Ritorno al futuro – 2 – Formenti, l’Italia e l’Europa: alcune perplessità di Elio Paoloni

 

Ritorno al futuro – 2 – Formenti, l’Italia e l’Europa: alcune perplessità

di Elio Paoloni

 

La lettura del prezioso Il socialismo è morto, viva il socialismo di Carlo Formenti mi aveva spinto a porgli alcune domande, (link a Ritorno al futuro 1). Per brevità non avevo inserito alcuni dubbi che sorgono non solo dalla lettura del testo citato ma da molte sue dichiarazioni. Le riporto come riflessioni.

 

Siamo tutti fermamente convinti, come l’autore, che la UE sia “un mostruoso esperimento istituzionale che tenta di mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberismo moderno, von Hayek” e di certo non aderiamo all’utopia di farne un unico Stato. Ma per conservare il pieno rispetto dell’autodeterminazione degli Stati nazione è necessario negare radicalmente ogni forma di sentire europeo, l’idea stessa di Europa? Definendo veritiero il celebre detto che definisce l’Europa come una mera espressione geografica, Formenti sembra dimenticare che la frase originaria riguardava l’Italia, ora ritenuta unanimemente qualcosa di più di una mappa su Google.

 

L’autore ricorda anche che gli stati-continente non si inventano e che quelli esistenti hanno una lunga storia (rammentando giustamente che non si capisce il PCC senza Confucio). E’ curioso; così, all’impronta, pare che una storia più lunga di quella dello stato-continente Europa non esista: se si mettono insieme impero romano, sacro romano impero, impero napoleonico (per quanto effimero) e impero austroungarico riscontriamo la persistenza di un’idea, anzi di una fattuale unità. I tentativi di costruzione di un unico stato europeo risultano numerosi e reiterati, anche se, alla lunga, fallimentari. E sono falliti proprio perché il tratto caratteristico della civiltà europea, è lo Stato-nazione; l’Europa vera – infatti – non potrà che essere una comunità di nazioni, poiché abbiamo lingue, tradizioni e confini propri. Eppure, man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è ulteriormente rafforzata l’idea di una identità europea comune. Ricche e possenti sono le tradizioni che la individuano, in particolare le due radici fondamentali, quella greco-romana e quella ebraico-cristiana; e le divisioni sanguinose che hanno scosso il continente non hanno mai potuto cancellare l’affinità dei popoli, l’unità del pensiero. E’ verissimo che fumosi richiami all’unità europea sono utilizzati per puntellare l’attuale disastrosa Unione, ma ritengo che si possa avversare la UE anche – o addirittura meglio – appellandosi a un sano spirito europeo come fanno i firmatari della Dichiarazione di Parigi (1), o come faceva Mario Tronti, che ne Il popolo perduto, citando “un bellissimo testo di Romano Guardini, Europa, realtà e compito”  ricordava che sarebbe stato opportuno riconoscere come il sentire comune del cristianesimo fosse un legame spirituale che univa tutti gli europei.

 

Altre perplessità nascono sul tentativo di distinguere due idee di nazione: Formenti separa quella naturalistica – diciamo, grossolanamente, di destra – “che presume la nazione esistente ben prima della nascita degli stati moderni e delle rivoluzioni borghesi, perché affonda le radici in fattori fisici, climatici, di sangue e suolo ecc.” da quella “di sinistra”, consapevole che la nazione è un prodotto storico della vita politica.

Inizierei dalla presunzione di esistenza in vita: non si darebbe nazione prima della nascita degli stati moderni, delle rivoluzioni borghesi. Dante quindi non avrebbe potuto neppure concepirne l’idea. Ma Antonio Borgese ebbe a scrivere “L’Italia non fu fatta da re o capitani; essa fu la creatura di un poeta: Dante. Non è un’esagerazione dire che egli fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele”.

 

Secondo Formenti – fin troppo preoccupato, evidentemente, di smarcarsi nettamente da idee di nazione che potrebbero essere considerate “di destra” – i fattori fisici, climatici, di suolo non sarebbero significativi, nell’identificare una nazione. Certo, tutto è prodotto storico, chi ne può dubitare? Infatti la storia è fatta, anche, di “Generale Inverno”, di elefanti che attraversano catene montuose, di proconsoli che attraversano fiumi, di comunità racchiuse dai monti che elaborano norme singolari. Il popolo non preesiste alla nazione, sostiene lo studioso. Ma non sono proprio le caratteristiche di un popolo a determinare la nazione che si costruisce? Le stesse forme religiose sono influenzate dal carattere di un popolo. E, a tal proposito, è pensabile che una cultura, un comune sentire, possano prescindere del tutto dalla religione? Non è con la secolarizzazione che si dà spirito a un’azione – diceva Tronti nell’intervista citata.

 

Insomma, dato per scontato che non sono i caratteri razziali (di certo difficilmente identificabili in Italia, specie nel meridione, dove sarebbe divertente osservare gli specialisti del DNA che si affannano a individuare i geni giusti) a fare un popolo, in tutti gli altri campi non è facile individuare una netta contrapposizione tra due opposte idee di nazione. Quando Formenti sostiene che il patriottismo giusto è quello la cui parola d’ordine non è prima l’Italia ma prima il popolo e la Costituzione italiani, sembra di trovarsi di fronte a un debole giochino di sostituzione semantica.

 

Nazione sarebbe, leggo, “il territorio su cui lavorano, vivono e lottano tutti i soggetti che lo abitano e si riconoscono nell’ordinamento politico che lo controlla e lo governa”. Basta leggere Leopardi, Manzoni, De Roberto, Malaparte, Flaiano, per sincerarsi che il popolo italiano era lo stesso sotto i viceré, sotto i Savoia, sotto il Duce e sotto la Repubblica, prima, seconda e terza. Di certo Formenti vuole intendere che non siamo ancora un popolo proprio perché non ci sentiamo – forse non ci siamo mai, o quasi mai, sentiti davvero – rappresentati da chi governa. Saremo un popolo vero quando ci sentiremo rappresentati dalle nostre istituzioni. Ma prima di giungere a costruirle, queste istituzioni, occorrerà riconoscersi in qualcos’altro, qualcosa che già esiste.

Dobbiamo accingerci a costruire questo popolo “che è tale perché condivide un insieme di diritti e doveri”. Sacrosanto. Come è sacrosanto che non si dia trasformazione radicale della società senza mettere in atto un processo costituente; poiché le costituzioni sono la quint’essenza della sovranità popolare. Ma si può costruire un popolo con un corso intensivo di Educazione Civica? Perché è questa la soluzione che viene in mente se presentiamo la faccenda in questi termini.

 

Per disegnare un grande progetto politico nazionale, una unione tra interessi diversi, non è sufficiente incrociare quattro rivendicazioni sindacali. Non ci sarà nessun popolo, senza un simbolo forte, condiviso, radicato, qualcosa che affondi le radici nella sua storia, che sia, anzi, tutta la sua storia, che lo individui, che lo innervi fortemente. Che lo innervi già, intendo. Certo, ci si può coalizzare riconoscendoci nei fini, in quelle forme di governo, in quelle istituzioni che dovrebbero caratterizzarci in futuro. Ma le alchimie costituzionali – o il semplice richiamo alla piena attuazione della Costituzione esistente (che suonerebbe tristemente simile alle ipocrite esortazioni dei nostri ultimi Presidenti) – non hanno mai eccitato gli animi. Possono davvero farci avvertire la compattezza – e l’orgoglio – di un’appartenenza di patria?

Del resto anche Formenti ha affermato, concordando con Tronti, che le radici della rivoluzione stanno nel passato, più che nell’esaltazione del futuro.

 

Formenti sostiene che Mélenchon può impunemente sventolare il tricolore perché la Francia ha una lunga storia politica nazionale. Ma proprio per questo, proprio perché da noi non ce ne è stata abbastanza – di storia nazionale – ritengo che dovremmo sventolare ancor più in alto il nostro tricolore (con la sua inevitabile dose di enfasi, di demagogia, di equivoci) invece di tenerlo a mezz’asta per timore dell’accusa di fascismo, anzi, di populismo di destra.

 

 

 

Ritorno al futuro – 1- Intervista a Carlo Formenti di Elio Paoloni

 All’intervista seguiranno alcune considerazioni di Elio Paoloni_Giuseppe Germinario

Ritorno al futuro – 1- Intervista a Carlo Formenti

di Elio Paoloni

 

 

 

Non è di sinistra, Carlo Formenti: “Non vogliamo “rifare” la sinistra, non solo per motivi di opportunità linguistica, visto che la maggioranza del popolo disprezza ormai questa parola, ma perché riteniamo che il binomio destra/sinistra, da quando essere di sinistra non significa più nutrire la speranza in un cambio di civiltà, rappresenti unicamente un gioco delle parti fra le caste politiche che gestiscono gli affari correnti del capitale”.

E’ socialista. Non duro e puro (perché si impongono duttilità e abbandono di vecchi schemi marxiani) ma verace. Resta difficile perciò ai suoi avversari de sinistra triturarlo come hanno fatto con Costanzo Preve, al quale Formenti dedica un capitolo del suo ultimo libro, Il socialismo è morto, viva il socialismo, testo a parer mio imprescindibile per chi vuole davvero comprendere il presente, un testo di cui raccomando in ogni occasione la lettura e la diffusione. Difficile triturarlo, dicevo, non solo per il suo passato di dirigente della sinistra del sindacato unitario dei metalmeccanici, per il decennio in cui è stato caporedattore di Alfabeta, per il suo impegno di ricercatore – nell’università e fuori – sui temi dell’uso capitalistico delle nuove tecnologie, per l’attività di blogger sulle pagine di MicroMega e per la costante, approfondita rilettura di Gramsci.

Alla analisi acuta – ma per noi non nuovissima – della falsa sinistra, unisce una conoscenza approfondita dei fenomeni populisti (una tecnica di comunicazione, si badi bene, non un’ideologia) rivalutati come ‘grado zero’ della nuova lotta di classe e una notevole dimestichezza con la realtà cinese, indispensabile per sbaragliare i luoghi comuni sull’impossibilità di governare l’economia, la finanza, l’iniziativa privata. Quella ‘manifesta impossibilità’ che viene di continuo avanzata con coloriture tra il biblico e il parascientifico per castrare ogni velleità di ribellione.

Per un ex intellettuale dell’area dell’autonomia operaia, il richiamo ai principi fondativi dello Stato nazione può suonare strano, ma non si tratta di nostalgia del passato, bensì di ritorno al futuro.

Infine Formenti non è certo il primo a evidenziare il carattere scellerato (politicamente parlando) di certo femminismo ma è il meno esposto a facili contestazioni in virtù della sua attenzione al pensiero femminista più accorto e consapevole, come quello di Nancy Fraser, il cui ultimo libro verrà tradotto nella collana Visioni eretiche che Formenti dirige per Meltemi.

 

  • Inizio con un dettaglio irrilevante. Mi ha incuriosito questa affermazione: “Il movimento operaio non ha mai saputo cogliere la natura demoniaca (altrove demonica – e sarebbe interessante sapere se questo slittamento è deliberato o casuale) della tecnica”. E’ saltato un “quasi’ o non considera i luddisti parte del movimento operaio?

Lo slittamento linguistico cui si riferisce non è deliberato bensì del tutto casuale. In ogni caso, se mi venisse chiesto di optare per una delle due versioni, sceglierei senza esitazioni il termine demonico, onde evitare letture “mistiche” (la tecnica come incarnazione del male assoluto). Quanto alla seconda parte della domanda non è saltato un quasi: più semplicemente il movimento luddista, rispetto al quale ho espresso giudizi esplicitamente apologetici in alcune pagine de La variante populista, dedicate al formidabile lavoro di E.P. Thompson sulla formazione del proletariato in Inghilterra, non è mai stato riconosciuto dalle sinistre di ieri e di oggi (Marx compreso) come facente parte a pieno titolo della storia del movimento operaio, in quanto espressione di una resistenza “conservatrice” dei vecchi mestieri artigianali alla modernizzazione capitalistica, assunta come positiva in sé, grazie al suo ruolo di agente di sviluppo accelerato delle forze produttive.   

 

  • Condivide le opinioni di Jessa Crispin sulla mancanza di fondamento dell’idea che le donne siano dotate di maggiore empatia, che siano più compassionevoli, altruiste e inclini a farsi carico dei problemi altrui? E’ in effetti sotto i nostri occhi il fallimento delle donne al potere, che si sono rivelate ben più disumane degli uomini nello stesso ruolo. Ma non trova che questo sia dovuto proprio alla ‘necessità’ per le donne, di dimostrarsi all’altezza (spietatezza) del ruolo? A quello che io definisco paradigma soldato Jane?

 

La polemica di Jessa Crispin, che ho citato in varie occasioni nei miei lavori, è utile per smontare le banalità “politicamente corrette”, purtroppo condivise dalla maggioranza delle militanti dell’ala mainstream del movimento femminista (cioè di quell’ala emancipazionista che è prevalsa sulla teoria della differenza delle femministe storiche, come Luisa Muraro). Le donne al potere (come Hillary Clinton, per citare il caso di colei che è giunta più vicina di qualsiasi altra al vertice del sistema) non hanno “fallito”, più semplicemente incarnano – com’è ovvio e inevitabile – la logica di un sistema che non ha sesso, che è costitutivamente androgino. Il potere economico e politico è neutro per definizione, nel senso che deve neutralizzare tutte le differenze (non solo quelle sessuali) che ne disturbano le dinamiche. Quindi ben vengano le polemiche a la Crispin, che sbarazzano il campo dalle scempiaggini sull’intrinseca “bontà” del genere femminile contrapposta alla “malvagità” del genere maschile. Ma per cogliere i limiti e le contraddizioni dell’ideologia femminista occorre andare assai più a fondo. Occorre partire, per esempio, dalle riflessioni di Nancy Fraser, la quale coglie con estrema lucidità l’alleanza di fatto fra neoliberismo e femminismo della seconda ondata, nella misura in cui quest’ultimo, concentrandosi esclusivamente sulle istanze di riconoscimento identitario, ha abbandonato qualsiasi velleità di opposizione al sistema capitalistico (cavandosela con la tesi risibile secondo cui basterebbe superare il patriarcato per rovesciare il capitalismo).

 

  • Presentando il suo libro le è capitato di accomunare le primavere arabe alle ribellioni populiste occidentali. Mi era sembrato di capire che fossero eterodirette, anzi architettate, da potenze alle quali certi regimi parevano troppo autonomi. Ovviamente le manipolazioni neo-coloniali devono innestarsi su un malcontento davvero esistente, ma quel genere di malcontento può davvero essere assimilato alle rivendicazioni redistributive che conosciamo?

 

Le primavere arabe sono state un fenomeno complesso e articolato che i media occidentali hanno semplificato e omologato, presentandolo come insurrezioni che rivendicavano livelli di consumo e libertà democratiche di tipo occidentale (in base alla nota equazione secondo cui libero mercato=benessere, democrazia e libertà per tutti). La verità è che il fenomeno ha avuto caratteristiche diverse da Paese a Paese. Il fatto che si sia diffuso rapidamente in aree anche assai lontane l’una dall’altra ha a che fare con l’esistenza di network televisivi internazionali in lingua araba come Al Jazira, che diffondevano immagini e notizie. L’effetto imitazione è scattato perché ovunque esistevano motivi di tensione delle classi subalterne nei confronti delle élite dominanti. L’effetto di omologazione è stato invece il frutto delle interazioni orizzontali, mediate dai social network, fra strati di classe media emergente (studenti e ricercatori universitari, nuove professioni “creative” ecc.). Costoro, al contrario delle masse popolari inferocite dalle pessime condizioni di lavoro e di vita (disoccupazione, salari miserabili) che gridano vendetta a fronte della ricchezza delle caste dominanti, presentavano effettivamente caratteristiche culturali simili (in particolare la frustrazione per lo scarto fra livelli educativi elevati e scarse opportunità di sfruttarli a fini di mobilità sociale) e apparivano evidentemente sedotti da modelli di consumo e stili di vita occidentali. È su questi strati che tentavano di far leva le manipolazioni neocoloniali cui si fa riferimento nella domanda, mentre la paura per le aspirazioni ridistributive delle larghe masse che premevano sotto questo strato superficiale ha fatto sì che i Paesi occidentali abbiano accolto con sollievo il ritorno alla normalità imposto con metodi sbrigativi come quelli adottati dalle caste militari egiziane.

 

  • Afferma spesso che non esiste un demos Ma questa non è la tipica affermazione dei nazionalisti di destra, che confondono demos con etnos?

 

Assolutamente no. Manca un demos europeo non perché esistono radicali differenze linguistiche, etniche, storiche e culturali fra i vari Paesi del Vecchio continente (che pure esistono e sono un ostacolo non da poco all’unificazione), bensì perché non si è mai dato un processo di costruzione di uno Stato, di un popolo e di una nazione europei. È per questo che resta valida la battuta che dice l’Europa è solo un’espressione geografica. La mia visione del popolo e della nazione non ha nulla da spartire con la visione “naturalista” delle destre (sangue e suolo). Per me popolo e nazione non sono entità sostanziali che preesistono a un processo di costruzione politica. Contrappongo alla visione naturalista una visione “statalista” dei concetti in questione, nel senso che non si danno popolo e nazione se non all’interno di uno stato-nazione. In altre parole: stato, nazione e popolo sono tre aspetti di un unico processo storico di costruzione politica. Nulla di tutto ciò è mai avvenuto su scala europea, né può avvenire a seguito del progetto dell’Unione Europea che non vuole costruire uno stato ma un blocco di potere economico continentale in grado di competere con gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone sul mercato globale. Stando così le cose, non posso ribadire quanto già affermato da Marx che da Lenin: gli Stati Uniti d’Europa, se realizzati attraverso l’unione di Paesi a regime capitalista, non rappresenterebbero un progresso bensì il trionfo della reazione mondiale.

 

  • Definisce il patriottismo un sentimento condiviso da tutti gli appartenenti a una comunità territoriale, a prescindere dalle origini etniche e dalle identità religiose, culturali … Un sentimento che si incarna in un luogo, in una lingua, in una cultura Più avanti stigmatizza la destra, che utilizza l’idea di nazione per esaltare i caratteri identitari – cultura, lingua Non si comprende bene se questa incarnazione in una lingua, in una cultura, sia di destra o di sinistra. Se si possa prescinderne o no.

 

In qualche misura ho già riposto poco fa. L’incarnazione in una lingua, in una cultura, ecc. dal mio punto di vista, non sono il fondamento ontologico di una patria, sono il materiale su cui può lavorare un progetto politico di costruzione di una comunità territoriale che “diventa” stato, e quindi anche nazione e popolo. La patria “si fa” non “si scopre”, anche se per farla si attinge anche, ma non solo, al materiale culturale di cui sopra. Come dimostrano le esperienze degli Stati Uniti e (in scala minore) della Confederazione Elvetica, non è necessario disporre di un materiale omogeneo per “fare patria”

 

  • Lei sostiene che dobbiamo accingerci a costruire un popolo “che è tale perché condivide un insieme di diritti e doveri”. Certo, ci si può coalizzare riconoscendoci nei fini, in quelle forme di governo, in quelle istituzioni che dovrebbero caratterizzarci in futuro. Ma le alchimie costituzionali – o il semplice richiamo alla difesa della Costituzione esistente (che suonerebbe tristemente simile alle ipocrite esortazioni dei nostri ultimi Presidenti) – possono farci avvertire davvero la compattezza – e l’orgoglio – di un’appartenenza di patria?

 

Non si tratta di “alchimie costituzionali”. Si tratta di partire dall’assunto gramsciano secondo cui le classi subalterne non devono prendere il potere, devono farsi stato. Ciò vuol dire che, contrariamente a quanto pensano coloro che ritengono che basti assumere il controllo del governo per avviare una trasformazione radicale della società, le classi subalterne, per riuscire ad esercitare la propria egemonia, devono niente di meno che creare un nuovo tipo di stato. Ma ciò significa a sua volta che non si dà trasformazione radicale della società senza mettere in atto un processo costituente. Le costituzioni sono la quint’essenza della sovranità popolare, perché come scrive Carlo Galli nel suo ultimo libro (Sovranità, Il Mulino 2019), il potere costituente non è mai del tutto costituito, in quanto incarna la presenza concreta di un popolo che può in ogni momento “sfondare” lo spazio pubblico, agire contro la sovranità esistente per generarne una nuova. Ecco perché le rivoluzioni bolivariane hanno dovuto passare attraverso l’approvazione di nuove costituzioni. Che poi i principi in esse affermate restino largamente disattesi non conta: è la loro stessa esistenza a legittimare la lotta per metterli in atto. Questo vale anche per la nostra Costituzione che, non solo è disattesa, ma viene da qualche anno sconciata per neutralizzarne le velleità “criptosocialiste” (secondo la definizione della JPMorgan). Difenderla è una necessità imprescindibile, ma non basta, in una prospettiva rivoluzionaria si dovrà passare da un Assemblea Costituente che la “depuri” dalle riforme liberiste e ne sviluppi il potenziale specificando, attualizzando ed estendendo gli articoli più avanzati dal punto di vista sociale. Naturalmente non è la Costituzione in quanto lettera morta a innescare il sentimento patriottico e socialista, ma è la lotta patriottica e socialista a richiamare a nuova vita i principi costituzionali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

nuovi paradigmi della sinistra del socialismo, con Andrea Zhok

Italia e il mondo continua ad offrire il proprio spazio a quelle forze e personalità che puntano a superare l’impostazione economicistica dell’azione politica; che cercano quindi di valorizzare la funzione della cooperazione, confronto e del conflitto tra centri politici nei vari ambiti della società. Attraverso questo percorso diventa essenziale la ricollocazione nella società e nell’agone politico del ruolo dello stato , l’analisi delle sue dinamiche interne e la funzione che svolgono i processi identitari  nelle forme particolari di coesione delle formazioni sociali. Con questa intervista Andrea Zhok ci offre il suo punto di vista partendo da un’area politica che sino a non molto tempo fa sembrava avulsa da questi contenuti. Buon ascolto_Giuseppe Germinario