Il 25 aprile nulla da festeggiare, di Max Bonelli

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare.

 

Alla stanchezza fisiologica che si accompagna alla primavera (con l’ondata di pollini e le  allergie connesse) si sente nel bel paese un’altra stanchezza che scaturisce da una data rossa sul calendario dove in teoria dovremmo festeggiare la liberazione dall’occupazione tedesca avvenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

I festeggiati i circa 20.000 partigiani e i “liberatori” americani, sono venuti piano, piano a mancare negli anni ma non solo per un motivo fisiologico di morte degli stessi ma per la trasformazione di questi e dei loro discendenti morali in occupanti e collaboratori degli occupanti. Questa è la situazione ad oggi  in data 25 aprile 2018. Certo non come liberatori si possono indicare  gli  USA che hanno scalzato l’occupante tedesco per sostituirlo con un nodo da “cravattaro” che si fa di ogni anno più stretto. Nuove basi aprono sul nostro territorio, impunità dei loro soldati per i crimini commessi sul nostro suolo (Cermis docet) ed imposizioni in politica estera sempre più lesioniste dei nostri interessi (Libia).

Riguardo i collaboratori degli occupanti PD=PD-L: la prima parte dell’equazione rappresentano gli eredi immorali dei partigiani comunisti.  Il PCI almeno fino alla famigerata svolta  fatta con il viaggio di Napolitano negli USA era l’unico partito che si professava sovranista in Italia (volevano un Italia neutrale fuori dalla Nato). Già riecheggiano le urla dei “destrorsi” che dicono “non è vero ci volevano nel patto di Varsavia”. Illazioni mai provate dalla Storia e dette spesso per giustificare  il servilismo dell’MSI nei confronti della Nato e dei suoi apparati senza contare la scarsa propensione storico dinamica dell’URSS all’espansione geopolitica.

Ora il pronipote è rappresentato dal PD renziano, collaborazionisti degli USA ,fedeli servi che fanno della lotta alle timide istanze sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia la loro ragione di esistere.

I loro antenati morali si stanno rivoltando nella tomba,chi siede a botteghe oscure è un servo del capitalismo e traditore della Patria.

La seconda parte dell’equazione è composta dagli odiosi opportunisti spesso alto borghesi benestanti che diedero avvallo allo squadrismo degli anni venti per fermare l’avanzare del socialismo e tradirono il fascismo quando fu chiaro che era ormai cavallo perdente. Anche  essi fedeli servi del più forte ed in questo caso della bandiera a stelle strisce.

 

L’occupazione militare è solo un espressione di un’altra occupazione che subisce il paese: quella economica dell’Europa a conduzione tedesca.

Presenza ancor più pesante di quella militare descritta in precedenza, perchè sta uccidendo l’Italia, il suo substrato manifatturiero, quello che

l’ ha reso  una piccola potenza economica.

La moneta unica sta uccidendo la nostra economia che non avendo in mano lo strumento della svalutazione è costretta a riversare sul lavoro le leve per attuare concorrenza dei prodotti, precarizzando le condizioni degli occupati a tutti i livelli e non ultima la classe della piccola borghesia impiegatizia.

Questa occupazione a 360|gradi Germano-Americana la stiamo vivendo in tutta la sua implacabile stretta nel mandato del presidente  Mattarella al secondo schieramento per numero di eletti il M5S con il preciso intento di unirsi al PD uscito perdente dalle elezioni. Tutto dettato dal pericolo populista sovranista che Lega e Fratelli d’Italia si fanno espressione seppur in maniera timida. Se analizziamo le parole espresse dal PD “si al dialogo con il M5S se cessano di dialogare con la Lega” si capisce a quale padrone rispondono, lo schiavo perdente che vuole prendersi in carico l’addestramento del nuovo il M5S.

Il peccato della Lega? Il timido accenno di ribellione all’occupazione. Proprio ora che Salvini parla non più di Padani, ma di Italiani e da partito secessionista timidamente fa passi verso il Sovranismo patriottico rappresentato dall’On. Bagnai e nelle loro file eletto?

 

Questa rinnovata lotta tra occupanti e loro collaborazionisti da una parte e dall’altra  patrioti che con diversi colori,contraddizioni emergono nel paese si rinnova e ci dovrebbe far riflettere che non c’è niente da festeggiare in questa data. Ci sono ragioni per una ribellione, per una lotta contro l’occupazione. Bisognerebbe rileggersi le figure di veri eroi come :

Bottai

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Bottai

 

Mattei https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei

 

ed altri patrioti sovranisti  sconosciuti che in silenzio rifiutarorno di versare sangue italiano

http://www.conflittiestrategie.it/il-25-aprile-nel-ricordo-di-mio-nonno-gigi-ed-altre-storie-sconosciute-ai-piu-di-max-bonelli

 

e rivolsero le loro energie contro gli occupanti.

Eroi  che rifiutarono  la logica dei Guelfi e Ghibellini che porta ad ammazzarci con facilità tra di noi italiani e  che indicarono una strada:

rivolgere le nostre energie ad una vera lotta di liberazione perchè questa è rimasta incompiuta.

Bisognerebbe far partire un tavolo di conciliazione nazionale che parta da una base comune data di tanti patrioti che dopo l’8 settembre decisero di combattere da una parte e dall’altra i due occupanti il tedesco e l’americano senza  versare sangue italiano. Per fare questo occorre potare sia a destra che sinistra la faziosità partitica e far rimanere centrale il fusto su cui si poggia l’Italia la Patria fatta di lavoratori e piccola media borghesia con l’attività produttiva incentrata nei confini nazionali.

 

Max Bonelli

 

 

 

Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo”, di Teodoro Klitsche de la Grange

Presentazione a “Dallo stato di diritto al neo-costituzionalismo”(*)

Sono molti gli interrogativi che pone questo denso saggio del prof. Bandieri sul neo-costituzionalismo.

Come scrive Michel Lhomme nella presentazione dello scritto su “Nouvelle École”[1] “Può sintetizzarsi la dottrina neo-costituzionalista in quattro punti: 1) Prevalenza dei diritti dell’uomo su ogni (altro) diritto; 2) Affermazione di questa preminenza nella e per mezzo della Costituzione, per pararsi da un “colpo di stato” parlamentare; 3) l’imposizione di una norma giuridica immediatamente applicabile, senza discussione legislativa, è mettere tra parentesi il concetto della sovranità popolare, del demos; 4) infine l’istituzione di un’autorità giuridica superiore che sanziona la violazione delle norme costituzionali, e che si basa sui giudici costituzionali (che non sono solo quelli interni ma anche dei Tribunali internazionali – NDR…)”.

Altre sintesi sono state formulate per le concezioni degli studiosi neo-costituzionalisti[2].

Le critiche di Bandieri al neo-costituzionalismo possono riassumersi così:

1) Il neocostituzionalismo non è opposto al neo-positivismo, ma ne è una seconda fase: un positivismo di valori al posto di un positivismo di norme.

2) Il neo-costituzionalismo è coerente all’attuale fase (di decadenza) dello Stato moderno. Si può dire che come il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 corrispondeva al “mezzogiorno” del Rechstaat, e come questo era un “Centauro” machiavellico[3] (metà uomo – il Rechtstaat, metà animale – il Machtstaat), così il positivismo giuridico “classico”, come scrive Schmitt, era una sintesi di decisionismo e normativismo.

Con Kelsen e il normativismo si aveva il primo depotenziamento, corrispondente all’accentuarsi del carattere democratico degli Stati europei, al pluralismo politico e quindi allo Stato pluriclasse (M.S. Giannini). Con lo Stato costituzionale di diritto (o dei diritti) lo Stato, oltre che pluriclasse tende a diventare anche pluri-etnico; nel contempo si accresce la presenza nell’ordinamento del diritto “esterno”, cioè internazionale, a opera non solo degli Stati, ma delle Corti di giustizia internazionali e della soggezione degli Stati a sistemi d’alleanza invasivi e alla globalizzazione del diritto.

3) Tuttavia tale diverso approccio non risolve i problemi e le contraddizioni né costituisce una novità radicale. Il diritto “mite” o “liquido” si basa sempre, come ogni diritto, sulla coazione e in ciò, come insegnava Kant, consiste la sua differenza dalla morale. La prova più evidente ne sono le guerre, ribattezzate atti di polizia internazionale e che hanno poco di nuovo rispetto agli atti d’intervento già conosciuti dalla Storia (dall’intervento italiano nel regno delle Due Sicilie nel 1860, a quelli del Patto di Varsavia in Ungheria e Cecoslovacchia, ambedue fondati sulla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata)[4]. È la motivazione che cambia (Pareto avrebbe scritto la derivazione): l’Unione sovietica era comprensibilmente renitente a farsi sottrarre attraverso congressi, discussioni, cambiamenti di maggioranze di partito quello che era stato conquistato con il sangue di centinaia di migliaia di soldati sovietici, e riconosciuto (e stipulato) con accordi internazionali di spartizione geo-politica.

Gli interventi umanitari di quest’ultimo ventennio hanno il pregio delle buone intenzioni, ma non quello di essere costati perdite, umane e materiali, né di essere originati da una violazione a diritti dello Stato, e del conseguente diritto a “riparazione”[5].

4) Il neo-costituzionalismo non incide, ovviamente, sul rapporto comando-obbedienza, presupposto del “politico”. In particolare non elimina, come detto, la coazione dal diritto, del quale, come sostenuto da Kant e Thomasius, è una componente essenziale. Il diritto, per essere tale può essere mite o inflessibile, fluido o solido, ma deve necessariamente avere i carabinieri alla porta. Quello che realmente il neo-costituzionalismo modifica è il “tipo” dello Stato che diventa da legislativo-parlamentare a giurisdizionale (Justizstaat).

Non contribuisce a ciò solo il fatto più vistoso – la diffusione delle Corti che giudicano della costituzionalità delle leggi (cioè dell’operato legislativo dei Parlamenti e dei Governi). Accanto a quello c’è la diffusione delle Corti internazionali e la previsione dell’ “adeguamento” della legislazione interna a quella internazionale, anche senza il passaggio attraverso leggi di “recepimento”.

Il che mette in forse il carattere di “chiusura” dello Stato, che diventa “permeabile” alla normazione e anche all’iniziativa politica di altri Stati.

5) La critica di Bandieri sottolinea le illusioni sulla sostituzione del diritto alla politica. La dimensione politica dell’uomo è insopprimibile, sostiene, nella scia di Aristotele e S. Tommaso, lo studioso argentino. Pretendere che procedure, contraddittorio, mediazione, “bilanciamento” possano surrogare legittimità, autorità, consenso è un’illusione ricorrente nella modernità. Marx credeva di ridurre la politica all’economia, e abbiamo visto com’è finita; oggi si cerca di ridurre quella al diritto, alla tecnica, all’etica, domani, forse, all’arte, con risultati prevedibilmente non dissimili da quello del (defunto) socialismo reale.

Questo – ed altro – c’è nel saggio di Bandieri. Il lettore ne trarrà le somme. Per intanto vorrei sottolineare due tra le “fallacie” decisive del neocostituzionalismo, ed altrettanti considerevoli meriti dello stesso.

Cominciando da quest’ultimi: è indubbio che sostituendo “principi” o “valori” alla norma kelseniana il neo costituzionalismo risulta più aderente alla realtà dello Stato contemporaneo, con controllo di costituzionalità e relative corti allo stesso competenti.  Che queste debbano poi giudicare le leggi in base a “principi” e “tavole di valori” più che a norme gerarchicamente ordinate (stufenbau) è la constatazione di una prassi; a sua volta fondata su esigenze e caratteri delle costituzioni contemporanee, con norme spesso contraddittorie che vanno “bilanciate” e “compromessi formali dilatori”, così frequenti nelle costituzioni degli Stati pluriclasse, cui dare senso (e così scritti e reiscritti) in base a “valori”; questi costituiscono i momenti di sintesi – e verifica – di precetti generici e sostanzialmente confliggenti. D’altra parte è pur vero che il richiamo a principi e valori immette nell’istituzione un surplus di “fluidità” che richiama, e non poco, quella tesi di Hauriou, il quale vedeva nell’ordinamento un ordine non statico, al punto che la paragonava a un esercito in marcia (agmen): che marcia e procede conservando la forma. E rimproverava a Kelsen e, per diverse ragioni, a Duguit di aver concepito il diritto come un insieme statico, e quindi – in sostanza – poco vitale (e reale), perché non aderente alla mutevolezza delle situazioni e delle relazioni sociali[6].

Quanto alle “fallacie” il neo-costituzionalismo condivide con il suo antecedente – il normativismo – di considerare decisivo il parametro di riferimento “oggettivo” del giudizio giuridico (e giudiziario): cioè il “principio” o il “valore” (al posto della norma sopraordinata). Tuttavia apprezzare la congruità rispetto ai valori piuttosto che alle norme è attività, sicuramente giuridica, ma non esauriente né decisiva del diritto.

Non esauriente perché accantona il problema dell’effettività (e dell’applicazione) del diritto. Sul punto ci si può riportare alla critica che fa Bandieri citando Cicerone e il consensus omnium: ciò che rende credibile e applicabile il richiamo ai valori (e il sindacato delle leggi in base ai valori) non è tanto la procedura adottata o la saggezza dell’interprete, ma il fatto che quei principi o valori, in base ai quali si giudica, siano condivisi dai cittadini. Per tale profilo una decisione del giudice vale quanto una deliberazione del Parlamento o un provvedimento del governo. Ma anche, sotto un diverso aspetto, alla nota concezione di Santi Romano che il diritto è in primo luogo la “complessa e varia organizzazione dello Stato”[7] (che sposta l’angolo visuale dal momento del consenso preventivo a quello della coazione efficace); e a quella di Smend sui fattori d’integrazione e al suo concetto “dinamico” della costituzione come integrazione della sintesi politica: per cui i valori sono riconducibili ad uno dei fattori d’integrazione – quello “materiale”, mentre il neocostituzionalismo non considera e tiene in disparte gli altri due (funzionale e personale).

Si può così rivolgere al neo-costituzionalismo la stessa obiezione fatta al normativismo: che è una coperta troppo corta. Ad esempio la legittimità è generalmente concepita in primo luogo come opinione dei governati sul diritto che ha chi governa, di governare: in un regime democratico, gli eletti dal popolo. Ma nel “governo dei giudici” e così delle Corti costituzionali, il principio democratico è debolmente presente, perché la composizione di queste è rapportabile solo mediatamente, parzialmente e indirettamente alla volontà (e decisione) del popolo, espressa dal corpo elettorale[8]. La legittimità democratica delle corti è assai gracile, mentre lo è, ben più robusta, quella degli organi i cui atti le corti devono controllare: parlamenti e governi. E così è in gran parte delle costituzioni moderne.

D’altra parte il neo-costituzionalismo identifica la Costituzione con la “tavola dei valori” espressa nelle norme della costituzione formale; per cui è costituzionale ciò che è a quella conforme. Se tuttavia per costituzione s’intende l’ordinamento dell’unità politica, costituzionale (o meno) non è tanto il conforme a principi o valori ma ciò che è conforme all’esistenza (in suo esse perseverari) della sintesi politica. In fondo questo opposto concetto di costituzione (o meglio di essenza della costituzione) dura ormai da due secoli. A chi riduceva la Costituzione a norme ed ai principi dello Stato borghese (M.me de Staël, ma tale concezione era condivisa dai rivoluzionari dell’89 – v. art. 16 Dichiarazione dei diritti del 1789), Louis de Bonald replicava che la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza[9].

Per cui è costituzionale quello che conserva e fa durare l’unità (la sintesi) politica. Cioè qualcosa di essenzialmente estraneo alla funzione giudiziaria.

Radbruch contrappone il dovere del governante e quello del giudice, in due (notissime) espressioni latine: per il primo l’imperativo consiste in  salus rei publicae supema lex; per il secondo fiat iustitia pereat mundus.

Con la conseguenza che se il primo adotta come regola di condotta la massima del secondo, è un cattivo governante; se il secondo quella del primo, un pessimo giudice. Ciò non toglie che potrebbero essere dei buoni giudici i primi, e dei buoni governanti i secondi. Ma hanno il limite di trovarsi nel posto sbagliato.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

Louis Maria Bandieri, nato a Buenos Aires nel 1945, è professore titolare ordinario di dottorato e post-dottorato all’Università cattolica argentina (UCA) “Santa Maria de los Buenos Aires”. Dottore in diritto e scienze giuridiche, è l’autore di numerose opere e di molti articoli dedicati a temi giuridici. Ha tenuto corsi e conferenze in diverse università latino-americane ed europee (tra cui l’Università di Orlèans). Studioso del pensiero di Carl Schmitt, attualmente sta lavorando alla teoria del federalismo.

(*) Si ringrazia il Prof. Bandieri per aver consentito alla traduzione e pubblicazione del saggio, apparso su “Nouvelle École”, rivista della quale si ringrazia il Direttore Alain De Benoist per aver concesso la traduzione.

[1] n. 62, anno 2013 p. 154.

[2] v., tra gli altri, Aldo Schiavello Neocostituzionalismo o Neocostituzionalismi? www.filosofico.net; Lo Stato costituzionale dei diritti; G. Bongiovanni La teoria costituzionalistica del diritto di Ronald Dworkin – tutti reperibili in rete

[3] Si noti che Machiavelli usa il paragone del Centauro proprio in relazione al rapporto, si direbbe oggi, tra forza e diritto “Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con la legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente dalli antichi scriptori, li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altri, avere per preceptore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna ad uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile”, Principe, cap. XVIII.

[4] Con una forzatura: quello previsto nella Dichiarazione di Yalta era un intervento delle potenze vincitrici; quelli eseguiti nell’Europa dell’Est erano azioni militari decise da uno solo dei vincitori della seconda guerra mondiale.

[5] Un acuto teologo e giurista come Francisco Suarez scriveva “Unde, quod quidam aiunt, supremos reges habere potestatem ad vindicandas iniurias totius orbis, est omnino falsum, et confundit omnem ordinem, et distinctionem iurisdictionum: talis enim potestas, neque a Deo data est, nequa ex ratione colligitur”; per cui justa causa della guerra è la tutela dei diritti dello Stato (e dei cittadini di questo), ma non la difesa dei diritti di altri, peraltro contro altri Stati, v. De charitate, disp. 13 De Bello.

[6] v. M Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 34 ; v. anche pp., 8 ss. 62, 69, 71, 75.

[7] v. L’ordinamento giuridico rist. Firenze 1967, p. 15.

[8] Tant’è che – solo per ricordare che nella Costituzione italiana nessuno dei componenti è scelto con elezione popolare. Un terzo è scelto dalle magistrature superiori, cioè da poteri burocratici; un terzo dal Presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, ma “mediato” dalle Camere; il terzo, il più vicino al corpo elettorale, lo è indirettamente e mediatamente essendo eletto dalle Camere. Anche se ci sono valide ragioni per non eleggere a suffragio popolare i componenti della Corte, resta il fatto che comunque, in una Repubblica democratica e il cui la sovranità appartiene al popolo, l’organo costituzionale più distante dal popolo è proprio quello deputato a giudicare le leggi (deliberate dal Parlamento, ad investitura popolare diretta). Il deficit di democrazia e conseguentemente di legittimità, è evidente.

[9] Observations sur l’ouvrage de Mme la Baronne de Staël…, trad. it. col titolo La costituzione come esistenza, Roma 1985, p. 35.

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE, di Luigi Longo

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE

(a cura di) Luigi Longo

Le donne sono strane creature, anche quelle provviste di molta intelligenza.

 

Karl Marx*

                            Il mio problema è capire come mai la donna non arriva al punto

                            di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo.

                            Siccome sento che le coscienze sono due, non è una, però poi di

                            fatto ce n’è solo una e quell’una va a ruota libera come se l’altra

                            non ci fosse e l’altra si comporta come se non ci fosse davvero.

Carla Lonzi**

                            Ma perché gli uomini che nascono

                            Sono figli delle donne

                            Ma non sono come noi

                            […] gli uomini che cambiano

                            Sono quasi un ideale che non c’è

                                                         Mia Martini***

 

Una piccola premessa

Quando con Giuseppe Germinario parlammo della impostazione del blog Italiaeilmondo e della sua grafica proposi che non si potesse più pensare a un blog senza tenere conto che in tutto il mondo siamo sempre in due (1) e che dovevamo far diventare possibilità ciò che oggi è necessità della relazione con il pensiero femminile, nelle sue diverse articolazioni (2), per capire, interpretare, trasformare e creare un senso della vita.

Posso affermare, in estrema sintesi, che nella tradizione marxiana e marxista non c’è traccia di relazione profonda con il pensiero femminile, e questo è un’assenza che va capita storicamente e va colmata per creare le condizioni per la costruzione, teorica e pratica, di un ordine simbolico sessuato che aprirebbe nuovi orizzonti e nuove visioni del legame sociale della società data. Parafrasando lo storico Carlo Maria Cipolla (che parla di un’epoca di grandi cambiamenti scaturiti dalla rivoluzione industriale) posso dire che qualunque sia il giudizio o la critica assunti, si trova in corrispondenza della creazione del soggetto sessuato della storia un salto che non ha precedenti nella storia: un salto che introduce a un mondo completamente nuovo (3).

Lo spirito di ricerca è quello descritto efficacemente sia da Karl Marx:<< Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti>> (4), sia di Gianfranco La Grassa:<< Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo [ periodo trascorso dalla pubblicazione del primo libro de Il Capitale curato direttamente da K. Marx,

1867-2017, precisazione e corsivo miei] di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare attestati alla fonda dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi del viaggio, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale rotta effettiva si sta seguendo. Si può consultare la bussola quanto si vuole; se gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito (5) […] Ovviamente, non ho visitato tutti i moli, tutti i docks e quant’altro ci sia. Ne ho solo tratteggiato uno schizzo e soprattutto mi sono concentrato sulla “insenatura” in cui è situato, per ben individuare quel rapporto sociale che è il capitale, secondo la nota formula marxiana. Se non si conosce questa insenatura, si salpa sbagliando rotta e ci s’incaglia fin da subito. E’ invece necessario, dopo un secolo e mezzo, prendere il mare; magari credendo di andare verso le Indie. Ci si augura che in seguito qualcun altro, assumendo il comando delle navi, si troverà magari nelle Americhe.>> (6).

 

Perché proporre un saggio di Nancy Fraser

Ho proposto il saggio di Nancy Fraser (7) perché è una buona base di discussione dove viene avanzata una analisi storica sul capitalismo liberale concorrenziale del XIX° secolo, sul capitalismo regolato dallo Stato nel XX° secolo e sul capitalismo finanziarizzato nell’epoca attuale. E’ un saggio che attraverso le lotte di confine tra economia e politica, tra società e natura, tra produzione e riproduzione propone una periodizzazione all’interno delle tre fasi storiche incentrate sulla casalinghizzazione, sul fordismo e salario familiare, sulle famiglie bireddito.

Di Nancy Fraser non condivido la lettura fondamentalmente economicistica nonchè la concezione dello stato, della finanza e del ruolo delle classi lavoratrici; non mi convince il suo saggio soprattutto perché non affronta il problema, fondante e di grande attualità, che invece si poneva Carla Lonzi cioè quello di capire come mai la donna non arriva al punto di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo con cui creare un’altra sintesi di ordine simbolico sessuato espressione di due soggettività differenti; per me questo scritto di Nancy Fraser resta una lettura stimolante finalizzata ad iniziare una relazione con il pensiero femminile critico (8).

Inoltre la pubblicazione del saggio di Nancy Fraser è propedeutica ai prossimi miei due scritti che riguarderanno a) Il conflitto strategico e la mossa del cavallo. Appunti di ricerca e b) Il conflitto strategico, una buona base per la costruzione dell’ordine simbolico sessuato. Tempo e spazio della ricerca.

 

 CHI E’NANCY FRASER

 Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista statunitense, è docente di filosofia e politica alla New School for Social Research, a New York, Einstein Fellow della città di Berlino e titolare della cattedra “Giustizia globale” al College d’ètudes mondiales di Parigi.

 EPIGRAFI

 * Karl Marx, Lettera a Engels del 28 gennaio 1863 in Marx-Engels, Carteggio, Volume quarto (1861-1866), Editori Riuniti, Roma, 1972, pag.158.

** Carla Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1980, p.13.

*** Mia Martini, Gli uomini che non cambiano, www.angolotesti.it ,1992.

 NOTE

 

  1. E’ il titolo del libro di Luce Irigaray, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006.
  2. Per una introduzione al pensiero femminista si veda Franco Restaino-Adriana Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999.
  3. Carlo Maria Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, il Mulino, Bologna, 2002, pag.419.
  4. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, pp.7-8.
  5. Gianfranco La Grassa, Il capitale non è cosa ma rapporto sociale, www.conflittiestrategie.it, 5/8/2011.
  6. Gianfranco La Grassa, Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015, pag.79.
  7. Nancy Fraser, Le contraddizioni del capitale e del lavoro di cura in www.ilrasoiodioccammicromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/12/11/contraddizioni-del-capitale-e-del-lavoro-di-cura .
  8. Per un approfondimento delle questioni trattate nel saggio si rimanda a Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre Corte, Verona, 2014; Idem, Oltre l’ambivalenza: la nuova sfida del femminismo in Scienza & Politica n.54/2016, pp.87-102.

 

LE CONTRADDIZIONI DEL CAPITALE E DEL ‘LAVORO DI CURA’

di NANCY FRASER*

Senza tutto quello che va comunemente sotto il nome di ‘lavoro di cura’ – mettere al mondo e crescere bambini, occuparsi di amici e familiari eccetera – non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Ma tutti questi processi di ‘riproduzione sociale’ – storicamente assegnati al lavoro delle donne – vivono oggi una profonda crisi. Una crisi che, secondo Nancy Fraser, autrice insieme ad Axel Honneth di Redistribuzione o riconoscimento?, è espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato, che da un lato dipende da questo lavoro di cura per la produzione economica e dall’altro tende a penalizzare quelle stesse capacità riproduttive di cui ha bisogno.

* * *

La «crisi della cura» è oggi un argomento centrale nel dibattito pubblico[1]. Spesso associata alle idee di «mancanza di tempo», «conciliazione lavoro-famiglia» e «impoverimento sociale», fa riferimento alle pressioni che, da più direzioni, stanno attualmente limitando un insieme fondamentale di capacità sociali: mettere al mondo e crescere bambini, prendersi cura di amici e familiari, sostenere famiglie e più ampie comunità, e più in generale mantenere legami[2]. Storicamente, questi processi di «riproduzione sociale» sono stati assegnati al lavoro delle donne, anche se gli uomini ne hanno sempre svolto una parte. Si tratta di un lavoro sia affettivo che materiale, spesso svolto senza retribuzione, indispensabile alla società. In sua assenza non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Nessuna società che indebolisca sistematicamente la riproduzione sociale può resistere a lungo. Oggi, tuttavia, una nuova forma di società capitalistica sta facendo proprio questo. Il risultato è una crisi profonda, non semplicemente della cura, ma della riproduzione sociale in senso lato.

Considero questa crisi come un aspetto di una «crisi generale» che include anche componenti economiche, ecologiche e politiche, le quali si intersecano e aggravano l’un l’altra. La componente relativa alla riproduzione sociale costituisce una dimensione importante di questa crisi generale, ma è spesso trascurata nelle discussioni attuali, che si concentrano soprattutto sui pericoli economici o ecologici. Questo «separatismo critico» è problematico; la componente sociale svolge un ruolo tanto centrale nella crisi più ampia che nessuna delle altre può essere compresa senza tenerne conto. Tuttavia, è vero anche il contrario. La crisi della riproduzione sociale non è indipendente e non può essere adeguatamente compresa da sola. Come intenderla allora? Ritengo che la «crisi della cura» sia meglio interpretata come espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato. Ciò suggerisce due idee. In primo luogo, le attuali pressioni sulla cura non sono casuali, ma hanno profonde radici sistemiche nella struttura del nostro ordine sociale, che chiamo qui capitalismo finanziarizzato. Nonostante ciò, e questo è il secondo punto, l’attuale crisi della riproduzione sociale indica un che di viziato non solo nell’attuale forma finanziarizzata del capitalismo, ma nella società capitalistica in quanto tale.

La mia tesi è che ogni forma di società capitalistica nutra una profonda «tendenza alla crisi» o contraddizione sociale-riproduttiva: da un lato, la riproduzione sociale è una condizione di possibilità per l’accumulazione continua di capitale; dall’altro, la propensione del capitalismo all’accumulazione illimitata tende a destabilizzare i processi di riproduzione sociale da cui pure dipende. Questa contraddizione sociale-riproduttiva del capitalismo è alla radice della cosiddetta crisi della cura. Benché intrinseca al capitalismo in quanto tale, assume un carattere diverso e distintivo in ogni forma storicamente specifica di società capitalistica – nel capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo; nel capitalismo regolato dallo Stato del dopoguerra; e nel capitalismo neoliberale finanziarizzato del nostro tempo. I deficit di cura che oggi viviamo sono la forma che assume questa contraddizione nella sua terza, più recente fase dello sviluppo capitalistico.

Per sviluppare questa tesi, propongo in primo luogo un quadro della contraddizione sociale del capitalismo in quanto tale, nella sua forma generale. In secondo luogo, tratteggio le linee del suo dispiegamento storico nelle due fasi iniziali dello sviluppo capitalistico. Infine, suggerisco una lettura dei «deficit di cura» odierni come espressioni della contraddizione sociale del capitalismo nella sua fase finanziarizzata attuale.

Trarre vantaggio dal mondo della vita

Gran parte degli analisti della crisi contemporanea si concentrano sulle contraddizioni interne del sistema economico capitalistico. Nel suo cuore, sostengono, opera una tendenza radicata all’autodestabilizzazione, che si esprime periodicamente nelle crisi economiche. Fino a un certo punto, questa interpretazione è corretta; ma non prevede un quadro completo delle tendenze alla crisi intrinseche al capitalismo. Adottando una prospettiva economicistica, intende il capitalismo in modo troppo restrittivo, come un sistema economico simpliciter. Al contrario, intendo assumere una lettura più ampia del capitalismo, comprensiva sia dell’economia ufficiale sia delle sue condizioni «non-economiche» di sfondo. Una simile prospettiva ci consente di concettualizzare, e criticare, lo spettro complessivo delle tendenze alla crisi del capitalismo, incluse quelle riguardanti la riproduzione sociale.

Sostengo che il sottosistema economico capitalistico dipenda da attività sociali riproduttive esterne ad esso, le quali costituiscono una delle sue condizioni di possibilità fondamentali. Altre condizioni di sfondo comprendono le funzioni di governance dei pubblici poteri e la disponibilità della natura come fonte di «input produttivi» e come «canale di scarico» per gli scarti della produzione[3]. Qui, tuttavia, mi concentrerò sul modo in cui l’economia capitalistica dipende da – ma si potrebbe dire, approfitta di – attività di sostentamento, cura e interazione che producono e mantengono i legami sociali, benché non accordi loro alcun valore monetario e li tratti come se fossero gratuiti. Variamente denominata «cura», «lavoro affettivo» o «soggettivazione», quest’attività forma i soggetti umani del capitalismo, li sostiene come esseri naturali incarnati e li costituisce come esseri sociali, formando il loro habitus e l’ethos culturale in cui si muovono. Il lavoro di mettere al mondo e di socializzare i giovani svolge un ruolo centrale in questo processo, almeno quanto prendersi cura degli anziani, mantenere la sfera familiare, costruire la comunità e sostenere significati comuni, disposizioni affettive e orizzonti di valore che sono alla base della cooperazione sociale. Nelle società capitalistiche, gran parte di queste attività, benché non tutte, si svolge al di fuori del mercato – nelle case, nei quartieri, nelle associazioni della società civile, nelle reti informali e nelle istituzioni pubbliche come la scuola, e relativamente poche fra di esse prendono la forma del lavoro salariato. L’attività sociale-riproduttiva non pagata è necessaria all’esistenza del lavoro pagato, all’accumulazione di plusvalore e al funzionamento del capitalismo in quanto tale. Nulla di tutto questo potrebbe esistere in assenza del lavoro domestico, dell’educazione dei bambini, dell’istruzione scolastica, della cura affettiva e di una quantità di altre attività che servono a produrre nuove generazioni di lavoratori e a riprodurre le esistenti, nonché a mantenere legami sociali e visioni comuni. La riproduzione sociale è una condizione di sfondo indispensabile per la possibilità della produzione economica nella società capitalistica[4].

Tuttavia, almeno a partire dall’epoca industriale, le società capitalistiche hanno separato il lavoro di riproduzione sociale dal lavoro di produzione economica. Associando il primo alle donne e il secondo agli uomini, hanno ripagato le attività «riproduttive» con la moneta dell’«amore» e della «virtù», continuando a compensare il «lavoro produttivo» in denaro. In questo modo, le società capitalistiche hanno posto i fondamenti istituzionali per nuove, moderne forme di subordinazione delle donne. Separando il lavoro riproduttivo dal più vasto universo delle attività umane, in cui il lavoro delle donne occupava in precedenza un posto riconosciuto, lo hanno relegato in una «sfera domestica» di nuova istituzione, la cui importanza sociale è stata occultata. E in questo nuovo mondo, in cui il denaro è diventato il principale mezzo di potere, il carattere non remunerato del lavoro delle donne ne ha segnato il destino: chi svolge questo lavoro è in una posizione di subordinazione strutturale a chi guadagna salari in denaro, anche se soddisfa una precondizione necessaria per il lavoro salariato stesso – e viene saturato e mistificato con i nuovi ideali domestici di femminilità.

In generale, quindi, le società capitalistiche separano la riproduzione sociale dalla produzione economica, associando la prima alle donne e oscurando la sua importanza e il suo valore. Paradossalmente, tuttavia, esse rendono le loro economie ufficiali dipendenti proprio dagli stessi processi di riproduzione sociale il cui valore disconoscono. Questa peculiare relazione di separazione-dipendenza-disconoscimento è intrinseca fonte di instabilità: da un lato, la produzione economica capitalistica non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta all’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare gli stessi processi e le capacità riproduttive di cui il capitale – e tutti noi – abbiamo bisogno. Nel tempo, come vedremo, ciò può compromettere le condizioni sociali indispensabili all’economia capitalistica. Qui, in effetti, risiede una «contraddizione sociale» intrinseca alla struttura profonda del capitalismo. Come le contraddizioni economiche evidenziate dai marxisti, anche questa è alla base di una tendenza alla crisi. In questo caso, però, la contraddizione non si colloca «all’interno» dell’economia capitalistica, bensì sul confine che separa e al contempo unisce produzione e riproduzione. Né intra-economica né intra-domestica, si tratta di una contraddizione fra questi due elementi costitutivi della società capitalistica. Spesso, beninteso, questa contraddizione è sopita, e la connessa tendenza alla crisi rimane nascosta. Si fa acuta, tuttavia, quando la spinta del capitale all’accumulazione si rende avulsa dalle sue basi sociali, rivoltandosi contro di esse. In questo caso, la logica della produzione economica prevale su quella della riproduzione sociale, destabilizzando i processi da cui dipende il capitale – a risultarne compromesse sono allora le capacità sociali, sia domestiche che pubbliche, indispensabili per sostenere l’accumulazione nel lungo periodo. Distruggendo le condizioni della sua stessa esistenza, la dinamica accumulativa del capitale finisce di fatto per mangiarsi la coda.

Realizzazioni storiche

Questa è la struttura della generale tendenza alla crisi sociale del «capitalismo in quanto tale». Tuttavia, la società capitalistica esiste solo in forme o regimi di accumulazione storicamente specifici. Infatti, l’organizzazione capitalistica della riproduzione sociale ha subìto importanti mutazioni storiche, spesso come esito di contestazioni politiche – in particolare nei periodi di crisi, quando gli attori sociali lottano sui confini che delimitano l’«economia» dalla «società», la «produzione» dalla «riproduzione», il «lavoro» dalla «famiglia», talvolta riuscendo a ridisegnarli. Queste «lotte di confine», come le ho definite, sono tanto essenziali alle società capitalistiche quanto lo sono le lotte di classe analizzate da Marx, e i cambiamenti che producono segnano trasformazioni epocali[5]. Una prospettiva che ponga in primo piano questi cambiamenti può distinguere almeno tre regimi di articolazione della coppia «riproduzione sociale-produzione economica» nella storia del capitalismo.

  • Il primo è il regime del capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. Combinando sfruttamento industriale nel centro europeo ed espropriazione coloniale nella periferia, questo regime si è caratterizzato per la tendenza a lasciare i lavoratori riprodursi «autonomamente», al di fuori dei circuiti di valore monetizzato, mentre gli Stati si tenevano in disparte. Tuttavia, esso ha anche creato un nuovo immaginario borghese di vita domestica. Facendo della riproduzione sociale la provincia delle donne nella famiglia privata, questo regime ha elaborato l’ideale delle «sfere separate», proprio mentre ha privato gran parte delle persone delle condizioni necessarie alla sua realizzazione.
  • Il secondo regime è quello del capitalismo regolato dallo Stato del XX secolo. Basato su produzione industriale di massa e consumismo domestico al centro, e sostenuto dalla continua espropriazione coloniale e postcoloniale alla periferia, questo regime ha internalizzato la riproduzione sociale attraverso lo Stato e le prestazioni sociali aziendali. Modificando il modello vittoriano delle sfere separate, ha promosso l’ideale apparentemente più moderno del «salario familiare», anche se, ancora una volta, relativamente poche famiglie erano nelle condizioni di raggiungerlo.
  • Il terzo regime è il capitalismo finanziarizzato globale dell’epoca attuale. Questo regime ha delocalizzato la produzione manufatturiera in regioni a bassi costi salariali, ha reclutato le donne nelle forza lavoro pagata e incoraggiato il disinvestimento statale e aziendale dalla protezione sociale. Esternalizzando il lavoro di cura su famiglie e comunità, ha contemporaneamente diminuito la loro capacità di sostenerlo. In un contesto di crescente diseguaglianza, il risultato è un’organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, ricondotta al privato familiare per quelli che non possono – il tutto contornato dall’ideale ancora più moderno della «famiglia bireddito».

In ogni regime, dunque, le condizioni sociali-riproduttive per la produzione capitalistica hanno assunto una forma istituzionale e incarnato un ordine normativo differenti: prima le «sfere separate», poi «il salario familiare», ora la «famiglia bireddito». In ciascun caso, inoltre, la contraddizione sociale della società capitalistica ha assunto un profilo diverso, trovando espressione in un insieme eterogeneo di fenomeni di crisi. In ogni regime, infine, la contraddizione sociale del capitalismo ha provocato diverse forme di lotta sociale – lotte di classe, senz’altro, ma anche lotte di confine – le quali si sono intrecciate anche con altre lotte, per l’emancipazione di donne, schiavi e popoli colonizzati.

“Casalinghizzazione”

Consideriamo anzitutto il capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. In quest’epoca, gli imperativi di produzione e riproduzione sembravano stare in aperta contraddizione l’uno con l’altro. Nei primi centri manufatturieri del nucleo capitalista, gli industriali costrinsero donne e bambini nelle fabbriche e nelle miniere, avidi di lavoro a basso costo e data la loro reputazione di docilità. Pagate una miseria e costrette a lavorare per molte ore in condizioni malsane, queste lavoratrici diventarono il simbolo del disprezzo del sistema capitalistico per le relazioni e le capacità sociali alla base della sua produttività[6]. Ne seguì una crisi su almeno due livelli: da un lato, una crisi della riproduzione sociale fra poveri e classi lavoratrici, le cui capacità di sostentamento e riproduzione giunsero al collasso; dall’altro, un senso di panico morale fra le classi medie, scandalizzate da quella che ai loro occhi era la «distruzione della famiglia» e la «de-sessuazione» delle donne della classe operaia. La situazione era grave al punto che anche critici tanto acuti come Marx ed Engels fraintesero questi primi conflitti frontali fra produzione economica e riproduzione sociale: credendo che il capitalismo fosse entrato nella sua crisi terminale, essi pensavano che, nel distruggere la famiglia proletaria, il sistema stesse anche sradicando le basi dell’oppressione delle donne[7]. Ma quel che stava accadendo era in realtà proprio il contrario: nel corso del tempo, le società capitalistiche trovavano risorse per gestire questa contraddizione – in parte creando «la famiglia» nella sua ristretta forma moderna, reinventando e intensificando le differenze di genere, e modernizzando il dominio maschile.

In Europa, il processo ebbe inizio con l’adozione di una legislazione protettiva. L’idea era di stabilizzare la riproduzione sociale limitando lo sfruttamento di donne e bambini nel lavoro di fabbrica[8]. Guidata dai riformisti della classe media in alleanza con le nascenti organizzazioni dei lavoratori, questa «soluzione» rifletteva un amalgama complesso di motivazioni eterogenee. Un obiettivo, descritto com’è noto da Karl Polanyi, consisteva nel difendere la «società» dall’«economia»[9]. Un altro obiettivo consisteva nel placare l’ansia per il «livellamento di genere». Ma queste ragioni si legavano anche a qualcos’altro: l’importanza assegnata all’autorità maschile su donne e bambini, in particolare all’interno della famiglia[10]. Di conseguenza, la lotta per garantire l’integrità della riproduzione sociale finì per intrecciarsi con la difesa del dominio maschile.

L’effetto voluto, tuttavia, era di mettere a tacere la contraddizione sociale nel centro capitalistico – proprio mentre la schiavitù e il colonialismo nella periferia la portavano all’estremo. Creando quella che Maria Mies ha chamato «casalinghizzazione» (housewifization), intesa come l’altra faccia della colonizzazione[11], il capitalismo liberale concorrenziale diede forma a un nuovo immaginario di genere incentrato sulle sfere separate. Rappresentando la donna come «l’angelo del focolare», i suoi sostenitori erano alla ricerca di un’àncora di stabilità che controbilanciasse la volatilità dell’economia. Lo spietato mondo della produzione andava affiancato da un «paradiso in un mondo senza cuore»[12]. Finché ogni lato si atteneva alla sua designata sfera, fungendo da complemento dell’altro, il loro potenziale conflitto sarebbe rimasto nascosto.

In realtà, questa «soluzione» si rivelò piuttosto precaria. La legislazione protettiva non poteva assicurare la riproduzione del lavoro se i salari rimanevano al di sotto del livello necessario a sostenere una famiglia, se le abitazioni affollate e immerse nell’inquinamento impedivano la vita privata e causavano malattie polmonari, se l’occupazione stessa (quando disponibile) era soggetta a fluttuazioni selvagge dovute a bancarotte, crolli di mercato e panico finanziario. Neanche i lavoratori erano soddisfatti di questo compromesso. Mobilitandosi per salari più alti e migliori condizioni di lavoro, formarono sindacati, organizzarono scioperi e aderirono a partiti socialisti e laburisti. Lacerato da un conflitto di classe sempre più acuto ed esteso, il futuro del capitalismo sembrava tutto fuorché garantito.

Le sfere separate si rivelarono anch’esse problematiche. Le donne povere e razzializzate della classe operaia non erano certo nella posizione per soddisfare gli ideali vittoriani di vita domestica; se la legislazione protettiva mitigava il loro sfruttamento diretto, non offriva loro alcun supporto materiale o compensazione per la perdita del salario. Neanche le donne della middle-class, che avevano i mezzi per conformarsi agli ideali vittoriani, erano soddisfatte della loro situazione, che combinava comodità materiale e prestigio morale con lo stato di minorità legale e dipendenza istituzionalizzata. Per entrambi i gruppi, la «soluzione» delle sfere separate si realizzava in gran parte a spese delle donne. Ma finì anche per metterle le une contro le altre – come testimoniano le lotte del XIX secolo sulla prostituzione, in cui le preoccupazioni filantropiche delle donne della middle-class vittoriana confliggevano con gli interessi materiali delle loro «sorelle perdute»[13].

Una dinamica diversa aveva luogo alla periferia. Lì, poiché il colonialismo estrattivo saccheggiava popolazioni soggiogate, né le sfere separate né la protezione sociale godevano di alcun credito. Lungi dal tentare di proteggere le relazioni locali di riproduzione sociale, i poteri delle metropoli incoraggiavano attivamente la loro distruzione. Le popolazioni rurali furono depredate e le loro comunità distrutte per fornire cibo a basso costo, tessuti, minerali ed energia, senza i quali lo sfruttamento dei lavoratori industriali delle metropoli non sarebbe stato redditizio. Nelle Americhe, intanto, le capacità riproduttive delle donne ridotte in schiavitù furono asservite ai calcoli di profitto dei piantatori, che regolarmente distruggevano le famiglie di schiavi vendendone i membri a più proprietari[14]. Anche i bambini nativi furono strappati dalle comunità, reclutati in scuole missionarie e sottomessi a discipline coercitive di assimilazione[15]. Quando si rendevano necessarie delle giustificazioni, lo stato «retrogrado, patriarcale» delle collettività parentali indigene pre-capitalistiche serviva alquanto bene allo scopo. Anche qui, fra i colonialisti, le donne filantrope fecero sentire pubblicamente la loro voce, esortando «gli uomini bianchi a salvare le donne scure dagli uomini scuri»[16].

Tanto al centro quanto alla periferia, i movimenti femministi si trovarono a negoziare un campo politico minato. Nel rifiutare la tutela maritale e le sfere separate e nel rivendicare il diritto di voto, il rifiuto del sesso, l’ accesso alla proprietà, il diritto a stipulare contratti, a svolgere professioni ed esercitare un controllo sui propri salari, le femministe liberali sembravano dare più valore all’aspirazione «maschile» all’autonomia che agli ideali «femminili» di cura. E su questo punto, come su poco altro, le loro controparti socialiste-femministe in effetti concordavano. Considerando l’ingresso delle donne nel lavoro salariato come la strada verso l’emancipazione, anche queste ultime preferivano i valori «maschili» della produzione a quelli legati alla riproduzione. Queste associazioni erano senz’altro ideologiche, ma celavano un’intuizione profonda: nonostante le nuove forme di dominio che portava con sé, l’erosione delle relazioni di parentela tradizionali da parte del capitalismo conteneva un momento di emancipazione.

Intrappolate in questa contraddizione, molte femministe trovarono scarsa consolazione su entrambi i lati del doppio movimento di Polanyi: quello della protezione sociale, con il suo corollario di dominio maschile, e quello della logica di mercato, con il suo disprezzo per la riproduzione sociale. Incapaci tanto semplicemente di rifiutare quanto di accettare l’ordine liberale, avevano bisogno di una terza alternativa, che chiamarono emancipazione. Nella misura in cui le femministe furono capaci di impersonare quel termine, fecero effettivamente saltare la figura dualistica polanyiana, sostituendola con quello che potremmo chiamare un «triplo movimento». In questo conflitto su tre fronti, le sostenitrici della protezione e della mercatizzazione si scontravano non solo fra di loro, ma anche con chi difendeva l’emancipazione: con le femministe, certo, ma anche con socialisti, abolizionisti e anticolonialisti, i quali si sforzavano di mettere le due forze polanyiane l’una contro l’altra, proprio mentre si scontravano fra di loro. Per quanto in teoria promettente, una simile strategia era difficile da realizzare. Finché gli sforzi di «proteggere la società dall’economia» si confondevano con la difesa della gerarchia di genere, l’opposizione femminista al dominio maschile poteva facilmente essere accusata di avallare le forze economiche che stavano distruggendo la classe operaia e le comunità della periferia. Queste associazioni si sarebbero rivelate sorprendentemente durevoli, molto tempo dopo il collasso del capitalismo liberale concorrenziale sotto il peso delle sue molteplici contraddizioni, nell’agonia di guerre inter-imperialistiche, depressioni economiche e caos finanziario internazionale – aprendo la strada a un nuovo regime nella metà del XX secolo, quello del capitalismo regolato dallo Stato.

Fordismo e salario familiare

Emergendo dalle ceneri della Grande Depressione e della seconda guerra mondiale, il capitalismo regolato dallo Stato disinnescava la contraddizione fra produzione economica e riproduzione sociale in un altro modo – affidandosi al potere dello Stato sul lato della riproduzione. Assumendosi qualche responsabilità pubblica per la «previdenza sociale», gli Stati di quest’epoca cercarono di contrastare gli effetti corrosivi sulla riproduzione sociale non solo dello sfruttamento, ma anche della disoccupazione di massa. Tale obiettivo fu perseguito dagli Stati socialdemocratici del centro capitalistico e dagli Stati in via di sviluppo della periferia da poco indipendenti – nonostante le diseguali capacità di realizzarlo.

Le ragioni erano, ancora una volta, eterogenee. Un gruppo di élite illuminate era giunto a credere che l’interesse a breve termine del capitale nello spremere massimi profitti andasse subordinato all’esigenza più a lungo termine di sostenere l’accumulazione nel corso del tempo. L’istituzione del regime regolato dallo Stato rispondeva all’esigenza di salvare il sistema capitalistico dalle sue stesse propensioni a destabilizzarsi – nonché dallo spettro della rivoluzione in un’epoca di mobilitazioni di massa. La produttività e la ricerca del profitto richiedevano la coltivazione «biopolitica» di una forza lavoro in salute e istruita dotata di un interesse nel sistema, in opposizione alla cenciosa folla rivoluzionaria[17]. L’investimento pubblico in sanità, istruzione, servizi per l’infanzia e pensioni, con la partecipazione finanziaria delle imprese, era percepito come una necessità in un’epoca in cui i rapporti capitalistici avevano penetrato la vita sociale al punto che le classi lavoratrici non avevano più i mezzi per riprodurre se stesse in modo autosufficiente. In una tale situazione, la riproduzione sociale andava internalizzata, portata sotto il dominio ufficiale dell’ordine capitalista.

Il progetto rispondeva anche alla nuova problematica della «domanda» economica. Mirando ad appianare i cicli endemici di espansione e contrazione del capitalismo, i riformatori economici cercarono di assicurare la crescita continua consentendo ai lavoratori nel centro capitalista di assolvere a un doppio dovere di produttori e consumatori. Accettando la sindacalizzazione, che portava salari più alti, e la spesa pubblica, che creava occupazione, i decisori politici reinventarono ora la casa come uno spazio privato per il consumo domestico di oggetti di uso quotidiano prodotti in serie[18]. Legando la catena di montaggio al consumismo familiare della classe operaia da un lato, e alla riproduzione sostenuta dallo Stato dall’altro, tale modello fordista diede forma a una nuova sintesi di mercatizzazione e protezione sociale – progetti che Polanyi aveva considerato antitetici.

Ma furono soprattutto le classi lavoratrici – sia donne che uomini – a guidare la lotta per i servizi pubblici, agendo per proprie ragioni. In questione per loro era la piena appartenenza alla società come cittadini e cittadine democratici – quindi dignità, diritti, rispettabilità e benessere materiale, tutti elementi che erano intesi richiedere una vita familiare stabile. Appoggiando la socialdemocrazia, allora, le classi lavoratrici stavano anche valorizzando la riproduzione sociale contro il dinamismo divorante della produzione economica. In effetti, i lavoratori votavano per famiglia, territorio e mondo-della-vita contro fabbrica, sistema e macchine. Diversamente dalla legislazione protettiva del regime liberale, la politica del capitalismo regolato dallo Stato era il frutto di un compromesso di classe e rappresentava un progresso democratico. Diversamente dal regime precedente, inoltre, questi nuovi compromessi servirono, almeno per alcuni e per un po’ di tempo, a stabilizzare la riproduzione sociale. Per i lavoratori delle nazionalità maggioritarie dei paesi nel centro capitalista, esse alleviarono le pressioni materiali sulla vita familiare e favorirono l’integrazione politica.

Ma prima di affrettarci a proclamare un’età dell’oro, dovremmo tenere conto delle esclusioni costitutive che resero possibili questi risultati. Come in precedenza, la difesa della riproduzione sociale al centro si intrecciava con il (neo)imperialismo; i regimi fordisti finanziavano i diritti sociali in parte attraverso la continuazione dell’espropriazione della periferia – inclusa la «periferia nel centro» – che persisteva in vecchie e nuove forme dopo la decolonizzazione[19]. Nel frattempo, gli Stati postcoloniali stretti nella morsa della Guerra fredda diressero gran parte delle loro risorse, già impoverite dalla predazione imperiale, verso progetti di sviluppo su larga scala, che spesso comportavano l’espropriazione dei «propri» popoli indigeni. Per la grande maggioranza nella periferia la riproduzione sociale rimaneva esterna, dal momento che le popolazioni rurali furono abbandonate a loro stesse. Come il regime che lo aveva preceduto, anche il regime regolato dallo Stato si intrecciava con le gerarchie razziali: le assicurazioni sociali statunitensi escludevano lavoratori domestici e agricoli, di fatto tagliando fuori molti afroamericani dalle prestazioni sociali[20]. E la divisione razziale del lavoro riproduttivo, cominciata durante la schiavitù, assunse una nuova forma sotto Jim Crow, considerato che le donne di colore trovavano lavoro mal pagato crescendo i bambini e facendo le pulizie nelle case delle famiglie «bianche», a scapito delle loro[21].

Neanche la gerarchia di genere mancava in questo compromesso. In un periodo – approssimativamente dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Cinquanta – in cui i movimenti femministi non godevano di molta visibilità pubblica, difficilmente qualcuno contestava l’idea che la dignità proletaria richiedesse «il salario familiare», un’autorità maschile in casa e un forte senso della differenza di genere. Di conseguenza, la tendenza generale del capitalismo regolato dallo Stato nei paesi del centro era di valorizzare il modello eteronormativo, maschio-capofamiglia e donna-casalinga, della famiglia basata sul genere. L’investimento pubblico nella riproduzione sociale rafforzava queste norme. Negli Stati Uniti, il sistema previdenziale assumeva una forma duale, divisa in assistenza per donne povere («bianche») e bambini senza accesso a un salario maschile, da un lato, e un’assicurazione sociale considerata rispettabile per quelli che venivano costruiti come «lavoratori», dall’altro[22]. Invece, i provvedimenti europei rafforzavano la gerarchia androcentrica in modo diverso, nell’opposizione fra sussidi destinati alle madri e diritti legati al lavoro salariato – promossa in molti casi attraverso programmi a favore delle nascite nati dalla concorrenza fra Stati[23]. Entrambi i modelli legittimavano, assumevano e incoraggiavano il salario familiare. Istituzionalizzando una visione androcentrica della famiglia e del lavoro, essi naturalizzavano l’eteronormatività e la gerarchia di genere, sottraendoli ampiamente alla contestazione politica.

Sotto tutti questi aspetti, la socialdemocrazia sacrificava l’emancipazione in nome di un’alleanza fra protezione sociale e mercatizzazione, nonostante per molti decenni avesse mitigato la contraddizione sociale del capitalismo. Tuttavia, il regime di Stato capitalistico cominciava a disfarsi; prima politicamente, negli anni Sessanta, quando la New Left globale fece irruzione denunciando, in nome dell’emancipazione, le sue esclusioni imperialistiche, di genere e razziali, nonché il suo paternalismo burocratico; e poi economicamente, negli anni Settanta, quando la stagflazione, la «crisi di produttività», e il calo dei tassi di crescita nella produzione manufatturiera rinvigorirono gli sforzi neoliberali di dare il via libera alla mercatizzazione. Ad essere sacrificata nell’unione delle forze di queste due fazioni, sarebbe stata la protezione sociale.

Famiglie bireddito

Come il precedente regime liberale, l’ordine del capitalismo regolato dallo Stato si è dissolto nel corso di una lunga crisi. A partire dagli anni Ottanta, alcuni osservatori potevano distinguere precocemente i primi tratti di un nuovo regime, che sarebbe diventato il capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Questo regime, globalizzato e neoliberale, promuove il disinvestimento pubblico e privato dalla protezione sociale mentre recluta le donne nella forza lavoro pagata – esternalizzando il lavoro di cura verso le famiglie e le comunità nell’atto stesso di indebolire la loro capacità di realizzarlo. Il risultato è una nuova organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, e ricondotta al privato familiare per quelli che non possono, considerato che alcuni membri della seconda categoria offrono lavoro di cura ad alcuni membri della prima, in cambio di (bassi) salari. Nel frattempo, l’azione congiunta della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente spogliato «il salario familiare» di ogni credibilità. Quell’ideale ha aperto la strada alla norma contemporanea della «famiglia bireddito».

Il principale motore di questi sviluppi, nonché tratto distintivo del regime, è la nuova centralità del debito. Il debito è lo strumento attraverso cui le istituzioni globali finanziarie premono sugli Stati per tagliare la spesa sociale, imporre l’austerità, e in generale colludere con gli investitori nell’estrazione di valore da popolazioni inermi. Di più, è soprattutto attraverso il debito che i contadini nel Sud Globale sono spossessati da un nuovo giro di appropriazioni private del suolo, finalizzato a monopolizzare l’offerta di energia, acqua, terra coltivabile e delle «compensazioni per l’emissione di anidride carbonica». È sempre più attraverso il debito che procede anche l’accumulazione nel nucleo storico del capitalismo: dal momento che il lavoro precario e malpagato nei servizi sostituisce il lavoro sindacalizzato industriale, i salari cadono al di sotto dei costi socialmente necessari di riproduzione; in questa «economia dei lavoretti» («gig economy»), la spesa costante per i consumi richiede un’espansione del volume dei crediti al consumatore, che cresce in modo esponenziale[24]. È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, disciplina gli Stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore da case, famiglie, comunità e natura.

L’effetto è quello di intensificare la contraddizione insita nel capitalismo fra produzione economica e riproduzione sociale. Mentre il regime precedente consentiva agli Stati di subordinare gli interessi a breve termine delle aziende private all’obiettivo a lungo termine dell’accumulazione, in parte stabilizzando la riproduzione con le prestazioni pubbliche, questo regime autorizza il capitale finanziario a subordinare Stati e istituzioni agli interessi immediati degli investitori privati, non ultimo chiedendo il disinvestimento pubblico dalla riproduzione sociale. Se il regime precedente alleava la mercatizzazione con la protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera una configurazione anche più perversa, in cui l’emancipazione si unisce alla mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.

Il nuovo regime è emerso dalla fatale intersezione fra due insiemi di lotte. Un insieme opponeva una fazione ascendente di sostenitori del libero mercato, decisi a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro i movimenti dei lavoratori in declino nei paesi del centro; se in passato erano la base più forte di supporto alla socialdemocrazia, sono adesso sulla difensiva, se non del tutto sconfitti. L’altro insieme di lotte opponeva i «nuovi movimenti sociali» progressisti, che contestavano le gerarchie di genere, sesso, «razza», etnia e religione, contro popolazioni intenzionate a difendere mondi-della-vita  stabiliti e privilegi, ora minacciati dal «cosmopolitismo» della new economy. Dalla collisione di questi due insiemi di lotte è emerso un risultato inatteso: un neoliberalismo «progressista», che celebra la «diversità», la meritocrazia e l’«emancipazione» mentre smantella le protezioni sociali e ri-esternalizza la riproduzione sociale. La conseguenza non è solo l’abbandono delle popolazioni inermi alle predazioni del capitale, ma anche  la ridefinizione dell’emancipazione in termini di mercato[25]. Alcuni movimenti per l’emancipazione hanno partecipato a questo processo. Tutti – compresi i movimenti antirazzisti, multiculturalisti, per la liberazione LGBT e per l’ecologia – hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato. Ma la traiettoria femminista si è rivelata particolarmente fatale, dato il legame capitalistico di lunga data fra genere e riproduzione sociale. Come i regimi precedenti, il capitalismo finanziarizzato istituzionalizza la divisione produzione-riproduzione su una base di genere. Diversamente dai regimi precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberale-individualista ed egualitarista rispetto al genere: le donne sono considerate uguali agli uomini in ogni sfera, meritevoli di uguali opportunità per realizzare i loro talenti, compreso – forse in modo particolare – nella sfera della produzione. La riproduzione, per contro, appare come un residuo arretrato, un ostacolo al progresso da eliminare, in un modo o nell’altro, nella strada verso la liberazione.

A dispetto o forse a causa della sua aura femminista, questa concezione incarna l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume una nuova intensità. Oltre a ridurre le prestazioni pubbliche e ad assumere donne nel lavoro salariato, il capitalismo finanziarizzato ha abbassato i salari reali, così portando i membri dei nuclei familiari ad aumentare il numero di ore di lavoro pagato necessario a sostenere una famiglia, e spingendo a una corsa disperata per trasferire ad altri il lavoro di cura[26]. Per colmare il «divario della cura» (care gap), il regime importa lavoratrici migranti dalle nazioni più povere a quelle più ricche. Tipicamente, si tratta di donne razzializzate, spesso donne rurali provenienti da regioni povere che si fanno carico del lavoro riproduttivo e di cura che prima era svolto da donne più privilegiate. Ma per poterlo fare, le migranti devono trasferire le proprie responsabilità familiari e comunitarie ad altre lavoratrici della cura ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso – e così via, in sempre più lunghe «catene globali della cura». Lungi dal colmare il divario della cura, l’effetto netto è di delocalizzarlo – dalle famiglie più ricche alle più povere, dal Nord globale al Sud globale[27]. Questo scenario incontra le strategie di genere degli Stati postcoloniali a corto di denaro e indebitati, soggetti ai programmi di regolazione strutturale dell’FMI. Alla disperata ricerca di valuta forte, alcuni fra loro hanno promosso attivamente l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero lavoro di cura pagato e così beneficiare delle rimesse, mentre altri hanno corteggiato l’investimento estero diretto creando zone di trasformazione per l’esportazione, spesso nelle industrie, per esempio tessili o di elettronica, che preferiscono impiegare lavoratrici donne[28]. In entrambi i casi, le capacità sociali-riproduttive sono ulteriormente colpite.

Due recenti sviluppi negli Stati Uniti offrono un esempio della gravità della situazione. Il primo è la crescente popolarità del «congelamento degli ovuli», una procedura che normalmente costa 10 mila dollari, ma adesso offerta gratuitamente dalle aziende IT come beneficio aggiuntivo alle impiegate più qualificate. Impazienti di attirare e trattenere queste lavoratrici, aziende come Apple e Facebook offrono loro un forte incentivo a rimandare la gravidanza, dicendo, di fatto: «Aspetta e abbi i tuoi bambini a quaranta, cinquanta, o anche sessant’anni; dedica a noi i tuoi anni più produttivi, quelli in cui hai più energia»[29].

Un secondo sviluppo negli Stati Uniti è ugualmente sintomatico della contraddizione fra riproduzione e produzione: la proliferazione di tiralatte meccanici molto costosi ad alta tecnologia, per la raccolta del latte materno. Questa è la «soluzione» a cui ricorrere in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, privo di congedo obbligatorio di maternità o parentale, e una relazione d’amore con la tecnologia. Questo è un paese, inoltre, in cui l’allattamento al seno è de rigueur, ma è cambiato radicalmente, più di quanto venga riconosciuto. Non si tratta più di allattare un bambino al seno, ora «si allatta» raccogliendo il proprio latte meccanicamente e depositandolo per l’alimentazione con il biberon in un secondo momento da parte della tata. In un contesto caratterizzato da cronica mancanza di tempo, i tiralatte a doppia coppa che non richiedono l’uso delle mani sono considerati preferibili, perché permettono di raccogliere il latte contemporaneamente da entrambi i seni durante la guida in autostrada per andare al lavoro[30].

Date simili pressioni, c’è forse da stupirsi se negli ultimi anni sono esplose le lotte sulla riproduzione sociale? Le femministe del Nord spesso descrivono il fulcro delle loro rivendicazioni in termini di «conciliazione lavoro-famiglia»[31]. Ma le lotte sulla riproduzione sociale includono molto di più: movimenti comunitari per la casa, le cure sanitarie, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; lotte per i diritti di migranti, lavoratrici domestiche e impiegati pubblici; campagne per sindacalizzare le lavoratrici del settore dei servizi in case di cura, ospedali e centri per l’infanzia privati; lotte per i servizi pubblici come asili e centri per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta, per un generoso congedo di maternità e parentale pagato. Considerate insieme, queste rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una massiccia riorganizzazione del rapporto fra produzione e riproduzione: per delle soluzioni sociali che possano mettere persone di ogni classe, genere, sessualità e colore, nelle condizioni di coniugare attività sociali-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.

Le lotte sui confini della riproduzione sociale sono tanto centrali nell’attuale congiuntura quanto lo sono le lotte di classe per la produzione economica. Esse rispondono prima di tutto a una «crisi della cura» radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziarizzato. Globalizzato e alimentato dal debito, questo capitalismo sta espropriando sistematicamente le capacità disponibili per sostenere i legami sociali. Annunciando il nuovo ideale della famiglia bireddito, esso attira a sé movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai sostenitori della mercatizzazione per opporsi ai partigiani della protezione sociale, ora diventati sempre più risentiti e sciovinisti.

Un’altra mutazione?

Cosa potrebbe emergere da questa crisi? Nel corso della sua storia, la società capitalistica ha reinventato se stessa molte volte. Specie nei momenti di crisi generale, quando molteplici contraddizioni – politica, economica, ecologica e sociale-riproduttiva – si intrecciano e inaspriscono l’un l’altra, le lotte di confine sono esplose nelle giunture delle divisioni istituzionali costitutive del capitalismo: dove l’economia incontra la politica, dove la società incontra la natura, e dove la produzione incontra la riproduzione. Gli attori sociali si sono mobilitati su questi confini per ridisegnare la mappa istituzionale della società capitalistica. I loro sforzi hanno alimentato il passaggio prima dal capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo al capitalismo regolato dallo Stato del XX, e in seguito al capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Inoltre, la contraddizione sociale del capitalismo costituisce storicamente una componente essenziale nelle dinamiche che conducono alla crisi, dato che il confine che divide la riproduzione sociale dalla produzione economica si è rivelato come la sede e la posta in gioco fondamentale della lotta. Ogni volta, l’ordine di genere della società capitalistica è stato contestato, e l’esito è dipeso dalle alleanze formatesi fra i poli principali di un triplo movimento: mercatizzazione, protezione sociale, emancipazione. Queste dinamiche sono il motore della transizione, prima dalle sfere separate al salario familiare, poi alla famiglia bireddito.

Cosa aspettarsi dalla congiuntura attuale? Le contraddizioni odierne del capitalismo finanziarizzato sono tanto gravi da configurarsi come una crisi generale, e dovremmo aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica? L’attuale crisi alimenterà le lotte, con ampiezza e prospettiva tali da trasformare l’attuale regime? Una nuova forma di femminismo socialista potrebbe riuscire a rompere la storia d’amore fra mercatizzazione e movimento mainstream, creando una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E, se sì, a che fine? Come si potrebbe reinventare oggi la divisione riproduzione-produzione, e cosa potrebbe prendere il posto della famiglia bireddito?

Nulla di ciò che ho detto qui serve direttamente a rispondere a queste domande. Ma nel tracciare le basi che ci permettono di porle, ho provato a gettare un po’ di luce sulla congiuntura attuale. Più precisamente, ho suggerito che le radici della «crisi della cura» odierna risiedono nella contraddizione sociale insita nel capitalismo – o piuttosto nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziarizzato. Se questa interpretazione è corretta, allora la crisi non sarà risolta tentando di dare una ritoccata alle politiche sociali. Il percorso per la sua risoluzione può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Quel che è necessario, prima di tutto, è porre fine alla sottomissione rapace della riproduzione alla produzione compiuta dal capitalismo finanziarizzato – stavolta però senza sacrificare l’emancipazione o la protezione sociale. Ciò a sua volta richiede di reinventare la distinzione produzione-riproduzione e di reimmaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà del tutto compatibile con il capitalismo.

 

[* Questo saggio è uscito originariamente sulla New Left Review, n. 100/2016, con il titolo «Contradictions of Capital and Care» (goo.gl/wGYPFL). Su autorizzazione della NLR avrebbe dovuto essere pubblicato all’interno dell’Almanacco di filosofia di MicroMega in uscita il 14 dicembre ma la casa editrice Mimesis (chiedendo direttamente all’autrice che però non ha comunicato l’autorizzazione alla NLR), ha dato alle stampe una traduzione italiana che ci ha quindi indotti a scegliere di pubblicarlo sul sito anziché sul cartaceo.]

 

NOTE

[1] Una traduzione francese di questo saggio è stata presentata a Parigi il 14 giugno 2016 alla Marc Bloch Lecture dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales ed è disponibile sul sito dell’École. Ringrazio Pierre-Cyrille Hautcoeur per l’invito alla conferenza, Johanna Oksala per le discussioni stimolanti, Mala Htun ed Eli Zaretsky per gli utili commenti, e Selim Heper per l’assistenza nella ricerca.

[2] Si vedano, fra i molti altri esempi recenti, R. Rosen, «The Care Crisis», The Nation, 27/2/2007; C. Hess, «Women and the Care Crisis», Institute for Women’s Policy Research Briefing Paper n. 401/2013; D. Boffey, «Half of All Services Now Failing as UK Care Sector Crisis Deepens», The Guardian, 26/9/2015. Sulla «mancanza di tempo», cfr. A. Hochschild, The Time Bind, Henry Holt and Company, New York 2001; H. Boushey, Finding Time, Harvard University Press, Cambridge  2016. Sulla «conciliazione lavoro-famiglia», cfr. H. Boushey-A. Rees Anderson, «Work–Life Balance», Forbes, 26/7/2013; M. Beck, «Finding Work-Life Balance», The Huffington Post, 10/3/2015. Sull’«impoverimento sociale», cfr. S. Rai-C. Hoskyns- D. Thomas, «Depletion: The Cost of Social Reproduction», International Feminist Journal of Politics, n. 1/2013.

[3] Per un quadro sulle condizioni politiche di sfondo necessarie a un’economia capitalistica, cfr. N. Fraser, «Legitimation Crisis?», Critical Historical Studies, n. 2/2015. Sulle condizioni ecologiche, cfr. J. O’Connor, «Capitalism, Nature, Socialism: A Theoretical Introduction», Capitalism, Nature, Socialism, n. 1/1988; J. Moore, Capitalism in the Web of Life, Verso, London-New York 2015.

[4] Molte teoriche femministe hanno proposto delle versioni di questo argomento. Per formulazioni marxiste-femministe, cfr. L. Vogel, Marxism and the Oppression of Women, Pluto Press, London 1983; S. Federici, Revolution at Point Zero, PM Press, New York 2012 (trad. it. di A. Curcio, Il punto zero della rivoluzione, Ombre corte, Verona 2014); C. Delphy, Close to Home, University of Massachusetts Press, Amherst 1984. Un’altra potente elaborazione si trova in N. Folbre, The Invisible Heart, The New Press, New York 2002 (trad. it. di F. Pretolani, Il cuore invisibile, EGEA, Milano 2014). Per la «teoria della riproduzione sociale», cfr. B. Laslett-J. Brenner, «Gender and Social Reproduction», Annual Review of Sociology, vol. 15, 1989; K. Bezanson-M. Luxton (a c. di), Social Reproduction, Montréal 2006; I. Bakker, «Social Reproduction and the Constitution of a Gendered Political Economy», New Political Economy, n. 4/2007; C. Arruzza, «Functionalist, Determinist, Reductionist», Science & Society, n. 1/2016.

[5] Sulle lotte di confine e per una critica della visione del capitalismo come economia, cfr. N. Fraser, «Behind Marx’s Hidden Abode»New Left Review, 2/2014.

[6] L. Tilly-J. Scott, Women, Work, and Family, Methuen, London 1987 (trad. it. di A. Lamarra, Donne, lavoro e famiglia nell’evoluzione della società capitalistica, De Donato, Bari 1981).

[7] K. Marx-F. Engels, «Manifesto of the Communist Party», in The Marx-Engels Reader, W.W. Norton and Company, New York 1978, pp. 487–8 (trad. it. di P. Togliatti, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1980); F. Engels, The Origins of the Family, Private Property and the State, Charles H. Kerr & Co., Chicago 1902, pp. 90–100 (trad. it. di D. Della Terza, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma 2005).

[8] N. Woloch, A Class by Herself, Princeton University Press, Princeton 2015.

[9] K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston 2001, pp. 87, 138-9, 213 (trad. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2010).

[10] A. Baron, «Protective Labour Legislation and the Cult of Domesticity», Journal of Family Issues, n. 1/1981.

[11] M. Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale, Zed Books, London 2014, p. 74.

[12] E. Zaretsky, Capitalism, the Family and Personal Life, Harpercollins, New York 1986; S. Coontz, The Social Origins of Private Life, Verso, London-New York 1988.

[13] J. Walkowitz, Prostitution and Victorian Society, Cambridge University Press, Cambridge 1980; B. Hobson, Uneasy Virtue, University of Chicago Press, Chicago 1990.

[14] A. Davis, «Reflections on the Black Woman’s Role in the Community of Slaves», The Massachusetts Review, n. 2/1972 (trad. it. di M. Cartosio-L. Percovich, «Riflessioni sul ruolo della donna nera nella comunità degli schiavi», in A. Gordon et al., Donne bianche e donne nere nell’America dell’uomo bianco, La Salamandra, Milano 1975).

[15] D. W. Adams, Education for Extinction, University Press of Kansas, Kansas 1995; W. Churchill, Kill the Indian and Save the Man, City Lights Publishers, San Francisco 2004.

[16] G. Spivak, «Can the Subaltern Speak?» in C. Nelson-L. Grossberg (a c. di), Marxism and the Interpretation of Culture, Palgrave Macmillan, London 1988, p. 305 (trad. it. di A. D’Ottavio, in Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, p. 296).

[17] M. Foucault, «Governmentality», in G. Burchell-C. Gordon-P. Miller (a c. di), The Foucault Effect, The University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 87–104 (trad. it. di P. Pasquino, «Governamentalità», Aut Aut, n. 28/1978); Id., The Birth of Biopolitics, Lectures at the Collège de France 1978–1979, Picador, New York 2010, p. 64 (trad. it. di M. Bertani-V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2005).

[18] K. Ross, Fast Cars, Clean Bodies, The MIT Press, Cambridge, 1996; D. Hayden, Building Suburbia, Pantheon Books, New York 2003; S. Ewen, Captains of Consciousness, McGraw-Hill, New York 1976.

[19] A quest’epoca, il sostegno statale alla riproduzione sociale era finanziato dal gettito fiscale e da fondi dedicati cui contribuivano, in diverse proporzioni, sia i lavoratori delle metropoli che il capitale, a seconda dei rapporti di forza fra le classi di ogni Stato. Ma questi flussi di entrate lievitavano col valore sottratto alla periferia mediante i profitti dall’investimento estero diretto e il commercio basato su uno scambio diseguale: R. Prebisch, The Economic Development of Latin America and its Principal Problems, United Nations, Department of Economic Affairs, New York 1950; P. Baran, The Political Economy of Growth, Monthly Review Press, New York 1957; G. Pilling, «Imperialism, Trade and “Unequal Exchange”: The Work of Aghiri Emmanuel», Economy and Society, n. 2/1973; G. Köhler-A. Tausch, Global Keynesianism, Nova Publishers, New York 2001.

[20] J. Quadagno,  The Color of Welfare, Oxford University Press, Oxford 1994; I. Katznelson, When Affirmative Action Was White, W. W. Norton & Company, New York 2005.

[21] J. Jones, Labor of Love, Labor of Sorrow, Basic Books, New York 1985; E. Nakano Glenn, Forced to Care, Harvard University Press, Cambridge 2010.

[22] N. Fraser, «Women, Welfare, and the Politics of Need Interpretation», in Id., Unruly Practices, University of Minnesota Press, Minneapolis 1989; B. Nelson, «Women’s Poverty and Women’s Citizenship», Signs: Journal of Women in Culture and Society, n. 2/1985; D. Pearce, «Women, Work and Welfare», in K. Wolk Feinstein (a c. di), Working Women and Families, Sage Publications, Beverly Hills 1979; J. Brenner, «Gender, Social Reproduction, and Women’s Self-Organization», Gender & Society, n. 3/1991.

[23] H. Land, «Who Cares for the Family?», Journal of Social Policy, n. 3/1978; H. Holter (a c. di), Patriarchy in a Welfare Society, Universitetsforlaget, Oslo 1984; M. Ruggie, The State and Working Women, Princeton University Press, Princeton 1984; B. Siim, «Women and the Welfare State», in C. Ungerson, (a c. di), Gender and Caring, Hemel Hempstead: Harvester Wheatsheaf, New York 1990; A.S. Orloff, «Gendering the Comparative Analysis of Welfare States», Sociological Theory, n. 3/2009.

[24] A. Roberts, «Financing Social Reproduction», New Political Economy, n. 1/2013.

[25] Frutto di un’improbabile alleanza fra sostenitori del libero mercato e «nuovi movimenti sociali», il nuovo regime sta rimescolando tutti i consueti allineamenti politici, opponendo femministe «progressiste» neoliberali come Hillary Clinton a populisti autoritari nazionalisti come Donald Trump.

[26] E. Warren-A. Warren Tyagi, The Two-Income Trap, Basic Books, New York 2003 (trad. it. di P. Salerno, Ceti medi in trappola, Sapere 2000 Ediz. Multimediali, Roma 2004).

[27]A. Hochschild, «Love and Gold», in B. Ehrenreich-A. Hochschild (a c. di), Global Woman, Holt Paperbacks, New York 2002, pp. 15–30 (trad. it. di V. Bellazzi-A. Bellomi, Donne globali, Feltrinelli, Milano 2004); B. Young, «The “Mistress” and the “Maid” in the Globalized Economy», Socialist Register, n. 37/2001.

[28] J. Bair, «On Difference and Capital», Signs, n. 1/2010.

[29] «Apple and Facebook offer to freeze eggs for female employees», The Guardian, 15/10/2014. Significativamente, questo beneficio non è più riservato esclusivamente alla classe professionale-tecnica-manageriale. L’esercito degli Stati Uniti adesso rende gratuitamente disponibile il congelamento degli ovuli alle donne arruolate che hanno accettato di impegnarsi per lunghi periodi di servizio: «Pentagon to Offer Plan to Store Eggs and Sperm to Retain Young Troops», The New York Times, 3/2/2016. Qui la logica del militarismo prevale su quella della privatizzazione. A mia conoscenza, nessuno ha ancora affrontato l’impellente questione di cosa fare con gli ovuli di una donna arruolata che muore in guerra.

[30] C. Jung, Lactivism, Basic Books, New York 2015, in particolare pp. 130–1. L’Affordable Care Act (alias «Obamacare») adesso impone alle assicurazioni sanitarie di offrire questi tiralatte gratuitamente alle loro beneficiarie. Così persino questo beneficio non è più prerogativa esclusiva delle donne privilegiate. L’effetto è di creare un nuovo enorme mercato per produttori che realizzano i tiralatte nei grandi stabilimenti dei loro subappaltatori cinesi: S. Kliff, «The breast pump industry is booming, thanks to Obamacare», The Washington Post, 4/1/2013.

[31] L. Belkin, «The Opt-Out Revolution», The New York Times, 26/10/2003; J. Warner, Perfect Madness, Riverhead Books, New York 2006; L. Miller, «The Retro Wife», New York Magazine, 17/3/2013; A.M. Slaughter, «Why Women Still Can’t Have It All», The Atlantic, 7-8/2012; Id., Unfinished Business, Random House, New York 2015; J. Shulevitz, «How to Fix Feminism», The New York Times, 10/6/2016.

(11 dicembre 2017)

 

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MITI GIURIDICI E REGOLARITÁ POLITICHE

  1. La mitologia giuridica secondo Santi Romano 2. Mito e miti giuridici 3. Concezioni di Mosca e Pareto 4. Distinzioni dei miti 5. Miti giuridici di un tempo ed attuali 6. Loro distinzione fondamentale 7. Miti giuridici e regolarità della politica
  2. Nei “Frammenti di un dizionario giuridico”, Santi Romano si poneva la questione della mitologia giuridica.

Rilevava che “Il mito è stato particolarmente, anzi quasi esclusivamente, definito e studiato in relazione alle credenze religiose, che certo ne offrono gli esempi più tipici e caratteristici. Esso però si riscontra anche in campi diversi e, fra gli altri, in modo molto interessante, in quello del diritto”; considerazione ovvia dato che il mito, soprattutto della specie “politico” ha svolto un ruolo assai rilevante nel pensiero (e nelle vicende) in particolare della prima metà del XX secolo. E scriveva che “C’è tutta una mitologia, che ben può dirsi giuridica, e da questo punto di vista sembra che possano utilmente valutarsi una serie di opinioni e di principii, che, di solito, sono presi in considerazione sotto altri aspetti”[1]. Subito dopo  notava che “il mito non è verità o realtà anzi è l’opposto e quindi la mitologia giuridica è da contrapporsi alla realtà giuridica, che in apposita voce di questo dizionario si è cercato di definire”[2]. E approfondendo la distinzione (definizione) del mito scriveva che “non tutte le concezioni, le opinioni, le credenze che si ritengono giuridiche, ma che tali effettivamente non sono, perché contrarie o estranee ad un ordinamento  giuridico, sono da classificarsi fra i miti”[3].

Sulla linea di note concezioni, il giurista siciliano sottolineava il senso mistico-fideistico del mito[4].

Il mito giuridico ha connotati distintivi rispetto al mito (come genere) “Il mito religioso è essenzialmente popolare; il mito giuridico può formarsi e limitarsi entro una cerchia più ristretta di persone, ma anch’esso non è opinione singolare o isolata” (quindi è sociale, non individuale)[5]. Peraltro “Non è nemmeno da escludere che artefici di miti possono essere dei giuristi, cioè coloro che pure dovrebbero essere in grado di giudicarli come tali e respingerli”[6]. Le fonti del mito sono diverse “e non sempre è facile discernere quando essa ha origine teorica, quando pratica, e quando, come spesso avviene, l’una assieme all’altra”. La mitologia giuridica fiorisce specialmente nelle situazioni rivoluzionarie “In questi periodi, nei quali si tenta di abbattere gli ordinamenti vigenti sostituendoli  con dei nuovi, ha naturalmente scarsa importanza la realtà giuridica, nel senso che si è definito, cioè il complesso dei principii, delle ideologie e delle concezioni che stanno a base del “ius conditum”, e invece vengono in prima linea le ideologie che combattono per informare di sè il “ius condendum” ”.

Le assemblee costituenti sono in gran parte formate da persone sprovviste di cultura giuridica e “costituiscono l’ambiente più adatto alle più varie mitologie giuridiche, così a quelle che hanno carattere del tutto popolare, come a quelle di origine più o meno dottrinaria. Queste ultime anzi hanno il più delle volte maggiore influenza delle prime”. Questo perchè mentre quelle popolari sono vaghe ed imprecise “quelle dottrinali invece hanno la rigidezza dei dommi, assumono una certa forma logica, e si rivelano perciò suscettibili di essere tratte a conseguenze ed a sviluppi, che ad esse conferiscono una maggiore parvenza di verità”[7].

Nel porsi poi per i miti giuridici il problema, già proposto per quelli religiosi, ovvero se siano perciò più spesso retaggio di popoli particolari, Santi Romano scrive “si potrebbe fondatamente ritenere, che, come ci sono indubbiamente dei popoli più inclini all’elaborazioni delle credenze religiose, anche di quelle che hanno carattere mitico, così è probabile che i miti giuridici trovino in alcune nazioni un terreno più propizio alla loro formazione”. Nazioni che sarebbero quelle dove sono più forti e continue le tendenze rivoluzionarie[8].

Con queste premesse, nell’indicare i miti giuridici (dell’epoca), il giurista ne enumera tre, tutti connessi al pensiero politico e alle rivoluzioni moderne: stato di natura, contratto sociale, volontà generale. Questi ultimi sono quelli che trovano più adepti tra filosofi e giuristi “la cui immaginazione dal campo delle teorie e delle ipotesi scientifiche si lascia trascinare, più o meno inconsapevolmente, in quello della mitologia”. A tale proposito si può “ rilevare, e non è senza importanza, che in esse affiora la tendenza propria dei miti e già da altri (Croce) notata, di immaginare enti che non esistono e di dar vita a cose inanimate o anche a semplici astrazioni”. E di dar loro vita con delle personificazioni “ ora del popolo, ora dello Stato, ora di certe istituzioni di quest’ultimo che avrebbero il compito di costituire o esprimere o rappresentare tale volontà” (generale).

Per cui tali miti finiscono col diventare realtà giuridiche; infatti possono considerarsi (come ad esempio le personificazioni) mitiche “quando non hanno fondamento e riscontro in effettivi caratteri delle istituzioni che costituiscono un ordinamento giuridico positivo. Viceversa, possono essere e sono vere realtà giuridiche se e quando determinano la struttura, gli atteggiamenti concreti, il funzionamento delle istituzioni”.

Il giurista, nel concludere il breve scritto, dichiarava che non intendeva “attribuire alla mitologia giuridica il carattere meramente negativo di un insieme di concezioni soltanto fantastiche e perciò stesso dannose e pericolose”; perché spesso “il mito scaturisce da bisogni pratici, di cui non si ha sempre chiara coscienza, da intuizioni nebulose che pure hanno elementi di verità, da istinti oscuri, ma profondi. E allora il mito, che non è realtà, ed è anzi l’opposto della realtà, può segnare il principio di un cammino che conduce alla realtà, non solo scoprendola, ma addirittura creandola” e a tali miti “il diritto deve molto e, fra gli esempi che sopra si sono addotti, alcuni confermano che non poche delle attuali realtà giuridiche non hanno che tale origine” ma ciò non toglie “che altri miti invece, (sono) rimasti “ombre vane fuor che nell’aspetto” e nelle forviate credenze di filosofi o di giuristi, possano determinare errori gravi e non innocue utopie”[9].

  1. Tale conclusione di Santi Romano presenta caratteri divergenti e altri comuni alle concezioni del mito e del mito politico in particolare. Senza voler fare un’analisi delle numerose tesi al riguardo, si possono sintetizzare (e accorpare) le varie concezioni del mito in categorie.

Fin da Platone – secondo una di queste – il mito è stato considerato una forma alle volte fuorviante, ma altre valida di conoscenza[10] in particolare per ciò che indica come giusto per la condotta umana[11]; da Vico era considerato una forma autonoma di elaborazione di pensiero e di regole di condotta, adatta a un determinato stadio (“giovanile”) della vita di un popolo[12]. Il mito quindi è verità, ma espressa poeticamente e fantasticamente.

Secondo un’altra concezione il mito è una rappresentazione degli assetti di potere e dei valori di un gruppo sociale. In questo senso il mito può essere ricondotto a una “derivazione” secondo la terminologia di Pareto, o a un elemento (fondamentale) della “formula politica” di Gaetano Mosca.

A queste va accostata la concezione di Sorel secondo il quale il mito è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente “tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna”.

Onde il mito è essenzialmente un moltiplicatore/suscitatore di volontà, fondato su intuizioni e rappresentazioni largamente condivise nel gruppo sociale e  idonee a supportare il consenso e indirizzare l’opinione e l’azione politica di massa[13].

Tali diverse concezioni del mito trovano una corrispondenza nel mito giuridico.

La prima è il rapporto idea (racconto) – verità. Vi sono miti che corrispondono a verità, e la esprimono in forma metaforica e intuitiva, ed altri che sono frutto di pura fantasia. Il criterio distintivo è peraltro verificabile in corpore viri, cioè in concreto, nella storia che, come sosteneva de Maistre, è la “politica applicata”.

Ad esempio uno dei miti più famosi è quello della fondazione di Roma. Nel racconto che ne fa Plutarco si desumono due regole dal comportamento di Romolo e Remo. A seguito del disaccordo sul luogo dove edificare la città, si decise di rimettere la decisione al “divino”. Dato che prevalse Romolo (forse con la frode) lo stesso cominciò a scavare il fossato all’interno del quale edificare le mura della città, mentre Remo lo derideva ed ostacolava. Ma quando attraversò con un salto il fossato Romolo (o uno dei suoi seguaci) lo uccise. Da tale racconto (a parte la frode di Romolo, anch’essa mezzo normale della politica) è possibile ricavare due regole di grande importanza per la saldezza e durata delle istituzioni (quelle politiche soprattutto): la prima è che il vertice dell’istituzione deve essere unico e  una la direzione politica (se esercitata da un organo monocratico o collegiale, rex aut senatus, è secondario); in caso contrario la decisione può non essere presa (anche se è di vitale importanza) e viene delegata al caso, comunque a un qualcosa che esula dalla responsabilità (umana). L’altra che il confine – in senso ampio – differenzia ciò che è interno o esterno alla comunità ed è essenziale per l’ordine e l’unità della stessa. A trascurare queste regole, o a confortare anche interpretativamente il contrario o ad indebolirle s’ “impara più presto la ruina che la preservazione sua”, come scriveva Machiavelli[14]; e ve ne sono tanti esempi nella storia che è superfluo ricordarli.

Santi Romano ha individuato poi il carattere distintivo tra miti frutto di pura fantasia e miti costitutivi-rappresentativi di realtà giuridiche.

Il criterio è “fattuale”: è mito giuridico quello che si istituzionalizza, diventa cioè realtà giuridica. Si poteva rispondere che tale criterio non è tale perché, specie nel XX secolo, ci sono stati miti che sono diventati istituzioni, pur rimanendo frutto di fantasia e di stravolgimento della realtà. Un esempio classico è stato il comunismo, che dall’alba al tramonto è durato quasi quanto il “secolo breve” (nel caso sovietico, il più longevo). Senonché una tale obiezione non coglie nel segno: per intendere appieno il concetto di diritto dei giuristi istituzionisti bisogna partire da due connotati fondamentali dell’istituzione (cioè del diritto) e/o dell’ordine sociale, ossia durata e movimento. Quest’ultimo al momento non interessa. Quanto alla prima scriveva Hauriou che  il primo dei vantaggi di un potere esercitato in nome di un’istituzione è la durata, perché il proprio “dell’istituzione è durare più a lungo degli uomini, e quindi di far durare il potere esercitato in proprio nome”[15].

Santi Romano in un’altra opera scrive “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su quale base logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un’illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella sucettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito” e aggiunge “Finché ciò non avviene, si potranno avere supremazie che s’impongano con la forza, ordinamenti che sembrano, a reggitori improvvisati o a masse esaltate, costituiti e che invece non lo sono e fors’anche non lo saranno mai, ma non nuovi Stati e nuovi Governi. Questi – e ciò è implicito nel loro stesso concetto – non possono essere passeggere creazioni che si formino o si disfacciano a capriccio degli uomini: essi sono il risultato di innumerevoli forze e di procedimenti che hanno radici secolari nella storia[16].

Per cui i miti che riescono ad istituzionalizzarsi nel senso della creazione di istituzioni o di organi istituiti dalle stesse, divengono realtà giuridica; quelli frutto di fantasia non compiono mai questo cammino[17].

L’altro elemento distintivo del mito suggerito da Santi Romano è connesso alla cognizione: quando il mito esprime  verità (come nel caso del mito della fondazione di Roma) e quando invece è una mera fantasia. In tal caso anche se poi i secondi hanno un certo successo (e con ciò torniamo al precedente fundamentum distinctionis) resta il fatto che sono comunque irreali e realizzano cose diverse da quelle volute. Non bisogna dimenticare che, come scrive Sorel “c’è eterogenesi tra fini realizzati e fini dati: la più piccola esperienza ci rivela questa legge, che Spencer ha trasferita nel mondo materiale per dedurne la sua teoria della moltiplicazione degli effetti”; quindi i miti che non si sono tradotti in realtà giuridica (se non in modo effimero, o comunque non giuridici nel senso sopra condiviso) hanno avuto  effetti diversi dalle intenzioni, ma spesso positivi. A cominciare dalla decisione della Convenzione della Francia rivoluzionaria di chiudere nell’arca il proprio “progetto costituzionale” cioè la Costituzione dell’anno I (24 giugno 1793), dopo averla votata perché renderla vigente avrebbe gravemente ostacolato la difesa della nazione.

E nessuno si è sognato di riaprire quell’arca, neanche in tempo di pace, perché i connotati essenziali di quella costituzione: assemblearismo, estrema  democraticità, debolezza del potere governativo, la rendevano di difficile applicazione (quindi fonte di disordine e gracilità) anche in tempo di pace. Quel che sortì fuori dal mito rivoluzionario (come espresso nella costituzione “sospesa”), fu assai diverso: una dittatura sovrana, che ebbe successo nella difesa del paese, grazie agli enormi poteri , alla mobilitazione delle masse e al terrore. Cosa che rientra in pieno nell’ “eterogenesi dei fini” del mito, affermata da Sorel.

E’ da notare che per miti del genere l’eterogenesi dei fini (o paradosso delle conseguenze) è la regola. Con la conseguenza che, di norma, quel che di giuridico costruiscono è ciò che è fattualmente possibile, spesso solo una (per lo più modesta) variazione di ciò che la storia, e la storia delle istituzioni già conosce[18]. Al mito marxiano della società comunista (senza Stato e senza politica), cioè un regime contrario alla natura umana (zoon politikon) e alle regolarità del “politico” (Miglio e Freund), corrisponde la realizzazione di una dittatura sovrana, che è una species moderna di un genere di reggimento politico diffuso nelle comunità umane: dal dispotismo orientale, alla tirannia fino alle versioni molto più soft come la dittatura romana, temporanea e controllata (da altri poteri). Dell’altra (la società comunista) non s’è vista neppure l’ombra, proprio perché irreale, ossia impossibile a tradursi in concreto.

  1. Nelle concezioni del mito c’è anche quella che li considera delle rappresentazioni utili, per lo più alla classe dirigente, che se ne appropria,e/ o li propone e li diffonde per guadagnare legittimità e consenso: nei casi d’eccezione per motivare le masse (da mobilitare, come in caso di guerra).

Nella forma più estrema servono cioè a rafforzare l’inimicizia, il sentimento ostile che è uno degli elementi fondamentali della lotta (armata). Non solo nella guerra, ma anche nelle rivoluzioni, dove il nemico è interno. La cosa “strana”  – ma logica – è che proprio le rivoluzioni, più ancora delle guerre, hanno un effetto “fondativo” delle istituzioni e dei regimi politici. In ispecie quelli moderni dove a un cambiamento (cambiamento) di classe dirigente corrisponde quasi sempre una nuova costituzione.

Nel pensiero degli elitisti questo è attentamente evidenziato: il rapporto tra potere – e organizzazione dello stesso – e giustificazioni del potere è affermato da Gaetano Mosca: “la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige” il quale trovava anche il termine per definirlo “Questa base giuridica e morale, sulla quale in ogni società poggia il potere della classe politica, è quella che in altro lavoro abbiamo chiamato e che d’ora in poi chiameremo formola politica” (il corsivo è nostro). Il che non significa che “le varie formole politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l’obbedienza delle masse… La verità è dunque che essere corrispondono ad un vero bisogno della natura sociale dell’uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governare sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza”. Per cui è “necessario anche di vedere se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare la unità e la organizzazione politica di un popolo e di un’intera civiltà”[19]. E’ da notare l’insistenza con cui Mosca relaziona la “credenza” all’assetto istituzionale (giuridico).

Anche per Pareto le derivazioni sono connotate di guisa che i “miti” vi si possono ricondurre, in particolare per il riferimento all’autorità; sia quando si trovano in accordo con sentimenti e convinzioni per lo più condivise nel gruppo sociale. Proprio l’impostazione realistica e la prevalenza nel comportamento umano delle azioni non logiche, lo porta a considerare le derivazioni, e quindi i miti, spesso utili alla società. che contribuiscono a mantenere unita (e salda).

  1. Questo rapido – e forzatamente lacunoso – percorso sul mito “giuridico” (che è spesso un mito giuridico-politico), porta a distinguere i miti giuridici (o ad effetti giuridici) in diverse classi a secondo della verità e dell’utilità degli stessi.

Miti veri: raramente, se correttamente applicati, tornano controproducenti. Dannoso è, quasi sempre, non tenerne conto. Così quello che insegna il mito, prima ricordato, della fondazione di Roma. Il “dualismo di poteri” nella stessa comunità politica è sempre stato fonte di dissoluzione e dis-ordine; nei casi migliori di debolezza istituzionale e quindi di libertà politica (della comunità) ridotta. Preludio alla fine e, più spesso, alla divisione (itio in partes) di questa.

Così – al contrario – il mito della bontà dell’uomo, nelle varie specie in cui è stato formulato, ad esempio quella del “buon selvaggio”. Che di sicuro era selvaggio, ma altrettanto certamente era di un tipo per così dire inaccettabile e poco rassicurante di bontà, praticando spesso sacrifici umani e antropofagia. Pratiche finalizzate a placare le divinità o acquisire le virtù del…pasto, ma l’ingenuità di certe credenze primitive non è segno di superiorità morale.

Tuttavia presupporre l’uomo buono, in tutte le varie declinazioni che può assumere, è un “mito” distruttivo perché in una società dove gli uomini fossero buoni governi, giudici, poliziotti e così via, come scrive Schmitt, sarebbero inutili.

Mentre la contraria convinzione (di cui al racconto biblico del peccato originale) che l’uomo può scegliere tra male e bene, reale e verificabile in concreto, rende spiegabile e giustificabile l’istituzione del potere.

Miti non veri ma utili: ovvero il caso dell’ “eterogenesi dei fini” (o come la denominava Freund, paradosso delle conseguenze). E’ specie frequente e considerata spesso una risorsa sociale e non dannosa, se, come in tutte le attività pratiche, consegue risultati positivi: s’intende per la comunità e per l’istituzione che ne beneficia.

Ciò che la distingue è lo iato che separa aspirazioni e risultati: quelle destinate a non realizzarsi, mentre questi, spesso opposti, divengono azione politica e (anche) realtà istituzionale.

Miti né veri né utili (alla comunità e all’istituzione): ve ne sono tanti e sarebbe inutile elencarli. Le caratteristiche che più frequentemente presentano è d’essere utili a ristrette cerchie della popolazione – in genere la classe dirigente (e sue frazioni): compensano la scarsa utilità comunitaria con un’alta utilità “corporativa”. Quanto a tradursi in risultati, e divenire anche in modo paradossale realtà giuridica, occorre distinguere. Possono diventare realtà giuridiche, ma in modo controproducente e così dissolutorio della sintesi istituzionale e della comunità. Essendo il mito destinato a favorire interessi “di nicchia” per lo più si realizzano in norme ed istituti limitati e defilati, e data tale caratteristica sono relativamente  dannosi (almeno nel breve-medio termine). Sono spesso miti in “formato ridotto”, la maggior parte delle volte più propaganda che racconto o credenza mitica. Ma altri hanno avuto effetti epocali: ad esempio il mito del ritorno di Quetzalcoatl atteso dalle popolazioni messicane più o meno nel tempo dello sbarco di Cortés, che finì con l’essere scambiato con il Dio-eroe Tolteco; o il mito della “libertà” polacca (cioè essenzialmente quella della grande aristocrazia) che fu la causa prima dell’anarchia e della dissoluzione della Polonia del ‘700.

  1. Santi Romano elenca, come scritto, tre miti giuridici moderni. Tutti caratterizzati dall’aver una certa suscettibilità a tradursi in realtà giuridica.

E, del pari, una intrinseca politicità, dato che assumono il connotato di discriminanti politiche, di bandiere sventolate contro altri gruppi umani. La loro capacità d’istituzionalizzarsi aumenta di conserva con il loro carattere di scriminante politica. Lo stato di natura è rivolto contro chi ritiene che ogni diritto sia costituito (e conculcabile) dallo Stato; ne deriva anche la liceità dei diritto di resistenza al potere che toglie ciò che l’uomo ha per “natura”. Il contratto sociale, come tutti i contratti, suggerisce l’idea di un accordo tra uguali, e come tutti i contratti è soggetto a risoluzione e a valutazione  dei contraenti. E’ oggettivamente opposto alla concezione della legittimità storica, del potere (e della diseguaglianza) “naturali”.

La volontà generale è polemicamente indirizzata contro il potere minoritario, cioè i regimi monarchici od oligarchici. Con il costituire la scriminante con altri gruppi umani, cioè col suscitare (una potenziale) inimicizia, determina anche solidarietà sociale ed identità comunitaria, che si traduce in istituzioni (più o meno) coerenti con il mito.

I tre miti giuridici elencati da Santi Romano sono tra i principali della modernità (anche se ne manca uno, assai considerato all’epoca in cui scriveva il giurista siciliano, cioè il marxismo-leninismo e, in generale, il socialismo utopistico); adesso gli stessi appaiono in deciso ribasso, offuscati da altri.

I quali hanno il carattere comune di essere non-politici, di mancare o contraddire qualche (importante) regolarità, presupposto, aspetto o conseguenza della politica  e del politico.

Il primo dei quali è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale[20] (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi[21] (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale).

Un altro è il relativismo giuridico-politico. Il quale confonde verità e certezza, scienza e diritto, conoscenza e volontà. Per cui si applica alla realtà sociale una (rispettabilissima) dottrina gnoseologica che afferma la relatività della conoscenza: che è giocoforza diventi relatività di norme, comportamenti, valori e istituzioni in materia pratica (morale e giuridica). Senonché un’istituzione politica è tale se ha, come scriveva de Bonald, un “punto” in cui è assoluta; ciò che le è essenziale, è l’autorità e non la verità, perché funzione dell’autorità è dare certezze, non verità, come sosteneva Vico “certum ab auctoritate, verum a ratione[22]; anche le bizzarrie più evidenti, in ragione dell’esigenza di certezza, diventano comandi intangibili e coercibili se enunciate nel giudicato; e si potrebbe continuare a lungo.

Ma è evidente che il relativismo è inidoneo a spiegare Stati e diritto; è in contrasto con l’evidenza. E si salva solo perché autocontraddittorio. Ad esempio se si afferma “La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica[23] si afferma della democrazia che, almeno in certi casi, può non essere relativistica. Con ciò l’assoluto, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. D’altra parte anche un regime democratico (in quel senso) ha dei nemici: quelli che non pensano che la democrazia debba essere relativista: ad esempio gran parte dei fondamentalisti islamici, che condividono assai poco la democrazia e ancor meno il relativismo. Se poi si aggiunge che “la democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative”[24] (il corsivo è nostro), si comprende perché, per insegnare tale dottrina ai tedeschi e ai giapponesi, le democrazie anglosassoni praticarono bombardamenti terroristici, giungendo fino ad impiegare la bomba atomica.

Quindi un regime relativista impiega la forza come gli altri, ha nemici come gli altri e fa guerra come gli altri.

Il relativismo conseguente e non autocontraddittorio, cui si può applicare quanto scriveva oltre un secolo fa Maurice Hauriou dello spirito critico, è così un potente fattore di dissoluzione delle istituzioni[25] e quindi per spiegarle e costruirle è un “mito” e più precisamente di quelli che non possono realizzarsi (se non al minimo) e a realizzarli coerentemente e totalmente distruggono ciò che dovrebbero consolidare (e aiutare a comprendere).

Un altro mito, anch’esso frutto di diffusissime aspirazioni concrete unite a concezioni dotte è quello della “pace attraverso il diritto”, cioè attraverso i Tribunali (internazionali) sostenuto da Kelsen nella prima metà dello scorso secolo. Il cui modello lo ha fornito l’art. 227 del Trattato di Versailles, che prevedeva per Guglielmo II “uno speciale tribunale sarà costituito per provare l’accusa, assicurando a lui le guarentigie essenziali al diritto di difesa. Esso sarà composto da cinque giudici, uno designato da ciascuna delle seguenti Potenze: gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone”[26] (cioè i vincitori).

Santità e moralità offese sono un requisito essenziale di ogni processo del genere; peraltro servono a far trascurare il fatto che l’accusa è mossa dai vincitori, che gli accusatori nominano i giudici per processare il vinto e che non esisteva (nel caso) neanche un crimine giuridicamente qualificato come tale (nullum crimen sine lege). Tutte circostanze che nulla hanno a che fare con le garanzie della giustizia come normalmente intesa e praticata nelle democrazie liberali e molto, invece, con le conseguenze politiche della guerra. I “cloni” successivi hanno cercato di ridurre o eliminare alcune delle illegittimità ricordate (in particolare le Corti non sono composte solo da giudici designati dai  vincitori, di solito pre-costituite e non designate ad hoc) senza però poter ovviare al difetto essenziale. Ovvero quello che appare dal citato saggio di Kelsen, che si prende in esame tra i tanti di una letteratura copiosa, sia per l’autorevolezza del giurista, sia per il momento in cui lo scrisse: e cioè che per eliminare la guerra, per far funzionare concretamente una Corte internazionale come un Tribunale di diritto “interno” occorre o l’accordo delle parti (ma allora a che serve la Corte?) o una forza capace di costringere ad eseguire le decisioni. Ma se manca l’uno o l’altro ogni tentativo di ridurre o eliminare i conflitti, facendo “tintinnare le manette” è una favola, edificante quanto inutile. Il giovane Hegel considerava illusoria e incongrua ogni “unità” non realizzata attraverso un potere comune[27]

E che pone un problema, a voler seguire la tesi di Kant per cui connotato del diritto è la coazione. Se è vero che nella specie, in astratto la coazione è possibile (e in questo senso, è diritto), occorre tuttavia considerare se possa costituire diritto, o almeno diritto efficace, una normativa la cui possibilità concreta di coazione sia rara ed episodica.

O se il tutto non  si traduca in un autodafé mediatico chiassoso ma (diversamente dal modello originale) di sostanziale innocuità. Il problema del rapporto tra validità ed efficacia delle norme se lo poneva anche Kelsen “perché non si può negare che tanto un ordinamento giuridico come totalità quanto una singola norma giuridica perdono la loro validità quando cessano di essere efficaci”[28].

  1. La differenza tra i miti ricordati dal giurista siciliano e quelli sopra descritti è uno dei segni del cambiamento del common sense se non della generalità dei cittadini, almeno di parte della classe dirigente.

Invero i primi tre miti denotano il sentire comune di una percezione della comunità in crescita, l’alba di una nuova epoca, e la costruzione delle istituzioni (in maggior misura) influenzate da quei miti. In effetti tutti e tre sono miti costruttivi: lo stato di natura, almeno nella formulazione che ne da Hobbes (ma non solo), significa bellum omnium contra omnes, e l’opportunità di uscirne per costruire un ordine che garantisca pace e sicurezza. Anche l’altra faccia, quella evidenziata da Santi Romano, dell’ “anteriorità” dei diritti fondamentali è costruttiva perché sollecita la costituzione di un ordine che tenga conto di quei diritti innati.

Anche il contratto sociale ha un esito costruttivo: è all’origine del costituzionalismo moderno, della costituzione come atto consapevole e deciso dalla rappresentanza nazionale: non è solo il grimaldello per scardinare l’Ancien régime, è la base per ri-fondare l’istituzione-Stato.

Lo stesso ruolo riveste la volontà generale, che finisce, come scrive Santi Romano, con avere un ruolo decisivo nelle personificazioni dello stesso.

E, si può aggiungere, anche nella costruzione del principio democratico di legittimità e ancor più dell’importanza della discussione, comunque rapportato alla volontà e alla decisione a maggioranza (considerata almeno la più vicina alla volontà generale)[29].

Di converso i tre miti sopra enumerati, in gran voga dalla metà del secolo passato hanno tutti un effetto dissolutivo: non nei confronti di un regime “ancien”, ma delle stesse istituzioni politiche in genere.

Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti[30].

Per cui a ragione Croce, in un passo assai citato rilevava che “Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’idea e nessuna voglia mostra di attuarla”[31].

Il mito relativista – chiaramente ed esplicitamente autocontraddittorio, presenta due mende fondamentali (d’altra parte, anch’esse, esternate dai sostenitori): che ogni regime politico ha dei valori (delle forme, dei precetti) non negoziabili, per cui nessuna forma politica può essere (conseguentemente) relativista.

E che, come sopra cennato, perché esista una comunità (una sintesi) politica occorre l’autorità: carattere della quale è dare certezza – cioè comandi eseguiti – e non verità[32].

Per cui una democrazia conseguentemente relativista ha la stessa probabilità di realizzarsi concretamente del governo tecnico e vale per la stessa il giudizio sopra citato di Croce, di non essere mai stata attuata dalla storia e che questa non manifesta intenzione di attuarla.

Quanto alla pace attraverso i Tribunali (meglio non scomodare il diritto più del necessario), anche qui è invertito il rapporto tra volontà e sentenza, tra decisione politica e decisione giudiziaria nonché tra jus dicere e coazione.

Fu de Maistre ad esprimere il principio che “dove non c’è sentenza vi è scontro”[33] ma senza pretendere che bastasse un qualsiasi organo giudiziario, ancorché composto da galantuomini benintenzionati, magari come il Tribunale Russel in voga ai tempi della guerra fredda, per far cessare l’ostilità e soprattutto la sua conseguenza – la guerra – che, come sosteneva Proudhon è connotato esclusivo e distintivo della specie umana. Per far la guerra infatti basta la volontà, cioè l’intenzione ostile[34]; così come per eseguire la sentenza occorre forza: accanto al volere occorre il potere di realizzare il volere.

Ma se la guerra è un fatto di volontà il mezzo reale per evitarla è di trovare un accordo e non di processare il nemico vinto, né tantomeno quello di minacciare il patibolo a qualcuno che, con la decisione di aggredire o resistere all’aggressione, mette a rischio la propria vita e quella degli altri, amici e nemici. Che poi alla fine del conflitto che costituisce (e sostituisce) una decisione su un nuovo ordine, lo si “doppi” con un processo è una cerimonia solenne quanto inutile essendo la decisione già avvenuta[35].

La possibilità che questi miti si realizzino è esclusa, che possa da ciò realizzarsi qualcosa di assai diverso con l’ausilio del “paradosso delle conseguenze” (Freund) non è invece da escludere. Ad esempio il mito dei Tribunali internazionali può contribuire a costituire nuove e più estese unità politiche a scapito della sovranità delle comunità che entrano a farne parte. Hauriou sosteneva che il diritto (e la giurisdizione) comune ha carattere “internazionale” perché volto a dirimere i conflitti tra i diversi gruppi umani in via di raggiungere l’unità politica (Dike); e ne contrapponeva i caratteri al diritto disciplinare volto a decidere i conflitti tra appartenenti allo stesso gruppo sociale (Thémis).

Così la giustizia e le Corti internazionali potranno persino costituire l’avanguardia di uno Stato federale e forse mondiale, che provveda sia a decidere i conflitti che ad applicare il diritto e le decisioni prese.

  1. Il carattere dissolutorio dei miti giuridici contemporanei può comunque costituire la rappresentazione del processo di decadenza dello Stato moderno, così come i miti considerati da Santi Romano lo erano della “seconda fase” dello Stato, cioè quella liberal-democratica (o post-rivoluzionaria), quando ancora lo Stato era in espansione. La tecnocrazia ha poco a che fare con la democrazia; il relativismo con i diritti dell’uomo e del cittadino e soprattutto con la volontà della nazione “ch’è tutto ciò che deve essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès): l’indipendenza, la sovranità della nazione e il carattere “chiuso” dello Stato con i tribunali internazionali. In questo senso tali miti sono in un certo senso “rappresentativi” di un processo di crisi dello Stato, che come altre forme politiche è peculiare di un certo periodo storico. Come lo Stato moderno ha sostituito quello feudale, come la polis ha fuso i gruppi tribali (o gentilizi) , così anche lo Stato e l’ordine westfaliano giungerà al termine; e tale convinzione è diffusa.

Dove però i miti dimostrano il loro carattere irrealistico è nell’applicare alle “regolarità della politica e del politico” la critica (e la sorte) dell’istituzione-Stato. Ma mentre questa forma politica appartiene alla storia (e ne è modellata), le regolarità della politica pertengono alla natura umana, e c’è altrettanta possibilità di cambiare quelle che di fermare il sole.

L’idea di sostituire il governo con l’amministrazione e così farne a meno è contraria ad uno dei presupposti del politico (Freund): quello del comando/obbedienza. Una tecnocrazia non sostituisce il governo: governo ed amministrazione si sommano. Anzi se vi sono state comunità umane (per millenni) prive di un’amministrazione burocratica, tanto meno in senso moderno, cioè selezionata (e dotata) di sapere specializzato (ossia tecnico), non se ne ricorda alcuna priva di “governo degli uomini”.

Lo stesso capita per il relativismo, anche se la sua autocontraddittorietà lo rende possibile, in quanto non sia relativista, ossia riconosca un assoluto nell’istituzione e nell’ordine comunitario. Infatti anche un regime relativista, come sopra scritto, ha dei nemici (e così il presupposto dell’amico-nemico), e una “tavola di valori” da imporre anche ai componenti della comunità che preferiscono valori diversi (cioè, non è relativista).

Il politeismo dei valori poi, anche se spesso non escludente, è sempre gerarchico: i valori non sono uguali ma ordinati secondo il più e il meno (e così tollerati)[36].

Quanto ai Tribunali internazionali, se è stato affermato (v. sopra) da Hauriou (tra gli altri) che un embrione di diritto comune nasce dalla giustizia “internazionale” (Dike); cioè tra gruppi sociali (classi, gentes, tribù), destinati (talvolta) a fondersi in una sintesi politica, d’altro canto è stato, sempre dal giurista francese, notato che accanto a questa c’è sempre un’altra giustizia (Thémis) interna al gruppo sociale, caratterizzata della supremazia del gruppo (del capo) sui sudditi e quindi dall’essere essenzialmente disciplinare e di dar luogo a un diritto conseguente (droit disciplinaire).

Talvolta nella storia l’esistenza di istituzioni di giustizia “internazionale” è stata l’avanguardia della costituzione dell’unità politica; altre volte no, come nel caso del Reichskammergericht, coetaneo alla decadenza del Sacro Romano impero e finito con lo stesso[37].

La conseguenza è che un rapporto tra istituzioni di giustizia “internazionale” e costituzione di sintesi politiche nuove vi può essere, ma non ha carattere necessario né       cogente, ma accidentale e tali miti lo possono favorire ma non costituire né delinearne compiutamente la forma.

Per questo occorrono i monopoli della decisione politica e della violenza legittima, cioè un potere unificante, come scriveva  il giovane Hegel poco prima della caduta del Sacro Romano Impero.

Tutti questi miti hanno pertanto carattere decostruttivo né quanto potranno (indirettamente e spesso paradossalmente) costruire è prevedibile. E’ prevedibile di converso che non potranno né incidere sulle regolarità della politica né costruire istituzioni conformi alle aspirazioni espresse e suscitate.

D’altra parte se, come scrive S. Agostino Dio spesso si serve del male e dei malvagi per fare il bene[38], non è vietato sperare che, con il soccorso divino, l’errore possa generare se non la verità, almeno qualcosa di utile.

T.K.

 

[1] Notava anche che “Nella filosofia della storia si usa questa parola per significare quelle formule che muovono ogni tanto le coscienze delle masse, le quali non hanno coscienza  individuale: Liberté egalité fraternité, La legge è uguale per tutti, Re per grazia di Dio, Dittatura del proletariato, ecc.. Senonchè, non solo in questo senso traslato e improprio,ma anche in senso corrispondente a quello in cui la parola è adoperata in dottrina, il concetto di mito può esattamente riferirsi, se non a tutte le formule accennate, ad altre che hanno più o meno immediata attinenza al diritto” op. cit. p. 126.

[2] A tale proposito chiarisce “ gioverà ricordare e precisare che la verità o realtà giuridica è quella che è stata accolta o addirittura creata da un determinato diritto positivo, anche se diversa dalla realtà che, in contrapposizione a quella puramente giuridica, si dice effettiva, o di fatto, o materiale, e, quindi, anche se esiste solo nella concezione di un ordinamento giuridico, purchè esso sia vigente ed operante” op. cit. p.127 (il corsivo è nostro).

[3] “Perchè ciò sia possibile, è necessario che esse abbiano quel carattere o quella forma fantastica o semifantastica, non certo facile a definirsi con precisione, che concordemente  si afferma essenziale perchè si abbia la figura del mito. Il mito è una non verità, un errore, una “inopia”, ma è anche immaginazione, una immaginazione “favolosa” ” op. loc. cit.

[4] “Il mito ha altresì un senso mistico, è una credenza che ha carattere di fede e quindi assume sempre un certo tono religioso, anche quando non riguarda la religione propriamente detta: il che, del resto, è in connessione con gli altri suoi caratteri che si sono accennati” op. cit. p. 128.

[5] E prosegue “Di solito, è credenza accolta da un numero molto variabile, ma sempre notevole, di individui che partecipano in  un modo o in un altro alla vita pubblica…..E può anche darsi che il mito rimanga circoscritto fra puri studiosi, particolarmente fra i seguaci di qualche sistema filosofico. Politica e filosofia sono campi particolarmente  favorevoli alla formazione e all’affermazione dei miti che interessano il diritto”.

[6] Con le conseguenze che vi sono teorie giuridiche che sono diventati miti. Un po come gli idola theatri di Bacone.

[7]  E prosegue “mentre in sostanza questo  loro carattere accentua e aggrava gli errori che stanno a base di esse. I miti, per così dire, ingenui sono di conseguenza più innocui dei miti, per così dire, sapienti, che meglio nascondono la contraddizione fra ciò che effettivamente sono, cioè errori, e ciò che vorrebbero essere, cioè verità” op. cit. p.129.

[8] Perchè “I popoli fondatori che rimangono fedeli alle loro tradizioni e ai loro ordinamenti politici,  che non si lasciano facilmente lusingare dai miraggi di radicali trasformazioni, sono, come è naturale, quelli che hanno più netta e precisa la percezione della realtà giuridica e non amano immaginare quegli “universali fantastici”, in cui i miti si risolvono” op. cit. p. 130.

[9] Op. cit., p. 134 (il corsivo è nostro).

[10] Gorg. 527 a.

[11] Gorg. 527 a  “Queste cose che ti sto raccontando forse ti sembrano le favole di una vecchietta, e non te ne importa niente. Avresti perfettamente ragione a disprezzarle, se fossimo capaci di trovarne altre, migliori e più vere”.

[12] “Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali nacquero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, e dalla fine incredibili; che sono sette fonti della difficoltà delle favole” (Scienza nuova, II).

[13] v. G. Sorel, Réflexions sur la violence, trad. it. di A. Sarno, Bari 1970, p. 181. Peraltro Sorel sostiene che i miti “racchiudano le tendenze più spiccate di un popolo, d’un partito, d’una classe; che, con la tenacia propria degl’istinti, si presentino allo spirito, in tutte le circostanze della vita; che, infine, diano un aspetto di piena realtà alle speranze di prossima azione, su cui si fonda la riforma della volontà” (ibidem, p. 180). Onde “importa, dunque, molto poco sapere ciò che i miti contengano di particolari, destinati ad apparire realmente sul piano della storia futura: essi non sono almanacchi strologici. Può anche accadere che niente di ciò che contengono si realizzi – come fu della catastrofe attesa dai primi cristiani” ciò perché “I miti debbono essere presi quali mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione”.

[14] Principe, XV.

[15] v. Précis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 19 (il corsivo è nostro); ma vi ritorna più volte op. cit., p. 72, 76, 93 e così via.

[16] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 155 (il corsivo è nostro).

[17] A proposito del comunismo è interessante notare come Hauriou nel Précis citato (edizione del 1929, cioè più di dieci anni dopo la rivoluzione d’ottobre) scriva: “La Russia sovietica non avrà che un governo di fatto fin quando non avrà ristabilito l’essenziale dell’ordine sociale civile. D’altronde, il governo sovietico si considera da se come semplice potere di fatto, e, per consolazione, decreta l’identificazione di fatto e diritto… Di più questo governo di fatto resterà abusivo e tirannico… anche se questo governo è stato riconosciuto de facto e anche de jure da potenze straniere, in diritto internazionale il riconoscimento di un governo non ha lo stesso significato e la stessa portata che nel diritto pubblico interno”. Questo riporta il discorso – che sarebbe lungo approfondire- sulla legittimità del potere e sul rapporto di questa con il diritto (op. cit.).

[18] Scriveva Oswald Spengler a proposito di quello che, con termine desunto dalla mineralogia chiamava “pseudomorfosi”, e che applicava i rapporti tra forme espressive e sostanza spirituale “Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua s’infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupati. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo a altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contradice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto la specie esteriori di un altro. È ciò che i mineralogi chiamano pseudomorfosi” (Der undergang des abeslandes, trad. it. Di J. Evola, Milano, p. 951).

Ne caso ovviamente non si tratta di rapporti tra forme e concezioni del mondo, e tra culture diverse, ma di miti mobilitanti e realizzazioni istituzionali. Tuttavia la forza mobilitante del mito qui s’incanala e prende la forma non conforme alle aspirazioni, ma a quello della concretizzazione possibile.

 

[19] Elementi di Scienza politica, Torino 1923, pp. 73 ss. (il corsivo è nostro)

[20] Ciò, a seguire quanto sostenuto dal coro dei mass-media.

[21] v. Du Pape, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 161.

[22] Nello specificare in che consiste la razionalità (degli atti) dell’autorità Vico scrive “Requiras igitur ab auctoritate rationem civilem, hoc est communem utilitatem, quam legibus omnibus aliquam subesse necesse est … Quae ratio civilis cum dictet publicam utilitatem, hoc ipso pars rationis naturalis est. Non tota autem ratio est, quia, ut utile dictet omnibus acquum, aliquando aliquibus iniqua est” v. De uno universi juris principio et fine uno caput LXXXIII.

[23] V. G. Zagrebelski, Imparare la democrazia (il corsivo è nostro). Sul piano del metodo il richiamo all’eccezione conferma l’affermazione di Schmitt che “l’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola; la regola stessa vive solo dell’eccezione” (v. Politische theologie, trad. it. di P. Schiera ne le Categorie del politico, Bologna 1972, p. 41) .

[24] V. G. Zagrebelski, op. loc. cit.

[25] “Le organizzazioni della società positiva sono tutte disorganizzate dal denaro; la virtù dei fattori di coesione (tissus) è distrutta dallo spirito critico” e “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente” (trad. di Federica Klitsche de la Grange). M. Hauriou La science sociale traditionelle, Paris 1896, ora rist. in Ecrits sociologiques, Paris 2008 p. 239.

[26] V. H. Kelsen, La pace attraverso il diritto, trad. it. di L. Ciaurro, Torino 1990, p. 119.

[27] Il quale scriveva nella Deutchlands Verfassung “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale … L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli ….. L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità”, mentre “Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” v. trad. it. di A. Plebe in Scritti politici, Bari 1961 pp. 44-45 e p. 32-33.

 

[28] E aggiungeva che “La soluzione del problema, prospettata dalla dottrina pura del diritto è la seguente: come la norma (contenete un dover essere: Sollnorm), considera come senso dell’at concreto per mezzo del quale è statuita, non coincide con questo stesso atto, così la validità normativa (Soll-Geltung) di una norma giuridica non coincide con la sua efficacia concreta (Seins-Wirksamkeit), Reine Rechtslehre trad. it. di Mario Losano, Torino (ed. 1975), p. 241; ma la soluzione del giurista austriaco, pur elegante, lascia perplessi: se il diritto appartiene all’attività pratica dell’uomo, un diritto che sia fatto valere poco o niente non ha alcuna funzione, se non quella, per l’appunto, mitica (nel terzo dei sensi esplicitati prima).

[29] Si sintetizza così un terreno assai frequentato, perché approfondirlo non è necessario per il tema trattato.

[30] È esemplare quanto capitato al sen. Monti che, ritenuto all’inizio il “salvatore d’Italia” a giudizio della maggior parte dei mass-media, dopo un modesto risultato della coalizione che lo sosteneva nelle politiche del 2013, è precipitato alle elezioni europee allo 0,7% di “Scelta civica”, movimento ispirato dallo stesso. Una percentuale che ne rivela il gradimento popolare irrilevante.

[31] B. Croce, Etica e politica, Bari 1931, p. 165.

[32] Anzi, si può sicuramente affermare che un regime politico che non pretenda di detenere, (insegnare, ordinare, pretendere) la verità è sicuramente più accettabile del contrario. Ma pone una serie di problemi affrontati da millenni dal pensiero filosofico e teologico: dal quid est veritas di Ponzio Pilato, all’affermazione di Giustiniano di detenere il diritto di prescrivere ai sudditi i “veri dei dogmata” alla lotta di Guglielmo di Ockem contro la teocrazia papale alla rivendicazione di Lutero che non si può comandare alla coscienza; dalle pagine di Spinoza alla distinzione tra potere spirituale e temporale della de ecclesiastica potestate declaratio (e dell’obbedienza dovuta) attribuita a Bossuet. E che Vico aveva espresso sinteticamente e precisamente in quel titolo sopra ricordato. Ma una trattazione del genere esula dai limiti del presente scritto.

[33] Du Pape, trad. it. Milano 1994, p. 155; il presupposto e la sostanza di ciò era già affermato da Machiavelli Principe, cap. XVIII

[34] Dei tre componenti del “triedro della guerra” di Clausewitz, ricordiamo solo il primo perché il secondo è più “tecnico”, il terzo, assai importante e spesso decisivo, non sempre ricorre nelle guerre reali, onde è necessario suscitarlo con un’accorta propaganda: dal preteso uso dei gas agli stupri di massa, spesso non corrispondenti a verità né limitata ad una parte in causa.

[35] C’è poi – oltre a quelli ricordati – un mito giuridico a effetti ancor più generali. E’ quello stigmatizzato, tra gli altri, come scriveva Gustave Le Bon per la Francia del suo Tempo (ma lo stesso vale per tante altre ragioni e per il periodo storico attuale): “Ci s’imbatte in Francia in una  massa di gente che si dichiara libera da qualsiasi fede religiosa, che non crede più agli dèi, che disprezza le superstizioni … Eppure in questo Paese di liberi pensatori sarebbe difficile trovare cittadini che manifestino il più lieve dubbio riguardo all’infallibile potenza delle costituzioni e delle leggi. Siamo tutti fermamente convinti che i testi legislativi possono modificare a piacere le condizioni sociali di un popolo. Con le leggi ogni riforma è possibile. Non dipende che da esse arricchire il povero alle spese del ricco, pareggiare le condizioni di tutti e assicurare la felicità universale” v. La Psychologie politique, trad. it. di A. Popa, Roma s.d., p. 53.

È  un mito “moderno” per eccellenza, già sottolineato da Joseph De Maistre che osservava “L’uomo, poiché agisce, crede di agire da solo; e poiché ha la coscienza della sua libertà, dimentica la sua dipendenza. . Nell’ordine fisico intende  ragione, e sebbene possa, per esempio, piantare una ghianda, innaffiarla, ecc., è capace tuttavia di convenire che non è lui a fare le querce … ma nell’ordine sociale, in cui è presente e operante, si mette a credere di essere realmente l’autore diretto di tutto ciò che si fa per suo mezzo: in un certo senso, è la cazzuola che si crede architetto … Il secolo diciottesimo, che di nulla si rese conto, non dubitò di nulla: è la regola; e non credo che esso abbia prodotto un solo giovincello di qualche talento che, uscendo di collegio, non abbia fatto tre cose: una neopedia, una costituzione e un mondo” (v. “Essai sur le princpipe génerateur des constitutions politiques…”, trad. it. di Roberto De Mattei, Milano 1975, pp. 41 e 39)

Dalla fiducia nella volontà umana si passa a quella dell’onnipotenza, almeno in relazione alle “regolarità”, presupposti e costanti politiche e sociali

 

[36] V. Carl Schmitt, Die tyrannie der Werte, trad. it.di Forstohff – Falconi Roma 1997 pp.35 ss.; Max Scheler Politik und moral, trad. it. Di L. Allodi; Brescia 2011 pp. 125 ss..; Max Weber ne Il Metodo della scienza storico sociale, trad. it. di P.Rossi, Milano 1980, p. 332.

[37] Il che va ricondotto alla tesi di Hauriou che all’autorità statale è connaturale il potere di coazione (e così alla  funzione pubblica). Se jus dicere e potere di applicare il decisum del giudizio non appartengono alla stessa – com’è naturale per la giustizia “internazionale” – il grado di effettiva applicazione del diritto tende a ridursi e con esso l’efficacia. Lo stesso succede laddove ricorrono situazioni di grave crisi (guerra civile, dualismo dei poteri).

[38] De civitate dei, lib.XI, 17.

RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN_ di Massimo Morigi

CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE O CULLA DEL NUOVO MONDO? RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN

DI MASSIMO MORIGI

Come del resto per palesemente manifestata intenzione comunicativa dell’autore, l’assai denso e stimolante contributo di Pierluigi Fagan per “L’Italia e il mondo”,  Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare (URL di riferimento: http://italiaeilmondo.com/2018/04/05/il-conflitto-permanente-come-culla-del-nuovo-mondo-multipolare-di-pier-luigi-fagan/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWLdQbR;https://pierluigifagan.wordpress.com/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWkATvg) contiene due distinti livelli di analisi. Il primo, mostrato immediatamente in apertura del contributo, riguarda il problema di come e se si possa parlare di conoscenza scientifica nelle scienze politiche e sociali (Fagan, per la verità, non usa questa impostazione terminologica ed epistemologica ma ci mette in guardia contro le “false analogie”che, come sappiamo, sono state la grande trappola di tutte quelle impostazioni – in primis quella della scuola positivista, ma di questa ingenuità “analogica” non solo il positivismo si è macchiato, come ben illustra riguardo il moderno realismo classico l’articolo di Fagan –,  che volevano rendere le scienze storiche e sociali una scienza di tipo meccanicistico-naturalistico). Il secondo, che attraversa ed innerva tutto il contributo, è volto a dare un volto ed una fisiologia al nuovo mondo multipolare che stiamo vivendo dopo la caduta del muro di Berlino. Ma Fagan non vuole limitarsi a fornirci (in tutto il suo intervento: in maniera egregia) questa rappresentazione ma lo scopo finale del contributo, in gran parte riuscito (poi con qualche distinguo che avanzeremo), è intrecciare il livello di critica epistemologica contro una metodologia interpretativa facilona ed analogica del ragionamento sulla storia e la società basata  sulle false analogie con la presa d’atto del  mutamento in senso multipolare dello scenario internazionale, in un percorso argomentativo dove questo mondo multipolare, proprio per la sua novità, è da un lato la pietra tombale dell’ingenuità di tipo analogico e, dall’altro. ci deve introdurre alla consapevolezza di una visione dove il conflitto attraversa tutti i livelli dell’umano operare. Forse il passaggio dove meglio viene esplicitata questa tensione all’unione del livello della costruzione di una nuova teoresi storica e sociale con la sua (brillante) presa d’atto della multipolarità dell’attuale (e futuro) scenario internazionale è il seguente: «Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.» Il realismo che quindi dovrebbe essere all’altezza dell’interpretazione del nuovo mondo multipolare viene definito come un «nuovo “realismo complesso”» , un nuovo realismo complesso che, come il lettore potrà verificare dalla lettura del contributo, partendo dai due caposcuola del realismo politico Hans Morgenthau e Kenneth Waltz, intende su questi due autori compiere una sorta di hegeliana Aufhebung che faccia giustizia soprattutto delle false analogie che, come ben ci mostra Fagan, hanno sempre afflitto anche un’impostazione interpretativa della politica, il realismo, che, proprio per onorare il suo termine, dovrebbe stare religiosamente attaccata alla realtà effettuale e rifuggire dalle facili ed ingenue analogie tanto giustamente deprecate da Fagan (e tanto inutili, sottolinea assai opportunamente sempre per Fagan, a comprendere il nuovo mondo multipolare che non ha nessuna analogia col vecchio mondo bipolare dove esercitarono la loro dottrina Morgenthau e Waltz). Ma questo superamento/conservazione del moderno realismo politico classico (quello, per intenderci dei sunnominati Waltz e Morgenthau e di tutti coloro che hanno operato sulla loro scia nel secondo dopoguerra: per lo scrivente discorso molto diverso per il realismo à la Tucidide e, soprattutto,  à la Machiavelli, assolutamente  costoro più dialettici e teleologici dei due autori realisti che hanno segnato gli ultimi settant’anni di studi) questa Aufhebung alla luce di un nuovo realismo complesso, trova una completa definizione in Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare? Su questo punto è lecito avanzare qualche perplessità e questo non per mancanza di acutezza critica e nell’analisi delle fallacie interpretative del moderno  realismo classico o della nuova situazione che si è prodotta nel mondo con la polverizzazione dei centri di potere ma perché nell’attuale scienza politica (e quindi questa critica non è solo per Fagan ma è anche per lo scrivente) deve essere ancora compiuto dal punto di vista della teoresi politica quel percorso di completo distacco dal meccanicismo positivistico (e quindi, di riflesso, anche dalle false analogie tanto deprecate da Fagan). Ma, del resto, è proprio Fagan ad indicarci che è proprio questo il punto che deve essere superato quando scrive che «Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti ». Qui Fagan con “fisica realista”si riferisce specificamente alla dinamica dei rapporti internazionali come meccanicisticamente e violentemente inquadrati dal realismo alla Morghenthau o alla Waltz ma ci sia consentito di fare un (benevolo) processo alle intenzioni a Fagan dicendo che il nostro ha (giustamente) indicato un Écrasez linfâme! nel meccanicismo pseudonaturalistico di stampo galileano e poi positivistico e neopositivistico che ormai da cinque secoli sta ammorbando le scienze storiche e sociali. A questo punto nel rilevare il non ancora soddisfacente percorso teorico del nuovo realismo politico proposto da Fagan, si potrebbe evidenziare con la matita rossa il non avere affrontato il problema del costruttivista Alexander Wendt, cioè se sia condivisibile o meno l’impostazione che l’anarchia del sistema internazionale sia un dato di natura prettamente culturale e per niente “meccanica”(problema affrontato dal Alexander Wendt in Id., Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425, articolo consultabile all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf e che noi per la sua importanza abbiamo anche caricato  su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf e https://ia601506.us.archive.org/7/items/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf/AlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf), oppure, per risalire alle origini della geopolitica (geopolitica e realismo politico moderno, come si sa, hanno stretti vincoli di parentela, e senza voler forzare troppo la mano, si potrebbe dire che il moderno realismo politico è, per molti versi, la traduzione anglosassone del secondo dopoguerra  della geopolitica di area tedesca – cfr. Patricia Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo fra Otto e Novecento, Roma, Carocci Editore, 2014; e nonostante questa strettissima filiazione con il moderno realismo politico di area anglosassone, geopolitica condannata alla damnatio memoriae per i suoi reali, e presunti,  legami col nazismo – Haushofer maestro di Rudolf Hess, Hess  a sua volta sinistro Virgilio di geopolitica di Hitler incarcerato nella prigione di Landsberg am Lech dopo il fallito putch di Monaco e che durante questa dorata carcerazione, potendo anche approfondire la sua superficiale conoscenza della geopolitica, scrisse il Mein Kampf – e per l’essere stata  considerata la Germania del  Novecento – e quindi in extenso tutta la sua cultura politico-strategica, fra cui in prima fila la geopolitica –  la protagonista e colpevole per l’annientamento a livello globale dell’importanza del Vecchio continente), il non avere Fagan citato  Kjellén e la sua concezione dello Stato come forma di vita (Rudolf Kjellén, Staten som lifsform, Gebers, 1916): il punto vero è che sia Wendt che Kjellén, pur andando nella giusta direzione di un modello teorico antimeccanicisitico, né riescono, in fondo, a proporne uno alternativo né escono, di conseguenza, dalle false analogie tanto giustamente deprecate da Fagan.

In particolare, in Wendt, seppur particolarmente sentita la necessità di uscire dal modello meccanicistico di stampo galileiano, e allo scopo Wendt arriva a ricorrere alla meccanica quantistica da lui ritenuto alternativo alla fisica meccanicistica galileano-newtoniana (cfr. Alexander Wendt, Quantum mind and social science: unifying physical and social ontology, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; questa impostazione “quantistica”, denunciando a giudizio del Repubblicanesimo Geopolitico, una notevole e del tutto giustificata “nostalgia” verso un ritorno di una dialettica di stampo hegeliano) non ci si decide mai, alla fine, di prendere il coraggio a due mani arrivando ad affermare, come invece in Fagan, che gli Stati  “sono entità intenzionali ed autocoscienti” ma il suo costruttivismo è orientato ad affermare che l’intenzionalità ed autocoscienza degli Stati sono, in ultima analisi, un espediente euristico per giudicare la dinamica interna ed esterna di  questi Stati e non un giudizio in merito alla loro intima natura (così facendo, è ovvio, Wendt evita false analogie di tipo organicistico ma, altrettanto ovvio, compie un debole compromesso verso quel meccanicismo che egli vorrebbe demolire in direzione di un organicismo che dovrebbe sì lasciarsi alle spalle ogni falsa analogia ma che per essere veramente epistemologicamente innovativo e produttivo dal punto di vista di un rinnovato realismo dovrebbe andare, come però non riesce alla fine ad accadere in Wendt, alla riscoperta di un organicismo antimeccanicistico lungo la direttiva teleologica – e, aggiungiamo noi, intimamente dialettica e, quindi, in ultima analisi, hegeliano-idealistica –  Aristotele-Machiavelli).

Kjellén, al contrario, col suo Stato come organismo vivente, compie sì un grande e coraggioso passo ma in lui è fortissima la presenza della falsa analogia di una visione certamente organica ma visione organica che è quasi totalmente in preda di un organicismo di stampo positivistico e meccanicistico (e, vista l’epoca, senza alcuna possibilità di fuoruscita dalla stesso attraverso la fisica “alternativa” della meccanica quantistica, in primis dei suoi principii, da un certo punto di vista alquanto dialettici,  della superposition quantistica, della complementarietà e, last but not the least per la sua immensa portata teleologica, dell’observer effect).

In conclusione, il problema è uscire dalle false analogie nel giudicare gli eventi storici e sociali, false analogie che possono originare semplicemente dal paragonare l’attuale mondo multipolare con l’appena tramontato mondo pre caduta muro di Berlino, ma, ancor più grave, false analogie che ci giungono dal vedere il mondo delle relazioni umane dominato da schemi meccanicistici e in cui, in questo caso, la corretta  via d’uscita è dotare, come ha fatto Fagan, gli Stati e le formazioni sociali umane (ma, aggiungiamo noi, anche non umane) di una loro capacità organica (ma qui con il rischio che questa loro natura organica sia immiserita e snaturata, a sua volta, da una sorta di meccanicismo deterministico, o ancor peggio – e qui lo diciamo di sfuggita, ma rischio che deve essere sottolineato –  che la natura organica e  quindi teleologica e quindi dialettica di questi aggregati – ineludibile natura teleologica e dialettica degli aggregati organici sociali, storici, culturali o biologici che siano, in assenza della quale questi non potrebbero relazionarsi con l’ambiente e, quindi, in ultima istanza, esistere: rimandiamo ancora una volta a Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 – venga confusa con una sorta di spiritistico  ed irrazionalistico élan vital di bergsoniana memoria).

E allora? Ci permettiamo di indicare (non di dimostrare, per carità, le dimostrazioni le lasciamo ai geometri neopositivisti) la risoluzione sciogliendo la domanda retorica del titolo di queste riflessioni al contributo di Fargan in senso positivo e quindi affermando che il conflitto non è solo la culla del nuovo mondo multipolare ma è, soprattutto, la culla del mondo tout court. Ed affermando, inoltre, che perché questa “culla del mondo” possa essere il luogo di un conflitto umanamente profondo e produttivo, non è possibile prescindere da un’autentica e sentita filosofia della prassi che non si limiti ad analizzare il conflitto ma che questo conflitto costituisca e riconosca come categoria gnoseologica ed epistemologica interiormente vissuta e progressivamente ed attivamente proiettata verso una realtà esterna che, proprio in ragione di questa comune natura conflittuale, sia dinamicamente e dialetticamente legata all’agente che ne ha compresa la comune radice creativo-dialettico-strategico-conflittuale.

La proposta è, quindi, aggiornata sul piano empirico dalla consapevolezza di uno scenario politico multipolare   (e magari integrata sul piano delle scienze naturali dagli interessanti apporti euristici dati anche dalla meccanica quantistica ma non solo, vedi teoria del caos – antesegnano della quale Carl von Clausewitz ed il suo Vom Kriege ed epigenetica – vedi i lavori di Eva Jablonka, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb, Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005 –, temi da noi già sfiorati in Dialecticvs Nvncivs e altrove, e che troveranno una più profonda trattazione in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma su un piano teorico più alto, animata dalla consapevolezza della natura costitutiva del conflitto nella morfogenesi del mondo naturale ed umano lungo la direttiva di una filosofia della prassi che vede in Giovanni Gentile, Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere e nel György Lukács di Storia e coscienza di classe i suoi più recenti terminali ma che ha avuto inizio con la phronesis aristotelica per continuare con Machiavelli e poi con Hegel, quella stessa, in fondo, del “realismo complesso” indicata da Fagan. Ovviamente non pretendendo, proprio per la natura complessa di questo realismo, che egli possa concordare su ogni singolo punto qui esposto ma sperando, sempre per la natura complessa e quindi dialettica di questo realismo, che questo dibattito, ponendo la parola fine ad ogni ingenua, passiva e meccanicistica analogia, possa essere l’inizio di  nuove profonde ed attive linee di azione.

Massimo Morigi – 14 aprile 2018

 

 

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA

 

di Luigi Longo

 

 

  1. La fase multicentrica sta avendo delle impennate per il dinamismo degli USA. Un dinamismo criminale, spregiudicato, delinquenziale e fuorilegge basato sulla forza militare che assume un peso specifico nelle relazioni interne ed esterne alla potenza mondiale USA nelle fasi multicentrica e policentrica.

Le suddette fasi mondiali tolgono il velo della ipocrisia e della falsa coscienza necessaria sulla democrazia e sulla libertà praticate in Occidente e portate a modello a livello mondiale [si pensi, per esempio, a quella democrazia esportata e difesa in tutto il mondo attraverso il bombardamento etico (è il titolo di un bel libro di Costanzo Preve), statunitense, con mandato divino (sic)] che ora si rivelano essere principi decisamente astratti, che poco hanno a che fare con la realtà nella quale gli agenti strategici dominanti, vettori del conflitto strategico tra le potenze mondiali, hanno bisogno di decisioni, con una filiera del comando accorciata all’essenziale duro e sbrigativo, attraverso le articolazioni istituzionali presenti sul peculiare e storico territorio nazionale che chiamiamo Stato. Il diritto, inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali e territoriali subisce così processi di ri-modulazione, ri-pensamento e re-invenzione. Lo stato di eccezione schmittiano diventa una eccezione regolare storicamente data che si ripresenta necessariamente nelle fasi multicentrica e policentrica del conflitto mondiale. E’ una costante storica che deve portarci a ri-considerare le relazioni e i rapporti sociali reali nelle diverse fasi della storia mondiale che definiamo monocentrica (la presenza di una potenza mondiale che funge da centro di coordinamento), multicentrica (la presenza di più potenze che fungono da coordinamento di diversi centri egemonici che si contengono l’egemonia mondiale), policentrica (il conflitto mondiale tra centri consolidati per il dominio mondiale).

 

 

  1. Gli USA sono una potenza egemone in declino che non riesce a trovare una sintesi intorno ad un gruppo strategico dominante (per i conflitti interni tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali) capace di frenare il proprio declino e rilanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale (alla Russia e alla Cina con le loro aree di influenza sempre più larghe e penetranti il territorio mondiale) che si basi su una nuova idea di società, di sviluppo, di rapporto sociale; va ricordato che non è nella storia statunitense la cultura multicentrica del mondo e la capacità di confronto tra nazioni e tra Occidente e Oriente.

La guerra in Siria, al contrario delle altre guerre nel Medio Oriente (Iraq), nei Balcani (ex Jugoslavia) e nel Nord Africa (Libia), può rappresentare il punto di svolta verso il consolidamento del polo di aggregazione intorno alla Russia e alla Cina [che già collaborano nella sfera economica (risorse energetiche, via della seta, trattati di area, accordi commerciali, eccetera)] capace di approntare una strategia tutta orientale che lancia un confronto tra nazioni eguali con una visione multicentrica del mondo e un nuovo rapporto tra Oriente e Occidente [senza dimenticare né l’influenza della sedimentazione storica del rapporto tra Russia ed Europa a partire dalla metà del XV secolo con lo zar Ivan III (1440-1505), né l’attrito storico tra Russia e Cina]. Non si tratta di un confronto basato sulla forza militare ma sul dialogo e sul confronto tra storie, culture, popoli diversi. Tale confronto non esclude affatto le questioni fondamentali quali i rapporti sociali basati sul potere e sul dominio che riguardano sia le logiche interne che esterne delle nazioni e delle relazioni con le nazioni divenute potenze mondiali [si pensi, per esempio, a quanta influenza ha l’egemonia USA nel decidere lo sviluppo e la politica delle nazioni europee e dell’Unione Europea (che è bene ricordarlo non è l’Europa della nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti)].

Gli USA devono bloccare con la forza militare la possibilità di formazione del polo Russia-Cina perché sanno che l’avverarsi di tale polo, unito alla loro incapacità di fermare il proprio declino egemonico e alla convinzione che l’unica strada percorribile sia quella della guerra (è attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale), non sarebbe altro che l’inizio della transizione egemonica con una diversa riorganizzazione sistemica. Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, due importanti protagonisti delle strategie di dominio statunitensi, hanno sempre combattuto e temuto la formazione di un polo sia euroasiatico (Europa-Russia) sia asiatico (Russia-Cina) perché vedevano in esso una seria minaccia alla egemonia mondiale statunitense.

La guerra USA, al contrario di quello che pensava Niccolò Macchiavelli (ne Il Principe) che la intendeva come portatrice di benessere, è solo distruzione di popoli, di territori e di nazioni per contenere la Russia e distruggere sul nascere il polo di formazione asiatico intorno a Russia e Cina.

Il declino egemonico mondiale degli USA sta nella perdita della capacità di un modello sociale di benessere interno ed esterno; gli Stati Uniti basano la loro resistenza egemonica solo sulla forza militare aggressiva e distruttrice senza creazione, senza consenso e senza confronto.

 

 

  1. L’Europa resta il teatro passivo del conflitto tra le potenze mondiali che si andrà sviluppando nelle surriportate fasi della storia mondiale. I sub agenti strategici, che dominano i luoghi istituzionali dell’Unione Europea, da tempo stanno accompagnando le diverse strategie USA di contenimento della Russia e di contrasto alla formazione del polo asiatico. Si pensi al ruolo dell’UE e delle singole nazioni europee all’interno della NATO, alla trasformazione della NATO da strumento di difesa contro la minaccia sovietica a strumento di attacco fuori area (la Nato Responce Force), alla militarizzazione tramite Nato del territorio europeo, alle infrastrutture civili da supporto a quelle militari della Nato, alla nascita della PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, agli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio europeo, all’americanizzazione del territorio europeo, eccetera; temi dei quali ho già trattato in precedenti scritti.

Il processo di americanizzazione europeo ha condizionato fortemente lo sviluppo e l’autonomia delle singole nazioni; ha ridotto l’Europa ad una espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi nelle diverse aree mondiali. Tutte le succitate guerre degli USA [di invasione e di violenza alla sovranità nazionale tramite ONU o tramite NATO o tramite coalizione internazionale o tramite attacco diretto con alleati), a partire dalla implosione dell’URSS (1991)] hanno visto la partecipazione di diverse nazioni europee che si sono ritagliate spazi nella sfera economica (gestione di risorse energetiche, allargamento di aree di influenza e di mercato per le imprese, eccetera), ma sotto stretta sorveglianza delle diverse strategie politiche della potenza imperiale statunitense sempre per contrastare le nascenti potenze mondiali (Russia e Cina) capaci di sfidare l’egemonia statunitense [ esempi recenti la guerra di Libia (iniziata nel 2011) e la guerra in Siria (iniziata nel 2011)].

La stessa storia si ripete oggi, in maniera diversa, con il recente attacco USA alla Siria, dopo sette anni di tentativi di smembramento di una nazione sovrana, con morti e sofferenze inenarrabili della popolazione, insieme agli alleati ufficiali europei (Francia e Regno Unito) interessati alla sfera economica, per contrastare l’egemonia dell’area della Russia e il consolidamento di una potenza regionale come l’Iran che minerebbe il ruolo di Israele come potenza regionale vassallo USA nella politica in Medio Oriente (senza dimenticare la questione storica, politica e territoriale della Turchia), area nevralgica del conflitto strategico mondiale. Il pretesto dell’uso di armi chimiche non regge: perché Bashar al-Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche sulla popolazione di Douma, nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della regione Ghouta orientale, quando ormai i ribelli erano pronti alla resa?

E’ emblematico che nessuna nazione europea abbia protestato duramente contro il criminale attacco degli USA e dei suoi alleati; anzi, è stato sostenuto dal Segretario della Nato Jens Stoltenberg e appoggiato dalla UE, dalla Germania (Angela Merkel: risposta “necessaria e appropriata” agli attacchi chimici), Giappone, Canada e Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha bocciato una bozza di risoluzione proposta dalla Russia che “condannava l’aggressione contro la Siria da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, in violazione delle leggi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite”.

 

 

  1. L’Italia è una drammatica espressione geografica a servizio degli USA che considerano il territorio italiano fondamentale per le loro strategie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, oltre ad ospitare basi Nato-USA di grande rilievo e importanza.

L’Italia, a partire dalla sua Unità sotto il coordinamento inglese fino alla direzione statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, può essere un laboratorio storico e politico per capire come l’egemonia inglese prima e quella degli Stati Uniti dopo, hanno piegato lo sviluppo del nostro Paese alle loro strategie di dominio, sia con la forza ( uccisioni di agenti strategici che pensavano alla sovranità e allo sviluppo del Paese), sia con il consenso (selezione di sub agenti strategici pronti a sacrificarsi per il bene del Paese alla servitù inglese e statunitense).

Qual è la reazione dell’Italia alla criminale aggressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla nazione sovrana della Siria fatta in questi giorni? E’ emblematica della stupidità della nostra classe dirigente ben selezionata per il bene del nostro Paese.

L’account Twitter ItaMilRadar, che monitora il traffico aereo militare sui cieli italiani e sul Mediterraneo, ha riferito che due aerei militari della US Navy sono decollati dalla base Sigonella. Il primo, per pattugliare l’area al largo del porto siriano di Latakia nei cui pressi si trova la base militare russa, il secondo per svolgere attività di pattugliamento verso Est. Un Boeing E-3 della Nato ha invece svolto attività di pattugliamento nei pressi del confine tra Turchia e Siria. Ovviamente è un pattugliamento di carattere ordinario! ( www.lasicilia.it, 11/4/2018).

Il 10 aprile scorso l’Agenzia Al Sura ha segnalato che una cisterna volante italiana KC-767 è entrata in Giordania dallo spazio aereo dell’Arabia Saudita.

Le basi Nato-Usa in Italia sono in piena allerta e pronte per gli interventi in Siria. Inoltre, l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Pasquale Preziosa, ci ha ricordato che la base Nato di Sigonella in Sicilia, dove sono ubicati i droni strategici RQ-4 Global Hawk, è importante sia geograficamente sia strategicamente per l’attacco USA in Siria (intervista di Paolo S. Orrù pubblicata su www.tiscali.it, 14/4/2018).

Bene. Cosa fanno i nostri leader politici? Silenzio: il silenzio della paura. L’unica dichiarazione ambigua e strumentale è stata quella di Matteo Salvini che ha criticato l’attacco USA e ha precisato comunque l’importanza di stare dentro l’alleanza atlantica e che il problema è Donald Trump, come se la qualità di un Presidente facesse venir meno la criminalità imperiale statunitense.

E i nostri parlamentari? I più intelligenti hanno chiesto al Governo di conferire in Aula per conoscere i fatti ed informare il Parlamento delle iniziative prese nelle sedi competenti per una inchiesta internazionale indipendente per far luce su quanto accaduto.

 

 

  1. 5. Questo ruolo di servitù volontaria ha impedito all’Europa di essere un soggetto politico espressione di una Sintesi delle Nazioni con una propria autonomia e con un proprio ruolo da giocare nello scambio sociale, economico, culturale e politico tra Occidente e Oriente: Perché? Quali le ragioni storiche e politiche? Quali le strategie per cambiare sguardo e guardare a Oriente per un mondo multicentrico che allontani sempre più la fase policentrica?

Occorrono nuovi agenti strategici in un mondo in forte movimento per il trapasso di epoca così come sosteneva Niccolò Macchiavelli, nella Mandragola la più bella commedia italiana scritta tra il 1513 e i primi mesi del 1514, :<< […] L’espressività di Nicia, il suo sputare motti popolari a raffica diventano emblematici di un attaccamento ottuso a una fiorentinità senza prospettive, in un’epoca in cui […] la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia richiederebbe uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile >>.

 

La crisi siriana e l’Italia, di Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia

 

Mentre scrivo è in corso la riunione del Consiglio di Sicurezza ONU sulla crisi siriana. Registro le due dichiarazioni molto dure e direttamente antirusse di Stati Uniti e Francia, la dichiarazione interlocutoria della Cina che invita a una soluzione politica e non militare della crisi, e la dichiarazione più cauta del Regno Unito che non dà per scontata la responsabilità siriana nell’uso dei gas: il governo May è debole, i laburisti protestano, i conservatori non sono saldamente uniti, e il Ministro della Difesa russo proprio oggi ha ufficialmente accusato il governo britannico di aver appoggiato chi ha inscenato “il falso attacco provocatorio con i gas”.

In Italia non si registrano prese di posizione serie sulla crisi siriana. Si è costretti a prendere atto, con dispiacere e vergogna, di un allineamento totale del PD alle posizioni USA più oltranziste, quando persino all’interno dell’Amministrazione americana e tra gli alti gradi delle FFAA USA ci sono serie perplessità e posizioni nettamente contrarie a un attacco non dimostrativo contro Siria e Russia. Unico a invitare alla calma e a non invischiarsi in una situazione pericolosa, Matteo Salvini: nel paese dei ciechi l’orbo è re, ma non basta.

Che cosa rischiano l’Italia e il mondo intero? In sintesi, quanto segue. In caso di un attacco USA non dimostrativo contro la Siria e il suo alleato russo, l’enorme superiorità di mezzi di cui dispongono gli USA nel teatro mediterraneo può soverchiare le difese siriane e russe. Una prima fitta ondata di missili viene abbattuta dal sistema difensivo russo-siriano che però esaurisce lo stock missilistico, che non è possibile rifornire in tempo utile per le difficoltà logistiche imposte dalla distanza tra Russia e Siria. Una seconda ondata passa e causa gravi danni, colpendo personale siriano e russo. I russi sono costretti a rispondere dal Mar Caspio e dal Mar Nero, forse anche dal suolo russo. Gli USA rispondono, lo scontro si internazionalizza. Se un missile USA colpisce il suolo russo, la Russia colpirà il suolo americano. Sebbene lo scenario sinora tratteggiato non preveda l’uso di armi nucleari, nessuno può escludere che l’escalation vi conduca. E naturalmente, a ogni passo dell’escalation diventa sempre più difficile la de-escalation, sempre maggiori le probabilità di una perdita di controllo da parte di uno o entrambi i contendenti.

Per la sua posizione geografica, in caso di attacco USA non dimostrativo l’Italia sarà in prima linea, perché gli USA vorranno usare le loro basi situate su territorio italiano. Chi dice “siamo nella NATO e dunque dobbiamo appoggiare l’intervento americano contro la Siria” mente spudoratamente. La NATO non, ripeto NON c’entra niente con l’intervento USA contro la Siria. Un’azione aggressiva NATO esige l’accordo unanime, ripeto unanime, dei membri dell’alleanza. Né alcun membro NATO è stato aggredito dalla Siria o dalla Russia. Se dalle basi USA (USA, non NATO) presenti sul territorio italiano partissero truppe o voli diretti ad aggredire la Siria, questo avverrebbe con la piena corresponsabilità del governo italiano e della nazione. Nelle basi USA su territorio italiano, infatti, ci sono due comandanti, uno americano uno italiano. Il comandante americano è tenuto a comunicare in anticipo al comandante italiano tutte le operazioni, e il comandante italiano può autorizzarle oppure no, ripeto OPPURE NO. In caso di attacco USA contro la Siria che parta da basi USA su territorio italiano, il comandante italiano della base USA è tenuto a comunicare ai superiori gerarchici il piano operativo a lui sottoposto dal comandante americano, e i superiori gerarchici a informarne il governo e il Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché un atto di guerra contro la Siria e la Russia intrapreso da base USA su territorio italiano configura un identico atto di guerra dell’Italia contro Siria e Russia. Per intenderci: se la Russia rispondesse a un attacco USA partito dall’Italia attaccando obiettivi militari su territorio italiano, sarebbe giustificata dal diritto di guerra. Invitiamo caldamente tutte le forze politiche che abbiano a cuore la sicurezza e l’onore nazionale a fare pressione sul governo e sul Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché con apposita comunicazione scritta ribadiscano a tutti comandanti italiani di basi militari USA che è loro diritto e dovere esigere dal comandante americano il controllo preventivo del piano di operazioni, e comunicare prontamente per via gerarchica al governo eventuali piani di operazioni USA contro Siria e Russia che partano dal suolo italiano. Se questa possibilità si verifica, viste le gravi ripercussioni possibili e anzi probabili, il governo è politicamente e moralmente tenuto a darne notizia al Parlamento, e a sottoporre a un voto delle Camere l’autorizzazione italiana di qualsivoglia operazione americana contro Siria e Russia in partenza dal territorio nazionale. Vogliamo sperare che i rappresentanti del popolo italiano si mostrerebbero all’altezza del loro ufficio, negando l’autorizzazione e così tutelando sicurezza e onore dell’Italia. Chi non lo facesse si assumerebbe una gravissima responsabilità storica e morale.

 

PARASSITARIO O PREDATORIO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARASSITARIO O PREDATORIO?

  1. Come è noto gli studiosi (italiani) di Scienza delle finanze sono soliti distinguere gli assetti di potere (sotto il profilo economico-finanziario) coercitivi in: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i più sono sottomessi e sfruttati al fine di trovare durevole vantaggio a favore di ceti ed interessi preferiti dalla élite dirigente); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile “a breve periodo”). Gli assetti suddetti non sono definiti in maniera univoca, né i criteri sono i medesimi per tutti gli studiosi che se ne sono occupati[1].

La distinzione, vicina (e in parte lo comprende) – al giudizio di Max Weber per la quale l’uomo politico vive, in qualche misura, anche di politica (e non solo per la politica), non è spesso agevolmente applicabile al concreto perché in diversa misura ogni organizzazione, anche la più tutoriale ed efficiente – ha dei costi (compresi quelli del vertice direttivo), come li hanno le altre. Onde spesso la distinzione si fonda su elementi quantitativi più che qualitativi.

Per cui la “soglia” tra l’uno e l’altro assetto è determinata (per lo più) dal quantum idoneo a distinguerli; ma non è solo questione – anche se è l’aspetto più importante – di percentuale di ricchezza prelevata (o estorta) ai governati, ma anche – ad esempio – dell’uso della forza, del provvedimento in luogo del contratto e così via.

  1. A quasi nove anni dall’inizio della crisi economica e delle vicende, in particolare italiane, che ne sono conseguite, è da chiedersi quanto le trasformazioni intervenute nell’assetto dei rapporti economici tra classe dirigente e cittadini siano riconducibili (nel risultato) ad una delle tre specie identificate.

All’uopo è meglio ricordare – tra i tanti dati disponibili (più o meno affidabili) che: quanto al PIL questo, tra il 2000 e il 2016 è cresciuto meno di un punto percentuale (dato ISTAT settembre 2017); invece l’aumento della pressione fiscale rispetto al PIL è stato il secondo più alto d’Europa, ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%) e più del triplo della Ue a 28 paesi (1%)[2]; nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%[3].

Peraltro i dati vanno compresi (e l’effetto spesso è peggiore): ad esempio l’IVA è aumentata (durante il periodo della crisi) di due punti percentuali (dal 20% al 22%). Il gettito in termini reali è lievemente calato, ma solo perché la crisi ha ristretto la base imponibile per cui, onde ottenere un gettito più o meno pari, il governo è stato costretto ad aumentare del 2% l’aliquota (dal 20 al 22%). E così si potrebbe andare avanti citando fonti ufficiali (credibili fino ad un certo punto) e non ufficiali (meno credibili?).

Da questi (e altri) dati possono farsi due considerazioni generali. La prima è che la crisi economica ha decurtato il reddito di tutti i cittadini; la seconda, che, invece, non ha inciso (o molto meno) sulle élite dirigenti e su coloro che vivono del bilancio pubblico: il costante aumento del prelievo fiscale – malgrado la contrazione della base imponibile – lo prova. Il reddito calante (per i governati) si è sommato al prelievo crescente.

Qualcuno potrebbe sostenere, a seguire Gaetano Mosca, che la ragione di ciò è “la naturale tendenza, che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri”. Ovviamente a beneficio proprio e dei propri protetti/seguaci (e protettori). Ma è da chiedersi, fino a quando? L’equilibrio tra costi e benefici delle organizzazioni delle comunità non è mai pari: l’importante, per mantenerlo, è che non sia troppo distante dalla parità.

Quando nell’impero romano si ruppe – Settimio Severo lo predicò sul letto di morte – quell’equilibrio (progressivamente peggiorando), avvenne che i sudditi dell’impero scappavano dalle zone ancora amministrate dai funzionari imperiali verso quelle occupate dai barbari, le cui pretese erano assai più “miti” di quelle degli esattori romani[4].

Anche nell’Italia contemporanea abbiamo almeno due “classi” di cittadini italiani che scappano (in massa, come i romani): coloro che cercano (e trovano) lavoro all’estero (nel 2016 oltre centomila) prevalentemente giovani; e i pensionati che si trasferiscono in paesi (anche europei come il Portogallo) dove la vita è meno costosa e il fisco meno rapace (per i quali, a leggere i giornali, il fisco sta studiando come tosarli meglio).

  1. Ciò stante cerchiamo di dare una risposta all’interrogativo iniziale: a quale dei tre assetti corrisponde la situazione concreta dell’Italia?

Quello sicuramente da escludere è che si tratti di un assetto tutorio (il preferibile per i governati). La classe dirigente – e i suoi manutengoli mediatici – si affannano a sostenere che tra costi e benefici c’è equilibrio, anzi che i secondi (per i governati) fanno aggio sui primi, ma, a prescindere che un simile giudizio suscita generalmente un misto di rabbia e ilarità, resta il fatto che al calare dei secondi (v. pensioni, sanità, ecc. ecc.) corrisponde l’aumento dei primi (imposte, corrispettivi vari, svendite del debito pubblico). Per cui è insostenibile nei (e dai) fatti.

Meno agevole è ricondurre il tutto a uno degli altri due assetti.

Il cui discrimine è, secondo alcuni, la prospettiva di durata (lunga in quello parassitario, perciò meno oppressivo), e breve nel predatorio (consistente in vantaggi immediati a favore esclusivo dei governanti); secondo altri la regolamentazione/difesa giuridica, presente nel parassitario e assente o del tutto inconsistente nel predatorio (il cui caso-limite è il saccheggio di una città espugnata dal nemico), che richiama in certo modo la visione/concezione hobbesiana del bellum omnium cantra omnes. Altri criteri possono essere l’aumento e la prevalenza di strumenti d’amministrazione negoziali o autoritativi (contratto o provvedimento); paritari o non paritari e così via.

  1. Come cennato i criteri distintivi dell’assetto predatorio da quello parassitario sono prevalentemente ritenuti due: la prospettiva a “breve periodo” e l’assenza di difesa giuridica. Il “tipo ideale” di assetto predatorio è, come prima scritto, quello di una città o un territorio occupato e saccheggiato da un esercito nemico. Il quale non si aspetta né che il saccheggio continui indefinitamente ma neppure che vi sia alcuna pretesa giuridica che possa farsi valere contro il diritto del vincitore/occupatore a disporre senza limiti dei beni e delle vite dei vinti (che comprendeva nell’antichità sia lo jus vitae et necis, sia quello sulle persone, riducibili in schiavitù).

Ma questo è un tipo ideale, cui le situazioni concrete si possono accostare e (parzialmente) essere ricomprese, senza esservi incluse totalmente. Né l’un criterio né l’altro coincidono con i connotati peculiari dell’assetto parassitario in cui gli sfruttatori (per interesse proprio) non hanno alcun intento che lo sfruttamento s’esaurisca in breve durata. Come scriveva Pareto, il loro interesse è spennare l’oca senza troppo farla gridare. Se l’oca muore o perde tutte le penne diventa inutile: lo sfruttamento si esaurisce per carenza di sfruttabile. La stessa difesa giuridica è compatibile con l’assetto parassitario, non foss’altro perché consente una utilizzazione regolata, quindi (entro certi limiti) prevedibile e calcolabile, anche da parte degli sfruttati (che ne siano consapevoli o meno). Pertanto possono distinguere l’assetto parassitario dal predatorio.

Il dominio, di converso, di una banda di briganti non si distingue da quello di un potere legittimo soltanto perché non è ispirato alla giustizia, come scriveva S. Agostino, ma, ancor più, perché non è finalizzato alla durata (e alle condizioni e limiti che la permettono).

Non costituisce invece criterio distintivo il monopolio (o almeno l’impiego) della violenza (più o meno) “legittima” perché questo connota ogni tipo di Stato (Weber) e relativo assetto, compreso il preferibile assetto “tutorio”, in quanto ogni sintesi politica presuppone comunque la (possibilità di) trasgressione e quindi la necessità di reprimerla. Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete). Piuttosto ciò che appare un’antinomia è che l’assetto predatorio (a parte il caso-limite dell’occupatio militare, soprattutto quando esercitata con mezzi barbarici), proprio perché riferito ad un assetto statale, si svolge in un contesto istituzionale (come gli altri due). Il quale, come scriveva Hauriou è per sua natura ispirato alla durata, essendo questo carattere (e funzione) peculiare dell’istituzione.

Ma, anche in un’istituzione politica la sospensione del diritto è ricorrente e prevista dall’ordinamento. Il Gouvernement de fait del giurista francese, il Massnamezustand di Schmitt[5], lo justitium romano[6] sono tutte situazioni concrete in cui la sospensione del diritto può consentire l’assetto predatorio e ancor più, l’esercizio di pratiche predatorie.

  1. Sotto il profilo quantitativo ciò che connota l’assetto predatorio rispetto al parassitario è il risultato complessivo. Anche qui nel secondo l’esigenza di durata dello sfruttamento ne presuppone una certa tollerabilità. E nessun fatto la rende tollerabile quanto il successo, in particolare sotto il profilo economico. Lo sfruttamento in un assetto parassitario può essere notevole, nel senso che le risorse della comunità destinate al sostentamento della classe dirigente, del di essa aiutantato[7] e delle clientele preferite costituiscano una percentuale rilevante e perfino maggioritaria di quelle prelevate, ma comunque essere tollerato se la comunità è in crescita economica. Ma non lo è se questa non c’è, o si riduce di guisa da far arretrare, in un mondo dove altri Stati crescono in misura superiore, le chances di vita e d’esistenza comunitaria e individuale. Proprio questo è quello che è accaduto all’Italia della c.d. “seconda Repubblica”. Se è vero che la c.d. “prima Repubblica” aveva, in particolare dagli anni ’60 in poi, accentuato il “modello distributivo” della ricchezza, rispetto al “modello produttivo” prevalente dal primo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60, ciò avveniva in un contesto in cui vi era sempre accrescimento della ricchezza, in misura – per lo più – superiore (nella peggiore delle ipotesi pari) a quello degli Stati più simili per caratteri politici, economici e culturali (e geografici).

Se invece andiamo a vedere le statistiche del PIL a partire da metà degli anni ’90 ad oggi l’andamento è il contrario. Limitando l’esame ad alcuni grandi Stati europei occidentali (i più simili, secondo il criterio appena ricordato) il risultato è il seguente (periodo 1995-2014)

Incremento PIL

Svezia 41,7%

Francia 20,7%

Germania 28,7%

Spagna 23,9%

Grecia 13,5%

Portogallo 19,1%

Italia 1,9%[8]

Anche altri dati concordano al medesimo (sconfortante) andamento: la pressione fiscale nel 1990 era pari al 38,2% del reddito nazionale, nel 2014 al 44,2%. In tutti gli anni dal 1992 al 2014 (e dopo) si è mantenuta al di sopra del 40%.

Tanto per fare un confronto con la prima Repubblica, nel 1980 la pressione fiscale era pari al 31,8% del reddito nazionale. In tutti gli anni fino al 1991 è stata inferiore al 40%, mediamente si aggirava intorno al 30% o poco più. Quindi tra “prima” e “seconda” repubblica l’aumento medio della pressione fiscale è cresciuto di circa il 40% (dal 30-32% al 42-44%). Negli anni ’51-63 (il boom economico) il PIL italiano crebbe da circa 14.000 miliardi di lire a 31.261 con incremento annuale medio del 5,9% (quello della Francia era il 4,4%); i consumi italiani quasi raddoppiati; gli investimenti triplicati[9]. È penoso confrontarli con i dati corrispondenti della seconda repubblica.

Anche se la “prima repubblica” è stata liquidata come se fosse stata l’agostiniano governo di una banda di briganti (latrocinium), bisogna prendere atto che ha prodotto molti più benefici e molti meno danni della seconda.

Risultati così deludenti, protratti per un lungo lasso di tempo (oltre vent’anni) possono costituire criterio di distinzione tra assetto predatorio e parassitario. In effetti mentre in quest’ultimo l’aumento dello sfruttamento si accompagna ad un aumento della ricchezza a disposizione dei governati, nel primo si riduce: prendendo come base i dati citati per l’Italia ad un aumento del reddito nazionale di 1,9% in vent’anni corrisponde un incremento della pressione fiscale di circa 6 punti percentuali[10].

Dato che l’aumento della ricchezza è stato dell’1,9% e la pressione fiscale del 6%, ne consegue che la ricchezza dei governati è diminuita di circa 4 punti di PIL. Se poi si considera che l’aumento medio dei paesi simili è stato di circa il 25%, si ha dimensione di un arretramento relativo (rispetto al resto dell’Europa e ancor più del mondo) assai peggiore con un pesante effetto sia sulle aspettative dei cittadini che sulle pretese della comunità nazionale, come confermato da vicende non solo nazionali, né esclusivamente economiche.

Nella realtà attuale è dubbio se in cuor loro, i governanti non si interroghino sulla durata di un sistema che ha tenuto l’Italia in recessione (o stasi) economica, ferma per un periodo ventennale, ma con un carico fiscale crescente.

A continuare così la fine – nel lungo periodo – è sicura. Per cui a seguire tale criterio saremmo transitati (da vent’anni) dal “parassitario” al “predatorio”.

  1. Ma del pari anche la difesa giuridica, sulla carta garantita dalla Costituzione e dalla legislazione meno recente si è ridotta e va riducendosi ancora di più. Certo una difesa giuridica c’è, ma sempre più difficile, inefficace e costosa. Norme sostanziali e processuali sono state emanate per attenuarla; quelle a favore dei governati sono disapplicate o poco applicate da una burocrazia che, come scriveva Marx, tende a confondere l’interesse pubblico col proprio interesse di casta; le prestazioni dello Stato (i pagamenti ai creditori soprattutto) sono sottoposti a intralci, sospensioni, rinvii ex lege di ogni tipo, mentre quelli degli apparati pubblici se non facilitati, almeno sono esonerati dai vincoli imposti ai privati[11].
  2. Alla configurazione dell’assetto predatorio hanno concorso e concorrono altre circostanze. In primo luogo l’estensione dei poteri pubblici. È inutile ripetere tutte le argomentazioni portate in tal senso, perché è evidente l’aumento dei compiti, del personale e delle funzioni pubbliche nel c.d. Welfare State. Ciò sposta il limite tra pubblico e privato (a favore del primo e a detrimento del secondo). Come scriveva Gaetano Mosca, l’efficacia della difesa giuridica dei governati è legata a condizioni fattuali – prima che normative – tra le quali la diffusione della ricchezza e soprattutto la non concentrazione della “direzione della produzione economica, la distribuzione di essa ed il potere politico” nelle stesse persone[12]

Anche se la concentrazione di potere economico e politico ha come caso estremo il comunismo del XX secolo (e i precedenti storici, anche se non così conseguenziali, nelle “società idrauliche” studiate da Wittfogel), uno Stato che preleva il 50% del reddito nazionale ha un potere e una capacità di clientelizzazione della società superiore a un altro che ne preleva il 20%. Ancor più se, con mezzi diretti o indiretti cerca di rendere più difficoltoso e al limite inutile l’esercizio di pretese giuridiche contro gli apparati pubblici, riducendo gli ambiti di libertà, già quantitativamente ridimensionati dall’incremento dei compiti pubblici.

Il secondo elemento qualitativo che aumenta il potere pubblico è che questo è indissolubilmente legato all’esercizio di potestà coercitive. Ad adottare la terminologia di Miglio, se si estende l’ambito dell’obbligazione politica, in pari misura si contrae quella dell’obbligazione-contratto. Malgrado la diffusione in Italia di “contrattualizzazioni” di funzioni e servizi pubblici, con l’adozione di strumenti privatistici in settori della pubblica amministrazione, resta il fatto che la decisione su cosa debba essere pubblico e, soprattutto, su come approvvigionare le risorse per compiti “contrattualizzati” (a tacer d’altro) sono decisioni pubbliche, imposte autoritativamente e così riconducibili al rapporto di comando/obbedienza (presupposto del politico). Per ridurre un’obbligazione politica ad obbligazione-contratto occorre rimetterne costituzione, modificazione, estinzione alla volontà paritaria dei “contraenti”; quando le funzioni contrattualizzate, “privatizzate” (e così via) saranno finanziate con collette, (o con rendite patrimoniali pubbliche) e non con le tasse, solo allora non vi sarà più obbligazione politica (e relativamente a queste).

Il che a ben vedere, è estremamente difficile, in uno Stato moderno in cui comunque l’aumento di compiti e funzioni rispetto alle meno voraci sintesi politiche del medioevo è enorme, anche senza arrivare allo Stato “totale” del XX secolo.

  1. Piuttosto, al fine di ridurre l’appropriazione politica – e con ciò la possibilità di predazione – occorre riflettere su un dato ovvio.

Quasi tutti i manuali di diritto pubblico iniziano indicando come criterio distintivo di quello dal diritto privato, la posizione di non eguaglianza tra le parti, diversamente dal diritto privato dove sono in posizione di parità.

Un acuto giurista come Hauriou riconduceva i due diritti (e le due giustizie che ne derivano, almeno nel diritto continentale) a due aspetti dell’esistenza e della natura umana: il primo, al diritto dell’istituzione, ovvero alla regolarità per cui l’uomo è zoon politikon e “appartiene” ad un gruppo politico e sociale (droit disciplinaire)[13].

Tale diritto e la relativa giustizia (Themis) è connotato dall’ineguaglianza tra i soggetti governanti e governati. L’altro, fondato sulla naturale socievolezza umana, è basato sull’eguaglianza tra soggetti e genera una giustizia paritaria (dike)[14].

A conferma del carattere decisivo dell’eguaglianza o meno, se si va ad analizzare le modificazioni normative (alcune prima citate in nota 10) che portano alla “provvedimentalizzazione” ed alla “gerarchizzazione” dell’ordinamento, queste sono tutte volte ad accentuare il carattere non egualitario delle parti nelle obbligazioni relative.

La non-eguaglianza (tra parti pubbliche e private) nel diritto pubblico non si limita al carattere principale del costituire precetti validi in base a decisioni unilaterali – mentre nel diritto comune sono di norma, contrattate e bilaterali – ma, perfino in rapporti teoricamente egualitari, nell’assicurare privilegi o deroghe a favore della parte pubblica e a detrimento di quelle private. Il caso più diffuso e ricorrente sono le sanzioni tributarie: il contribuente che ritarda od omette il pagamento delle imposte è soggetto a sanzioni, sovrattasse, indennità di mora: l’ufficio che non rimborsa o ritarda il rimborso d’imposte indebitamente o erroneamente percette, no (al massimo rischia – ma è azione giudiziaria difficile) di pagare dei danni. Danni che, a differenza delle sanzioni tributarie, il cui presupposto è il mancato o ritardato adempimento, vanno provati (non basta cioè aver commesso il fatto illecito, occorre dimostrare che abbia depauperato il patrimonio del creditore). In altri settori leggi, come la c.d. Legge-Pinto (con le modificazioni apportatevi nel 2012) sanzionano il cittadino che abbia proposto un’azione giudiziaria infondata contro lo Stato: ma nessuna norma sanziona specificamente gli uffici statali se perdono la relativa vertenza. Altre leggi prescrivono sanzioni spropositate: ad esempio nelle imposte di bollo e registro la sanzione va fino al triplo dell’imposta di registro e fino al decuplo per quella di bollo (v. D.P.R. 634/72 e 642/72). Ma se succede il contrario i pubblici poteri possono contare sulla sollecitudine amorevole del legislatore: se questi commettono illeciti, l’esborso dell’erario non è pari al danno provocato, ma ad una frazione del medesimo[15].

Quindi se non del tutto predatorio, l’attuale situazione vi s’incammina ed è a buon tratto.

Quali rimedi? Ve ne sono tanti. Ma due vogliamo ricordarne. Il primo del tutto economicistico, che indicava Maffeo Pantaleoni “Quando si dimostra che l’impiego della forza nella spogliazione predatoria o parassitaria può essere così costoso da rendere più utile il contratto … che rimarrà della superiorità di forze, quando il suo esercizio sarà sottoposto alla condizione di comportare un tale costo da rendere ogni altro sistema più remunerativo? Il costo, che è connesso con l’esercizio di mezzi violenti di aggressione o di dominazione, va, evidentemente, messo tra i mezzi di difesa del gruppo più debole, e può renderlo altrettanto forte quanto il gruppo che sarebbe più potente, nell’ipotesi in cui l’impiego della sua forza costasse meno, o nulla”.

Similmente ragionava Puviani (all’inverso, per il rapporto tributario) parlando di spinta e controspinta contributiva a seconda che la soddisfazione data dal pagamento dell’imposta fosse superiore o meno al vantaggio atteso dal contribuente[16].

In modo analogo occorre che la spinta appropriativa dei poteri pubblici venga compensata da una controspinta ottenuta con sistemi sia giuridici che politici. L’altro è ridurre l’ambito delle disuguaglianze nel diritto, facendo operare, per quanto possibile, le parti su un piede di parità. Incrementare così l’ambito del droit commun (dike) a spese del droit disciplinaire (thémis). Il che non significa “contrattualizzare”, costituire “agenzie” e altri espedienti con cui si cerca spesso solo di mettere in maschera la non parità tra soggetti pubblici e privati.

Ad essere più precisi le distinzioni tra diritto pubblico e privato sono varie, come sa qualsiasi studente di giurisprudenza, e spesso complementari. Quella relativa alla non parità delle parti è tra le più frequentate: va da Hegel ai siti presenti su internet. Spesso è definitita (dal lato attivo) potestà d’impero (Balladore Palieri, Ranelletti), attributo necessario dello Stato[17].

Il che significa di far costare di più l’esercizio del potere (impositivo, in particolare) eliminandone o riducendone i privilegi. E rammentando che il costo per i governanti non è solo economico: mandarli a casa e sostituirli con un’altra classe dirigente, significa sottrargli le pecore che mungono.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] Le definizioni e criteri indicati nel testo li sintetizzano, scontando una “percentuale” d’approssimazione. S’indicano comunque alcuni degli autori che se ne sono occupati: M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica.

[2] Fonte Adnkronos “rapporto Taxation Trends in the European Union 21017 della Commissione europea”.

[3] Fonte Sole 24 Ore.

[4] V. Salviano di Marsiglia De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[5] E ancor più la “Dittatura sovrana”, v. Carl Schmitt Die Diktatur trad. it. di A. Caracciolo p. 165 ss, Roma 2006.

[6] V. Giorgio Agamben Stato d’eccezione, Torino, 2003.

[7] Si impiega il termine usato da Miglio per definire l’apparato di collaborazione all’esercizio del comando del vertice politico v. G. Miglio Lezioni di politica, Vol. II, Bologna 2011, pp. 362 ss.

[8] Fonte: Termometro politico

[9] Fonte Treccani: Il miracolo economico italiano di A. Villa.

[10] Occorre precisare che per gli anni ’92-’94 il considerevole aumento della pressione fiscale è stato dovuto, in larga parte, alle misure del governo Amato, di “transizione” tra repubbliche, per cui a voler attribuire alla fase precedente l’aumento relativo, la pressione fiscale è aumentata di soli 2 punti. Ma una simile interpretazione, a parte il dubbio, toglie poco al giudizio complessivo.

[11] Ricordiamo alcuni degli interventi legislativi e delle prassi benevole verso gli apparati pubblici e proprio per questo lesive della parità tra cittadini e apparati pubblici, ricordando che sono solo una parte di quanto disposto nello stesso senso. Con l’art. 11 della legge 19 marzo 1993, n. 68 concernente “disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica”, si integrava l’art. 24 della L. 720/84 del comma 4 bis. In particolare si precisava che non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso soggetti diversi dal Tesoriere dell’Ente. Con una norma siffatta il sistema per non pagare il creditore è semplice: basta far andare in “rosso” il conto presso il Tesoriere e dirottare su altre disponibilità le liquidità dell’Ente. La limitazione del soggetto “terzo pignorato”, ha, di fatto, come conseguenza di rendere impignorabili le somme liquide e disponibili. Ma i trucchi non finiscono qui. L’art. 1 del D.L. 8/1/93 n. 9, convertito con L. 18/3/93 n. 67, dispone: “le somme dovute a qualsiasi titolo dalle unità sanitarie locali e dagli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata  nei limiti degli importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell’irrogazione dei servizi sanitari”; ma anche tale norma pareva non bastare. Con l’art. 113 del D.L. 25/2/95 n. 77, si disponeva nuovamente: “1) Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali di cui all’art. 1, comma 2, presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa …” Ciò che accomuna tutti questi espedienti, che hanno contribuito ad “abbattere i flussi di cassa”, è di aver agito sui diritti (processuali) dei creditori e sui poteri (processuali) del Giudice vanificando con limitazioni varie i diritti (sostanziali) delle parti. La Corte costituzionale con sprazzi di tutela ha annullato ogni tanto norme come quelle citate (v. sent. 29/6/95 n. 285; Corte Cost., 26-03-2010 n. 123; Corte cost., 29-06-1995, n. 285;); ma altri precetti simili alle disposizioni annullate sono state emanate prontamente. Il tutto era (ed è) aggravato da atti amministrativi (anche a contenuto normativo) quindi emanati dal complesso governo/amministrazione (come il D.M. 1/9/98 n. 352, annullato dal Consiglio di Stato), che limitano ulteriormente i diritti di categorie di creditori. Oltretutto negli ultimi dieci anni è invalsa la prassi che, nelle liti tra Pubbliche amministrazioni e parti private, se soccombono le prime, molto raramente si vedono accollate le spese di giudizio, dovute per legge (possono essere motivatamente ed eccezionalmente compensate, ma nei fatti, lo sono quasi sempre, sicchè l’eccezione è divenuta regola); mentre se a soccombere sono i cittadini quasi sempre sono condannati al pagamento delle stesse. Inoltre in una situazione in cui il principale debitore è lo Stato italiano (il debito pubblico è pari ad oltre il 130% del prodotto interno lordo) non solo s’intralcia con leggi ad hoc il pagamento dei debiti ma si agevola lo Stato debitore fissando (con decreto ministeriale) tassi d’interesse praticamente inesistenti (attualmente è lo 0,10%), incentivando così il mantenimento dell’ (abnorme) debito pubblico a costo (praticamente) zero relativamente a certe classi di creditori (cui è imposto il tasso), ma praticando tassi più vantaggiosi per altre classi che prestano a condizioni di mercato (soprattutto banche, fondi d’investimento, assicurazioni). Combinando saggi d’interesse inesistenti con la moltiplicazione d’intralci alla realizzazione dei crediti (e con l’abituale lentezza della giustizia italiana) dei crediti si ha una moratoria (a tempo indeterminato) dei debiti pubblici verso alcune classi di creditori (quasi tutte). Il tutto presuppone l’esercizio del potere coercitivo: al creditore sgradito che non si vuole soddisfare si applicano disposizioni di legge, regolamentari, atti amministrativi, circolari. A quello  favorito si paga subito e con interessi di mercato.

È ricorrente poi il divieto di compensazione tra crediti e debiti della P.P.A.A. verso i privati. Qualche anno orsono un Presidente del consiglio si proclamava sdegnato verso le proposte di estendere la compensazione tra debiti e crediti verso lo Stato.

Tanto sdegno, invece che verso qualche uomo o partito politico, avrebbe dovuto essere indirizzato verso Giustiniano, il quale con una propria costituzione del 531 d.C., l’aveva resa di portata generale “compensatio ex omnibus actionibus ipso jure fieri sancimus …” (C, IIII,31,14) per cui (al più tardi) da quasi quindici secoli è diritto comune.

Un principio elementare, ispirato a razionalità e giustizia, fondato sulla parità delle parti ed assai ostico a sopportare da un apparato pubblico che si mantiene grazie ai denari dei governati.

Dato lo squilibrio tra creditori e debitore realizzato normalmente (per lo più) con eccezione, deroghe al diritto e il vantaggio che procura alla classe dirigente questa non ha alcun interesse a contenere il debito pubblico, perché mentre con i creditori sfavoriti ci si muove con poteri pubblicistici, cioè non paritari (comandi) con gli altri, preferiti, si negozia nell’ambito del diritto privato (contratti).

[12] V. Elementi di Scienza politica, lib. I°, cap. V, Torino 1923, p.131

[13] Si noti che Hauriou dall’ appartenenza ad un’istituzione notava che esiste anche un droit statutaire, concernente posizioni, facoltà e pretese degli appartenenti al gruppo.

[14] Come scriveva il giurista francese il primo era diritto interno all’istituzione (infraistituzionale), il secondo era tra gruppi sociali (e relative istituzioni) quindi intergroupale, V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929 pp. 88 e 98

[15] Ad esempio l’art. 3 L. 662/93 dispone che nel caso di occupazioni illegittime di terreni, l’importo del risarcimento è aumentato del 10% (del valore del bene sottratto). Il quale, essendo l’indennizzo pari al 50% del valore, significa che anche a commettere l’illecito i poteri pubblici ci guadagnano, pagando sempre una frazione anche se lievemente maggiorata, del valore del bene incentivo a violare la legge col minimo rischio. Ovviamente – secondo i principi generali – il cittadino per tutelare i propri diritti deve agire in giudizio, sobbarcandosi le spese dell’avvocato e quelle imposte dallo Stato (enormemente aumentate dalla fine del secolo scorso) e, ancor più, attendendo i tempi lunghissimi della giustizia italiana, mentre i pubblici uffici, fabbricano in ufficio i provvedimenti d’accertamento delle violazioni e di innovazione delle sanzioni senza l’incomodo di dover cambiare scrivania. Provvedimenti peraltro esecutori anche se impugnati nel (breve) termine previsto della legislazione, mentre gli “analoghi” chiesti dai privati lo sono solo se il Giudice li dichiari tali. Tutto è orientato a rapidità e prontezza, se i poteri pubblici sono parte attiva; a complessità e lentezza, nelle situazioni inverse.

[16] V. L’illusione finanziaria, Milano, rist. 1976, pp. 7-8.

[17] Si riportano alcuni passi di Balladore Palieri sul punto “ quando si parla della potestà d’impero come di uno degli elementi essenziali dello Stato, si intende dire che l’ordinamento giuridico, affinchè gli spetti la qualifica di statale, deve prevedere e porre delle autorità che esercitino un imperium. Se non possiede anche questo carattere, oltre a quelli innanzi ricordati, l’ordinamento in questione, qualunque altra cosa sia, non è un ordinamento statale … L’ordinamento giuridico cioè deve istituire un apposito apparato onde realizzare le finalità per le quali è stato creato, e questo apparato deve essere provvisto di autorità, di impero sui consociati. È questa una conseguenza della stessa struttura dell’ordinamento” V. Dottrina dello Stato, Padova 1958, p. 250-251

 

DA MASSIMO MORIGI A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE_A PROPOSITO DEL REALISMO POLITICO, di Massimo Morigi

RECENSIONE CUMULATIVA A “SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA” (http://italiaeilmondo.com/?s=sovranismo+e+libert%C3%A0+politica  E http://www.webcitation.org/6yPG6YC86), “STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO” (http://italiaeilmondo.com/?s=STATO+RAPPRESENTATIVO+E+VINCOLO+DI+MANDATO E http://www.webcitation.org/6yPGTH6Wo), “NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE” (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI E http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) E “SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO” ( http://italiaeilmondo.com/?s=sentimento+ostile E http://www.webcitation.org/6yPGwg0i6 O https://www.rivoluzione-liberale.it/wp-content/uploads/2017/03/SENTIMENTO-OSTILE-ZENTRALGEBIET-E-CRITERIO-DEL-POLITICO.pdf E http://www.webcitation.org/6yPIFo21y) DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’appena passato mese di marzo sulle pagine elettroniche dell’ “Italia e il mondo” sono stati ospitati quattro interventi di Teodoro Klitsche de la Grange, sui cui relativi titoli, URL di riferimento e “congelamenti” su WebCite si è già data indicazione bibliografica nel titolo del presente commento. Esaurita questa premessa diciamo tecnica (ma che in sè contiene già una valutazione estremamente positiva di questi interventi, visto che si è ritenuto doveroso preservarli a futura memoria dal rischio della decadenza degli URL originari), veniamo ora di sviluppare una valutazione complessiva in merito agli stessi, valutazione globale non solo estremamente positiva (e questo s’è appena detto ma repetita anche se stufant iuvant) ma anche di facilissima formulazione perché in questi interventi Teodoro Klitsche de la Grange – come del resto in tutti i suoi precedenti lavori – si è dimostrato come uno dei più interessanti interpreti e rinnovatori presenti sull’italica – e, purtroppo, assai derelitta da questo punto di vista –  piazza del pensiero politico realista. Quindi, i suoi punti di riferimento sono quegli autori, Tucidide, Niccolò Machiavelli, Carl von Clausewitz, e per giungere ai contemporanei  Julien Freund, che costituiscono le fonti basilari del pensiero realista e naturalmente – e, applicandola al Nostro mai come in questo caso l’icastica formuletta inglese è stata appropriata – last but not the least Carl Schmitt. Del quale grande giuspubblicista Teodoro Klitsche de la Grange si dimostra non solo profondo conoscitore – e “sviluppatore” del suo pensiero – dal punto di vista strettamente politologico e filosofico-politico ma anche dal punto di vista della teoresi giuridica, caratteristica questa di La Grange non solo estremamente preziosa in sede di trattazione dello Schmitt (preziosa, ovviamente, qualora questa maestria nelle scienze giuridiche molto importante nell’affrontare lo Schmitt sia accompagnata da altrettanta conoscenza politologica come nel suo caso) ma anche per l’affermazione di una autentica cultura realista, il cui costante rischio, specialmente ma non solo a livello di vulgata popolare, è quello di sprofondare in una sorta di nascosto naturalismo e/o criptopositivismo, in ultima analisi, quindi, in una negazione del vero realismo, il cui nucleo generatore è mettere sempre al primo posto le teleologie dei vari attori singoli od associati che siano;  teleologie in cui il primo stadio di manifestazione e cristallizzazione consiste appunto nella dimensione giuridica. Che del resto la riflessione sulla dimensione teleologica del diritto sia centrale in La Grange, e lo sia lungo la fecondissima direttrice già a suo tempo tracciata da Schmitt, ben risalta dalla seguente citazione dalla nota n. 9 di Sovranismo e libertà politica, dove sulla scorta della schmittiana Politische Theologie viene smontata la concezione Kelseniana del diritto e del ‘politico’ puramente procedurale, concezione che a livello di teoria giuridica non è altro che l’espressione della contraddizione dell’ attuale ideologia democratica, formalmente basata sulla decisione del popolo ma che questa dimensione decisionistica della politica alla fine nullifica perché, in ultima istanza, questa decisione deve essere sempre e comunque conforme ad astratti principi universalistici e che trovano questi principi garanzia della loro realizzazione non tanto attraverso un rispetto sostanziale  della decisione ma attraverso un procedimento formale di creazione giuridica in cui alla fine poco importa se questo realizzi o meno l’autentica teleologia della decisione stessa: «riportiamo [scrive La Grange] i passi salienti delle critiche di Schmitt: “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fatto si tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto”  in Poltische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.» Comunque, se quanto appena citato ci permette di definire il La Grange come un ortodosso – ed anche assai attrezzato dal punto dell’acribia sulle fonti – esponente del pensiero realista nonché conoscitore del pensiero di Schmitt, la cui caratteristica è seguire l’autentico sviluppo, di natura tutta teleologica, del momento giuridico nella dimensione del ‘politico”, e La Grange coglie in pieno questa evoluzione che si sviluppa senza soluzione di continuità, è giunto a questo punto il momento di dare piena giustificazione alla nostra affermazione iniziale che La Grange non è solo un profondo conoscitore e cultore del pensiero realista ma ne è soprattutto un rinnovatore. Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.» Oltre alla totale demolizione del mito di una globalizzazione che si vorrebbe pacifica mentre in realtà è il suo esatto contrario perché questa vuole inesorabilmente eliminare ogni potere teleologicamente responsabile per sostituirlo con gli imperscrutabili meccanismi sociali ed economici della globalizzazione stessa (libera, o meglio anarchica, circolazione di capitali, merci ed uomini con conseguente annientamento di ogni peculiarità politica, economica e culturale degli stati nazione e delle diverse etnie), le parole appena citate rendono ampia dimostrazione di un pensiero realista veramente innovatore e che compie un’hegeliana Aufhebung del magistero schmittiano perché ha compreso «che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari». Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico questa complementarietà non è solo necessaria dal punto di vista della creazione e conduzione di una vitale e reale Res Publica ma, ancor più, costituisce un inscindibile binomio dialettico: che per comodità espositiva e di descrizione delle varie situazioni possiamo di volta in volta definire legge o forza; le quali però, nella sostanza, non sono che due espressioni e manifestazioni basilari ed originarie di quel conflitto-azione strategica da cui origina la società e tutta la dinamica storica (ed anche tutta la dinamica creatrice  del mondo fisico-naturale, ma questa non è la sede per dilungarci sull’argomento, per il quale si rimanda volentieri a quanto precedentemente già detto, in particolare nel Dialectvs Nvncivs ma anche in altri luoghi). Resta da vedere quanto Teodoro Klitsche de la Grange possa concordare dal punto di vista della teoresi a tutta questa  peculiare direzione dialettica e originata da una interpretazione in chiave di filosofia della prassi del magistero marxiano ed in particolare delle sue Glosse a  Feuerbach (e quindi quanto sia disposto ad inserire nel suo Pantheon realista autori come Antonio Gramsci e il György Lukács di Storia e coscienza di classe: intanto, dalla lettura di Sentimento ostile, Zentralgebeit e criterio del politico, l’ultimo dei quattro articoli gentilmente concessi all’attenzione dei lettori dell’  “Italia e il mondo”, abbiamo con piacere potuto notare che non esiste alcuna preclusione verso il grande disconosciuto della cultura italiana del Novecento, e cioè verso Giovanni Gentile la cui interpretazione della filosofia di Marx in chiave attualista come filosofo della prassi non solo costituisce un “rimettere coi piedi per terra” l’impostazione filosofica in chiave antipositivista del pensatore di Treviri ma costituì anche la base per il successivo sviluppo della filosofia della prassi in Antonio Gramsci, così come ci viene restituita e sviluppata nei suoi Quaderni del Carcere), ma questo costituisce non dico un problema trascurabile o da relegare solamente ad un dibattito fra specialisti (non bisogna mai peccare di falsa condiscendenza) ma certamente è un aspetto secondario nel giudicare l’importanza dell’impostazione del realismo politico fornitaci da Teodoro Klitsche de la Grange e questo perché tutto l’argomentare di questo valente studioso va veramente nella direzione della creazione e disvelamento di quell’ ‘epifania strategica’ che, a meno che il pensiero realista non si voglia chiudere in sé stesso, deve costituire il momento generatore ed obiettivo del pensare il ‘politico’. Ed è soprattutto per questa intima teleologia, unita alle sue non comuni capacità critiche,  che  dobbiamo ringraziare Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 5 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE, di Pier Luigi Fagan

Una visione realistica del carattere multipolare delle odierne dinamiche geopolitiche. Una chiave di interpretazione che mette in guardia da analogismi troppo scontati con fasi precedenti e da una visione troppo edulcorata delle dinamiche conflittuali. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Testo tratto da https://pierluigifagan.wordpress.com/

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE.

Le scienze sociali che usano come unità metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione delle teorie, si accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La “Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che: a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua volta, un riduzione della narrazione storica.

Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata,  il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”.  Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.

Il che ci porta a dover trattare daccapo il concetto di “multipolare”, prima  in astratto, poi in concreto e nel concreto distinguendo i casi in cui applicarlo al passato o allo stato presente/futuro. Il fine è quello di trarne una interpretazione contemporanea ed una luce che tenta di fendere le nebbiosità dell’immediato futuro.

In astratto, il concetto di “multipolare” dice che in un dato spazio-tempo, si presenta una configurazione d’ordine con più di due attori statali potenti (poli), legati  tra loro da molteplici relazioni di potenziale offesa-difesa o equilibrio, equilibrio che va inteso sempre in modo dinamico. Il concetto s’inscrive nelle premesse del tipico contesto realista ovvero un mondo ritenuto anarchico (non “disordinato”, ma privo di legge superiore ed entità in grado di applicarla, anche con la forza, a tutti), competizione a somma zero (se un polo assume più potenza, qualche altro la perde), gli stati si comportano in maniera razionale, le potenze tendono a massimizzare il loro potere (fino ad oggi non si son presentate potenze che s’accontentano), nessuno stato può esser certo delle intenzioni di un concorrente, la potenza -in ultima istanza- s’intende in senso militare ed infine, il fondo “tragico” cioè la constatazione che la guerra è un modo della politica ed è storicamente una costante.

La teoria realista in Relazioni Internazionali (la dottrina liberale non la pendiamo neanche in considerazione poiché a nostro giudizio infondata e con una componente eccessivamente ideologico-normativa) ha opinioni di giudizio diverse sul sistema multipolare astratto. Per Hans Morghentau (realismo della natura umana) i sistemi multipolari tendono ad auto-stabilizzarsi e sono l’ideale per raggiungere l’equilibrio di potenza. In più, la dinamica di compensazione per la quale se un polo tende ad emergere un po’ troppo o manifesta comportamenti non equilibrati tutti gli altri si alleano per compensarlo, renderebbe questo ordine complesso ma sostanzialmente stabile o forse stabile proprio perché complesso e dinamico. Questo bilanciamento è detto “equilibrio di potenza” e se manca, porta disordine in via automatica, cioè date le premesse realiste. Kenneth Waltz (realismo difensivo) contestava decisamente questa fiducia di Morghentau, sostenendo che l’unico ordine stabile e stabilizzante è il bipolare e quello multipolare è prima o poi soggetto a rottura di simmetria, quindi catastrofe. Infine, John Mearshemeir (realismo offensivo), concorda in pratica con Waltz e poi fa una classificazione con il bipolare più stabile del multipolare ma questo poi distinto in equilibrato che è migliore della peggiore configurazione possibile ovvero il multipolare con uno o più poli superiori a gli altri, il multipolare sbilanciato. L’intera classificazione andrebbe poi dinamicizzata tra ascendenti e discendenti perché se un ordine sembra multipolare in statica ma uno dei poli era l’egemone e uno degli sfidanti sta crescendo velocemente in potenza, le cose certo cambiano. Così cambiano se si dà un occhio alle future prospettive di medio periodo. L’ordine più stabile tipo “pace perpetua” è quello unipolare dove c’è un solo polo detto “egemone”, ma è del tutto teorico in quanto non si è mai presentato nella storia del mondo con tassi demografici inferiori, figuriamoci oggi o domani con 7,5 o 10 miliardi di individui e più di 200 stati con tendenza ad aumentare. L’impero-mondo è più un fantasma metafisico, cosa che la nostra mente può pensare ma che non per questo può essere davvero.

I dolori più intensi e seri per il concetto di multipolare, arrivano però quando si passa dall’analitico al sintetico, quando si va ad applicare la teoria alla realtà empirica. Tra i casi di multipolare rinvenuti più spesso nel registro storico, compaiono l’Italia rinascimentale del centro-nord e l’Europa del XIX secolo a 5 – 7 poli (Russia, Austro-Ungheria, Francia, Inghilterra, Impero ottomano e poi Prussia/Germania ed Italia) ma si sarebbe potuto anche considerare il periodo degli Stati combattenti nella Cina del V-III secolo a.C.  o la Grecia Antica da cui invece alcuni traggono il concetto bipolare della “trappola di Tucidide” per dar lustro con tono colto ai commenti sulla competizione odierna USA (potenza di acqua quindi Atene)  vs Cina (potenza di terra quindi Sparta). Il riferimento all’Antica Grecia è oltretutto doppiamente sbagliato perché per altri versi Atene e Sparta non erano sole e quindi non era un semplice ordine bipolare ma tanto quando si prende di così gran carriera la strada dell’analogia a tutti ci costi, i costi di semplificazione si pagano in imprecisione.

Cosa c’è di così scandalosamente impreciso in questo ricorso al registro storico? La mancanza delle variabili co-essenziali per ogni ricostruzione di fase storica, il contesto e la eterogeneità degli attori.

Quanto all’eterogeneità, l’ordine multipolare diventa una costruzione strutturalista nella scuola realista americana che (si tenga conto  che tutti i pensatori e le idee che animano la disciplina delle RI, sono sempre e solo americani), come dice Mearsheimer, tratta gli stati o potenze come palle da biliardo, al limite più o meno grosse a seconda della potenza. Mearsheimer e tutti i realisti hanno buone ragioni per far diventare gli stati scatole nere di cui c’importa solo l’imput e l’output, ed è il rifiuto di seguire i liberali nelle loro assurde perorazioni sul fatto che le forme di governo interne a gli stati (democrazie vs varie configurazioni di autoritarismo) farebbero la differenza. Ma se i liberali rendono un po’ assurde le considerazioni sulla struttura a grana fine che distingue gli stati tra loro (struttura che si dovrebbe invece dettagliare per: grandi o piccoli? di terra o di mare? con che tipo di demografia, economia, mentalità e tradizioni, collocazione geografica, tradizione filosofico-religiosa e scientifica? a quale punto del loro ciclo storico? etc.), nondimeno queste strutture a grana fine vanno analizzate per capire la natura degli attori prima di portarli dentro le analogie. Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti.

La mancanza decisiva è però il non considerare il contesto. Tanto per dire una sola, unica e principale, questione che differenzia l’ordine multipolare del mondo di oggi rispetto a qualsivoglia porzione del mondo di ieri, è che quelle di ieri erano appunto “porzioni”, quello di oggi è un “tutto” che non ha un fuori. Non c’è un altro mondo in cui far sfogare le contraddizioni dell’attuale mondo multipolare mentre l’Italia rinascimentale era solo un ritaglio di un frame più grande in cui c’erano la Francia, la Spagna, lo Stato Pontificio, il Sacro Romano Impero ed il Mediterraneo, mentre nell’Europa del XIX secolo c’era la corsa alle colonie ed a gli imperi fuori d’Europa. Entrambe erano situazioni occorse in ambiente omogeneo (italiano o europeo) mentre oggi abbiamo attori molto più eterogenei e distanti nello spazio (tra Cina ed USA c’è un oceano, ad esempio, nonché più di due secoli e mezzo di differente longevità). Entrambe le situazioni erano a bassa interdipendenza tra gli attori mentre oggi l’interdipendenza è alta. Entrambe le situazioni erano a bassa o media demografia mentre oggi il mondo è al sua massimo storico di densità, così l’economia che con la demografia fornisce le coordinate del potere potenziale ma non ancora effettivo, ha oggi peso e dinamiche non parametrabili a ieri. E sul potere effettivo, quello delle armi, che differenza fa un multipolare atomico che ha almeno due poli legati tra loro dalla fatidica Mutual Assured Distruction (MAD) ma con un generico “rischio atomico” anche più ampio e diffuso? O anche solo la potenza annichilente dell’armamento “convenzionale” attuale rispetto a gli esempi pregressi? O come agisce il fattore reputazionale in epoca di opinioni pubbliche che fan da spettatori, prima che attori, dei giochi politici inter-nazionali ma i cui giudizi condizionano l’azione dei governi?

Insomma, siamo come detto in terra incognita, lì dove il ricorso all’esperienza precedente non è vietata ma va usata con un molto ampio beneficio d’inventario perché nell’inventario ci sono variabili che rendono falsa l’analogia.

Dirigiamoci quindi con prudenza ad esaminare la nuova versione di sistema multipolare mondiale a cui stiamo tendendo. C’è un’unica super potenza, gli USA e due potenze asimmetriche, una militare -la Russia-, l’altra economica -la Cina-. Chi usa i meccanismi tipici delle tradizioni di pensiero di RI o GP, a questo punto prevede che i poteri potenziali della demografia e della economia cinese, questione di tempo, verranno presto trasformati in potenza militare. Ma c’è qualcosa che potrebbe ostacolare questa predizione, almeno nella sua forma lineare.

Primo, memore della lezioni data dalla guerra fredda, la Cina starà ben attenta a non farsi trascinare nell’over-spending militare a scapito del reinvestimento nello sviluppo e nella ridistribuzione. Solo un analista da think tank americano può sottovalutare il problema delle eccessive diseguaglianze in un sistema di 1,4 mld di persone, errore che nessun cinese che conosca la storia cinese, farà mai.

Secondariamente, la Cina starà ben attenta a non eccitare l’altrui “dilemma della sicurezza”, ovvero quella situazione di incertezza per la quale ogni stato sa che se eccede nella crescita delle dotazioni militari, fossero anche per difesa, non essendo escludibile in alcun modo che ciò che oggi si crea per difesa domani possa esser usato per offesa, altro non fa che sollecitare pari riarmo nei vicini. Oltretutto, la Cina ha bisogno a prescindere di pace ed armonia nel suo quadrante strategico perché la sua principale linea strategica è sviluppare  reti commerciali. Inoltre è suo fine specifico proporsi come “potenza amica” in modalità “cooperazione e reciprocità” ad esempio nei confronti dell’Africa, evitando rozze intenzioni coloniali, aggressive o eccessivamente egoiste. Preoccupazione che poi andrebbe anche allargata poiché la Cina tende ad attrarre “clienti” prima nella sfera occidentale e quindi deve dare qualcosa in più o di meglio. Le dichiarazioni pubbliche di come la Cina vede le interrelazioni estere sono oggi -più o meno-  le stesse dalla Conferenza di Bandung del 1955 e per molti versi sembrano credibili, non per superiorità etica ma per intelligenza strategica di cui i cinesi sono dotati da un paio di millenni prima di von Clausewitz.

Infine, stante che la Cina non è attaccabile via mare dagli USA (potere frenante del mare) e dal Giappone, ha stretto un sostanziale accordo di cooperazione a largo raggio con la Russia (nel passato l’unico vero nemico potenziale dal punto di vista geografico e qualche volta storico) e sembra intenzionata ad avere relazioni amicali-sospettose ma in sostanziale equilibrio con l’India, la sua dotazione di potenza effettiva può limitarsi a rinforzare la marina, la presenza nello spazio, l’elettronica ed il digitale, porre qualche avamposto discreto in giro per il mondo, senza mettersi a sfornare carri armati e missili a nastro. Si tenga poi conto che la Cina è molto grande e popolosa e credo che l’ultimo desiderio dei suoi governanti sia quello di annettere altri territori e popolazioni, ingigantendo un problema già difficile di gestione della sua propria massa. Se la terra manca, meglio comprarla come stanno facendo in Africa o favorire una discreta diaspora come in Siberia orientale.

Gli altri due attori in che traiettoria stanno? La Russia, potenza di mezzo dell’Eurasia, posizione al contempo comoda e  scomoda strategicamente, è da ormai settanta anni oggetto di pressione da parte USA per rimanere avviluppata nella escalation di potenza militare che per lei si trasforma in un “a scapito” del progresso economico. Salvata dalla dotazione di energie e molte materie prime e sovrana alimentarmente, la Russia segue questa escalation per via dell’ovvio riflesso di sicurezza. Ma anche per via dell’interesse ad approfittare degli eventuali cedimenti delle vicine ex repubbliche già interne all’URSS che ha interesse a riportare sotto la sua sfera di influenza, per via del far virtù della necessità di produrre armi poiché sono anche beni per l’export (export che poi lega a sé eventuali partner), per via dell’importanza che storicamente ha all’interno del suo sistema di potere la burocrazia militare ed infine, per via della necessità di supportare alla bisogna alleati periferici a loro volta messi sotto pressione dagli americani. Fintanto che gli europei rimangono dentro il sistema occidental-atlantico, la Russia difficilmente si svincolerà da questa traiettoria. In prospettiva, in Russia si libererà molta terra (per via del riscaldamento globale), il che, in un mondo sempre più denso ed affollato e stante che la Russia è uno dei paesi a più bassa densità abitativa del mondo (nonché in assoluto il più grande), non è una cattiva prospettiva fatti salvi gli ovvi problemi di gestione, logistica ed integrazione di eventuali migrazioni. Per la stessa ragione, la regione polare prospiciente la costa settentrionale, diventa nuovo quadrante “caldo”.

Gli USA sono in una posizione di potenza effettiva, cioè militare, molto lontana dal poter esser insidiata da alcuno. Di contro, la loro pur ragguardevole demografia, è ben superata sia dalla Cina che dall’India, ma in prospettiva, insidiata  anche dalle crescite dei più periferici ovvero l’Indonesia, il Brasile, la Nigeria. Una volta che questi paesi, come sta succedendo con Cina ed India, si metteranno a convertire demografia in crescita economica, anche questo secondo aspetto che l’ha vista a lungo leader senza competitor, diventerà relativo. Si tenga poi conto di alcune altre variabili.

Una è la “rendita di cittadinanza” ovvero il contributo del più ampio sistema di cui si è polo, del sistema occidentale complessivo nella storia pregressa, del sistema asiatico e del sistema africano oggi ed in prospettiva. Il “centro del mondo” si sta già velocemente spostando verso oriente e questo tenderà a limitare le condizioni di possibilità per gli USA, a prescindere da quanto questi saranno in grado di puntellare i loro punti di forza e minimizzare quelli di debolezza.

Un’altra variabile da tener d’occhio sono  le soglie critiche, invisibili punti nei quali i sistemi che si stanno espandendo o contraendo, subiscono una accelerazione non lineare del moto tendenziale. Gli USA possono senz’altro assorbire una riduzione del loro peso di Pil sul totale mondiale ma ci sono appunto soglie oltre le quali gli effetti di contrazione non sono lineari, si pensi, ad esempio, al ruolo mondiale del dollaro ed a gli effetti a cascata che avrebbe anche solo una sua relativa limitazione.  Su questa resilienza nella contrazione, agisce poi in forma problematica, la strana configurazione della scala sociale statunitense che ha una élite assolutamente fuori norma e quindi idiosincratica ad ogni decrescita.

Poi c’è il disordine in cui chi è abituato a competere entro quadri legali e normativi, di norme visibili o invisibili ed in ambienti che per quanto anarchici hanno comunque infrastrutture ed istituzioni multilaterali, potrebbe faticare ad orizzontarsi in un ambiente molto meno regolato e supportato. Poiché -in macro- stiamo transitando da un mondo relativamente più semplice ad uno relativamente più complesso, la complessità diventa essa stessa un problema per chi intende garantirsi un potere così sproporzionato come quello a cui sono abituati gli americani. Di contro, si può anche ipotizzare un interesse ad accompagnare ed anzi, alimentare un certo disordine globale per alzare la domanda di “protezione”. Ma in questo caso, è molto dubbio il poter riuscire a prevedere e quindi governare tutte le dinamiche disordinanti che intenzionalmente si vorrebbero promuovere.

Infine, la vera palla al piede della potenza americana ovvero l’Europa, una Europa testardamente frazionata, bizantina, anziana,  viziata, sospesa in una bolla che riflette la sua eccezionale storia specifica ma la isola da un mondo del tutto nuovo che gli europei sembrano non comprendere realisticamente del tutto. A partire dall’ovvia constatazione che in un ordine multipolare così dinamico, l’Europa non è una potenza e non è neanche un soggetto in termini di politica estera oltreché essere economicamente e demograficamente frazionata, non esser cioè un “totale più della somma delle parti”. Condizione quest’ultima a cui si ritiene di poter far fronte con il vuoto slogan degli “Stati Uniti d’Europa” che non ha la minima condizione di possibilità di veder mai luce e sopratutto funzionare. Questo far fronte al grande problema adattivo di questa parte di mondo usando slogan che non vanno da nessuna parte, rinforza la diagnosi di disadattamento degli europei ai tempi che vengono.

Il mondo multipolare che si sta affermando, ha anche molte medie potenze, potenze regionali e qualche significativa piccola potenza locale in grado di ostacolare giochi che una volta i geografi imperiali britannici progettavano al calduccio dei protetti salotti londinesi sorseggiando il loro tè rituale. Per segnare le cartine del mondo, oggi servono cose un po’ più complesse che non le matite. Più in generale, questo mondo tende alla convergenza degli indici economici (veniamo dalla grande divergenza ma andiamo verso la grande convergenza tra grandi aree), crea reti regionali più dense delle reti genericamente globali, tende al pluralismo dei grandi enti internazionali (banche, investimenti, culture, tradizioni, ambiti di cooperazione, piazze finanziarie, forum diplomatici), offre alternative a quello che prima era un monopolio, pone le economie che si emancipano da posizioni primitive in grande vantaggio dinamico rispetto alle economie mature, oltre a tutte le varie e preoccupanti articolazioni del problema ambientale, semplice da citare ma molto complesso da descrivere. Infine, le grandi cornici ideologiche che legavano élite e popoli nazionali intenti nell’opera di “civilizzazione” del colonialismo e dell’ imperialismo europei, l’afflato repubblicano dei napoleonici, il fascismo, il nazismo, il comunismo ed il liberalismo con i loro antagonisti simmetrici che animarono il ‘900, sono assai depotenziate e non si vede chi altro potrebbe prenderne il posto a parte qualche gruppo di islamisti suicidi finanziati dall’Arabia Saudita. Si può come senz’altro si sta facendo con la Russia, nazificare il nemico dirigendo le fila del concerto mediatico, ma da qui a poterci far perno per convincere le opinioni pubbliche dell’inevitabilità di una guerra diretta ce ne corre.

A quale tipo di ordine multipolare ci avviamo, quindi? E come si comporterà, almeno all’inizio, il sistema multipolare in un mondo denso ed intrecciato, un sistema che per la prima volta è multi-atomico e quindi soggetto a più vincoli di “reciproca, distruzione assicurata” (sempre che si voglia continuare a sottostimare il potenziale bellico convenzionale che per molti aspetti non gli è secondo)? Il quadro prima disegnato ha sintesi nella definizione di “multipolare sbilanciato” in cui la superpotenza americana non può certo sperare di aumentare raggio ed intensità del proprio potere, non può accontentarsi di uno status quo perché comunque trascinata in basso dalla dinamica tra le parti del sistema mondiale e deve quindi resistere il più possibile nel mantenere i propri ancora significativi vantaggi, nel mentre tenta di rallentare l’ascesa degli sfidanti. Deve farlo nel quadro problematico dello stato del mondo prima accennato e con una gran proliferare di attori medi e piccoli che seguono ognuno una propria traiettoria. Ancora con una leadership solida nel potere effettivo (militare), il problema americano risiede nel potere potenziale, nel rapporto tra il suo essere meno del 5% della popolazione mondiale con un potere economico che ancora domina il 25% dell’economia mondiale anche sulla scorta di un ancor più ampio potere finanziario.

Il vincolo della reciproca distruzione assicurata, per gli USA, vale non solo verso i russi ma anche i cinesi poiché è chiaro che questi due, al di là della loro reciproca competizione per altri versi naturale essendo vicini, avendo punti di forza complementari, hanno ben chiaro il comune interesse, loro e di molti altri, a che si stabilisca un vero quadro multipolare bilanciato. La crescita della loro attuale cooperazione è di fatto un’alleanza difensiva non detta. Cina, India, Sud Est asiatico, Pakistan, le due Coree, l’Africa e il Sud America hanno tutti interesse a non imbracciare le armi nel mentre crescono economicamente e socialmente. Anche la Russia, se potesse,  avrebbe urgenza di dedicarsi di più al suo sviluppo piuttosto che dissanguarsi nella rincorsa di potenza col gigante americano. Da questo corso, non sarebbero in teoria distanti, se fossero liberi da condizionamenti di altro tipo, neanche i giapponesi e gli europei. Gli unici che davvero hanno interesse a far pesare nel quadro la super potenza di cui sono ancora proprietari sono gli Stati Uniti d’America e qualche potenza locale in Medio Oriente.  Si potrebbe leggere l’intero quadro come un film della transizione tra un assetto sbilanciato ad uno più bilanciato e quindi segnato dalla sfida economica degli ascendenti verso il discendente americano che resisterà in tutti modi. Ma come, se in ultima istanza il conflitto diretto è sconsigliato dal vincolo atomico?

Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.

Il fattore demografico, la stazza, la massa di un attore, fattore sempre importante, oggi può diventare decisivo e non solo più per alimentare la propria potenza effettiva cioè armata, ma anche per il corrispettivo di crescita economica. Diventa anche un’arma nel caso di procurate migrazioni da paesi terzi verso coloro che si vogliono mettere in difficoltà. Queste migrazioni indotte si creano facilmente con le guerre per procura che oltretutto sono un vivace mercato per la sovrapproduzione dell’industria militare di cui è dotata ogni potenza. Ogni produzione ha un mercato e se la prima è maggiore del secondo, il secondo va sollecitato ad ampliarsi e/o intensificarsi. Questo gioco periferico che non riguarda il confronto diretto tra potenze, ha poi il vantaggio di tenere occupato il nemico dietro gli alleati che combattono i nostri amici in quel specifico teatro e quindi rinforza i legami di amicizia e dipendenza interni al polo. Il mondo è pieno di minoranze, popoli senza stati, confini precari disegnati dai francesi o dagli inglesi nel periodo coloniale, il catalogo delle occasioni di conflitto potenziale è molto ampio. I popoli sono molti di più degli stati e quindi il gioco delle nazioni in cerca di sovranità è facile da attivare.  L’ideologia islamista è un potente alleato di questa strategia per chi ha lo stomaco di usarla mentre sbraita nel simularne il contenimento. Incidenti in acqua o in aria possono sempre accendere l’attenzione su qualche quadrante di mondo e mandare messaggi che sfruttano la naturale paranoia da sicurezza di qualsiasi stato, specie se potenza emergente o alleato debole del polo nemico. Gli incidenti procurati possono essere ottime scuse per elevare sdegno morale propedeutico a più prosaiche sanzioni, dazi commerciali, blocchi navali, interdizioni dello spazio aereo. Molto conflitto non è pubblico ma si avvale delle consuete reti spionistiche e contro-spionistiche ed oggi c’è tutto un campo nuovo in cui giocare a rubarsi segreti e dati, la rete di tutte le reti. C’è poi lo spazio, nuova frontiera per novelli capitani Kirk, satelliti che scrutano, lanciano raggi accecanti o distruttori, coordinano l’ingegneria e l’elettronica dei nuovi sistemi militari soprattutto missilistici e navali. Conflitto è anche mostrare nuove armi che solleticano i generali della parte avversa che chiedono fondi ulteriori per pareggiare i conti disegnando sciagure e tragedie certe ed altrimenti inevitabili, anche perché potranno far leva politica sull’opinione pubblica in stato perenne di sovreccitata paura. Anche solo nell’accezione puramente armata del “conflitto”, evitando il confronto diretto, ci sono molte occasioni in modalità indiretta. Se la linea strategica obbligata è frenare il ribilanciamento tra potenze, cosa meglio di un attrito distribuito ovunque?

Poiché però il conflitto è “multidimensionale” ecco anche la sua versione  economica e produttiva ma anche politica e di opinione. I tentativi di monopolio energetico o di materie prime tutte essenziali, anche e soprattutto quelle per lo sviluppo del digitale che ha il fronte commerciale ma anche quello militare ed aerospaziale. Seppellita la globalizzazione semplice 1.0, si va ad una rete di contrattazioni, aperture-chiusure, formazione di blocchi in un sistema dotato di vari sottosistemi, quindi più complesso. Poi c’è il conflitto finanziario, società di rating, grandi fondi in grado di scuotere il mercato a bacchetta, l’altalena dei cambi valutari, i ricatti su i debiti sovrani.

Poi c’è l’egemonia culturale, mostrarsi i migliori, i più attraenti, i più benevoli quindi far di tutto per mostrare che il nemico è tra i peggiori, fa moralmente ribrezzo, è repellente e malevolo, infingardo, non ha legittimità. Ci sono i boicottaggi, il rinserrare le fila delle proprie istituzioni multilateriali,  i propri fondi monetari, le banche per lo sviluppo, i progetti di cooperazione da cui ostracizzare il nemico ed i suoi amici. Poi c’è da far uscire scandali a ripetizione, fondi neri, paradisi fiscali improvvisamente sotto i riflettori per una settimana, uso di armi proibite, leader nemici dai dubbi gusti sessuali, storie di droghe, perversioni, bugie dette, inaffidabilità degli altrui standard, sgarbi diplomatici, fake newsper avvelenare la credibilità generale di tutti indistintamente in modo da paralizzare il discorso pubblico. C’è il controllo digitale e il ricatto (quello pubblico ma molti altri di cui neanche abbiamo notizia), il divide et impera, il bait and bleed (falli scannare tra loro), il dissanguamento economico del nemico stressato in decine di micro-conflitti, il più composto bilanciamento di potenza e lo scaricabarile in cui si lascia la nemico l’ònere e l’onore di districare matasse che si sono ben aggrovigliate con le proprie mani e che si disordinano mentre l’altro tenta di metterle in ordine. Poi c’è l’arte di mettere zizzania dentro gli equilibri del nemico, militari contro politici, imprenditori contro militari, società civile contro élite, varie élite contro altre élite, eccitare i nazionalismi dormienti e poi far chiasso per ogni ingiusta repressione delle minoranze, far confliggere le diverse osservanze religiose. Sovreccitare i vicini del nemico, mettere in dubbio i legami di alleanza dentro un polo, isolarlo, stringergli le condizioni di possibilità, acuirne le contraddizioni.

Infine, per palati forti,  c’è l’angolo si dice ma non ci si crede del Dark Word, innesti uomo-macchina, psicobiologia, manipolazione del clima, agenti tossici selettivi, avvelenamenti alimentari ed epidemie progettate in laboratorio, piani segreti, oscure congreghe, centri di interesse invaginati in centri di interesse, bio-chimica aggressiva e molto molto altro che noi, pur mediamente informati, neanche immaginiamo. Prima di dubitare a priori all’entrata di questo Dark World come se il mondo fosse proprio quello proiettato sullo schermo del cinematografo che scambiamo per realtà,  collegatevi a quella vostra porzione di cervello che è inorridita a leggere il sadismo medioevale o la scientifica atrocità dei nazisti o dei khmer cambogiani, i vari stermini dei nativi, storie di schiavi, stupri, impalamenti, sqartamenti, profanazioni, eccidi, massacri, olocausti e tutta la scienza e tecnica che si è spremuta per giungere a quel risultato. L’uomo è sublime e malvagio da sempre, non c’è motivo di escludere a priori l’esistenza di una costante preparazione al conflitto anche nei dungeon del mondo degli inferi. Oltretutto, questa ricerca silenziosa del primato che darebbe qualche vantaggio non calcolato dal nemico, dà poi una cascata di benefici secondi di invenzioni sfruttabili civilmente.

lnsomma il conflitto è da intendere in forma multidimensionale e diventa permanente poiché non si apre-chiude con una guerra tradizionale, diventa la cifra stessa di un sistema multipolare che alcuni vorranno riportare a bipolare o quantomeno mantenere sbilanciato mentre altri vorranno portarlo a bilanciato per poi farsi venire l’appetito di esser loro la nuova super-potenza che lo sbilancia dandosi un vantaggio di potenza. Il vincolo atomico non porta la pace perpetua ma il conflitto permanente e diffuso a medio-alta intensità. Questa è la condizione di un pianeta a prossimi 10 miliardi di abitanti in lotta, chi per la sopravvivenza e chi per il primato gerarchico, chi per l’essere e chi per l’avere.

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Questo è il mondo multipolare a cui dovremmo adattarci, in cui ci piaccia o meno, tutte le nostre preoccupazioni ed interessi, personali e collettivi, politici ed economici, ideali e pragmatici, i nostri sogni e le paure, le speranze e le delusioni, saranno tutte per vie che molti non vedono con chiarezza e molti non vedono per niente, determinate da questo che è il gioco di tutti i giochi. Noi tutti, dentro i nostri stati, siamo le pedine. Siamo più in modalità, lunga e continua sofferenza e crescente disordine dall’esito imperscrutabile, che morte rapida e violenta da “terza guerra mondiale”. Questo è il conflitto permanente che segnerà il gioco di tutti i giochi di questa prima fase del nuovo mondo multipolare e con questo dovremmo fare realisticamente i conti scegliendo il nostro modo di stare al mondo prima che sia il mondo strattonato dai giochi di potenza, a deciderlo per noi.

Bibliografia minima:

H. Morghentau, Politica tra le nazioni, Il Mulino 1997 (introvabile)

K. Waltz, Teoria della politica internazionale, il Mulino 1987

J. Mearsheimer, La logica di potenza, UBE 2003-8

B. Milanovic, Ingiustizia globale, Luiss 2017

G. Arrighi, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori 2006

C. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, il Saggiatore 2013

H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori 2015

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