”aggressore russo”. Diversi sondaggi di opinione mostrano che esiste ancora una base “filorussa” nella popolazione. Mostrano anche che, spontaneamente, le classi lavoratrici hanno una visione più realistica, anche se necessariamente sommaria, degli attuali sviluppi geopolitici.

 

L’incapacità della sottocultura d’élite di influenzare e plasmare pienamente le sottoculture popolari si riflette oggi nel fatto che gli strati intermedi tra i vertici delle classi dominanti e le classi popolari, quelli che potremmo definire la “cultura piccolo-borghese”, sono diventati un obiettivo strategico nella “guerra culturale” condotta dalle classi dominanti. Queste classi, sapendo che la “piccola borghesia culturale” dipende in modo particolare dai media (sia quelli tradizionali, sia quelli radiotelevisivi, sia i social network), hanno intrapreso una lotta feroce per escludere da questi media qualsiasi opinione divergente su questi punti. Ma la ferocia di questa lotta ha portato al discredito della stampa tradizionale. La “piccola borghesia culturale” tende ormai a cercare informazioni, e quindi rappresentazioni, sempre più sui social network. Da qui un cambiamento nella lotta. Le classi dominanti cercano ora di imbavagliare questi social network, per legittimare l’introduzione di forme indirette o dirette di censura.

 

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

È infatti evidente che la guerra in Ucraina manifesta una crisi dell'”Occidente collettivo”, come lo chiamano i russi. Questo “Occidente collettivo” si sta dimostrando incapace di permettere all’Ucraina di “vincere” e, oltre a ciò, incapace di arrestare le trasformazioni di un mondo che sfugge sempre più al suo controllo.

Questo processo sembra irreversibile. Non sappiamo se la Russia otterrà una “piccola” vittoria (mantenendo le conquiste fatte dal 2014) o una “grande” vittoria (estendendo le conquiste e soddisfacendo le sue principali richieste). Ma sembrano esserci pochi dubbi su una “vittoria” russa. Più in generale, è difficile vedere come l'”Occidente collettivo” possa tornare alla posizione in cui si trovava nel 2010, o anche prima. La vera domanda non è quindi se questi sviluppi siano reversibili, ma se l'”Occidente collettivo” continuerà a perdere terreno, economicamente, politicamente, militarmente e, naturalmente, culturalmente, o se sarà in grado di stabilizzare la propria posizione nei prossimi cinque-dieci anni.

Per stabilizzare la sua posizione, l'”Occidente collettivo” deve fare due cose: stabilizzare la sua situazione economica e porre fine al processo di deindustrializzazione che sta subendo da quasi quarant’anni, e cambiare atteggiamento nei confronti del resto del mondo, per dimostrare che è consapevole della sua perdita di egemonia e che è finalmente pronto a discutere su un piano di parità, senza volersi sempre ergere a maestro. Ma questi due obiettivi solleveranno contraddizioni all’interno dello stesso “Occidente collettivo”.

Sul tema della deindustrializzazione esiste un conflitto interno tra gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea. Gli Stati Uniti sono convinti che la loro reindustrializzazione debba avvenire a spese dell’Europa, ovvero che debbano cannibalizzare l’industria europea. Lo stanno facendo, avendo costretto i Paesi dell’Unione Europea a imitarli in una quasi rottura con la Russia per questioni energetiche. L’accesso all’energia a basso costo che la Russia vendeva era di particolare importanza per lo sviluppo economico e industriale dell’Unione Europea. Si tratta di un gioco a somma zero tra gli Stati Uniti e l’UE. Tuttavia, l’attuale strategia statunitense è in contraddizione con la stabilizzazione economica dell'”Occidente collettivo”. Qualunque cosa gli Stati Uniti possano guadagnare da questa strategia sarà più che compensata dalle perdite in Europa. È vero che gli Stati Uniti diventeranno il leader indiscusso del “campo occidentale”, ma quest’ultimo continuerà a indebolirsi e gli Stati Uniti saranno il padrone di un gruppo che continuerà a declinare e a perdere importanza economica. Si noti che questa strategia è l’opposto di quella perseguita dagli Stati Uniti dal 1948 al 1960, all’inizio della “prima” guerra fredda. A quel tempo, gli Stati Uniti accettarono di cedere parte della loro crescita all’Europa occidentale, che era in fase di ricostruzione. Se guardiamo alle due “grandi” crisi della Guerra Fredda 1.0, la Guerra di Corea e la Crisi dei Missili di Cuba, il “mondo occidentale”, come veniva chiamato all’epoca, era molto più forte nel 1962 che nel 1950. L’attuale strategia americana contraddice quindi l’obiettivo di stabilizzazione economica a lungo termine dell'”Occidente collettivo”.

Sul secondo punto, il problema è più ideologico. Accettare di trattare il resto del mondo da pari a pari, smettere di cercare continuamente di dare lezioni, significa fare i conti con la nostra ex egemonia, ma anche con un universalismo volgare. Per quanto riguarda la vecchia egemonia, tutti mi capiranno. Quello che chiamo universalismo volgare, e che può sorprendere chi si dichiara universalista, riguarda la convinzione, che considero falsa, che esista un solo modo per raggiungere gli universali dei Diritti dell’Uomo (e quindi delle donne) e del Cittadino, lo sviluppo per tutti o una gestione più razionale delle risorse che porti alla neutralità carbone. La realtà è che esistono diversi approcci, diverse traiettorie possibili, che possono portare a questi risultati. Non possiamo trarre dall’esperienza storica delle nostre particolari traiettorie la conclusione che queste siano le uniche possibili. Dobbiamo quindi permettere ad altre nazioni, ad altri popoli, di sperimentare, di scoprire attraverso processi storici per prova ed errore, quali traiettorie sono più adatte alle loro culture. Il vero universalismo è un universalismo di obiettivi, non delle traiettorie. Possiamo pretendere il rispetto della nostra cultura solo rispettando quella degli altri, anche se la consideriamo, a volte a ragione, oppressiva, arretrata e a volte assolutamente crudele. Dobbiamo ricordare che tutti i tentativi di far progredire e avanzare verso gli universali di cui sopra, mediante cannoni, bombe o napalm, sono stati dei sanguinosi fallimenti e hanno provocato, di fatto, la regressione delle società.

 

Tuttavia, è possibile misurare ciò che comporta il semplice obiettivo di stabilizzare la posizione dell'”Occidente collettivo”, che è l’unico obiettivo realistico, in termini di rivoluzione culturale e politica delle élite al potere. Ecco perché ritengo che questo obiettivo non sarà raggiunto e che, come “blocco”, questo “Occidente collettivo” non ha più un futuro.

 

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Il ritorno della Cina e della Russia ai loro “valori tradizionali” è più un elemento del discorso odierno che una realtà. In realtà, il comunismo sovietico e cinese è rimasto impregnato di questi “valori”. La retorica dei leader comunisti bolscevichi e cinesi non deve essere presa alla lettera, quando affermano di aver operato una rottura radicale con il loro passato. In queste due rivoluzioni, gli elementi di continuità sono importanti almeno quanto quelli di rottura. La società staliniana rimase in gran parte nel quadro dei valori ortodossi, anche quando la Chiesa fu perseguitata: la riverenza per un discorso concepito come una religione, il ruolo dei ritratti dei leader a immagine di antiche icone, il puritanesimo sociale, eccetera eccetera. Il bolscevismo fu la forma che l’ideologia modernizzatrice assunse in Russia. Questo spiega perché gran parte dell’intellighenzia tecnica si sia schierata a favore del nuovo regime, nel 1918-1920. Allo stesso modo, l’essenza del confucianesimo è sempre stata presente nella Cina popolare, anche quando il confucianesimo era ufficialmente osteggiato (la breve campagna “Pi Lin, Pi Kong”).

La fine del quadro “sovietico” in Russia, e la graduale evoluzione del sistema nella Cina popolare hanno portato a una graduale riabilitazione delle forme classiche di questi “valori tradizionali”. Ma questi Paesi guardano ancora con una certa simpatia al loro recente passato, che si tratti del ruolo di Stalin in Russia o di quello di Mao in Cina. In realtà, per questi Paesi è più corretto parlare di evoluzione nella sintesi tra i valori tradizionali e la forma particolare assunta dalla modernità, piuttosto che parlare di un ritorno alle antiche tradizioni culturali. Le popolazioni cinesi e russe si sono profondamente evolute nell’ultimo secolo, nel rapporto con i figli, nel ruolo della donna, nell’equilibrio tra valori collettivi e individuali, e continueranno a evolversi. Ma questa evoluzione non sarà (e non è stata) un’imitazione delle società occidentali. È l’esempio ideale di quelle che ho definito traiettorie diverse ma alla ricerca di un obiettivo finale comune.

[1] https://italiaeilmondo.com/2023/08/23/il-disadattamento-delle-elites-occidentali-intervista-ad-aurelien-_-a-cura-di-roberto-buffagni/

[2] https://fr.wikipedia.org/wiki/Jacques_Sapir

ARCANA IMPERII, di Pierluigi Fagan

ARCANA IMPERII. (Il post parte da Ustica ma non è un post su Ustica) Giuliano Amato, figura che condensa in sé il “senso” delle istituzioni dello Stato tanto da aver avuto ed ancora avere incarichi istituzionali di grande importanza, nonché esser stato più volte “l’uomo della disperazione” ovvero il possibile solutore di stalli politici nelle elezioni delle cariche istituzionali, tra cui varie elezioni per la Presidenza della Repubblica, ha fatto outing. Dopo quarant’anni dalla tragedia di Ustica, ci dice quello che già molti sapevano senza dirlo o poterlo dire o dicevano non creduti: l’aereo fu colpito per sbaglio da un missile francese in cerca dell’aereo di Gheddafi. Convenienze dei rapporti Italia-Francia e contesto NATO, hanno seppellito il fatto dentro ingrovigliate matasse di false verità, il tipico bosco in cui la diritta via va smarrita. Qui però non ci interessa il fatto in sé, ci interessa un altro aspetto della faccenda.
L’altro giorno leggevo un articolo di Domenico Quirico sulla Stampa del gruppo GEDI, in cui il giornalista che vanta una lunga e profonda conoscenza della politica internazionale, diceva pane al pane e vino al vino riguardo il Gabon o meglio riguardo la presenza francese in quell’area geografica che si definisce post-coloniale come se il colonialismo fosse un processo terminato. In realtà si è solo trasformato. I francesi, ad esempio, controllano l’essenziale di ciò che succede da quella parti non apparendo direttamente ma tramite dei pupazzi locali, ora resi giustificabili da men che formali votazioni che simulano una “democrazia”. Per chi non lo conosce Quirico non è uno strano è solo un giornalista “vecchia scuola”, quando i giornalisti facevano il loro lavoro di intermediare le notizie con i contesti alle persone che i contesti non li conoscono.
Su Repubblica (sempre gruppo GEDI), lo stesso giorno, una giornalista che ho poi verificato sul profilo LinkedIn si presenta come “editor” specializzata in comunicazione digitale (quindi dalle competenze quantomeno incerte visto l’argomento) faceva un ritratto pop della dinastia al potere in Gabon, mettendoci dentro di tutto incluso un disco registrato da un rampollo della famiglia al potere con James Brown. Il profilo “colorato” accompagnava la notizia più seriosa del colpo di stato militare riconducendolo ad una “epidemia” di sovversione africana innescata dai russi. I cinesi portano i virus, i russi colpi di stato. Riguardo il testo di Quirico mi tornava in mente quando i 5Stelle in modo naif, ebbero l’ardire di sollevare la questione del colonialismo travestito dei francesi in Africa, venendo travolti dallo sdegno per l’impudenza frutto di impreparazione ed eccesso ideologico.
Il fatto è che, semplicemente, certe cose non si possono dire.
Dal segreto di Stato alla pubblica esecuzione del portatore di punti di vista alieno che oggi ha anche le reprimende addirittura del the Guardian britannico sulla questione della guerra in Ucraina, (l’Italia è piena di filorussi!) certe cose non si possono dire. Perché non si possono dire? Semplicemente perché le opinioni pubbliche potrebbero esser traviate da queste supposte verità o alternative verità. Le opinioni pubbliche sono bambine, non hanno metro di giudizio autonomo, debbono esercitarlo solo entro i parametri dati. Sia sottoponendo loro certe notizie e non altre, certe opinioni e non altre, presentando i fatti e accluse le opinioni giuste, salvo qualche rara eccezione come nel caso di Quirico. L’eccezione conferma la regola, per cui vedi che siamo effettivamente “liberali”? Mica come in Russia!
Ma che differenza c’è tra queste forme repressive delle opinioni e l’Index Librorum Prohibitorum della Santa Inquisizione medioevale operante nella Chiesa Cattolica Romana dal 1560 (e fino al 1966)? Nessuna, le “democrazie” occidentali liberali e le teocrazie medioevali curano il flusso delle opinioni allo stesso modo, certe cose non si possono dire. Va notato, che l’Index, così come l’Inquisizione, sono istituzioni che si fa fatica a definire medioevali. In effetti, compaiono in quel strano secolo, il XVI (Inquisizione romana, Paolo III, 1542), che si può dire di transizione, non più del tutto medioevale, non ancora del tutto moderno.
Ne consegue che questi irrigidimenti repressivi, com’è psico-sociologicamente ovvio, compaiono quando c’è il rischio che qualcuno cominci a pensare in maniera divergente. Gli irrigidimenti sono sempre sintomo di fragilità, dove c’è il rischio che si formi una diversa immagine di mondo, dove le cose temi ti sfuggano di mano (perché in effetti ti stanno fuggendo di mano come poi scopri sfogliando il libro della Storia), dove non controlli più tutto, dove perdi credibilità. Alzano la voce le persone deboli, insicure. Tutta la fenomenologia dell’illiberalismo cognitivo degli ultimi decenni che procede a gradi sempre maggiori di isteria, denota la progressiva fragilità dell’immagine di mondo dominante perché è sempre più fragile il sistema ordinativo dominante.
Tornando alla espressione di Tacito (Historiae, Annales I e II secolo d.C.) tanto cara a Bobbio, il Potere fa cose necessarie, ma che non si debbono sapere altrimenti i sottomessi a quel Potere ne verrebbero turbati. Visto dalla parte dei “normali” questo fatto accende una fantasia morbosa ed inquieta, ci sono forse “trame”? Complotti? Cospirazioni? Ci sono i “non-ce-lo-dicono”? Fatti scabrosi e peccaminosi? Immorali? Anti-etici? Visto dalla parte dei funzionari del Potere che i normali scambiano per potenti (in effetti lo sono ma solo perché sono funzionari di un sistema, è il sistema che è potente ma il sistema è immateriale mentre i normali pensano sia un tavolo con cinque incappucciati con capacità sovraumane e diaboliche), la gente normale non sa che certe cose sono normali, necessarie, comuni, ovvie, “così-fan-tutti”, è semplicemente un piano della realtà a cui i normali non hanno e non debbono avere accesso, non solo nella cronaca, nella Storia, da secoli, millenni.
Studiosi di relazioni internazionale di scuola realista (Machiavelli, Hobbes, Carr etc.) ed in genere geopolitici se sono studiosi e non pupazzi-video, sanno perfettamente tutti come stanno le cose in Ucraina, possono però poi divergere sul come giudicano queste cose, come le giudicano dal punto di vista pragmatico, non ideologico o etico-morale. Applicare l’etica-morale alla Politica, viepiù quella internazionale, è come pensare che i bambini nascono sotto i cavoli. Dispiace dire ad un bambino o bambina come stanno davvero le cose in camera da letto, si capisce. Certo, dà da pensare che si faccia lo stesso nelle c.d. “democrazie” e per giunta “liberali” (dove cioè l’atteggiamento dovrebbe essere di manica larga, concessivo, la preistoria dei liberali è nei libertini, proprio nel XVI secolo dell’Index e della Santa Inquisizione, le due cose erano collegate “dialetticamente”), con le opinioni pubbliche.
Intendiamoci, l’analista realista non si meraviglia affatto di questo, conosce Tacito, in fondo non si meraviglia altrettanto realisticamente vedere le “prese-in-giro-della-verità” che animano il pubblico dibattito, si rimane solo dispiaciuti nel vedere quanti simili e concittadini siano ignari della realtà, quanto si balocchino coi sogni, coi “valori”, quanta servitù volontaria ci sia dopo secoli e secoli di presunto progresso e teorica emancipazione culturale supposta. Lì dove la parola “supposta” ha due significati in cui il secondo denota la lunga fase anale (o forse orale-anale) delle opinioni pubbliche infantili che si reputano adulte ma reclamano ancore il conforto delle favole.
Così, volevo solo segnalare il punto da aggiungere a lungo elenco di imputazioni che ormai si accumulano al dossier “perché continuiamo a chiamare “democrazia” una cosa che non lo è in maniera palese”? A volte, qui, alcuni si domandano perché io dico e scrivo certe cose, sembra quai mi diverta a torturare le emozioni cognitive di chi legge con queste cose ansiogene, crudeli, scabrose. Il fatto è che ogni scrittore, di narrativa, di poesia o teatro o di saggistica, in fondo scrive pensando a qualcuno anche se poi verrà letto anche da altri. Non sempre, ma assai spesso, il mio lettore immaginario è un collega, uno studioso, un intellettuale.
Idealmente, vorrei invitare i colleghi a pensare una buona volta a quanto è improprio si lasci passare questo utilizzo improprio del termine “democrazia”. Le parole sono importanti, è dalla loro precisazione e correzione di utilizzo che chi lavora con le parole ed i concetti può aiutare l’innesco di un cambiamento sociale. Siamo chierici, abbiamo i nostri Libri, lavoriamo parole, è quello il campo in cui si estrinseca la funzione intellettuale. Poiché sono radicalmente democratico, dico ciò in pubblico anche se non sempre mi rivolgo al “pubblico” in senso ampio.
Noi non siamo, né siamo mai stati, democratici. Già dirlo aiuterebbe tutti a capire cosa c’è da fare nel comune interesse. Solo un grado almeno minimo di democrazia permetterebbe poi di rendere attuale e significativa la discussione su come ci piacerebbe la nostra società fosse, se conservatrice, progressista, socialista, sovranista, liberale (autentica), tradizionalista, così o cosà.
Fare quella discussione senza democrazia minima concreta, non ha alcun senso se non avvalorare una cosa che non corrisponde alla sua parola. Noi non abbiamo un “giuramento di Ippocrate”, ma far passare questi slittamenti tra parole e cose è il nostro peccato mortale, è il nostro tradimento più grave.

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Andare a pezzi lentamente… E poi? _ AURELIEN

Andare a pezzi lentamente…
E poi?

AURELIEN
30 AGO 2023
Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta pubblicando anche alcune traduzioni in italiano e la prossima settimana apparirà una traduzione in francese di uno dei miei recenti saggi. Italia e il Mondo ha recentemente pubblicato una mia intervista, in inglese e in italiano. Grazie a tutti i traduttori. Passiamo ora all’argomento principale.

Di recente ho scritto diverse volte sulla probabilità e sulle conseguenze del collasso dello Stato e della società, e questo ha generato una serie di commenti su quanto a lungo i governi possano sopravvivere, e persino se altre forze, come le imprese multinazionali, possano in qualche modo sostituirli. Ho quindi pensato che valesse la pena di esporre alcune idee su tutto questo in modo un po’ più dettagliato.

Inizierò con una citazione di Max Weber che ho già usato in passato ma che, come molte altre sue parole, merita di essere ripetuta. Proviene dalla sua conferenza del 1919 su La politica come vocazione, in cui definisce uno Stato come una

“una comunità umana che (con successo) rivendica il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica all’interno di un determinato territorio”.

Ora, la maggior parte delle persone conoscerà almeno vagamente questa citazione, ma merita un piccolo studio attento. Si noti, ad esempio, che la rivendicazione deve avvenire a nome di una “comunità” (Gemeinschaft), non solo di un piccolo gruppo casuale. Questo gruppo deve essere identificato con un determinato territorio, invece di essere solo una banda di predoni, e il suo uso della forza fisica deve essere accettato come “legittimo” – un punto su cui tornerò. Si noti anche che per “forza fisica” (Gewalt) Weber non intende solo la violenza palese, ma tutte le forme di potere e coercizione. Chiarisce che questo monopolio non è l’unico requisito per essere uno Stato (anche se è necessario) e continua a sostenere che questo monopolio non riguarda solo l’uso della forza in sé, ma anche la capacità di dire, attraverso leggi e procedure, quale uso della forza è legittimo e quale no.

Quindi, qualsiasi entità che volesse davvero sostituirsi a uno Stato esistente, anche solo in parte, dovrebbe cercare di soddisfare questi criteri. Il più importante non è solo rivendicare il monopolio della forza legittima in un determinato territorio, ma farlo con successo: cioè far sì che la sua rivendicazione sia generalmente accettata. Ma come può accadere? E che cos’è la legittimità? In questo caso il dizionario non ci aiuta molto, perché si scopre che “legittimità”, come “legale”, deriva in ultima analisi dalla parola latina lex che significa “legge”. Quindi una cosa è legittima se è legale, il che si avvicina molto a un’argomentazione circolare e induce a pensare che molto dipende da chi fa la legge. In ogni caso, non ci aiuta molto a capire perché la gente comune dovrebbe considerare qualcosa legittimo (cioè degno di rispetto e obbedienza) solo perché c’è una legge che lo riguarda. Anche se accettiamo il fatto che i concetti romani originari di diritto ponevano molta enfasi sulla tradizione e sulla consuetudine, l’argomento diventa semplicemente che l’uso della forza è considerato legittimo finché è usato secondo la tradizione e la consuetudine. Il che può anche andare bene, ma per definizione non può affrontare situazioni di crisi o di discontinuità, o la comparsa di nuovi attori.

Quindi la prima domanda è come definire la “legittimità” in un senso diverso da quello tautologico. Anche Weber ci ha provato, distinguendo tre tipi di autorità, che useremo qui come surrogato della legittimità. Il primo è quello tradizionale. Le persone obbediscono e considerano legittimi i comandi perché sono abituate a farlo, perché la loro società lo ha sempre fatto, o perché sono impartiti in nome di una figura come un monarca, con una legittimità tradizionale, o da una figura che è convenzionalmente considerata in grado di dare ordini legittimi. Gran parte della società funziona in questo modo. Un arbitro di calcio, un vigile urbano o una guardia di sicurezza hanno diversi tipi e gradi di legittimità, e alcuni hanno la capacità di costringere all’obbedienza: un arbitro può obbligare un giocatore a lasciare il campo, per esempio.

Il secondo tipo è quello carismatico. Questo tipo di legittimità e autorità è sempre legato a un individuo, per di più “distinto dagli uomini comuni e trattato come dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane o almeno specificamente eccezionali”. Notate l’uso attento della parola “trattato”: è il modo in cui queste persone vengono percepite che conferisce loro autorità e legittimità, non ciò che necessariamente sono intrinsecamente. Tali individui sono rari, ma includono il leader ispiratore, che può non essere la persona più anziana o prestigiosa, ma che viene percepito dagli altri come dotato delle qualità legittimanti di risolutezza e fermezza d’intenti. Naturalmente, essere carismatici e avere ragione possono essere due cose diverse, come la storia dimostra a sufficienza.

Il terzo tipo era quello razionale/giuridico e in questo caso la differenza fondamentale è che la legittimità non è legata agli individui, alle loro qualità personali o anche alla loro particolare indipendenza di giudizio. La legittimità deriva dall’esercizio di una funzione per la quale si è qualificati e retribuiti, nell’ambito di una struttura che a sua volta è stata istituita in base a leggi e procedure riconosciute e che ha ricevuto una serie di missioni da svolgere. Quindi, il poliziotto che vi chiede di allontanare la vostra auto dal luogo di un incidente per permettere all’ambulanza di parcheggiare, lo fa in virtù dell’autorità di cui è investito e a cui è delegato qualsiasi agente di polizia che si trovi a passare, non per le speciali virtù di giudizio che può possedere. Per estensione, l’autorità razionale/legale si applica solo in situazioni in cui l’attore interessato ha il diritto di fare o chiedere qualcosa: nessun poliziotto può dirvi di infrangere la legge, per esempio.

Il contrasto tra questi tipi di autorità è tanto più forte nell’originale perché Weber scriveva nel contesto del cosiddetto Rechtstaat, meglio tradotto come “Stato di diritto”, e di fatto cognato con il francese État de droit. In questa situazione, nessun attore dello Stato può fare nulla a meno che non sia in grado di indicare una legge o un decreto che gli dia specificamente il diritto di farlo, e le differenze di funzioni tra le diverse parti dello Stato hanno la forza del diritto. La tradizione anglosassone dello Stato di diritto, anche se a volte viene paragonata a queste due, è concettualmente molto diversa. Tuttavia, è giusto dire che in tutte le società un tipo di autorità, e quindi un tipo di legittimità, deriva dal corretto svolgimento di procedure riconosciute e accettate.

Tuttavia, nonostante l’uso della parola “forza” (a volte la traduzione preferita è “violenza”), manca il senso di una vera e propria costrizione fisica delle persone che non vogliono obbedire o che fanno resistenza attiva. In realtà, nemmeno lo Stato più repressivo passa tutto il tempo a cercare e distruggere fisicamente l’opposizione. Nella maggior parte dei casi, anche gli Stati considerati repressivi lasciano in pace i cittadini finché non sfidano apertamente la loro autorità. Spesso hanno comunque poca scelta: la temuta Gestapo del Terzo Reich, ad esempio, non ha mai avuto più di 30.000 effettivi anche al suo apice. Per la sua efficacia (o almeno per le sue attività) dipendeva in gran parte da denunce anonime e da ausiliari part-time.

La legittimità, quindi, è un fenomeno complesso che non si limita allo status giuridico formale da un lato, né alla repressione bruta dall’altro. È in parte una questione di abitudine, in parte una questione di pressione sociale, in parte una questione di intimidazione, ma in parte anche una questione di cooperazione per la sopravvivenza del gruppo. Sembra che i funzionari del partito nazista si siano occupati delle precauzioni contro i raid aerei in Germania durante i bombardamenti alleati, ma è improbabile che la popolazione obbedisse ai loro ordini solo per paura di rappresaglie. In linea di massima, quindi, la legittimità moderna è una sorta di accordo pragmatico tra le persone e i gruppi che la rivendicano, e in un certo senso è sempre stato così. Anche ai tempi in cui la legittimità proveniva da un dio (o addirittura da Dio) il patto non era solo unilaterale. Il modello tradizionale di governo, dai classici confuciani alle opere di Shakespeare, imponeva al governante l’obbligo di governare correttamente o di affrontare la rivolta popolare e la sostituzione con una figura più legittima. Si pensi ai sanguinosi finali di Macbeth e Riccardo III.

Ho sostenuto più volte che la domanda fondamentale in politica è: chi mi proteggerà? E la capacità di proteggere i propri cittadini è fondamentale per la legittimità di qualsiasi Stato o di qualsiasi struttura che rivendichi prerogative statali. Questo ha importanti conseguenze per il mondo in cui probabilmente ci stiamo muovendo. In molte società occidentali lo Stato ha sempre più difficoltà a fornire il livello di protezione pubblica che era considerato normale cinquant’anni fa. Con questo non intendo dire che cinquant’anni fa lo Stato era presente ovunque con la forza armata, e non lo è adesso. In effetti, è vero il contrario: l’abbrutimento della società in seguito al liberismo sfrenato e alla globalizzazione incontrollata ha prodotto problemi di criminalità che persino il potere coercitivo massicciamente maggiore degli Stati moderni non è in grado di controllare, nemmeno quando i governi sono disposti a provarci.

Da decenni ormai, le aree di povertà e di forte immigrazione in molte città occidentali sono lasciate a marcire. I tentativi di far rispettare la legge in queste comunità non sono considerati degni dei problemi che potrebbero derivarne, e più a lungo il problema viene lasciato, più si aggrava. Le forze dell’ordine disponibili sono nelle mani di bande criminali, di solito coinvolte nel traffico di droga. Il risultato è che tutti coloro che possono lasciare queste aree lo fanno e il loro posto viene preso da ondate sempre più disperate di nuovi immigrati, pronti a essere sfruttati a loro volta. Per le bande, lo Stato in tutte le sue manifestazioni è semplicemente un nemico. Per il resto della popolazione, lo Stato è un traditore che non li protegge e non si prende più cura di loro.

Tuttavia, la convinzione delle élite occidentali che tali problemi possano essere ordinatamente contenuti in aree recintate non sembra più essere vera come un tempo. Alcuni centri urbani stanno già diventando pericolosi di notte. Se arrivate in una grande città europea in questi giorni, l’hotel vi consiglierà dove non andare, dove non fare tardi e dove prendere un taxi per tornare dal ristorante: cose che una generazione fa sarebbero state impensabili. I ristoranti e i bar chiudono per paura della violenza e perché il personale non si sente sicuro nel tornare a casa a tarda notte. Inevitabilmente, questo si ripercuote sulla legittimità percepita dello Stato, che si è dimostrato incapace di svolgere il proprio dovere di protezione. Una conseguenza è che i partiti politici che promettono di fare qualcosa per riconquistare la legittimità dello Stato (generalmente codificati come “estrema destra”) aumentano la loro popolarità. Un’altra è che la gente rinuncia allo Stato. Smettono di votare, se hanno soldi tolgono i figli dalle scuole pubbliche, si trasferiscono in aree più sicure se possono, e se non possono sono costretti a fare pace con coloro che controllano effettivamente le loro comunità e che possono offrire loro qualche rudimentale protezione.

Uno dei miei temi costanti è che questo tipo di cose non può andare avanti per sempre. Date le numerose crisi in via di sviluppo che si stanno contendendo la priorità, la disgregazione sociale, autogenerata o più probabilmente conseguenza di molteplici crisi economiche, ambientali e sanitarie, potrebbe non essere lontana. Anzi, forse la disgregazione sociale è già qui, anche se, come direbbe William Gibson, non è distribuita in modo uniforme. Ma se mettiamo in relazione tutto questo con lo Stato e con la responsabilità dello Stato di preservare la società, allora è importante sottolineare ancora una volta che il rapporto tra Stato e società non è, e non potrà mai essere, di semplice repressione. Non è come se la maggior parte delle società fosse perennemente in bilico sull’orlo della rivolta, in attesa di un momento di disattenzione da parte delle autorità; o come se i criminali si nascondessero dietro ogni albero, pronti a balzare fuori non appena la polizia volta le spalle. Come ho sostenuto, le persone accettano la legittimità e l’autorità dello Stato non tanto per abitudine quanto per autoprotezione collettiva. Quindi, il tipo di decadimento della legittimità dello Stato che stiamo iniziando a vedere è meno probabile che porti a conflitti violenti, piuttosto che a una sorta di acida apatia e disimpegno, e alla ricerca di un modo per compensare ciò che lo Stato non può fare. Ci sono parti del mondo in cui questo si può vedere in azione. Ci sono Paesi africani in cui nessuno si preoccupa di chiamare la polizia dopo un crimine, perché questa si limiterebbe a chiedere una tangente e non sarebbe comunque in grado di risolvere il crimine. In altre società (il Libano è un buon esempio), se si ha un problema con lo Stato, non ci si rivolge all’ufficio locale, alla polizia o altro, ma al rappresentante del proprio clan, che parlerà con la persona di più alto rango che riesce a trovare nel governo e che potrebbe avere un’influenza. È così che si fanno le cose.

Ora, ci sono due requisiti per entrare qui. La prima è che ci sono gruppi, criminali, politici o entrambi, che aspettano che lo Stato si mostri debole e si espandono nello spazio lasciato dallo Stato. Ho già citato il caso di alcune città europee, dove alcune aree sono ormai fuori dal controllo dello Stato. Detto questo, i gruppi coinvolti sono relativamente piccoli e non sarebbero all’altezza di un serio uso professionale della forza. Ma questo uso non è probabile ora, e probabilmente lo diventerà sempre meno, semplicemente perché sarebbe impossibile sconfiggere le bande di narcotrafficanti e i gruppi islamisti senza un livello di danni collaterali, di feriti e persino di morti che sarebbe inaccettabile dal punto di vista politico. Quindi questi gruppi sono essenzialmente lasciati in pace, dato che, dopo tutto, predano prevalentemente il loro stesso popolo. Se dovessero diffondere la loro violenza in aree ricche (e ci sono segnali che questo potrebbe iniziare ad accadere), allora questa retorica farebbe immediatamente marcia indietro, ma a quel punto sarebbe probabilmente troppo tardi. Riprendere il controllo anche di un solo grande sobborgo richiederebbe non solo centinaia di poliziotti armati, ma altre migliaia di persone equipaggiate e addestrate per il controllo delle rivolte.

Questo ci ricorda uno dei problemi principali: il fatto che la legittimità sia in gran parte una questione di abitudine significa che ogni Paese mantiene forze di sicurezza interne principalmente per contrastare situazioni eccezionali, quando questa legittimità viene attivamente contestata. Nella stragrande maggioranza dei casi, nella stragrande maggioranza dei Paesi occidentali, la polizia resta a guardare le manifestazioni pacifiche, collaborando con gli sceriffi e intervenendo solo in caso di vere emergenze o atti criminali. Nessun Paese occidentale dispone da remoto delle forze di sicurezza interne necessarie per sconfiggere una seria sfida di massa alla legittimità dello Stato, perché molto dipende da contratti sociali taciti tra governanti e governati.

Ma supponiamo che questo inizi a rompersi? Il primo problema è quello dei numeri e di quello che i militari chiamano il rapporto forza-spazio. Le autorità hanno bisogno di un numero di personale enormemente superiore per contenere un incidente rispetto a quello necessario ai malintenzionati per provocarlo. Basterebbero poche centinaia di manifestanti, che appaiono e scompaiono in piccoli gruppi, accendono fuochi, spaccano finestre, incendiano auto, irrompono nei negozi e attaccano i passanti, prima che le forze dell’ordine in una città come Parigi siano sopraffatte (e Parigi non è affatto la città più grande d’Europa). Tutto ciò che si potrebbe fare in una situazione del genere sarebbe circoscrivere alcune aree della città, in particolare quelle in cui risiede il governo, e cercare di difenderle, chiudendo gli edifici pubblici e i centri commerciali. Il resto dovrebbe essere lasciato bruciare. Questo è essenzialmente ciò che è accaduto durante le peggiori manifestazioni dei Gilets jaunes nel 2018/19, dove c’erano così tante manifestazioni in così tante città, ed era impossibile sapere quali sarebbero diventate violente, che alla fine alla polizia è stato ordinato di stare a guardare mentre le cose bruciavano, a meno che non fossero in pericolo di vita.

Inoltre, la logica del controllo dell’ordine pubblico è la dispersione sicura. Nonostante i drammatici video iPhone mostrati su Internet, qualsiasi forza di ordine pubblico adeguatamente addestrata ha come scopo principale quello di disperdere i manifestanti e convincerli a tornare a casa. In prima istanza, questo avviene impedendo fisicamente di raggiungere il loro obiettivo: un edificio governativo, per esempio. Se questo non è possibile, l’opzione successiva è il cosiddetto “gas lacrimogeno” che irrita gli occhi e fa disperdere i manifestanti: non è piacevole, ma è probabilmente il modo meno offensivo per raggiungere l’obiettivo. Ma anche in questo caso c’è un grosso elemento di contratto non detto: sparare il gas è un segnale di dispersione, e la maggior parte dei manifestanti lo accetta e si allontana. Una folla molto numerosa di dimostranti realmente motivati, con maschere e protezioni per gli occhi, sarebbe qualcosa di completamente diverso, e potrebbe riuscire a sfondare qualsiasi cordone di protezione.

Il vero problema sorge quando si presentano gruppi, spesso armati, con l’intenzione di scontrarsi deliberatamente e di fare violenza. Negli ultimi anni questa è stata una caratteristica crescente dei problemi di ordine pubblico e i governi non sanno bene cosa fare. Da un lato gli assalitori (non è corretto chiamarli manifestanti) possono attaccare direttamente le forze dell’ordine e sono in grado di ferirle e persino ucciderle. Dall’altro lato, è impossibile per le forze dell’ordine rispondere senza rischiare di ferire persone innocenti, o almeno persone che possano in seguito rappresentarsi come tali. Da cinquant’anni si cerca un mezzo benevolo per controllare le rivolte e disattivare i rivoltosi senza ferire nessuno. Sembra che non esista. E scontri violenti come questo, spesso in aree affollate, dove non è chiaro chi sia chi e chi stia facendo cosa, possono essere spaventosi e disorientanti nel migliore dei casi, e le persone che passano di lì per caso possono essere coinvolte e persino ferite.

Detto questo, nella maggior parte dei Paesi il numero di persone coinvolte in atti di violenza deliberata è stato piuttosto ridotto e gli attacchi diretti alle forze dell’ordine o agli edifici governativi sono stati piuttosto rari. Ma ancora una volta, pochi Paesi occidentali hanno le risorse per combattere questo tipo di minaccia su larga scala e per un lungo periodo di tempo. La tattica standard (vista di recente in Francia) prevede che piccoli gruppi di violenti si nascondano tra la folla e, in un determinato momento, tirino fuori armi e dispositivi di protezione e attacchino gli obiettivi o le forze dell’ordine. Nella confusione è poi facile che si dileguino e appaiano da un’altra parte. È ovvio che anche un numero piuttosto esiguo di persone può efficacemente mettere in ginocchio una città e bloccare ingenti risorse governative. È anche chiaro che le forze dell’ordine si esauriranno in breve tempo, se non altro perché non possono essere dappertutto e tutto potrebbe essere un “bersaglio”.

In realtà, quindi, gli Stati occidentali sono probabilmente molto più vulnerabili alla violenza improvvisata di massa di questo tipo di quanto spesso si pensi. Dimentichiamo quanto sia sicuro uscire per strada proprio perché la stragrande maggioranza delle persone non pensa mai di entrare in un supermercato e saccheggiare la merce, o di attaccare la polizia o i pompieri. Ma questa è solo una convenzione e, oltre un certo punto, se troppe persone decidono di disobbedire, le autorità non possono fare molto.

Ma sicuramente, direte voi, lo Stato ha a disposizione una forza enorme. Per cominciare, c’è l’esercito, per non parlare dell’enorme quantità di sorveglianza fisica ed elettronica di cui gli Stati moderni dispongono. Sicuramente qualsiasi serio tentativo di violenza di massa potrebbe essere rapidamente stroncato? È importante chiarire di che tipo di situazione stiamo parlando. Se un gruppo di individui armati, sia esso criminale o politico, cerca di affrontare un gruppo di soldati addestrati, quasi sempre perde malamente. È vero che ci sono stati casi in cui i Talebani hanno teso agguati e ucciso operatori di ONG protetti da ex militari. E in Iraq lo Stato Islamico ha sviluppato tattiche di fanteria leggera piuttosto sofisticate, utilizzando bulldozer e camion pesanti guidati da volontari suicidi per aprire buchi nelle fortificazioni, seguiti da Land Cruiser catturati pieni di fanteria che attivavano i loro giubbotti suicidi quando erano feriti o avevano finito le munizioni. Ma questi sono casi molto particolari: i Talebani potevano affrontare l’esercito afghano in piccoli gruppi, ma solo fino a quando non venivano impiegate armi pesanti o potenza aerea contro di loro.

Non è quello che possiamo aspettarci in Occidente. Uno scenario più probabile è quello di piccoli gruppi di 3-4 persone con armi automatiche e giubbotti suicidi, che attaccano obiettivi di massa come folle di calcio o di concerti, o stazioni ferroviarie e aeroporti. Come ci si può proteggere da questo? Non è possibile, in modo efficace. I gruppi terroristici classici attaccavano una gamma limitata di obiettivi: edifici governativi e altri simboli dello Stato, o personale politico e governativo, dove in teoria si poteva fornire almeno un po’ di protezione Anche gli attentati dinamitardi a case pubbliche in Inghilterra da parte dell’IRA negli anni ’70 furono difesi all’epoca come attacchi a luoghi frequentati da soldati fuori servizio. Ora tutto questo è cambiato. Quindi, se si pensa che ci siano due o tre cellule di questo tipo in funzione, cosa si può fare per proteggere la popolazione in generale? Ancora una volta, non molto, se non attraverso la raccolta di informazioni, che è una questione diversa. Da un decennio a questa parte, diversi Paesi europei hanno schierato truppe per le strade contro questo tipo di minaccia. Dall’ondata di attentati del 2015-16, circa 10.000 militari alla volta sono stati disponibili per il dispiegamento in tutta la Francia, ad esempio. Non sono molti, soprattutto se si considera che la maggior parte di essi non è dispiegata in modo permanente, ma solo in caso di informazioni che suggeriscono un attacco imminente. E naturalmente hanno bisogno di mangiare e dormire, per cui il numero effettivo di pattuglie che in ogni momento pattugliano le strade di una grande città è probabilmente dell’ordine delle centinaia. E come vi diranno i militari, la difesa statica è inutile quando quasi tutto può essere un bersaglio. Quindi si vedono pattugliare in mezze sezioni di quattro (occasionalmente sei), soprattutto nelle zone turistiche o dove ci sono obiettivi di prestigio, e principalmente come deterrente o per cercare di fornire un senso di sicurezza. Queste operazioni comportano un enorme sforzo per le forze armate, soprattutto per un lungo periodo, e sottraggono persone alle mansioni per cui sono state addestrate: l’ultimo gruppo che ho incrociato al momento del check-in per un volo dall’aeroporto Charles de Gaulle apparteneva a un’unità di trasporto a motore dell’Aeronautica.

Tuttavia, anche se una protezione totale contro i gruppi armati ideologici è praticamente impossibile, questi gruppi non saranno in grado di far cadere i governi, qualunque cosa sperino alcuni dei loro leader. Ma che dire della popolazione nel suo complesso, in grandi gruppi? Che dire del tipo di violenza di massa organizzata contro lo Stato che molti temono e molti fantasticano? Non si potrebbe usare efficacemente l’esercito contro di loro? Ancora una volta, dipende dal contesto. La funzione fondamentale dell’esercito in qualsiasi Stato è quella di garantire il monopolio della violenza legittima, di cui ho parlato all’inizio. È una cosa impopolare da dire in una democrazia, dove ci piace pensare che l’esercito sia destinato alla difesa delle frontiere e forse all’impiego all’estero, ma è comunque vero. Come ha notato Weber, uno Stato che non riesce a mantenere questo monopolio non può definirsi veramente uno Stato. Ma in prima istanza – a livello tattico, se vogliamo – la responsabilità della protezione delle strade, delle istituzioni di governo e della leadership politica spetta alla polizia, e pochi militari vorrebbero altrimenti. Vengono chiamati in causa solo quando il livello di violenza è tale che la polizia non può più farcela. Le guardie militari fuori dagli edifici pubblici, ad esempio, sono essenzialmente cerimoniali, un simbolo politico della subordinazione dei militari al potere civile.

Ciò significa che in generale i militari non sono addestrati ed equipaggiati per svolgere compiti di ordine pubblico e non vogliono farlo. Sono un male per il reclutamento e la conservazione, e i compiti sono difficili, impopolari e sgradevoli. L’esercito britannico si è trovato a svolgere questo ruolo in Irlanda del Nord alla fine degli anni ’60, perché la Royal Ulster Constabulary (prevalentemente protestante) non godeva di fiducia, e i comandanti dell’esercito hanno passato la generazione successiva a cercare di uscirne. Inoltre, i militari, a dispetto di quanto spesso si pensa, non hanno poteri o diritti speciali di usare la forza in tempo di pace. Anche se la legge varia un po’ da Paese a Paese, i militari hanno generalmente il diritto di usare la forza, fino a quella letale, per proteggere se stessi o qualcuno vicino. Ma questa forza deve essere proporzionale alla minaccia e non può essere indiscriminata. Inoltre, tutte le forme di legge militare richiedono l’obbedienza solo agli ordini militari legittimi. Quindi, non solo l’ordine di sparare sui manifestanti sarebbe illegale per un comandante e per le truppe da eseguire, ma non si qualificherebbe nemmeno come ordine militare perché non è per scopi militari. Infine, gli ordini militari passano attraverso quella che i militari chiamano “catena di comando”: devono essere impartiti da superiori riconosciuti in quella catena, quindi un civile non può ordinare alle forze militari di entrare in azione, ad esempio.

Qualsiasi governo occidentale, per quanto assediato, sarebbe stupido se pensasse di poter contare sui militari per mantenere il potere contro le manifestazioni di massa e la violenza popolare. Sono troppo pochi, non sono adeguatamente addestrati o equipaggiati e sono molto limitati dal punto di vista legale. I loro comandanti avrebbero non solo il diritto, ma anche il dovere, di rifiutarsi di usare la forza militare contro il popolo. Anche se la situazione dovesse peggiorare in modo catastrofico, fino a sfociare nella violenza armata organizzata contro lo Stato, si applicherebbero le regole del diritto dei conflitti armati e l’esercito potrebbe essere usato solo contro quelli che il diritto internazionale umanitario definisce “obiettivi militari”, che sono definiti in modo molto restrittivo.

Infine, forse, dovrei spendere una parola sulla Legge marziale, dal momento che sembra aver prodotto tanta confusione negli ultimi tempi. La Legge Marziale non è un corpo di leggi o un insieme di disposizioni, né tanto meno è equivalente a un governo militare o a un colpo di Stato: è solo uno stato di cose. In sostanza, quando lo Stato civile è crollato e l’esercito è l’unica istituzione organizzata rimasta, può essere incaricato di sostituirsi allo Stato e di amministrare il territorio, anche facendo rispettare la legge. È quanto è accaduto in Germania nel 1945. Ma questo non conferisce ai militari poteri magici e sono ancora soggetti alle leggi del tempo di pace. Sebbene i governi abbiano generalmente pronta una legislazione d’emergenza (che deve essere votata dal Parlamento), che conferisce loro ulteriori poteri, e possano sospendere parti della Costituzione, questo non prevede mai, per quanto ne so, di dare ai militari il controllo del Paese, cosa che sarebbe comunque al di là delle loro capacità.

Si arriva quindi a una situazione molto curiosa di interazione tra due risultati negativi. Da un lato, Stati sempre più indeboliti e incapaci perderanno gradualmente il controllo effettivo di parti del loro territorio a favore della criminalità organizzata, di movimenti politici estremisti e semplicemente di un’opinione pubblica episodicamente infuriata. Questa perdita di controllo può essere solo temporanea: il centro della città per qualche ora, ad esempio, ma sarà anche politicamente cumulativa. D’altra parte, nessuna delle forze che si oppongono allo Stato sarà in grado di prendere il suo posto, nemmeno a livello locale. È per questo che le idee di “guerra civile” che vengono regolarmente diffuse in questi giorni sono sbagliate, perché una guerra civile è una guerra per il controllo della civis, lo Stato, tra gruppi che vogliono controllare quello Stato, o sostituire un diverso tipo di Stato a quello esistente. Per la prima volta nella storia moderna dell’Occidente, non ci sono gruppi con organizzazioni e ideologie in attesa di lanciare una lotta per il potere o di approfittare di un vuoto di potere.

A volte si sostiene che le imprese multinazionali o la criminalità organizzata potrebbero colmare questo vuoto, ma ciò si basa su un equivoco. Come sappiamo dagli studi sullo sviluppo, il settore privato dipende dall’esistenza dello Stato per la sua stessa sopravvivenza e prosperità, ed è per questo che le economie soffrono così tanto durante e dopo le guerre civili. Quanto più sicuro è l’ambiente, tanto maggiori sono i vantaggi per le imprese private, anche quelle molto grandi. Al contrario, un ambiente insicuro, anche in assenza di un conflitto vero e proprio, scoraggia il commercio e gli investimenti e rende difficili o impossibili anche cose banali come trasporti, assunzioni, consegne, stipendi e manutenzione. E questo presuppone che la sicurezza sia l’unico problema. Quanto durerebbe Facebook se la persona media avesse solo 2-3 ore al giorno di servizio di telefonia mobile affidabile? Quanto durerebbero le case automobilistiche se le epidemie di massa e l’instabilità politica iniziassero a interrompere seriamente le catene di approvvigionamento? Quanto durerebbero le compagnie petrolifere se non potessero esportare petrolio in modo affidabile? Senza il corretto funzionamento dell’immensamente complesso e fragile sistema finanziario internazionale, le banche cominceranno a scomparire. Per quanto tempo sopravviveranno il mercato immobiliare e i suoi derivati? In ogni caso, il settore privato, soprattutto al giorno d’oggi, non è in grado nemmeno in linea di principio di svolgere le funzioni di uno Stato. Tutto ciò che sa è come trarne profitto, quindi niente Stato e rapidamente neanche settore privato. In piccolo, lo vediamo accadere nelle zone “difficili” delle città europee, dove le catene di supermercati chiudono i loro negozi, perché è tutto troppo complicato.

Né, paradossalmente, la criminalità organizzata può sopravvivere in assenza dello Stato. Come il settore privato, è un parassita: fornisce cose illegali o troppo costose o troppo tassate. Non è interessata (salvo rare eccezioni) a fornire servizi di base. Gran parte del suo potere deriva dalla sua influenza sui governi e dalla loro corruzione: senza governo, niente potere.

Il futuro più probabile è quindi quello di un potere estremamente distribuito, come quello che troviamo, ad esempio, in alcune zone dell’Africa. Il governo avrà il controllo effettivo della capitale e dei centri delle principali città, ed eserciterà un piccolo grado di influenza su ciò che accade altrove. Laddove le condizioni sono favorevoli, possono sorgere costellazioni locali di potere politico ed economico. È probabile che si verifichino episodi di violenza sporadica per controllare i beni economici locali ed estorcere rendite, ma in una società moderna tutto è organizzato su scala nazionale o addirittura internazionale e ben poco è più “locale”. Le comunicazioni stradali e ferroviarie saranno degradate o non sicure e i sistemi di distribuzione non funzioneranno più correttamente. La gente si sposterà dalle aree a bassa sicurezza a quelle a più alta sicurezza, soprattutto nelle città già sovraccariche.

Ho già suggerito che se si vuole immaginare il futuro dell’Occidente, è utile guardare all’Africa, dove esistono già molte delle stesse condizioni. Ma la differenza è che, anche rispetto all’epoca coloniale, le infrastrutture nella maggior parte dei Paesi africani non si sono deteriorate molto, perché in primo luogo non ce n’erano molte. Inoltre, l’Africa dispone di risorse di solidarietà sociale e di resilienza, di reti familiari e tribali e di sofisticati meccanismi di governance informale. Abbiamo Twitter e il diritto contrattuale.

Il gratificante aumento del numero di iscritti (oltre 4.000) significa che le persone leggono e commentano i miei vecchi saggi e, in alcuni casi, chiedono le mie risposte. Provvederò a farlo appena possibile.

Questi saggi sono gratuiti e intendo mantenerli tali, anche se a breve introdurrò un sistema per cui le persone potranno effettuare piccoli pagamenti, se lo desiderano. Ma ci sono anche altri modi per dimostrare il proprio apprezzamento. I “Mi piace” sono lusinghieri, ma mi aiutano anche a valutare quali argomenti interessano di più alle persone. Le condivisioni sono molto utili per portare nuovi lettori, ed è particolarmente utile se segnalate i post che ritenete meritevoli su altri siti che visitate o a cui contribuite, perché anche questo può portare nuovi lettori. E grazie per tutti i commenti molto interessanti: continuate a seguirli!

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Il disadattamento delle élites occidentali. Intervista a Giacomo Gabellini

Abbiamo posto giorni fa ad Aurelien quattro domande alle quali l’analista ci ha rapidamente e compiutamente risposto. Abbiamo pubblicato il 23 agosto qui la sua replica.

Su suggerimento di alcuni lettori abbiamo esteso ad altri autori ed analisti l’invito a rispondere alle medesime. Proseguiamo con la pubblicazione del punto di vista di Giacomo Gabellini. Nella voce “dossier” sulla barra orizzontale abbiamo creato una apposita raccolta. Buona lettura, Giuseppe Germinario

  • Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Credo che le ragioni degli sbalorditivi errori di calcolo compiuti siano da attribuire al senso di onnipotenza che ha pervaso le classi dirigenti statunitensi a partire dal collasso dell’Unione Sovietica. Questa percezione distorta ha atrofizzato il pensiero critico e alimentato un sostanziale disinteresse per il resto del mondo; il conformismo dilagante che ne è scaturito ha pregiudicato la capacità sia di formulare valutazioni realistiche delle potenzialità proprie e del nemico, sia di comprendere le implicazioni strategiche delle proprie scelte politiche. Hanno quindi trasformato deliberatamente la questione ucraina da crisi regionale in sfida esistenziale per la Russia, senza rendersi pienamente conto dei pericoli che comporta la decisione di mettere con le spalle al muro quello che si configura come il Paese più grande del mondo dotato di oltre 6.000 testate atomiche e vettori ipersonici in grado di trasportarle verso l’obiettivo. Hanno quindi sottovalutato la capacità industriale, la coesione sociale, le competenze tecnologiche e la forza militare latente della Federazione Russa, sovrastimando allo stesso tempo la propria capacità di condizionamento e dissuasione nei confronti dei Paesi terzi, l’impatto delle sanzioni, le implicazioni della sempre più spiccata tendenza a “militarizzare” il dollaro e i circuiti attraverso cui circola la moneta Usa. Si sono quindi illusi di strangolare l’economia russa come avevano fatto con quella cilena negli anni ’70, di poter agevolmente convincere il resto del mondo ad aderire alla campagna sanzionatoria orchestrata dall’Occidente contro la Federazione Russa e di infliggerle una sconfitta strategica sul campo di battaglia contando sulla presunta superiorità della propria dottrina militare, oltre che dei propri sistemi d’arma. Nei confronti della Cina hanno commesso errori di calcolo paragonabili, se non peggiori. Hanno ritenuto di poterla “occidentalizzare” includendola nell’ordine globalizzato, e quindi favorendo il trasferimento dei migliaia di stabilimenti produttivi presso la principale potenza demografica al mondo, che nel corso dei millenni è rimasta straordinariamente fedele a se stessa facendo affidamento su un bagaglio culturale inestimabile. Hanno quindi posto le condizioni per la trasformazione di un Paese poverissimo in una superpotenza a tutto tondo, con intenti palesemente anti-egemonici. Un risultato sbalorditivo.

 

  • Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Credo si tratti del frutto avvelenato di un processo di “imbarbarimento” culturale generalizzato. Negli Stati Uniti, il concetto paretiano di “circolazione delle élite” ha trovato applicazione fino a degenerare nel ben noto sistema delle “porte girevoli” (revolving doors), già analizzato a suo tempo da Charles Wright Mills nel suo eccellente Le élite del potere. Militari, politici, banchieri e finanzieri che passano con grande disinvoltura dal pubblico al privato e poi di nuovo al pubblico, dando origine a grovigli di interessi particolari profondamente confliggenti con quelli della nazione nel suo complesso. La funzione politica diviene così ostaggio del più bieco affarismo, che si esprime sotto forma di peculiarissimo sodalizio che l’ex analista della Cia Ray McGovern ha definito “Military-Industrial-Congressional-Intelligence-Media-Academia-Think-Tank Complex”, in cui la circolazione del denaro per via tangentizia interconnette i mezzi di comunicazione di massa, le università, i “pensatoi”, le agenzie spionistiche e il Congresso orientando le direttrici strategiche del potere pubblico. L’enormità degli sforzi profusi in propaganda al fine di modellare l’opinione pubblica interna e “costruire consenso” a livello domestico dà la misura del livello di corruzione raggiunto dagli Stati Uniti, che a mio avviso tendono a somigliare sempre di più all’Unione Sovietica degli anni ’80. Ultimamente, quando rifletto sull’entità del degrado che orai caratterizza gli Usa, mi sovvengono spesso le amare valutazioni formulate in quel periodo da Nikolaj Ivanovič Ryžkov, ex ufficiale e politico sovietico, in riferimento al suo Paese.  «L’ottusità del paese – affermò Ryžkov – ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto».

 

  • La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Direi di sì. Intendiamoci; l’Occidente ha ancora numerose frecce al proprio arco, ma mi pare stia scivolando ormai irreversibilmente su un ripidissimo piano inclinato. Come ho cercato di spiegare nei miei lavori, il conflitto russo-ucraino ha palesato urbi et orbi l’inaffidabilità dell’“occidente collettivo” e l’arbitrarietà del cosiddetto “ordine basato su regole” (rules based order) di cui i portavoce di Washington magnificano senza sosta le inesistenti virtù. Ma soprattutto, ha messo a nudo la debolezza strutturale degli Stati Uniti e la falsa coscienza delle classi dirigenti euro-statunitensi, le quali inquadrano il conflitto russo-ucraino come scontro tra democrazie e autocrazie mentre il resto del mondo lo vede come una guerra per procura tra Nato e Russia, che vede quest’ultima tenere testa dal punto di vista sia economico che militare all’intera Alleanza Atlantica. Sono molto d’accordo con Emmanuel Todd, secondo cui «la resistenza dell’economia russa spinge il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno aveva previsto che l’economia russa avrebbe tenuto testa al “potere economico” della Nato. Credo che i russi stessi non lo avessero anticipato. Se l’economia russa resistesse alle sanzioni indefinitamente e riuscisse a esaurire l’economia europea, laddove essa rimanesse in campo, sostenuta dalla Cina, il controllo monetario e finanziario americano del mondo crollerebbe e con esso la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il proprio enorme deficit commerciale dal nulla. Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti». Agli Stati Uniti occorrerebbe un “adattamento morbido” a un mondo in rapida evoluzione, ma il Paese non dispone di apparati dirigenti all’altezza del compito.

 

  • Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

La riscoperta delle radici culturali ha permesso a Cina e Russia di erigere “grandi muraglie” sufficientemente robuste da resistere all’ostinato tentativo tutto statunitense di occidentalizzare il mondo intero. Il recupero del passato costituisce uno strumento formidabile per entrambi questi Stati-civiltà, in un’ottica di affermazione della propria identità differenziata rispetto alle altre, e di compattamento della società attorno a valori millenari specifici. Credo che “innestare” queste tradizioni in una società moderna rappresenti un compito difficile a livello generale, ma che per nazioni come Cina e Russia possa risultare molto meno arduo perché si tratta di Paesi che non hanno mai realmente rinnegato il proprio passato. In un modo o nell’altro, i capisaldi di entrambe le culture sono sempre riemersi, anche quando sono stati sottoposti a prove durissime come la Rivoluzione Culturale o i progetti trockysti miranti alla creazione del cosiddetto “uomo del futuro”. La deriva nichilistica dell’Occidente rende invece particolarmente difficile l’attuazione di un processo di rivalutazione del passato analogo a quello realizzato da Cina e Russia.

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Alessandro De Carolis Ginanneschi, Il liberalismo, questo illustre sconosciuto _ di Teodoro Klitsche de la Grange

Alessandro De Carolis Ginanneschi, Il liberalismo, questo illustre sconosciuto, Ergo Sum Editore, Grosseto 2023, pp. 92, € 9,00.

Quanto mai utile questo agile libretto in un’epoca in cui di sedicenti liberali ce ne sono tanti, per il motivo che, essendo crollato nel 1989-1991 il comunismo, gran parte della sinistra si è riconvertita (spesso a parole) ad un asserito e rivisitato liberalismo che, dell’originale, conserva solo alcuni (e limitati) profili, per lo più in stretta correlazione con le minoranze che “tutela”. Lo scrive l’autore nella “premessa” “La constatazione che da troppo tempo molti parlano a sproposito del Liberalismo, convinti tra l’altro si tratti di una ideologia quando invece è un metodo, mentre molti si dichiarano liberali pur senza esserlo – anzi esprimendo idee e promuovendo politiche o comportamenti che liberali non sono, mi ha indotto a scrivere questo riassunto di riflessioni altrui”.

Peraltro già del liberalismo classico se  ne hanno più “versioni” distinte, anche se vicine.

Ad esempio quella sintetizzata dall’alternativa “Parigi o Filadelfia?”, onde liberalismo anglosassone o continentale? La preferenza dell’autore va alla declinazione anglosassone, che articola in una  serie di opposizioni. Antropologica: l’uomo è “legno storto” o “buon selvaggio”? Istituzionale: “rule of law” o “Stato di diritto”?. Common law (diritto consuetudinario) o legge (diritto statuito dal legislatore). Ognuna di queste alternative “parigine”, anche se in misura diversa, rischia di tradursi in un depotenziamento della libertà a favore di un potere statale pervasivo e opprimente. Nonostante le migliori intenzioni: forse non è un caso che la situazione odierna, malgrado quelle, somigli assai alla descrizione profetica che Tocqueville fa del “dispotismo mite”: un potere paternalistico che tratta i cittadini come bambini da rieducare. Anche l’Unione europea non è immune da tale menda. Come scrive De Carolis “Nell’attualità, sono sempre più convinto che un altro giacobinismo ci minaccia, ovvero quello del super-Stato europeo in mano ad una classe più burocratica che politica, e quindi svincolata dalle volontà dei propri cittadini/sudditi; mentre lo stiamo costruendo, lo Stato liberale e federale all’anglosassone sembra invece essere il modello che l’Europa, per essere davvero unita in armonia, dovrebbe seguire”: l’alternativa quindi non è tanto tra Stati nazionali e unioni superstatali, che andrebbero contemperati, ma tra bulimia del “pubblico” e garanzia del privato, presente sia a livello statale che sovrastatale, sia tra sovranisti che globalisti.

Il libro è completato da una serie di documenti: dalla dichiarazione dei diritti del 26/08/1789 al Manifesto di Oxford del 1947 (ed altre) che testimoniano, anche se sinteticamente, del perdurare del nucleo fondamentale del liberalismo in oltre due secoli.

Nel complesso un libro per chiarirsi le idee nella confusione imperante (e spesso artatamente intensificata). Particolarmente opportuno in una nazione, come l’Italia, che negli ultimi trent’anni ha visto una costante riduzione degli ambiti di libertà reale a favore del potere pubblico, presentati come un processo di “liberazione” e (addirittura)  come “fine della storia”. Un farmaco contro la weberiana eterogenesi dei fini.

Teodoro Klitsche de la Grange

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