Italia e il mondo

2024-2025 Tra passato e futuro Con Cesare Semovigo, Gabriele Germani, Giuseppe Germinario

Prosegue la collaborazione con il canale YouTube @Gabriele.Germani Il passaggio dal 2024 al 2025 offre, come sempre, l’occasione per un primo bilancio di quanto accaduto nell’anno passato, così convulso per poi sbilanciarci in qualche previsione nel prossimo futuro, aperto a diverse opzioni. Seguirà, prossimamente, una puntata di ulteriore approfondimento con Roberto Buffagni e Roberto Iannuzzi, registrata il 2 gennaio scorso. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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La “Bomba Terremoto” ci misero!_di Cesare Semovigo

La “Bomba Terremoto” ci misero!

L’esplosione in Siria, nei pressi della Santissima Base di Tartus (ora pro Oreshnik), ha fatto il giro del web. Alcuni gridavano alla “bomba nucleare tattica”, mentre altri, più sobriamente, cercavano di capire cosa fosse successo davvero.

Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 2024, Israele ha condotto una serie di attacchi aerei nella regione costiera siriana di Tartus, prendendo di mira siti militari, tra cui unità di difesa aerea e depositi di missili terra-terra. Questi attacchi sono stati i più intensi nella zona dal 2012, parte di un piano certosino che, a giudicare dalla minuziosa solerzia, giaceva già da tempo immemore nei cassetti della pianificazione dell’IDF. La disinformazione è entrata subito nella categoria “Maskirovka” venuta male e riuscita peggio (маскировка, per gli amici: tutte bandierine, nastri di San Giorgio in salsa grande vittoria finale e non ultimo “Dio è con noi!”). Inoltre, il pragmatismo logico, nonostante l’innata voglia di complotto che pervade l’animo dei critici per nascita, ci teneva a non farmi perdere la messa a fuoco. La vocina interiore, con quell’odioso accento francese da cortigiana, continuava a ripetermi: “Va bene, tutto molto suggestivo, ça va sans dire, ma quale mai sarebbe l’opportunità tattica di Israele?”.

L’impunità guadagnata con il silenzio della decenza internazionale nega ogni tipo di convenienza strategica, figuriamoci rischiare una “reazione a catena” che potrebbe riaccendere l’attenzione dei passionari progressisti tanto attivi nei primi due mesi delle operazioni a Gaza (oggi estinti). Inoltre: l’annessione del Golan e l’occupazione del sud della Siria è stata una formalità; Gaza è, ed è sempre stato, un esperimento sotto vetro per allenare l’instabilità psichiatrica degli sceneggiatori della loro filosofia politica; il fronte interno è ostaggio di una guerra permanente, nella quale le proteste iniziano ad assomigliare a una rappresentazione rassicurante per turisti della tenuta della loro stessa democrazia; l’IDF continua a superare il fiume Litani, demarcatore degli accordi di cessate il fuoco; seicento attacchi sul territorio siriano dalla metà di novembre ad oggi, in un clima di completa impunità e reazioni internazionali.

Una lettura può essere offerta riconoscendo la comparsa di specifiche alchimie mediatiche: un equilibrio tra il culto del linguaggio e delle tempistiche operative. Una volta che si presenta un’opportunità, confezionata dai lanci di stampa, gli automatismi si autorigenerano. Quale occasione migliore per stimolare la percezione della propria invincibilità, consacrando la propria determinazione e innalzando quella religione chiamata “deterrenza”?

La presenza di rilevamenti periodici (sismografici, elettromagnetici e dosimetrici), prodotti da vari enti per la conservazione ambientale e della salute pubblica, situati in vari paesi pertinenti, rende particolarmente improbabile l’uso indiscriminato di un sistema d’arma ingombrante che porta con sé l’aggravante probabilistica di un’attribuzione certa. Per sanare ogni dubbio, non ho trovato fonti ufficiali a conferma dei rumors che suggerivano un aumento della radioattività nell’aria nel territorio turco e cipriota nell’arco di tempo conseguente all’evento.

Qui trovate le fonti aggiornate e dettagliate ; potete consultare i siti web delle agenzie ambientali nazionali e verificarle voi stessi: Turchia – Ministero dell’Ambiente, Urbanizzazione e Cambiamento Climatico; Cipro – Dipartimento dell’Ambiente. Fonti 1, 2

Quando si parla di esplosioni di portata significativa, l’esplosione in Siria è stata un perfetto esempio di come una detonazione spettacolare possa essere scambiata per qualcosa di più iconico: in questo caso, una “bomba nucleare tattica”. Guardando le immagini e i video disponibili, è evidente che si tratta di una gigantesca esplosione convenzionale, scatenata da un attacco israeliano a un enorme deposito di munizioni. L’esplosione, amplificata dalla reazione a catena degli ordigni stoccati, ha creato uno spettacolo distruttivo, ma ben lontano da una detonazione nucleare. Il catalizzatore che alimenta la leggenda è la “bomba terremoto”. La provenienza? Il meglio del peggio dei tabloid UK. Questo tipo di eventi è abbastanza “usual” per chi segue da vicino questa guerra mondiale progressiva, quasi educata, in questo mondo a pezzi.

Una volta creato il titolo altisonante e la diffusione di immagini spettacolari, si è presentata la golosa opportunità di costruire un caso di formidabile efficacia, sia per l’agenzia stampa imperiale che per la spesso antiquata propaganda avversa, ancora molto lontana dall’essere vagamente competitiva nel linguaggio e nella lettura dell’inconscio del pubblico al quale vorrebbe rivolgersi. Le differenze non sono un dettaglio. Una bomba nucleare non è solo un’esplosione più potente: è un inferno che si trascina per giorni, settimane, mesi. Oltre al botto, c’è un rilascio di calore e luce così intenso da incenerire tutto nel raggio di chilometri, incendiare intere città e lasciare radiazioni mortali ovunque.

Oltretutto costa. È qualcosa di strategicamente prezioso e non è il prolungamento della tua virilità da sparare a Capodanno per impressionare i figli della tua vicina single che ti piace tanto. Sarebbe saggio capire cosa significhi davvero un attacco nucleare, un primo passo salutare per inibirne la probabilità effettiva. Un’esplosione nucleare genera temperature di milioni di gradi in frazioni di secondo, creando una palla di fuoco che supera i 10.000 gradi Kelvin (per capirci, il sole sta a 6.000). Questo calore immenso non solo distrugge, ma distribuisce incendi che si autoalimentano come pandoro e mascarpone a Capodanno, trasformando intere città in tempeste di fuoco.

Caratteristiche di un’esplosione nucleare: venti di uragano: l’aria calda sale, l’aria fredda viene risucchiata, creando venti a velocità distruttiva; calore mortale: le temperature possono superare i 1.000 gradi Celsius, rendendo impossibile la sopravvivenza anche nei rifugi; durata estesa: a differenza di un’esplosione convenzionale che si esaurisce rapidamente, una tempesta di fuoco può bruciare per ore, giorni, persino settimane. E poi ci sono le radiazioni: non le vedi, ma come i vietcong nascosti nella giungla, ti uccidono silenziosamente. Insomma, converrete che non è qualcosa che nascondi sotto la sabbia di al-Sahara per due settimane. Una tattica o un ordigno ibrido con materiale radioattivo non si presta a giochi di prestigio.

Nell’esplosione siriana si notano elementi chiave che parlano di un evento convenzionale: nubi multiple, colori distintivi tra il rosso e il giallo e frammenti in fiamme espulsi dall’esplosione. Tutto questo è tipico di una detonazione causata da munizioni, non da un ordigno nucleare. Capire la differenza tra esplosioni convenzionali e nucleari non è un esercizio accademico: è fondamentale per valutare i rischi reali. In un conflitto nucleare, i danni non si fermano all’impatto iniziale. Il fuoco dilaga, le radiazioni continuano a uccidere e il caos si amplifica. Un’esplosione convenzionale, per quanto devastante, ha effetti contenuti rispetto a un ordigno nucleare capace di propagare, poco dopo l’epicentro, temperature fino a 7.000-10.000°C, sufficienti per fondere acciaio, vetro e altre strutture. L’onda d’urto è seguita da un vento che trasporta aria calda a temperature tra 300 e 1.000°C, a seconda della carica nominale effettiva.

A onor del vero, parte delle speculazioni e della valanga del “si dice”, dietrologicamente esplosa in ritardo (indizio che assomiglia più a una prova), è stata innestata da testimonianze dirette e bollettini sanitari riguardo a malori, difficoltà respiratorie e ustioni a gola e viso di chi, soccorso, si trovava nelle zone pertinenti al deposito interessato dalla deflagrazione. Segnali accolti e divulgati con superficialità o dolo potrebbero aver contribuito a “gonfiare” l’evento fino a trasformarlo in altro.

Questa speculazione è la prova di come le leve della narrativa abbiano affondato gli artigli nell’inconscio collettivo, dove tutti, chi più chi meno, fanno enorme fatica a sintonizzarsi con questa simulazione chiamata realtà. L’inquietudine che provo è forse la presa di coscienza di come certi temi vengano affrontati da questa realtà circostante, cinica e spaventata, abile solo a difendersi con un esercizio di stile    che riduce tutta la propria capacità coscienziale a un loop tra l’onirico e il fatalista. Negazionismo puro dell’immanente: la cesta di Socrate si fa mongolfiera No-Limits con il logo Red Bull.

Il “qui prodest” conduce all’ennesima “media operation imperiale”, una delle tante alle quali abbiamo avuto l’onere poco onorevole di assistere. In ogni caso, Israele non sta ballando alone . La shock therapy, realizzata con maestria    grazie alle combinazioni della sua tabella di marcia durante la    fine del 2024, dovrebbe essere completamente ri-sequenziata: arricchendosi giornalmente    di particolari non trascurabili .

La situazione oggettiva, nella sua tragica progressività, narra di circa 650 attacchi aerei contro obiettivi militari strategici in Siria, a partire dal 10 dicembre eseguiti con solerzia dall’aviazione di Tel Aviv. Saggiamente dovremmo domandarci perché abbia fatto più scalpore una notizia falsa rispetto a quasi 700 bombardamenti veri, perpetrati    parallelamente a un’invasione di terra in piena regola.

Questa dissonanza    è ben racchiusa nel cortocircuito morale autoassolutorio che giustifica le azioni di Israele, sostenendo che il vizio di spianare le strutture militari del vecchio Stato Arabo Siriano ha evitato che le milizie HTS e FSAereditassero” le risorse del regime Baathista, sottolineando solo in questo caso il DNA jihadista di questa alleanza.

Fa sorridere, voltando una pagina qualsiasi delle edizioni “cammellate”, trovare lodi rassicuranti nei confronti di al-Golani, impegnatissimo in un turbine di incontri istituzionali. Ieri Master of al-Qaeda con una taglia da 10 milioni, oggi statista del rinnovamento siriano. Sarebbe superfluo sollevare contraddizioni così evidenti se non si vivesse l’epoca del    manierismo surreale .

Fonti consultabili:

1. Turchia: Ministero dell’Ambiente, Urbanizzazione e Cambiamento Climatico (csb.gov.tr).

2. Cipro: Dipartimento dell’Ambiente (moa.gov.cy).

3. The Sun: The Sun Article.

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All in e Punta “Raisi”, di Cesare Semovigo

All in e Punta “Raisi”

 

Ho passato parte degli ultimi anni ad assistere a continue trasformazioni in Medio Oriente, e gli ultimi quindici mesi ad aggiornare settimanalmente, con continue integrazioni, il manuale del “surrealismo geopolitico”. Salutiamo la suddetta degradazione relativista, che, cronicizzata nel decennio scorso, ha prodotto l’inquietante thriller psicologico nel quale, consapevoli o meno, tutti noi speriamo di non sprofondare.

Nella scena di oggi siamo comparse impotenti; la protagonista, invece, è la distopia cangiante in varie sfumature di despotismo. Per sua natura non si preoccupa di chi resterà dopo, dei danni che fa nel mentre e, perché no, di chi paga il conto. Il loop temporale di eventi paradossali è diventato una sorta di laboratorio sperimentale dove ogni attore locale e internazionale rischia il proprio “gioco”, a scapito di sé stesso prima e di tutti gli altri dopo, tanto da presentare prima la conseguenza e poi l’effetto.

Sfogliando l’atlante della “democrazia export”, la grande ossessione auto-assolutoria del suprematismo coloniale, ovvero l’essere dalla “parte giusta”, sta generando una serie di singolarità ricorrenti. Talmente inedite che i corsi e ricorsi vichiani interrompono per una volta la loro innata ciclicità, accelerando verso la parabolica della vergogna.

È così che vediamo alleanze effimere quanto contraddittorie sbancare incontrastate, senza effettivamente essersi misurate con forze se non uguali, almeno vagamente contrarie. Sicuro, la realtà percepita, qui in Occidente, delle presunte imprese di alcuni attori…

In diversi abbiamo notato che l’eccessiva porosità, sia delle difese che della struttura di comando dell’Esercito Baathista, non possa essere ricondotta esclusivamente alle disastrate finanze statali e al venir meno dei preziosissimi alleati sciiti, che si rivelarono determinanti nella lunga e faticosa guerra civile (non sarebbe corretto definirla in questo modo).  

La fuga di Assad  

Airbus A320-200 modificato per funzioni governative e un Yak-40 , usati per il volo verso Mosca

Non importa se la loro presentabilità politica è oltre lo scandalo e insiste sulla teoria che vorrebbe essere postulato. Se gli interessi dei “giusti” coincidono con quelli di milizie con telaio Al-Qaeda, motore Al-Nusra, preparazione MIT e una guida satellitare esotica, e si riesce nel posizionare in pole questa gran turismo non comune, poi è un dettaglio secondario giudicare la decenza di chi vorrebbe narrarne le gesta epiche, omettendo che si tratti di un pick-up nero modello Mad Max (“Interceptor” però quello low budget).

La comparsa e il rafforzamento, estero-su-estero diretto, di gruppi come Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), erede di Al-Qaeda in Siria, è particolarmente emblematica: da un lato, ha combattuto Assad per “liberare” la Siria; dall’altro, pare intessere rapporti ambigui con Israele, se è vero — come insinuano alcune analisi e rapporti dal campo — che si sono verificati atteggiamenti ambigui di non belligeranza e taciti “consensi” sulla condivisione di certe aree di influenza.

Non bisogna stupirsi in un contesto così frammentato: dopotutto, i contatti sotterranei fra fazioni apparentemente in conflitto diventano quasi “fisiologici”, soprattutto quando si tratta di vendere o comprare armi, assicurarsi appoggi tattici o supervisione di intelligence garantendo “corridoi”, rotte di contrabbando e la pirateria delle risorse altrui estorte in maniera disinvolta da milizie concorrenti.

Parallelamente, c’è l’Esercito Siriano Libero (FSA) — un’entità che nei primi anni del conflitto godeva di un’immagine quasi romantica di “resistenza laica al regime di Assad” — che si trova sempre più alle strette. Si vocifera di un potenziale e imminente scontro proprio tra FSA e HTS per il controllo di diverse porzioni di territorio, in special modo nel nord della Siria. Sarebbe un ulteriore passo verso quella balcanizzazione che da tempo in tanti intravedono, con piccole enclavi che combattono fra loro, mentre potenze regionali come Turchia e Qatar cercano di spingere per il ripristino di una sorta di “sultanato musulmano”, cioè un sistema di governo modellato sulle dottrine dei Fratelli Musulmani.

Doha e Ankara si sono già prodigate a sostegno di gruppi a ispirazione islamista, sperando di trasformare la Siria in una pedina strategica, in funzione anti-sciita e, perché no, nella prospettiva di spazzare via l’asse della resistenza e lo spazio di influenza elastica che Teheran aveva tessuto a immagine del suo pragmatismo persiano.

 

Le raccomandazioni dello zio d’America

 

Recentemente, una delegazione statunitense ha incontrato a Damasco Ahmed al-Sharaa, noto come Abu Mohammad al-Julani, leader di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS). La delegazione includeva Barbara Leaf, assistente del Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, e Roger Carstens, inviato presidenziale speciale per gli affari degli ostaggi.

Durante l’incontro, al-Julani ha assicurato che HTS non permetterà a gruppi terroristici di operare in Siria o di minacciare gli Stati Uniti e i loro alleati. In seguito a queste discussioni, gli Stati Uniti hanno deciso di ritirare la taglia di 10 milioni di dollari precedentemente offerta per informazioni su al-Julani. Se li sono giocati a Las Vegas.

Questo incontro rappresenta un cambiamento significativo nelle relazioni tra gli Stati Uniti e HTS, poiché è la prima interazione pubblica tra allenatori statunitensi e al-Julani, nonché la prima partita diplomatica statunitense a Damasco, inaugurando gli “Internazionali di Siria” con un tabellone davvero esplosivo, come hanno dimostrato gli incontri precedenti.

Successivamente all’incontro, gli Stati Uniti hanno annunciato la revoca della taglia di 10 milioni di dollari sul leader di HTS, precedentemente inserito nella lista delle ricompense per la giustizia. Questa decisione ha suscitato indignazione e scandalo, poiché è sia una percezione di debolezza continuata del Dipartimento di Stato, senza attenuanti generiche, che un messaggio pericoloso di autorevolezza (quella che comunque continuano a dissimulare).

Le azioni dell’amministrazione Biden in Siria sono un delitto seriale che inevitabilmente ricorda parenti illustri.

 Analizzando il pattern operativo degli Stati Uniti del secolo scorso e della prima decade di quello che, sulla carta, doveva essere “il Nuovo Secolo Americano”, dimostra che non solo hanno perso lo smalto degli antenati, ma hanno anche smarrito il limite della decenza e del contatto con la realtà.

Preferire un terrorista come al-Julani, graziarlo e, secondo alcune fonti, addirittura finanziare direttamente (vedi Clinton, Sullivan, versetto 2012, il vangelo della geopolitica) il suo gruppo, rappresenta un pericolo per la stabilità della Siria e del Medio Oriente. Questo episodio dimostra come gli Stati Uniti abbiano perso coerenza strategica. Da una parte demonizzano certi attori regionali (ad esempio, il regime di Assad o gli alleati dell’Iran) dall’altra cercano compromessi con figure altrettanto problematiche, se non peggiori.

  

(Roger Carstens,Barbara Leaf, Al-Julani , primo viaggio dal 2012 del Dipartimentio di Stato Usa )

 

La Turchia, l’equilibrista

 

La Turchia, in particolare, ha assunto un ruolo da vero e proprio “equilibrista”. Un giorno si mostra dialogante con Mosca e aperta a cooperazioni che vanno dal settore energetico all’acquisto di sistemi missilistici russi; il giorno dopo torna a parlottare con Washington, ridestando la propria identità di membro NATO e “guardiano meridionale” dell’Alleanza.

Come non menzionare gli analisti che tentano ancora di giustificare ogni scelta di Ankara, arrampicandosi sugli specchi del dogma o pericolosamente scivolando nelle paludi della propaganda: dipingono Erdogan come l’ “uomo forte non esente da difettucci di poco conto”, con un piede dentro i Brics, mentre è sotto gli occhi di tutti che la sua posizione è sempre più incerta, stretta fra richieste statunitensi, sguardi severi di Israele e — al tempo stesso — il bisogno di non provocare troppo la Russia.

Nell’analisi del tangibile risulta sempre più impervio analizzare le mani semplicemente contando le carte e attendendo la mano buona. 

L’inversione di tendenza globale potrebbe essere ancora lungi dall’attivare ricette che possano impensierire il “padrone del pallone”, che, come gli ultimi turbo eventi hanno dimostrato, riesce con qualche difficoltà passeggera a decidere chi gioca. Persa qualche partita e aggiustata la formazione, ha ricominciato a macinare gioco e risultati.

 

Nel mezzo di questa confusione, i Curdi appaiono nuovamente sul punto di venire “sedotti e abbandonati sulla strada per Damasco ” dagli Stati Uniti, uno scenario che non sarebbe una novità 

Tantomeno un sacrilegio . Basta guardare la cronaca degli ultimi decenni per vedere come Washington si sia affrettata a sostenere l’FDS quando faceva comodo nella lotta contro Daesh, salvo poi lasciare che altre potenze regionali — Turchia in primis — muovessero pedine ostili nei confronti dei Curdi stessi.

La reliquia di Abdullah Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), dal 1999 nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, ha recentemente ricevuto una visita familiare dopo oltre quattro anni di isolamento. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha mostrato apertura verso una possibile grazia per Öcalan, a condizione che il PKK rinunci alla violenza e si sciolga. Le dichiarazioni rispetto alle quali consiglia di abbandonare la lotta armata sono in linea con determinati inspiegabili piani del socialismo del Rojava.

Accanto a questi scenari, c’è l’Iran, che, nella metafora del “pokerista”, a volte sembra foldare tutte le mani, seduto in un angolo, svogliato spettatore che per ora non investe troppo, lasciando che l’escalation scorra davanti ai suoi occhi. Molti si chiedono: è una scelta di prudenza o un sintomo che nasconde ben altre patologie?  

( Raisi scende dal Mi8 di fabbricazione russa -anno 1968- qualche ora prima dello schianto) 

Teheran è scossa dalle proteste interne e dalle sanzioni che ne minano l’economia, come provano a rappresentare le agenzie occidentali ,oppure si tratta di un calcolo tattico per evitare di trovarsi invischiata in un confronto diretto — come dargli torto — al quale crede di non poter vincere al momento.

Eppure, questa passività desta più di qualche sospetto: Hezbollah ha recentemente dichiarato presagi circa un progetto di balcanizzazione dell’area. Facendo un flashback, possiamo mettere in correlazione le falle della sicurezza che hanno portato alla decapitazione delle figure chiave con, in primis, la morte di Raisi e del ministro degli esteri Hossein Amirabdollahian (ritenuto da molti una figura forse più cruciale del primo ministro) e le voci circa un possibile  tradimento interno con sospetti su Esmail Qaani, comandante della Forza Quds iraniana.

Secondo alcune fonti, Qaani sarebbe sotto custodia e interrogato dai Guardiani della Rivoluzione iraniani nell’ambito di un’indagine su possibili falle nella sicurezza che hanno permesso a Israele di colpire la leadership di Hezbollah. 

 

 (Hossein Amirabdollahian) 

Inoltre, si riporta che l’Ayatollah Ali Khamenei avesse avvertito Nasrallah di un complotto israeliano per assassinarlo, consigliandogli di lasciare il Libano. Nasrallah avrebbe scelto di rimanere, portando alla sua morte nell’attacco israeliano.

La coltre di nebbia di guerra calata sulla scomparsa di Raisi , che ricordiamo era in pratica l’unico successore designato della guida suprema , ha sicuramente aggravato i sospetti , indagini velocissime , confusione sul numero degli elicotteri , il maltempo non c’era  e dulcis in fundo quella richiesta di aiuto alla Turchia con quel drone giunto troppo in fretta e con delle strane rotte notate dal tracciato del transponder . 

Molti analisti e tecnici osint militari hanno sollevato diversi dubbi , ma nonostante il “ peso politico “ enorme della vicenda è stato seppellito in fretta “ furbi et orbi “ , quasi una “damnatio memoriae” sulla quale ci concentreremo nei prossimi articoli. 

 

Gli interrogativi si sprecano. E, nel frattempo, c’è chi sospetta che Israele stia osservando la partita con la consueta lucidità, lasciando che i propri potenziali nemici — di varia denominazione — si indeboliscano a vicenda. A sud, con il Libano in crisi politica e Hezbollah forse meno centrale di un tempo, la minaccia si è apparentemente ridimensionata. A nord, la Turchia e i gruppi turcomanni sarebbero stati incoraggiati a spostare l’attenzione verso il nord della Siria, con i  Curdi potenzialmente nel mirino, e la stessa Russia che non desidera uno scontro diretto con Tel Aviv.

 

  

 

( Scontri Hts , miliziani ex esercito di Siriano 26-12-24 ) 

 

Un microcosmo di caos non randomico 

 

Gli scontri del 26 dicembre sono un microcosmo del caos che potrebbe attendere la Siria se non si trova una via d’uscita a queste rivalità intestine. In quel giorno, Idlib e Tartus sono diventate teatri di battaglie che hanno coinvolto non solo HTS e fazioni rivali, ma anche le ultime vestigia di fedeltà al vecchio regime di Assad.

 

No Future ! HTS e FSA: Nemici Amici e la Guerra Interminabile

 

Gli scontri tra Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e le fazioni ex-Esercito Siriano Libero (FSA) non sono una novità. Sono capitoli ricorrenti di un manuale che tutti conosciamo: quello della frammentazione dell’opposizione. Dalla battaglia di Idlib nel 2017, quando HTS iniziò a consolidare il proprio potere eliminando i concorrenti, agli scontri a Darat Izza nel 2019, fino agli episodi più recenti. Era inevitabile che, dopo la caduta di Bashar al-Assad, queste rivalità sopite esplodessero di nuovo.

Eppure, mentre queste fazioni si combattevano, HTS si è autoproclamato il difensore del popolo siriano, con Abu Mohammad al-Julani che si è ritagliato un ruolo quasi messianico. Da jihadista radicale a “statista” locale, la trasformazione di al-Julani è stata accompagnata da una campagna mediatica ben orchestrata. E adesso? Il rischio è che questa santificazione faccia di lui l’uomo forte di una Siria frammentata. Ma a quale prezzo?

Gli scontri del 26 dicembre 2024 sono un microcosmo del caos che potrebbe attendere la Siria se non si trova una via d’uscita a queste rivalità intestine. In quel giorno, Idlib e Tartus sono diventate teatri di battaglie che hanno coinvolto non solo HTS e fazioni rivali, ma anche le ultime vestigia di fedeltà al vecchio regime di Assad.

Da un lato, HTS si è scontrato con le fazioni ex-FSA per il controllo di risorse strategiche, dimostrando che la lotta per il potere non si fermerà con la caduta di Assad. Dall’altro, Tartus ha visto esplodere le tensioni tra le forze di sicurezza siriane e le milizie filo-Assad, culminate in 17 morti e la destabilizzazione di una delle poche aree che erano rimaste fedeli al regime. Questo, unito alle proteste alawite per la profanazione di un loro santuario, ha mostrato come nessuno sia immune dal caos.

E noi, che tutto questo abbiam previsto, non possiamo che vedere in questi eventi un monito: la Siria post-Assad rischia di essere prigioniera dei suoi stessi demoni, una terra dove ogni fazione vuole un pezzo del futuro. Ma a me sembra di ascoltare una colonna sonora in loop dei Sex Pistols.

Al-Julani: il Santo Opportunista?

 

Abu Mohammad al-Julani si è posizionato come l’uomo del momento, ma la sua ascesa ha radici in un passato fatto di strategie spietate. La sua capacità di ripulire l’immagine di HTS, presentandolo come una forza di stabilizzazione, è stata incredibile. Ma dietro questa narrazione c’è la realtà di un gruppo che ha combattuto non solo contro Assad, ma anche contro chiunque minacciasse il suo dominio. Praticamente tutti.

Se la Siria non si libera dall’idea che un uomo forte possa salvarla — tranquilla Siria, sei in buona compagnia — rischia di finire in una spirale di autoritarismo teocratico elegante come il completo di al-Julani, con la sua aura quasi messianica, candidato perfetto solo quando non veste Prada. Il problema è la cravatta.

La Siria ha bisogno di un nuovo paradigma, uno che metta da parte il culto della personalità e le rivalità settarie. Gli scontri del 26 dicembre sono un campanello d’allarme.

Il futuro della Siria non può essere costruito su leader Masters of Al-Qaeda, una notte dei jihadisti viventi che emergono dalle macerie fumanti di una guerra civile costruita su battaglie tribali per il controllo di città e risorse.

  

( al-Julani Hts ) 

 

Multipolar News

 

La Russia mantiene truppe e basi militari sul territorio, e l’Iran non si è ufficialmente ritirato, ma la verità è che la “resistenza” non può dar nulla per scontato. Se Teheran dovesse davvero continuare il suo “fold strategico” — attendendo momenti più propizi o, peggio, mossa dall’incertezza interna e dalle sue proprie contraddizioni — il rischio è che, a lungo andare, si crei una fascia settentrionale controllata dalla Turchia (e associati), e una serie di enclave più piccole dove le varie milizie, dai Curdi alle brigate filo-siriane, si barcamenano in cerca di sopravvivenza.

La prospettiva di un nuovo “Sultanato” islamista in Siria, promosso da Turchia e Qatar, è stata sempre ritenuta un’ipotesi estrema. Eppure, se guardiamo la storia recente, le cosiddette ipotesi estreme si sono realizzate più volte, complici gli errori di calcolo occidentali e la determinazione di leader regionali decisi a sfruttare ogni minimo varco.

( L’elicottero di Raisi )

 

 Diamo un nome alle cose

 

Il vero interrogativo riguarda questo giocatore di poker chiamato Iran, che, foldando ogni mano, sta osservando la tavolata con aria distaccata, mentre intorno s’infiammano rivalità e dispute sanguinose. La sua scelta di non puntare, di non scoprire le proprie carte, avrà esiti felici? Oppure si tratta di un errore grave che, col senno di poi, verrà giudicato come una rinuncia a difendere i propri alleati storici, da Hezbollah agli iracheni sciiti, e di conseguenza un’ulteriore mossa per farsi logorare dall’interno e dall’esterno?

Del resto, se è vero che anche i Curdi, in passato strumento di politica statunitense per arginare Daesh, sono stati abbandonati più volte, non è escluso che pure Teheran finisca per patire le scelte di potenze che badano esclusivamente al proprio tornaconto. Chi ne trarrà vantaggio?

In mezzo a tutto questo, spiccano gli analisti che, come già accennato, paiono ignorare i fatti. Leggendo certi editoriali, par di capire che la Turchia stia facendo una politica “coerente” o che l’Iran sia ancora “solido e compatto”, lasciato indietro Assad. Eppure, è lampante che Ankara sia immersa in un “ballo pericoloso” che combina rapporti contraddittori con USA, Israele, Russia e Qatar, e che, all’interno della Federazione Russa, diversi “falchi” militari inizino a mostrarsi scontenti del doppio gioco turco.

Non ci sarebbe nulla di male ad ammettere le contraddizioni e a riconoscere che l’epoca dei blocchi netti e perfettamente coerenti è tramontata. Ma certuni continuano con la propaganda, distribuendo attenuanti generiche alle mosse turche e interpretando come “casuali” scelte che in realtà seguono una logica ben precisa: salvaguardare l’interesse di Erdogan in ogni scenario, quale che sia il costo umano o geopolitico.

Siamo, dunque, in un quadro talmente fluido da rendere la Siria un mosaico di conflitti permanenti: FSA e HTS che potrebbero ricominciare a scambiarsi salve di Grad da un momento all’altro; i Curdi che maledicono le “fatality” di Kissinger sulla vera anima del loro alleato senza però poterne fare a meno; la Turchia che alza la posta guardando verso est e Mosul, sapendo perfettamente che in certe posizioni di gioco non si può fare altro che rilanciare; il Qatar che, insieme ad altri attori, muove pedine con cautela.

Il risultato è — e spero di sbagliarmi — un rompicapo ai confini della realtà che assomiglia troppo al caos che fu indotto nei Balcani, dove tutti i player provano a realizzare i loro sogni “bagnati dai due Fiumi”. Assad non era Tito, ma paradossalmente le “proxy” forces, per spregiudicatezza, sono sicuramente più simili ai Mladić, Karadžić e altri protagonisti di quell’epoca.

La diplomazia diventa esercizio di dissimulazione e il conflitto, non me ne vogliano i puri di cuore, scompare, superato dalla sua rappresentazione streaming artefatta in alta risoluzione. 

Pensare che all’inizio qualcuno parlava di “primavera araba”: ironia della sorte, siamo finiti in un Medio inverno pre-nucleare, sommerso da un fall-out di contraddizioni, doppi giochi . Se la primavera non arriva come potrebbe  l’estate non finire mai ? 

 

  

 

Diga di Giz Galasi , il Bell 212  di Raisi si allontana 

 

FONTI 

 

             

  1.         Middle East Eye, 15 ottobre 2021;; Al-Monitor, 10 settembre 2020
  2.       2 dicembre 2019; Escobar, Pepe, “Raging Twenties,” Asia Times, 18 marzo 2020
  3.       BBC News, 3 luglio 2019; The Guardian, 30 aprile 2020
  4.       Le Monde Diplomatique, 11 maggio 2021; The Duran, 19 febbraio 2023
  5.       Foreign Affairs, 12 agosto 2022; Politico, 9 novembre 2021
  6.       Limes, 15 giugno 2022; Al Jazeera English, 27 settembre 2022
  7.       The Times of Israel, 27 maggio 2021; Carnegie Middle East Center, 14 ottobre 2022
  8.       The Intercept, 23 agosto 2021; Project Syndicate, 17 gennaio 2022
  9.       The Moscow Times, 4 marzo 2022; The Duran, 27 maggio 2023
  10.       Brookings Institution, 9 dicembre 2022; Der Spiegel, 19 luglio 2021
  11.       Asia Times, 22 ottobre 2022; European Foreign Affairs Review, 14 settembre 2021
  12.       The Washington Quarterly, 10 novembre 2021; Il Manifesto, 28 febbraio 2022
  13.       Jacobin Italia, 11 giugno 2019; Escobar, Pepe, “BRICS 2.0: The Strategic Shift,”,
  14.       Limes, 16 marzo 2023; Politica Internazionale, 2 maggio 2022

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Rapporto Medley: Bilderberg News, la Turchia istituisce un tribunale in Siria, attacchi alla rete in Ucraina, di Simplicius

Rapporto Medley: Bilderberg News, la Turchia istituisce un tribunale in Siria, attacchi alla rete in Ucraina

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Bentornati a tutti, spero che tutti si siano goduti il Natale, chiunque lo abbia festeggiato. Durante i cicli di notizie lente tornerò all’edizione “medley” che non sarà tematica, ma piuttosto coprirà alcuni argomenti disparati in via di sviluppo. Questo è un ciclo di questo tipo, quindi, senza ulteriori indugi, alcuni dei principali sviluppi:

Bilderberg

Uno dei temi ricorrenti qui è stata la lenta ristrutturazione globale che si è verificata con la rinascita dei movimenti di destra/conservatori/tradizionalisti e il crollo del globalismo neoliberista.

Un altro tema ricorrente è stato il revolving-doorism, di cui ho parlato nell’ultimo pezzo, della coorte globalista che vede il costante riciclo delle stesse poche figure devote all'”establishment” attraverso una serie di posizioni burocratiche non elette all’interno delle strutture di potere del super-Stato globalista. Se ci si pensa bene, è incredibile come i burattinai facciano semplicemente ruotare i loro factotum stantii e marci da una posizione all’altra, proprio quando il burattino si esaurisce. Una volta che hanno accumulato una quantità irreversibile di malcontento pubblico, vengono semplicemente spediti al nuovo posto o alla nuova carica, ruotando intorno alla scacchiera come pedine degli scacchi, in questo caso.

Abbiamo visto Mario Draghi passare da presidente della Banca Centrale Europea (BCE) a primo ministro italiano; più recentemente Kaja Kallas da primo ministro dell’Estonia a luogotenente destro della von der Leyen come vicepresidente della Commissione europea; ora l’ex primo ministro norvegese Jens Stoltenberg, che è stato ruotato nella posizione di segretario generale della NATO, è stato nuovamente riciclato dai suoi controllori nella leadership del Bilderberg:

L’aspetto più sinistro di questa nomina è l’implicazione, data negli articoli precedenti, che Stoltenberg sia stato scelto specificamente per la sua “esperienza” e la sua leadership sulla situazione Ucraina-Russia, che potrebbe segnalare la principale area di attenzione che la cabala Bilderberger avrà nei prossimi anni:

Ora è in atto un importante cambiamento di potere: Stoltenberg, che ha partecipato al suo primo vertice Bilderberg nel 2002, è stato scelto per la sua esperienza nella strategia transatlantica.

Questo avviene mentre Trump, i cui frequenti attacchi alla NATO hanno scatenato l’indignazione dell’Europa, sale ancora una volta allo Studio Ovale. Il presidente eletto ha ribadito che non spenderà più miliardi di denaro dei contribuenti americani per finanziare le guerre di altri Paesi.

In breve: il clan vede sgretolarsi la solidarietà europea, con le potenze europee ora impantanate in una crisi politica dopo l’altra – ieri ho annunciato l’ascesa di Alice Weidel dell’AfD come nuova favorita per il posto di cancelliere di Scholz nei nuovi sondaggi. Oggi, il partito di Nigel Farage ha superato il Partito Conservatore al secondo posto in tutto il Regno Unito:

Il partito politico britannico di destra Reform UK, guidato da Nigel Farage, è ora ufficialmente il secondo partito del Regno Unito per numero di iscritti, con circa 132.000 membri.

Il partito conservatore di centro-destra è attualmente a 131.000 membri e in calo, mentre il partito laburista di centro-sinistra rimane il più grande, con oltre 366.000 membri.

Le élite al potere sono in crisi e Stoltenberg – nonostante la sua evidente mancanza di intelligenza, arguzia o grazia sociale di qualsiasi tipo – è stato apparentemente ritenuto fanaticamente devoto alla causa tanto da qualificarsi per questo ruolo amministrativo di primo piano, forse come una sorta di mandriano.

L’articolo del DailyMail fa un interessante accenno alla rilevanza dell’Ucraina per il gruppo Bilderberg, visti gli altri membri di rilievo:

L’amministratore delegato di [Palantir] Alex Karp, che fa anche parte del comitato direttivo del Bilderberg, ha recentemente sottolineato l’impatto di Palantir, affermando che l’azienda è stata “responsabile della maggior parte degli obiettivi in Ucraina”.

Questo legame diretto con la guerra moderna esemplifica come l’impero tecnologico di Thiel si allinei con gli interessi del Bilderberg in materia di sicurezza e investimenti militari.

[Il mandato di Stoltenberg come capo della NATO è stato dominato dal conflitto Russia-Ucraina e dalla crescente espansione della NATO, rendendolo una scelta naturale per guidare le discussioni del Bilderberg sulla difesa transatlantica.

Qualche mese fa il FT ha riportato come le aziende di difesa globali stiano assistendo alla più grande frenesia di profitto “dai tempi della Guerra Fredda”:

La domanda di lavoratori dell’industria della difesa in Occidente sale ai livelli della Guerra Fredda.Secondo il FinancialTimes, la spesa militare globale ha raggiunto la cifra record di 2,443 trilioni di dollari.

Tre dei maggiori appaltatori statunitensi – Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics – hanno quasi 6.000 posti di lavoro da coprire, mentre 10 aziende intervistate stanno cercando di aumentare le posizioni di quasi 37.000 in totale, ovvero quasi il 10% della loro forza lavoro complessiva.

Questo aggiunge un contesto affascinante alla storia del Bilderberg, soprattutto se si considera che Alex Karp, CEO di Palantir, e Peter Thiel sono entrambi membri di spicco del Bilderberg. Ora, con l’assunzione di Stoltenberg, possiamo vedere ancora una volta i contorni della struttura dello Stato profondo globale: si tratta di pezzi grossi legati all’esercito e all’intelligence che presiedono sindacati segreti a cui partecipano tutti i principali leader politici e commerciali del mondo. Come si può facilmente immaginare, i tamburi di guerra vengono battuti con forza e le “gravi minacce” vengono messe in scena per mantenere il treno dei guadagni nel ciclo infinito del complesso finanziario-militare-industriale.

La leadership di Stoltenberg, unita all’influenza smisurata di Thiel, indica un Gruppo Bilderberg sempre più intrecciato con l’innovazione militare e la strategia politica.

Il Guardian osserva che Stoltenberg assumerà anche la presidenza dell’influente Conferenza sulla sicurezza di Monaco e che, affiancato al vertice dal “collega veterano del Bilderberg” Mark Rutte – un’altra marionetta riciclata che è stata primo ministro olandese – “segna una concentrazione del controllo ai vertici dell’alleanza atlantica in un momento critico”.

È interessante notare che anche Fareed Zakaria della CNN è stato nominato nel comitato direttivo del Bilderberg, evidenziando ancora una volta il nesso tra potere militare, industriale e mediatico concentrato in cabale segrete per dirigere gli eventi mondiali:

Ma l’arrivo di Stoltenberg potrebbe segnare un cambiamento: si tratta di una nomina di grande rilievo e segue la recente elezione dell’intervistatore di alto profilo della CNN Fareed Zakaria al comitato direttivo del gruppo, forse segnalando un’uscita dall’ombra per il gruppo, che non ha bisogno di pubblicità.

Siria-Turchia-Israele

Mentre la riforma della Siria prende forma, le opinioni continuano ad essere varie per quanto riguarda chi ne beneficia di più e chi è al posto di comando. Lo stesso Lavrov ha recentemente osservato che Israele sarà il principale beneficiario, e molti sono d’accordo con questa prospettiva.

Ma io continuo a sostenere che questo è solo un fenomeno di breve durata. Il vincitore finale è la rinascita dell’Impero Ottomano.

Jolani è sempre più amico di alti funzionari turchi: l’ultima volta è stato il capo del MIT di Erdogan, la principale agenzia di intelligence turca. Questa volta Jolani ha ospitato il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, che in passato è stato anche direttore del MIT. Jolani ha anche accompagnato Fidan in giro per Damasco e i due hanno ammirato le bellezze del luogo, sorseggiando insieme un caffè dalla cima del Monte Qasioun che domina la capitale:

Ora una cittadina turca è stata nominata come primo alto funzionario donna del nuovo governo di Jolani:

E questo avviene in mezzo a notizie secondo cui la Turchia stabilirà la sua presenza nelle accademie militari di Aleppo e Damasco:

La Turchia invierà consiglieri militari per addestrare il nuovo esercito siriano nelle accademie di Aleppo e Damasco, scrive la risorsa turca ClashReport, citando le sue fonti.

Si parla anche del possibile dispiegamento di un’unità dell’esercito turco a Homs per addestrare operatori di difesa aerea per le nuove autorità siriane.

Come se non bastasse, il figlio di Erdogan, Bilal, è stato visto in un video che invita a un grande raduno pro-Palestina sul ponte di Galata a Istanbul per il 1° gennaio, proprio come hanno fatto lo scorso Capodanno, da cui è tratto il filmato. Ma il grande cambiamento sta nel fatto che si riuniscono sotto la bandiera di un nuovo interessante slogan:

“Ieri Santa Sofia, oggi la Moschea degli Omayyadi (Damasco), domani Al-Aqsa (Gerusalemme)”.

Questo sembra essere il manifesto ufficiale dell’evento, con lo slogan stampato anche sopra:

Come si può vedere, si sta lentamente creando un fervore nazionalista per la riconquista di Gerusalemme. Israele è ora alle prese con un membro della NATO seriamente armato e notoriamente tenace, che mira a una moderna riconquista delle sue antiche terre. Per come stanno andando le cose, la Turchia potrebbe presto controllare per procura praticamente tutto ciò che accade in Siria e Israele si troverà ad affrontare la sua più grande sfida di sempre direttamente alle porte di casa.

Con gli Stati Uniti che sostengono Israele, potrei prevedere che la Turchia sarà costretta a stringere legami più stretti con la Russia e forse anche con l’Iran, per circondare Israele e tenerlo sotto pressione. La Russia è già pronta a firmare il grande partenariato strategico globale con l’Iran il 17 gennaio, proprio come ha fatto di recente con la Corea del Nord:

Russia e Iran potrebbero firmare un nuovo accordo di partenariato strategico prima dell’insediamento di Trump – Newsweek

Secondo la pubblicazione, il nuovo accordo tra Teheran e Mosca indica un tentativo dei due Paesi di “unire le forze” in un contesto di “isolamento sulla scena mondiale”.

Newsweek osserva che l’accordo con l’Iran era in cantiere da molti anni. A fine ottobre, il ministro degli Esteri russo S. Lavrov ha dichiarato che l’accordo sarà pronto per la firma nel prossimo futuro e “formalizza l’impegno delle parti a una stretta cooperazione in materia di difesa, all’interazione nell’interesse della pace e della sicurezza regionale e globale”.

Il nuovo accordo bilaterale dovrebbe sostituire l’accordo strategico ventennale firmato tra i Paesi nel 2001 e prorogato nel 2020. Conterrà promesse di cooperazione nei settori dell’energia, della produzione, dei trasporti e dell’agricoltura. – RVvoenkor

Il presidente Pezeshkian si recherà a Mosca per firmarlo personalmente in quella data.

Israele ora si affanna per indebolire il più possibile l’Iran, colpendo brutalmente lo Yemen negli ultimi giorni e pregando Trump di dare la sua benedizione per colpire gli impianti nucleari iraniani al suo arrivo. Ma credo che Israele si stia concentrando sull’avversario sbagliato e abbia di fatto scambiato un nemico con uno molto più potente.

Ucraina

Ieri la Russia ha scatenato un’altra serie di attacchi alle infrastrutture energetiche, colpendo con successo una miriade di obiettivi, secondo quanto riportato:

I missili contro il sistema energetico ucraino hanno colpito tre centrali idroelettriche sul Dnepr: a Dneprodzerzhinsk, Svetlovodsk e Kanev.

Inoltre, sono stati registrati scioperi in diverse centrali termoelettriche: Prydneprovskaya, Ladyzhinskaya e Burshtynskaya. Inoltre, le forze aerospaziali russe hanno lanciato un attacco missilistico contro la centrale termica Slavyanskaya nella regione di Kramatorsk occupata dalle Forze armate ucraine nella DPR.

Secondo alcuni rapporti, questa volta i colpi hanno preso di mira specificamente le infrastrutture di riscaldamento e idriche:

Oggi non si è attaccata solo l’energia, ma anche “riscaldamento, acqua e gas”. Ci sono arrivi e feriti:

▪ Kharkov. Attacco di massa di balistica e UAR. Più di 13 esplosioni. Riscaldamento e acqua scomparsi in città. C’è luce.
▪ Dnipro. Attacco di massa con missili da crociera. Circa 12 esplosioni. Ci sono danni alle infrastrutture.
▪ Kremenchug. Più di 5 esplosioni.
▪ Crooked Horn. Esplosioni.
▪ Burshtyn. Circa 8 esplosioni. La luce è sparita.

L’ultima diagnosi del NYT sui problemi energetici dell’Ucraina lascia un quadro desolante:

L’Ucraina ha finora resistito agli effetti dei tre grandi attacchi russi dell’ultimo mese tagliando l’illuminazione stradale e imponendo spegnimenti intermittenti per alleggerire la pressione sulla rete elettrica. Ma due anni di attacchi alle centrali elettriche e alle sottostazioni hanno lasciato la rete energetica del Paese sull’orlo del collasso, secondo gli esperti.

Con interruzioni di corrente destinate a durare 18 ore al giorno, l’Occidente si sta affidando a misure disperate per salvare l’Ucraina, secondo l’articolo:

Questo ha costretto le autorità ucraine a ricorrere a misure non convenzionali per cercare di evitare una crisi energetica. Sta portando in Ucraina un’intera centrale elettrica lituana, ormai obsoleta, per recuperare pezzi per la rete danneggiata; si è mossa per affittare centrali elettriche galleggianti dalla Turchia; e ha persino richiesto la presenza delle Nazioni Unite presso le sottostazioni critiche, nella speranza di scoraggiare gli attacchi russi.

Usare il personale delle Nazioni Unite come scudi umani? Beh, se non è una follia questa!

Il direttore ucraino del Centro di Ricerca sull’Energia ha dichiarato che le interruzioni di corrente probabilmente dureranno 2-3 anni – e questo nell’ipotesi che la Russia non faccia altri danni.

Qualche ultimo articolo:

Uno scioccante e imperdibile reportage francese sull’operazione Kursk in Ucraina: viene intervistato uno degli ufficiali partecipanti, che racconta i dettagli crudi e nichilisti di come sta andando l’operazione di Zelensky (nel video qui sotto, sia in versione doppiata che sottotitolata):

Considerando che si tratta di un rapporto filo-occidentale, ci si può solo chiedere come si possa continuare a credere ai dati sulle vittime dell’Ucraina.

Poi, Lukashenko umilia ironicamente l’armeno Pashinyan per non essere stato presente di persona alla riunione dell’EAEU (Unione Economica Eurasiatica) a Minsk:

Infine, un nuovo sondaggio mostra che tutta la popolazione europea ha drasticamente spostato il proprio sostegno a favore di risultati massimalisti a favore dell’Ucraina, con la maggioranza che ora si sposta in direzione di coloro che vogliono che la guerra finisca anche se ciò significa perdite territoriali per l’Ucraina:


Il vostro sostegno è inestimabile. Se vi è piaciuta la lettura, vi sarei molto grato se sottoscriveste un impegno mensile/annuale per sostenere il mio lavoro, in modo da poter continuare a fornirvi rapporti dettagliati e incisivi come questo.

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Israele vs Turchia: verso uno scontro tra i due pesi massimi regionali?_di Laure-Maïssa FARJALLAH

Israele vs Turchia: verso uno scontro tra i due pesi massimi regionali?

Con obiettivi divergenti, i due Paesi con ambizioni regionali potrebbero trovarsi faccia a faccia in territorio siriano.

Israël vs Turquie : vers un clash des deux poids lourds régionaux ?

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 19 settembre 2023. AFP

La stretta di mano non è passata inosservata. Il 19 dicembre, i presidenti turco e iraniano si sono salutati calorosamente in occasione di un vertice al Cairo, appena dieci giorni dopo la fuga a Mosca di Bashar al-Assad, bête noire del primo e alleato del secondo. Sostenitore dei ribelli che hanno contribuito alla caduta del presidente siriano, Recep Tayyip Erdogan è ora l’attore principale nel plasmare il futuro del suo vicino. Di fronte a questa situazione, un altro Paese vicino sta tenendo d’occhio la situazione. Non appena il regime di Assad è caduto, Israele ha invaso la zona cuscinetto demilitarizzata delle Alture del Golan, facendo anche un’incursione in territorio siriano, e ha lanciato centinaia di attacchi contro le infrastrutture militari del Paese, con l’obiettivo dichiarato di evitare che attrezzature pesanti e armi chimiche finissero nelle mani dei “terroristi”. Il movimento islamista Hay’at Tahrir el-Sham (HTC), che ha guidato l’offensiva dei ribelli, è il risultato di successive scissioni con il gruppo dello Stato Islamico (EI) e poi con El-Qaeda, e in passato ha espresso solidarietà con Hamas. “In questo momento delicato, quando c’è l’opportunità di raggiungere la pace e la stabilità a cui il popolo siriano aspira da molti anni, Israele dimostra ancora una volta la sua mentalità da occupante”, ha criticato il Ministero degli Esteri turco in un comunicato stampa.

Punti di tensione tra i pesi massimi turchi e israeliani

Perché i potenti di Ankara vogliono assicurarsi che l’esperimento siriano sia un successo, sia in termini di stabilità e integrazione regionale, sia come strumento di influenza. “Se Israele inizia a vedere la struttura di potere emergente in Siria come una minaccia ai suoi interessi, questo potrebbe creare un importante punto di divergenza con la Turchia”, suggerisce Sinan Ülgen, ricercatore presso il Carnegie Endowment for International Peace. Secondo molti osservatori, e nonostante le minacce, Israele avrebbe preferito un Bashar al-Assad indebolito al suo confine, che è rimasto calmo dopo l’accordo di disimpegno del Golan firmato con suo padre nel 1974. Il capo dell’HTC, Abu Mohammad el-Jolani, sembrava dare assicurazioni allo Stato ebraico per eliminare qualsiasi pretesto. Pur chiedendo alla comunità internazionale di “agire con urgenza” per garantire la sovranità della Siria, ha dichiarato a Syria TV che “le nostre priorità ora sono quelle di soddisfare i bisogni di base della popolazione e lavorare per ottenere un futuro più stabile e giusto”. Scaldata dall’errata valutazione di Hamas prima del 7 ottobre, Tel Aviv non sembra tuttavia voler fare marcia indietro, soprattutto perché un’espansione del suo controllo sulle Alture del Golan permetterebbe al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di compiacere i suoi partner di estrema destra, pilastri essenziali della sua permanenza al potere.

Si veda anche“Le rivendicazioni messianiche di Israele sul Golan sono un’invenzione storica molto recente”.

“Per Israele, avere un’entità curda più autonoma, che potrebbe potenzialmente controbilanciare le fazioni arabe in Siria, sarebbe anche vantaggioso”, sostiene Sinan Ülgen, mentre il capo della diplomazia israeliana, Gideon Saar, aveva precedentemente affermato che lo Stato ebraico dovrebbe considerare i curdi, oppressi dall’Iran e dalla Turchia, come un “alleato naturale” e rafforzare i suoi legami con questa comunità e con altre minoranze in Medio Oriente. Ankara, da parte sua, intende ridurre l’influenza delle forze curde nel nord-est della Siria per creare una zona cuscinetto al suo confine ed eliminare una minaccia che considera esistenziale, considerandole una propaggine del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK, classificato come terrorista dalla Turchia). Le fazioni protestanti hanno così preso Tell Rifaat e poi Manbij prima della conclusione di una fragile tregua sotto l’egida degli Stati Uniti, alleati con le Forze Democratiche Siriane (FDS, a maggioranza curda), per evitare la presa di Kobané. Mentre Washington sta negoziando con Ankara per preservare almeno la lotta contro l’EI in cui sono stati coinvolti i suoi partner locali, sembra improbabile per il momento che Israele corra il rischio di essere coinvolto direttamente in Siria con i curdi contro la Turchia.

Vedi ancheIn Siria, la Turchia non nasconde più le sue ambizioni neo-imperiali

Tanto più che la questione siriana costituisce ora una nuova leva di influenza nella rivalità regionale tra Ankara e Tel Aviv. Di fronte alle operazioni israeliane in Siria, condannate in particolare dall’ONU, il 19 dicembre il re turco ha chiesto un embargo sulle armi contro lo Stato ebraico, la rottura delle relazioni commerciali con esso e il suo isolamento internazionale. Il presidente turco non aveva già dichiarato l’estate scorsa che avrebbe potuto entrare in Israele come aveva fatto in Libia e in Nagorno-Karabakh, accennando a un ipotetico intervento militare a sostegno di Hamas a Gaza? Presentandosi come difensore della causa palestinese e protettore della comunità sunnita, Recep Tayyip Erdogan ha regolarmente denunciato il “genocidio” nell’enclave e ad agosto Ankara ha chiesto di unirsi al Sudafrica nella sua denuncia contro Tel Aviv alla Corte internazionale di giustizia. Nonostante la sua posizione netta, nelle ultime settimane la Turchia è stata comunque coinvolta nei negoziati per il cessate il fuoco nella Striscia, mentre i leader del movimento islamista palestinese vi si sono rifugiati dopo l’annuncio del Qatar di sospendere la sua mediazione, che ha ripreso di recente. Un ruolo che il presidente turco auspicava da tempo e che conferisce alle sue mire neo-ottomane una dimensione del tutto nuova.

Verso uno status quo sul campo di battaglia siriano?

Per non mettere a repentaglio i suoi guadagni, Ankara potrebbe assecondare gli interessi israeliani nella sua zona di influenza siriana? “Un confronto diretto sembra improbabile nel breve termine, dato che entrambi gli Stati hanno altre priorità: la Turchia si concentra sui gruppi curdi e Israele sull’Iran”, sostiene Nebahat Tanrıverdi Yaşar, analista politica. Per lei, la Siria rimarrà un’area di competizione piuttosto che di conflitto tra i due pesi massimi della regione. La Turchia non vuole provocare un’escalation regionale”, afferma Sinan Ülgen. A differenza di quanto ha fatto l’Iran con i suoi sostenitori, Ankara userà la sua influenza sui suoi affiliati per integrarli nelle strutture siriane e non per mettere alla prova la sicurezza dei vicini di Damasco. Esistono anche punti di convergenza tra i due attori. Il fatto che l’influenza di Iran e Russia sia diminuita in Siria è uno sviluppo che sia la Turchia che Israele hanno accolto con favore”, sottolinea Sinan Ülgen. Per consolidare questo vantaggio strategico e geopolitico, è necessaria una stabilità politica in Siria (…) che è auspicabile per entrambi gli attori”. Prima della caduta del regime, alcuni media iraniani avevano addirittura giudicato che l’offensiva dei ribelli contro Damasco fosse parte di un piano americano-israeliano in cui la Turchia giocava un ruolo centrale. Un vuoto di potere potrebbe esacerbare l’instabilità in Siria, permettendo a gruppi estremisti come l’EI o affiliati di el-Qaeda di stabilirsi al confine tra Turchia e Israele”, avverte Nebahat Tanrıverdi Yaşar. Uno scenario che comporterebbe rischi significativi per la sicurezza di entrambi i Paesi”.

Vedi ancheSiria: le capitali arabe tra cautela e imbarazzo

Anche i fattori esterni potrebbero giocare a favore di uno status quo, se non di un accordo. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che la Turchia vorrebbe vedere giocare un ruolo nella ricostruzione della Siria, hanno una visione negativa della possibile islamizzazione del potere a Damasco e convergono con la posizione dello Stato ebraico, avendo anche una leva finanziaria. Da parte loro, gli Stati Uniti potrebbero essere utilizzati per frenare le ambizioni territoriali di Israele sulle Alture del Golan, se fossero confermate, sebbene lo Stato ebraico abbia finora sostenuto che l’occupazione della zona cuscinetto è temporanea. Resta da vedere se l’amministrazione di Donald Trump, che potrebbe decidere di disimpegnare le circa 2.000 truppe americane attualmente presenti in Siria, vorrà essere sufficientemente coinvolta per evitare uno scontro tra il suo principale alleato nella regione e un partner della NATO.

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Jihadisti che sbagliano , compagni che perseverano _ di Cesare Semovigo

Jihadisti che sbagliano , compagni che perseverano .

La caduta di Bashar al-Assad dopo le rapide fasi concitate relative alle operazioni militari , si accomoda nella frustrante rappresentazione Tolkeniana Dolby Surrender .
La caduta e questo incerto presente non può essere analizzata senza il peso dei massacri e delle atrocità del passato, in particolare quelli dal 2011 al 2014, che rappresentano , non una “una macchia indelebile” come viene derubricata sulle pagine delle indulgenti colonne della stampa digitalizzata del Nord del mondo .
A Maaloula e nella Valle degli Armeni,nel 2014 i combattenti di Jabhat al-Nusra (oggi HTS) hanno perpetrato pulizie etniche sistematiche, uccidendo civili cristiani, distruggendo monasteri millenari e confiscando proprietà. Questi atti non erano i ricorrenti eccessi che si verificano in tutte le guerre dalla notte dei tempi , e nemmeno un strategia di rappresaglia verso le comunità religiose avverse come manifestazione di un dna atavico secolare ( che considero una semplificazione suprematista ) . Banalmente era ed è la coerenza verso il proprio ruolo , l’eliminazione fisica di chi può rappresentare un ostacolo politico ed economico , una questione di qualità o non ricordo più bene,una formalità.
La foto dove Al ( d’ora in poi lo chiameremo così ) con un doppiopetto sopportato male e vestito ancora peggio , che ciondola a fianco di un unanimemente gongolante Mevlüt Çavuşoğlu,assume le sembianze di un santino transformer un pò simulacro , un po vessillo papale imbevuto di ceralacca , spalmando in faccia agli irriducibili del:
“È ancora presto per attribuire alla Turchia un ruolo così compromettente “ ( metti caso nominare Edy sta male ) , che magari , è tipo sei mesi che non ne prendete mezza , nemmeno con l’insider trading.
Ci piace ricordarli così , mentre giocano a lego con i Brics , dandomi del reazionario .
Terminato questo momento di doveroso campanilismo è il caso di “porci”qualche sana domanda , osservando la realtà e seppellendo nel giardino l’aspettativa , facendo attenzione a non scavare troppo vicino al gatto .

Due settimane e mezzo

“Una zona di interesse “ come tante . L’ennesima che questa era di relativismo militante , si affretterà a seppellire nelle soffitte della storia . La breccia che si apre è trasversale , in superficie troviamo il gelato colorato per le famiglie ,né dolce ma salato che fa riferimento al tenero concetto della cancel culture , ma scavando “ strato” dopo “ Stato” , si è inevitabilmente condotti in questa spirale degradante , dove solo i “buoni” , quelli che non cambiano mai , sono il Catone che decide , a seconda dell’occorrenza , quali e quante sfumature di grigio , le povere pedine possano scalare prima di conquistare la redenzione e come poi la gloria .
Le milizie Jihadiste acquisiscono la definizione rassicurante di “sunnite” e laFSA , l’esercito Siriano Libero ( ma non dal controllo di Ankara ) scompare dai radar delle agenzie , forse per occultare l’immediata repressione verso il territorio controllato dalle SDF Curde , con il supporto negli ultimi giorni anche delle forze regolari Turche .
Intanto Assad,consapevole dell’inevitabile disfatta , è fuggito a Mosca prima della capitolazione di Damasco, minacciata da nord e poi raggiunta da sud dalla curiosa alleanza Drusi-Milizie tribali e islamisti dormienti .

Primo Ministro del Governo di Salvezza

Il vuoto di potere è stato subito riempito con la nomina di un nuovo primo ministro, Abu Harith al-Din, una figura tanto bizzarra quanto simbolica, un usato garantito designato , come vedremo , caratteristica che oggettivamente non può che essere affiancata al golden boy di al-Nusra al-Julani , rappresentato urbis et orbis come fine stratega dal successo militare facile.
Esperto di diritto coranico , ma con una formazione in ingegneria meccanica, al-Din incarna la sintesi pragmatica di tecnocrazia e ultraconservatorismo islamico : una nuova classe dirigente plasmata da HTS, con il supporto – palese e occulto – di Turchia e Qatar, e in equilibrio precario tra gli interessi locali e quelli internazionali.
Nato nel 1983 nel governatorato di Idlib, al-Bashir ha conseguito una laurea in ingegneria elettronica presso l’Università di Aleppo nel 2007. Successivamente, nel 2021, ha conseguito una laurea in Sharia e giurisprudenza presso l’Università di Idlib.
Ha lavorato come dirigente presso la Syrian Gas Company fino al 2011. Tra il 2022 e il 2023, ha ricoperto il ruolo di ministro dello Sviluppo e degli Affari umanitari (creativo) del Governo di Salvezza Siriano a Idlib.
Nel gennaio 2024, è stato eletto primo ministro dal Consiglio della Shura del Governo di Salvezza Siriano.
Per accompagnarvi nel climax gioioso nel quale le testate del “miliardo d’oro” lo presentano ho selezionato questa perla , che immagino molti di voi condurranno a emuli nostrani da poco passati a miglior vita .

Il presidente di tutti i Siriani.

“Innovatore promuove l’e-government e l’automazione dei servizi governativi, ridotto le tasse immobiliari e avviato riforme urbanistiche per l’espansione della città di Idlib”.

La stabilità e la durata di questo governo a guida HTS ( come direbbe Moretti : le parole sono importanti ) , nonostante i propiziatori augurii dell ‘ O.N.U , oggettivamente preoccupa , semplicemente osservando i burroscosi “precedenti” con l’atra forza della cavalcata islamista lanciata a bomba contro l’ingiustizia perpetrata dall cattivissimo Assad (vedi Tolkien) .
Il palazzo di vetro , e qui le metafore letterario cinematografiche si sprecano , precorre i tempi e già trasforma intenti in virtù :

“L’ONU ha accolto positivamente la transizione, sottolineando l’importanza di un governo che rispecchia la diversità della società siriana. Il nuovo governo è chiamato a dimostrare un impegno concreto verso la democrazia, i diritti umani e la riconciliazione nazionale.”

Praticamente una socialdemocrazia scandinava pazza d’amore per la Sharia .

Lo schema catodico-dualistico del quale ci siamo nutriti da immemorabile tempo , improvvisamente diventa indigesto , e questo bollito spacciato per caviale , come nel più “crudo dei polpettoni di Cronenberg ,a un certo punto ribellandosi , lascia il piatto e vi mangia la faccia.

Infatti l’“Internazionale” progressista con il rispetto che meritano le nuove istituzioni fresche di revolucion , titola :

“Al-Bashir ha dichiarato l’intenzione di garantire i diritti di tutte le confessioni religiose in Siria e di rispettare le libertà fondamentali. Ha inoltre annunciato l’intenzione di rimuovere i servizi segreti e abolire la controversa legge antiterrorismo, indicata come una delle priorità per avviare la transizione politica nel paese.”(2)

Non paghi dell’endorsement chitosano scrutando il sol dell’avvenire :

“al-Bashir un ingegnere con esperienza amministrativa si impegna nel garantire i diritti di tutte le confessioni religiose in Siria e promuovere un governo inclusivo nei suoi obiettivi “ (3)

Senza infamia e senza lode , per convivenza o matrimonio , astenersi ore pasti .

La carrellata termina con gli imperativi de “El Pais” per portarvi in quella atmosfera marziale , tipica dei grandi condottieri , come se il generalissimo avesse tolto il disturbo martedì scorso:

“Con una mossa che pochi avrebbero potuto prevedere, le forze ribelli hanno compiuto un’avanzata decisiva, determinando la caduta del regime di Bashar al-Assad.”

Il mito della frontiera e l’imprevedibilità della Blitzkrieg .Un inedito John Ford dirige Heinz Wilhelm Guderian,in una sceneggiatura asciutta dove anche il bollito cannibale resterebbe a dieta,campi lunghi e sguardo dell’eroe verso ovest . In questo caso è l’est .
Ah,Il mito della frontiera con l’Iraq, dove quelli che non leggono la nostra stampa si sono diretti.

Poi il racconto diventa compito come a maledire quell’illuso di Chamberlain , la narrativa si fa Churchill , che fuma un sigaro di Fidel .

Chi è al comando adesso? La Siria ha un nuovo primo ministro: Mohamed Al Bashir. Al Bashir è stato primo ministro a Idlib (la roccaforte ribelle da cui è partita con successo l’offensiva lampo) e ora ha assunto la guida del governo dell’intero Paese ad interim, per guidare una transizione fino a marzo 2025.

Censurare questo dessert , mi è impossibile . Una creme brulè armonizzata da dissociazione e guarnita da una riduzione in schizofrenia , solleticherà il vostro palato , addormentato da una lunga lotta con il bollito ,che sceneggiato dalla migliore tradizione Woke , oggi e solo oggi , voleva essere un Alien.

Roberto , ti confesso ho pensato a te che ridi mentre leggi . (Buffagni)

E ieri , Mohamed Al Bashir ha tenuto il suo primo discorso:
Ha chiesto la “riconciliazione”, in un momento in cui si registrano specifici omicidi per vendetta.
Rassicurante… Poi continua :
Si è rivolto anche alle minoranze (soprattutto gli alawiti da cui provengono gli Assad e i cristiani) che temono per il futuro, nonostante le garanzie verbali dei nuovi leader.

Una frase: “La liberazione della Siria non sarà un singolo cambio di autorità. “Sarebbe un governo di libertà e dignità”, ha osservato.

Non so voi , ma ha l’aria di una minaccia .

La cattiva abitudine alla quale siamo stati abituati negli ultimi dieci anni oltretutto in progressione esponenziale , è lo spostamento delle linee rosse , in questo caso nello specifico della decenza , di questi media pachidermici danzanti alla corte dell’ultimo ballo dell’ancienne regime .
Infatti come nelle migliori tradizioni , risorge il tormentone di qualche estate fa : la narrativa roccocò che ci ricorda le spietate gesta di Assad , ci mostrano il suo garage con vecchie macchine impolverate ( potenzialmente forse più modesto di quello di un direttore qualunque , di Network qualunque nel mondo dei ”buoni”) .
Torna istantaneamente in tabellone teste di serie con una green card del Pentagono ,lui, l’alfa e l’omega della propaganda occidentale, ovvero l’amore degli Assad per le armi chimiche .
Stiamo parlando della strage avvenuta durante l’attacco chimico avvenuto nella regione di Ghūṭa, vicino a Damasco nel 2013 nella quale morirono 281 civili . Ovviamente ,chi come noi,
ha avuto la malaugurata idea di interessarsi di geopolitica noterà che anche in questo caso vale la regola “ della questura “.Ora vi spiego.
281 morti per la Repubblica Araba Siriana e i 1700 morti , non per gli Jihadisti anti Assad , ma per la Cnn che , evidentemente , si eleva come direbbe “ Faber “ a arbitro sulla terra del bene e del male.
Dal momento che in questo teatro è sempre “ buona la prima “, per il mondo dell’aspettativa , l’unica verità resta la responsabilità dell’SAA,(Syrian Arab Army) , poco importa se nel mondo della realtà diverse analisi indipendenti abbiano smentito la “ versione” ufficiale , infatti non è bastato lo schiaffo morale seguito alle conclusioni del M.I.T per scalfire le certezze di questo mondo libero .
Il M.I.T non è il “Famoso “ M.I.T Turco,passato alla ribalta proprio in questi ultimi giorni.
E’ il Massachusetts Institute of Technology , l’eccellenza degli istituti scientifici mondiali , che nel rapporto (5) che potete consultare qui sotto nelle fonti ,smonta tutta lo strampalato impianto accusatorio e ribalta tutto , assegnando inequivocabilmente la responsabilità , di questo crimine particolarmente odioso , all’artiglieria Jiadista ,proprio quella comandata dal nostro al-Julani Superstar che evidentemente, non è esente da quel luogo comune che vede gli incendiari spesso svegliarsi pompieri al culmine della propria carriera.
Il motto del M.I.T è “Mens et Manus” (“Mente e Mano”) , chissà Giordano Bruno quanto ne sarebbe onorato , ma come si sa spesso gli onori della storia giungono postumi .

Comunque vada ha stato Assad

In questo episodio di “ Syria Edition” senza noia e discreto entusiasmo , divento cantore di un altro avvenimento che ben definisce il pensiero unico e la sua ossessione per l’ infantilizzazione del pubblico , e perché no , anche per quella eccitante voglia chiamata spettacolarizzazione del dolore che quel buontempone , chiamato grande manovratore , porta in grembo dalla notte dei tempi , vestendola con orgoglio interiore ma portandola svogliatamente come cencio vecchio

Mi riferisco al capolavoro “pavloviano” andato in onda sulla Cnn per mano di Clarissa Ward ,la regina mondiale della narrativa occidentale anti-Assad .,
Un oppositore pasciuto ma torturato dalla polizia segreta del regime vede di nuovo la luce , torna a riveder le stelle , in una piece caricaturale che per le espressioni del cast ricorda “ Uccellacci Uccellini “ di Pasolini ma co diretto con l’ Eisenstein degli esordi . (7)
Clarissa Ward lei, la protagonista di questo “Due Settimane e Mezzo “ ha un curriculum di vera vincente , una vera reporter d’assalto che per i servigi resi alla verità , nient’altro che la verità . Ha vinto anche diversi premi. Lo giuro (8)

Fino qui tutto bene

Questa è la storia di un uomo che esce da una segreta sotterranea di 50 piani e che salendo, accompagnato dalla troupe della Cnn , passa da un piano all’altro .( Ti piace vincere facile )
Il tizio per farsi coraggio si ripete , fino a qui tutto bene . Fino a qui tutto bene . Fino a qui tutto bene , il problema per Clarissa Ward non è la salita ma il fatto che l’uomo ha fatto tutti fessi.
Trascurando il fatto che dopodomani , passato lo scandalo , ritroveremo la nostra a dispensare
Neorealismo informativo in qualche teatro di guerra , è chiaro che questa volta abbiamo vinto noi. E nel ricordare il tempo che fù , rammenteremo quella volta che , alzando il ditino (decidete voi quale), come stessimo alzando al cielo la “Coppa Sarmat 2024 “ affermeremo come un predicatore nel mezzo del central park :
E sapete chi era quello ? Un sergente dell’aviazione Siriana appena arrestato!

Da Papillon alla “Banda del buco “ è un attimo .

Come diceva Jack Lemmon in”a qualcuno piace caldo” : Nessuno è perfetto.

Abu Mohammad al-Julani, leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), torna a giocare la carta della tolleranza interreligiosa con il solito piglio da “comandante illuminato” dei ribelli siriani.
Se Assad non è Nasser Al-Julani non è Sankara .
Di recente, ha espresso parole di distensione verso la comunità cristiana della Siria, una retorica già sentita durante la breve guerra di invasione di Idlib nel 2019, quando si presentava come il nuovo volto “moderato” dell’islamismo sunnita. Ma scavando appena sotto la superficie, si torna sempre al solito copione: un tentativo di rappresentare un movimento Salafita costola di al-qaeda visceralmente fondamentalista ma dipinto come un Rembrandt mediatico , ma falso .
Julani, con i suoi proclami pubblici e le conferenze stampa in perfetto stile PR, cerca di smarcarsi dal passato jihadista – un passato che però pesa come una pietra. Nel 2019, parlando ad al-Jazeera, affermava che HTS non rappresenta più “un rischio per le minoranze”, parole che suonano più come una giustificazione a posteriori per gli attacchi avvenuti contro villaggi cristiani durante la campagna di Idlib.
Nonostante questa nuova retorica, HTS mantiene saldi i suoi principi ideologici: applicazione della sharia, eliminazione dei nemici interni (ribelli rivali) e un governo basato su una visione ultraconservatrice dell’islam. La propaganda della “protezione dei cristiani” non è altro che una maschera di convenienza.
Le dichiarazioni del vescovo cattolico della Siria offrono un ritratto crudo della realtà: la comunità cristiana osserva con crescente timore e preoccupazione l’ascesa dei nuovi “liberatori”. Mentre il regime di Assad, sebbene governasse un paese depresso sotto sanzioni e reduce da una guerra civile, amministrando spesso con la repressione di forze di sicurezza corrotte , rappresentava per molti cristiani una relativa stabilità.
La vittoria di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) apre scenari ancora più inquietanti. Il linguaggio moderato e di distensione proposto da Abu Mohammad al-Julani è percepito come un vuoto artificio retorico, un tentativo di pulizia d’immagine che contrasta nettamente con la realtà sul campo.
La comunità cristiana siriana, già decimata durante la guerra civile, non può dimenticare i massacri del 2014, quando milizie jihadiste, molte delle quali oggi integrate in HTS, attuarono sistematiche pulizie etniche nei villaggi cristiani. Episodi come la strage di Maaloula – dove sacerdoti e civili vennero giustiziati per aver rifiutato di convertirsi, e monasteri millenari furono rasi al suolo – non sono semplici pagine del passato, ma segnali di ciò che potrebbe ripetersi sotto questa nuova leadership. Questi crimini non erano incidenti isolati, ma una strategia di annientamento delle comunità religiose “sgradite”, funzionale al progetto jihadista di un ordine confessionale sunnita omogeneo svotato delle componenti moderate e rivali .

Lo stesso destino è toccato alle milizie sciite e ai civili affiliati, considerati i nemici numero uno dai jihadisti sunniti. La persecuzione sistematica degli sciiti, tanto quanto quella delle minoranze cristiane, ha una funzione politica precisa: creare un ordine confessionale omogeneo sotto l’autorità della sharia e sfruttare le risorse materiali delle comunità estirpate.
Eppure, il vero paradosso della situazione emerge nel cortocircuito storico delle alleanze di HTS. Nonostante la retorica di jihad contro Israele e l’Occidente, queste milizie mantengono rapporti tacitamente cordiali con Israele e gli Stati Uniti. L’evidente ipocrisia si manifesta ancora più chiaramente oggi, mentre l’opinione pubblica mondiale osserva con orrore i crimini di Benjamin Netanyahu e Yoav Galant a Gaza e in Libano. Come si spiega questa doppia morale? HTS, con la sua facciata salafita e il richiamo tradizionalista alla teocrazia, nasconde in realtà un’anima pragmatica e mercenaria. Dietro lo stendardo nero e la retorica della guerra santa, c’è un movimento che opera come un braccio armato funzionale agli interessi geopolitici delle potenze regionali e internazionali.

Dietro le dichiarazioni pubbliche di Julani – che promette tolleranza e protezione delle minoranze – la realtà suggerisce tutt’altro. Per i cristiani, il vero volto di HTS non è quello del “liberatore”, ma quello dell’oppressore travestito da mediatore. L’esperienza insegna che sotto la patina della propaganda, si nasconde un’organizzazione con una lunga tradizione di brutalità settaria. Ricuciti rapporti tra HTS e SFA, prima nemici , e stirata una divisa neutra da ribelle svestendo abiti logori da miliziano , il destino del progetto al-Julani si compie , come la ritrovata presentabilità del suo leader si presenta all’ appesantito pubblico distratto del vecchio mondo,arrogantemente convinto di aver compreso cosa succede da quelle parti guardando Sky News.

Compagni di cella e “jihadisti che sbagliano“
La storia personale di al-Julani parla chiaro. Durante la sua detenzione nelle carceri americane a Camp Bucca in Iraq (2006-2008), Julani si forma assieme ad alcuni dei più celebri jihadisti contemporanei. Compagni di sventura? Abu Bakr al-Baghdadi, il futuro califfo dell’ISIS, e altri membri chiave di al-Qaeda in Iraq. Quel campo non fu una prigione, ma un’università jihadista dove vennero cementate le future leadership dei movimenti islamisti della regione.
Secondo analisti come Hassan Hassan (The Atlantic, 2015), l’esperienza di Camp Bucca non solo consolidò i legami personali tra questi leader, ma permise a figure come Julani di sviluppare una visione strategica: all’apparenza pragmatica, ma saldamente radicata nell’ideologia jihadista.
Questi proclami di pacificazione verso i cattolici (e altre minoranze) non sono un segnale di cambiamento interno, ma un lifting mediatico per ingannare gli interlocutori occidentali. Il ruolo dei media europei e americani è fondamentale in questa operazione di “cleaning”: bastano due foto di Julani in giacca e cravatta – come nel documentario del 2021 di Frontline – e le vecchie accuse di tagliagole jihadista svaniscono come neve al sole.
Ma i fatti restano: HTS ha ereditato la brutalità di al-Qaeda. Gli stessi uomini che oggi parlano di tolleranza erano protagonisti delle stragi settarie durante la guerra civile, attacchi suicidi e la distruzione delle infrastrutture civili in Siria.
Come sempre, parte della responsabilità va attribuita alla narrazione occidentale. Cercare di costruire una “alternativa moderata” a Bashar al-Assad ha portato i media a chiudere un occhio (o due) sul vero volto di HTS. La guerra in Siria non è mai stata una partita tra il “tiranno” Assad e i “ribelli democratici”: è stata, tra le altre cose, il terreno fertile per il jihadismo, con Al-Julani e soci che sfruttarono ogni vuoto di potere per avanzare.
Questa paura è amplificata dal pragmatismo opportunista di HTS, che ha saputo mantenere rapporti di convenienza con Israele e gli Stati Uniti, nonostante le sue dichiarazioni anti-occidentali.
I cristiani temono che questa connivenza internazionale renda HTS ancora più pericoloso: con il sostegno – diretto o indiretto – di potenze esterne, i nuovi padroni potrebbero consolidare il loro controllo senza alcun freno, imponendo un sistema basato sulla sharia e sull’eliminazione delle minoranze religiose.
La comunità cristiana siriana, dunque, non vede liberazione ma solo il passaggio da uno stato autoritario interreligioso a la Sharia .
Se il regime di Assad, con la sua autoconservativa repressione e corruzione endemica anche figlia delle sanzioni , offriva una tregua a caro prezzo, l’avvento di HTS segna l’inizio di un’epoca di incertezza, dove i proclami di tolleranza non sono che opportunismo politico eterodiretto .
Gli jihadisti non sono più i tagliagole ideologizzati abilmente guidati da ambigui soldati di ventura, ma assumo le sembianze di esecutori consapevoli degli interessi delle vecchie potenze coloniali, che dopo l’affanno evidente della proxy designata Ucraina sul fronte “Russo” hanno frettolosamente cercato di riequilibrare una situazione sfavorevole , che solo otto , dieci anni fa sarebbe stata impronunciabile .
In questo colpo di coda nell’ultimo tempo supplementare stiamo assistendo alla sua implementazione militare , ibrida ed economica . Ironicamente mi chiedo , a volte più volte al giorno , se la autoreferenziale bolla onirica , fomentata dalla sensazione di onnipotenza , figlia della seconda metà del ‘900 , alla quale “i padroni universali “ come amava chiamarli Giulietto Chiesa avevano fatto l’abitudine , non faccia metabolizzare loro che l’unico premio di un campionato giocato con queste prerogative possa essere che la fine della civiltà per come la conosciamo .
Il colonialismo britannico di un tempo si è trasformato nel neocolonialismo statunitense del “nuovo secolo americano” che scatena in una delle sue specialità nelle quali evidentemente è ancora in allenamento con HTS che svolge il ruolo di enforcer sul campo preparato lungamente , come l’oggettività dell’osservazione del comportamento tattico , logistico e di addestramento meticoloso.
Il risultato è la nascita di un nuovo potere siriano che non cancella, ma incorpora l’eredità del sangue: un equilibrio fondato sulla rapina, la pulizia etnica e la sistematica eliminazione delle opposizioni religiose e politiche, in un Medio Oriente dove il confine tra ideologia, pragmatismo e subordinazione agli interessi stranieri è ormai inesistente.
Con gli anni benché sia argomento sul quale rimane difficile scherzare , ho imparato affettuosamente a chiamarlo “ metodo Colin “ in onore allo shekeratore di provette dal contenuto indefinito , ovvero Colin Powell, allora Segretario di Stato degli Stati Uniti che durante un discorso alle Nazioni Unite (ONU) il 5 febbraio 2003 , scuotendo un contenitore con quella indomita sicurezza tipica da chi è solito trasportare armi distruzione di massa nel taschino ,
Affermava al mondo che le avevano trovate le armi di distruzione di massa , un duro lavoro costato 500.000 civili 60.000 forze militari alleate con “sole” 4500 vite americane sacrificate .
Salvo poi che non era vero niente , nemmeno una mezza provetta , figuriamoci una prova .

Nelle considerazioni finali, è necessaria una lettura lucida degli eventi. Il regime di Assad, pur con le sue inevitabili responsabilità storiche, ha peccato di una fiducia colpevolmente rilassata verso il sostegno militare e logistico garantito da Hezbollah e dalla Russia.
Dopo una guerra civile lunga, sanguinosa ma vittoriosa, questa certezza, forse data per scontata, ha generato una paralisi politica e strategica. L’incapacità di riformare il sistema, di riavvicinarsi ai segmenti alienati della società e di costruire un progetto nazionale inclusivo ha contribuito allo stillicidio lento ma inesorabile della dissoluzione della dinastia baathista degli Al-Assad.
Le ultime settimane hanno rappresentato l’epilogo di questo processo: Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e le milizie jihadiste turcomanne, con il loro pragmatismo brutale e la loro ideologia integralista, hanno dato la spinta finale alla Repubblica Araba Siriana, spingendola giù nel burrone-trappola della tradizione secolare delle peggiori autocrazie teocratiche integraliste. Non è la Siria a essere stata liberata, ma semplicemente conquistata da forze che si presentano come alternative all’autoritario governo baathista, ma che di fatto incarnano un progetto ancor più cupo, radicato nella pulizia etnica, nella persecuzione confessionale e nella rapina sistematica delle risorse .
La domanda che oggi emerge con urgenza è: quale sarà il prossimo obiettivo
di queste milizie islamiste, che sono tutto fuorché indipendenti per loro stessa ammissione? Dopo aver fagogitato Damasco, le ambizioni di HTS e dei loro protettori regionali si estenderanno oltre i confini siriani, mirando a consolidare un nuovo ordine geopolitico basato sulla teocrazia e sull’instabilità permanente? La Siria, ancora una volta, è diventata il campo di battaglia di forze esterne e interne che non hanno mai smesso di sfruttarla . il futuro dello scacchiere regionale parla chiaro : dopo aver finito con Curdi le attenzioni delle milizie e dei regolari di Ankara potrebbero dirigere direttamente su Mosul .

1. Iraq Body Count (IBC):
L’Iraq Body Count è un progetto che documenta le morti civili causate dalla violenza in Iraq dal 2003. Secondo i dati disponibili, fino al 2011 sono stati registrati tra 103.160 e 113.728 morti civili, con ulteriori 12.438 decessi aggiunti dai “Iraq War Logs” rilasciati da WikiLeaks.

https://en.wikipedia.org/wiki/Casualties_of_the_Iraq_War?

2. Studio pubblicato su PLOS Medicine (2013):
Uno studio condotto dal “University Collaborative Iraq Mortality Study” ha stimato circa 405.000 morti iracheni tra il 2003 e il 2011, attribuendo il 60% di queste morti a cause violente.

https://journals.plos.org/plosmedicine/article?id=10.1371%2Fjournal.pmed.1001533&utm_source=

1. Hassan Hassan, The Atlantic, “The Jihadists’ Prison” (2015).
2. Al-Monitor su Camp Bucca e la formazione dei leader jihadisti (2020).
3. Frontline PBS, “The Rise of HTS and Julani” (2021).
4. Al-Jazeera Arabic, “Juliani’s Moderation Claims during the 2019 Idlib Campaign”.

3 “Possibili implicazioni di un intelligence tecnica statunitense errata nell’attacco con agente nervino a Damasco del 21 agosto 2013”, redatto da Richard Lloyd e Theodore A. Postol,

https://necpluribusimpar.net/wp-content/uploads/2017/07/Richard-Lloyd-and-Theodore-Postol-Ghouta.pdf

4 Perdite tra i militari iracheni :
Secondo un rapporto di Medact, un’organizzazione sanitaria britannica, le perdite tra i soldati iracheni durante l’invasione del 2003 sono stimate tra 13.500 e 45.000.

https://www.resistenze.org/sito/re00.html

5 Il Comando Centrale delle Forze Armate americane ha riferito che, tra il 2004 e il 2008, circa 13.574 membri delle forze di sicurezza irachene sono stati uccisi.

https://www.eurasia-rivista.com/iraq-la-guerra-sui-numeri-delle-vittime/?utm_sourc

6 Forze della coalizione:
7 Stati Uniti: Circa 4.487 militari uccisi.
8 Regno Unito: 179 militari uccisi.
9 Altri paesi della coalizione: 139 militari uccisi.
11 Le stime sulle perdite militari irachene variano significativamente, con cifre che oscillano tra 7.600 e 45.000 morti.

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Il grande evento, Big Serge

Il grande evento

Settimane in cui si condensano decenni

23 dicembre

C’è una frase di Vladimir Lenin spesso citata, che nella sua formulazione inglese di solito suona più o meno così: “Ci sono decenni in cui non succede nulla; e ci sono settimane in cui accadono decenni”.

Questo è uno di quegli aforismi che è stato esercitato praticamente fino alla morte, ma ci sono rare occasioni in cui si adatta perfettamente al ritmo caotico degli eventi mondiali, e pochi casi si adattano meglio della caduta della Repubblica araba siriana e del suo (ex) presidente in difficoltà, Bashir Al-Assad. La Siria è stata prima gettata nella guerra civile da un’escalation di insurrezione nel 2012, e più di un decennio di estenuanti combattimenti di posizione e assedi, tra cui un esasperante assedio di quattro anni di Aleppo, hanno visto le linee del fronte nel paese coagularsi in una quasi-stasi inquieta.

La resistenza del regime di Assad (con l’assistenza tempestiva e cruciale di Russia e Iran), che ha visto le forze governative riprendersi dall’orlo del baratro a partire dal 2015, è diventata una specie di barzelletta ricorrente, generando la famigerata ” Maledizione di Assad “, in riferimento alla propensione di Assad a sopravvivere politicamente ai leader occidentali che chiedevano la sua rimozione. Dopo essere sopravvissuti a più di un decennio di guerra civile e aver riconquistato con successo il cruciale corridoio urbano della Siria da Damasco ad Aleppo, poche persone hanno visto cosa sarebbe successo dopo.

In questo caso, il commento di Lenin sulle “settimane in cui accadono decenni” è quasi letteralmente vero. Il 27 novembre, le forze insorte guidate dal gruppo paramilitare Tahrir al-Sham hanno lanciato un’offensiva d’urto verso Aleppo, che ha catturato la città in pochi giorni. Le forze del regime si sono sciolte mentre si diffondevano nel corridoio urbano, catturando Hama e poi Homs. L’8 dicembre, la Repubblica araba siriana ha cessato funzionalmente di esistere e Assad è stato evacuato per cercare asilo in Russia tra le voci che il suo aereo fosse stato abbattuto. Dal 27 novembre all’8 dicembre: 12 giorni dalla stasi inquieta al crollo totale del governo e dell’esercito di Assad. In questo caso, due settimane sono state sufficienti per raggiungere un risultato decisivo che era stato contestato in modo sanguinoso e indeciso per più di un decennio.

Come breve editoriale a parte, avevo intenzione di produrre sia alcune riflessioni sul notevole crollo in Siria, sia un rapporto sulla situazione della guerra russo-ucraina, dove ci sono stati importanti sviluppi sia in prima linea che nella sfera meta-strategica. Avevo pensato di unirli in un unico articolo, ma ho scelto di non farlo perché non desidero escogitare una struttura narrativa unificante. So che è popolare descrivere la Siria e l’Ucraina come fronti diversi in una coerente “terza guerra mondiale”, ma penso che questo sia piuttosto esagerato e induca inutilmente il panico. Gli eventi a Damasco e nel Donbass non sono così nettamente collegati come la gente vorrebbe che fossero: se c’è un collegamento, in quanto tale, è semplicemente che queste sono zone di frontiera del potere russo. Tuttavia, l’Ucraina avrà sempre molta più importanza per Mosca della Siria, e per i russi è la loro frontiera occidentale a costituire la loro preoccupazione strategica più urgente. Pertanto, questo articolo si concentrerà sull’implosione della Siria e un aggiornamento sul fronte ucraino sarà disponibile a breve in un’offerta separata.

La caduta di Assad: attesa da tempo, inaspettata

Con solo poche settimane a disposizione per considerare gli sviluppi in Siria, è giustificato un bel po’ di riserva e moderazione. Abbiamo la forma generale dell’offensiva dei ribelli, che è partita da Idlib verso Aleppo nelle prime 48 ore prima di iniziare un’invasione verso sud lungo il corridoio urbano della Siria lungo l’arteria autostradale M5, ma la situazione politica più ampia a Damasco è ancora in evoluzione ed estremamente confusa.

Ciò che merita di essere sottolineato, tuttavia, è la totalità e la velocità del crollo dell’Esercito arabo siriano e del governo di Assad. C’è stata forse una finestra di 24 ore, intorno al 30 novembre, in cui sembrava che l’SAA avrebbe combattuto: c’erano segnalazioni di riserve che si erano precipitate ad Hama con contrattacchi locali e l’aeronautica militare russa aveva iniziato a bombardare pesantemente la roccaforte di Tahrir al-Sham intorno a Idlib. La perdita quasi istantanea di Aleppo era chiaramente il nucleo di una catastrofe militare emergente, ma pochi avrebbero potuto prevedere che la resistenza del regime sarebbe semplicemente evaporata.

La performance più ampia della SAA durante la guerra civile merita un sacco di asterischi. È un semplice dato di fatto che Assad avrebbe probabilmente perso la presa sul potere molti anni fa in assenza di assistenza russa e iraniana, ma la premessa di base che il regime e l’esercito fossero disposti a combattere non è mai stata messa in discussione, fino ad ora. Le difese della SAA si stavano sistematicamente sciogliendo entro il primo dicembre, non si sono mai ricostituite e questo, come si dice, era tutto.

Ciò a cui abbiamo assistito in Siria è stato, nel profondo, un marciume sistemico dello Stato che era stato nascosto da un tenue cessate il fuoco nel nord, ed è chiaro che durante questo cessate il fuoco il governo di Assad non è stato né disposto né in grado di affrontare i problemi che hanno afflitto l’SAA durante le prime fasi di accesi combattimenti. Possiamo enumerare il problema di base come segue.

La crisi della SAA è stata prima di tutto una crisi di entrate, con il paese in decadenza fino alla sussistenza economica. La Siria è un’entità economica fragile anche nei periodi migliori. Può essere pensata in senso lato come un patchwork di quattro diverse regioni geospaziali: la roccaforte alawita nella catena montuosa costiera (con centri urbani come Tartus e Latakia), il corridoio delle antiche città oasi (Aleppo, Hama, Homs e Damasco), la valle dell’Eufrate a est e l’entroterra turco lungo il confine settentrionale della Siria.

Il problema, non solo per il regime di Assad ma per qualsiasi aspirante governante della Siria, è che unire queste regioni geografiche è un compito politico-militare molto difficile, ma essenziale per la coerenza economica e fiscale del paese. Le principali regioni di coltivazione di cereali della Siria si trovano a est, in particolare nel bacino dell’Eufrate. Il Nord-est in particolare è la fonte predominante della Siria sia di cereali di base come il grano che di colture da esportazione come il cotone. Da più di un decennio, queste regioni di coltivazione sono state perse da Damasco e sono sotto il controllo curdo pseudo-autonomo.

Inoltre, la perdita del nord-est a favore dei curdi (insieme a un’occupazione americana di fatto attorno ad Al-Tanf) ha tagliato fuori il regime siriano dai suoi giacimenti di petrolio e gas più produttivi – sebbene la Siria non sia mai stata un importante esportatore di petrolio secondo gli standard globali, questo ha prosciugato un’altra fonte di entrate per il regime. Quando si considerano i danni fisici causati da un decennio di guerra e il continuo strangolamento da parte delle sanzioni occidentali, il totale svuotamento economico del regime siriano era ampiamente predestinato.

Con un PIL siriano di soli 18 miliardi di $ nel 2022 (un misero ~$800 pro capite), non sorprende che la SAA sia diventata una forza svuotata, corrotta e demotivata. Gli stipendi dei soldati erano abissali e gli ufficiali si abituano a integrare il loro reddito accettando tangenti e ricattando i viaggiatori ai posti di blocco lungo la strada. È il classico motivo di corruzione degli eserciti negli stati in bancarotta e piega l’esercito verso un’esistenza “di carta”, con un ORBAT che sembra adeguato sulla carta ma in realtà è costituito in gran parte da unità virtuali o scheletriche guidate da ufficiali che sono più interessati a integrare i loro stipendi con tangenti che a mantenere l’efficacia di base in combattimento.

Così, in quasi ogni resoconto dell’offensiva dei ribelli dal punto di vista della SAA, emerge la stessa firma : coscritti sottopagati e demotivati, che non ricevevano alcuna istruzione significativa dai loro superiori, scelsero semplicemente di togliersi le uniformi e fuggire. Difficilmente si può biasimarli: alla fine si trattava di un regime esausto con pochi rimasti disposti a combattere per esso, e in mezzo al caos centrifugo del crollo del regime gli uomini tendono a iniziare a pensare a se stessi e al proprio destino. Quindi, il comandante della Guardia Rivoluzionaria iraniana Hossein Salami commenta: “Alcuni si aspettano che combattiamo al posto dell’esercito siriano. È logico… assumersi la piena responsabilità mentre l’esercito siriano si limita a osservare?”

La grande storia del regime di Assad sarà quella di un’eccessiva dipendenza dai sostenitori stranieri e di una riluttanza (o incapacità) di confrontarsi con la putrefazione burocratica e la corruzione sistemica nell’esercito siriano. Assad si è dimostrato fin troppo disposto a sollecitare potenze straniere a combattere le sue battaglie per lui e, con il suo regime soffocato dalle entrate, ha permesso all’SAA di languire come una forza combattente scheletrica di terza classe nel suo stesso paese e alla fine è crollata in un mucchio di ossa come gli scheletri vogliono fare.

Nella misura in cui ci sono ancora sostenitori convinti di Assad, punteranno il dito in tutte le direzioni, incolpando le sanzioni paralizzanti e la perdita dell’est della Siria per lo strangolamento economico del regime, piangendo sul tradimento tra il corpo ufficiali dell’esercito per non aver combattuto, lamentando il fallimento dell’Iran e dell'”asse della resistenza” nell’andare in aiuto di Assad. La realtà è che il regime siriano aveva chiaramente raggiunto il punto di sfinimento: incapace di pagare adeguatamente i suoi soldati, sradicare la corruzione nell’esercito o motivare gli uomini a combattere per esso. Questo era un regime sotto scacco con un esercito fittizio, e non sorprende che Iran e Russia abbiano deciso di lavarsene le mani prima che diventasse un insopportabile albatro geostrategico intorno al loro collo.

Siria: distrutta e martoriata

Di questi tempi è molto popolare accusare i propri avversari di essere un paese “falso” o “illegittimo”. Lo si sente molto spesso in riferimento a Israele, con l’idea che Israele non sia realmente un paese, ma un’occupazione illegittima di terra palestinese. Molti patrioti russi sostengono allo stesso modo che l’Ucraina è un paese “falso”, e un artefatto della politica interna sovietica e del revanscismo galiziano. La Cina condanna l’illegittimità di Taiwan e afferma l’unità dello stato cinese come la vede.

Confesso che trovo questa linea di argomentazione piuttosto strana, in gran parte perché ho sempre visto gli stati come costrutti che hanno una realtà oggettiva basata sulla loro capacità di mobilitare risorse allo scopo di esercitare potere politico, ovvero mantenere un monopolio politico nel loro territorio (contro rivali esterni e interni) e proiettare un potere commisurato verso l’esterno. Israele è ovviamente uno stato reale. Dispone di un territorio discreto, controlla i rivali all’interno di quel territorio e proietta forza e influenza verso l’esterno. Non deve piacere, ma è ovviamente reale.

Lamentare che uno stato è illegittimo o falso è un po’ come sostenere che un animale non è reale, quando in realtà la vita di un animale è una proprietà oggettiva derivata dalla sua capacità di mobilitare continuamente calorie dal suo ambiente e di difendersi dalla predazione. Gli stati e gli animali possono morire, possono deperire a causa del fallimento della mobilitazione (privati di entrate o calorie, a seconda dei casi), possono essere devastati dal parassitismo interno della ribellione e della malattia, oppure possono essere divorati da forme predatorie più grandi e potenti. Parassitismo, mobilitazione delle risorse, predazione e morte: tutte pressioni incessanti sia per l’animale che per l’organismo politico. Gli stati non possiedono una qualità astratta di legittimità, ma piuttosto vivono o muoiono alle loro condizioni.

La Siria non è esattamente un paese “finto”, ma è certamente malato. In particolare, ora si pone la questione della relazione tra lo stato e il territorio discreto precedentemente noto come Repubblica araba siriana. Il regime di Assad è scomparso, ma le immense pressioni che distorcono e tirano attraverso l’ampiezza dei suoi ex territori rimangono, e la questione fondamentale diventa se un qualsiasi accordo politico stabile possa prevalere sul territorio della Siria .

Dobbiamo ricordare che la Siria, in quanto tale, è un’unione poco maneggevole di regioni geoeconomiche discrete: la catena costiera, il corridoio delle antiche città oasi (Aleppo, Hama, Homs, Damasco) e il bacino dell’Eufrate. Nei decenni che hanno preceduto la guerra civile, un breve boom delle esportazioni di petrolio, combinato con estese opere di irrigazione lungo l’Eufrate, ha permesso un’esplosione demografica siriana, con la popolazione totale cresciuta di quasi tre volte, da circa 7 milioni nei primi anni ’70 a più di 22 milioni entro il 2010. Dopo un breve declino nei primi anni della guerra civile, la popolazione ha iniziato a riprendersi e ha nuovamente raggiunto i 22 milioni entro il 2022.

Sovrappopolazione e fallimento dell’irrigazione: il cuore del collasso siriano

Non è una coincidenza, quindi, che un crollo del sistema di irrigazione dell’Eufrate causato dalla siccità nel 2011 ( condizioni di siccità che persistono ancora ) sia stato un importante precursore della guerra civile, né è una sorpresa che questo sia diventato il problema fiscale-economico chiave che il regime di Assad non è riuscito a risolvere. Non è semplicemente che Assad non avesse una soluzione: è dubbio che una soluzione esista.

Il nocciolo del problema è semplice (e mi scuso per aver impiegato così tanto tempo per arrivare al punto): la Siria non può esistere come entità stabile senza l’unificazione di quasi tutto il territorio della vecchia Repubblica araba siriana, ma per mantenere il controllo su quel territorio è necessario creare un’amalgama esplosiva di blocchi etnici e settari.

La vasta e gonfia popolazione del corridoio urbano dell’oasi non può sopravvivere senza l’accesso sia alle terre agricole più produttive a est (e anche in quel caso, la bonifica del sistema di irrigazione e precipitazioni più favorevoli saranno essenziali) sia alla capacità di esportare le risorse di gas e petrolio della Siria. Se il corridoio urbano interno rimane tagliato fuori dalle risorse economiche dell’est della Siria, sarà destinato a rimanere un terreno fertile sovrappopolato e impoverito per il dissenso e la violenza. Allo stesso modo, richiede l’accesso alla catena costiera per facilitare l’accesso economico al Mediterraneo. Lo straordinario aumento della popolazione della Siria nella seconda metà del XX secolo è stato possibile solo perché la Repubblica araba siriana ha collegato il corridoio delle città oasi con la catena costiera e il bacino dell’Eufrate a est. In altre parole, affinché la popolazione della Siria abbia un futuro economico sostenibile, il paese deve avere essenzialmente lo stesso territorio discreto che aveva prima della guerra – e anche in quel caso, il deterioramento del sistema di irrigazione a est rende dubbia una ripresa stabile.

Tuttavia, rimettere insieme questo territorio richiede di mediare una serie di impasse settarie, etniche e geostrategiche. Alcune delle proposte più fantasiose per la Siria prevedono una partizione del paese, con uno stato alawita nella fascia costiera, uno o più stati sunniti nell’entroterra e un Kurdistan indipendente a est: queste proposte forse hanno senso per motivi etnici e settari, ma garantirebbero l’insostenibilità economica dell’intero progetto e avrebbero l’effetto di creare stati sunniti sovrappopolati e senza sbocco sul mare, tagliati fuori sia dall’accesso al mare che dalle risorse naturali e destinati all’impoverimento. Questa non è una ricetta per alcun tipo di pace duratura.

Questo per non parlare, ovviamente, degli interessi delle potenze esterne. I russi sembrano essersi lavati le mani della Siria e mirano principalmente a raggiungere un accordo con qualsiasi potenza prevalga per mantenere i loro diritti di base sulla costa del Mediterraneo: questo è probabilmente un altro caso in cui Mosca si fida troppo dell’ultimo “accordo” per arrivare alla fine, ma così va. La posizione dell’Iran in Siria è sostanzialmente distrutta (ne parleremo più avanti) e l’iniziativa regionale è passata saldamente a Turchia e Israele. Tuttavia, l’Iran in disparte ha ancora il potenziale per ricorrere all’incendio geopolitico.

In breve, è difficile essere ottimisti sul futuro della Siria. La realtà strutturale del paese è la stessa: un interno sunnita sovrappopolato e impoverito che necessita di connettività con la catena costiera e l’Eufrate in difficoltà per nutrirsi e riprendersi economicamente. La rottura della coerenza economica della Siria è esattamente ciò che ha portato alla bancarotta e svuotato il regime di Assad al punto che non è stato in grado di pagare i suoi soldati, sfamare la sua gente o difendersi da un colpo finale violento. Sono stati l’impoverimento della popolazione siriana gonfia e il fallimento dell’irrigazione a est a scatenare la guerra civile e i flussi di rifugiati in Turchia e in Europa. Niente di tutto questo è scomparso e rimettere insieme un’unità economica coerente di fronte alle nette divisioni settarie ed etniche della Siria richiederà un tocco politico che sia o inimmaginabilmente abile o violento e vigoroso.

La Siria potrebbe essere o meno un “paese falso”, nel senso che la sua coerenza economica è contraria ai modelli del suo popolamento. È, tuttavia, un paese che si è costantemente disintegrato, soggetto sia al parassitismo interno che alla predazione esterna, e il regime di Assad era chiaramente privo dei poteri di mobilitazione per tenere insieme la cosa, tagliato fuori com’era dall’Eufrate. I nuovi governanti sunniti di Damasco potrebbero cavarsela meglio, nel senso che loro (a differenza di Assad) sono a cavallo di una maggioranza demografica e godono del sostegno di una Turchia potente e in ascesa, ma non c’è dubbio che ci sarà ancora più violenza prima che uno stato coerente venga ancora una volta martellato fuori da queste componenti disparate e impoverite.

Vincitori e vinti

Con il capitolo ormai chiuso sul regime di Assad, possiamo considerare la Siria come un giocattolo delle potenze esterne. La Siria è stata un luogo di intenso interesse per almeno quattro potenti stati esterni, ai quali sto assegnando lo status di vincitore e sconfitto come segue:

  • Grande vincitore: Israele
  • Piccolo vincitore: Turchia
  • Piccolo perdente: la Russia
  • Il grande perdente: l’Iran

Li prenderemo in considerazione in ordine, iniziando da Israele e dall’Iran, poiché le loro situazioni sono quasi perfettamente inverse.

È difficile sopravvalutare quanto sia completamente crollata la posizione geopolitica dell’Iran nel Levante e nel Mediterraneo orientale. L’Iran ha investito risorse significative nel sostenere il regime di Assad, contribuendo con aiuti militari e supporto logistico nell’ordine di decine di miliardi di dollari. Ma, cosa più significativa, l’Iran è stato fondamentale nel fornire manodopera per sostenere l’esercito arabo siriano in declino nel corso degli anni, con la Forza Quds d’élite del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane che addestrava milizie per supportare l’esercito di Assad e guidava la mobilitazione e il coordinamento dei combattenti stranieri, compresi quelli provenienti da Libano, Iraq e Afghanistan.

Per l’Iran, la Siria e il Libano formavano un nesso di proiezione di potenza che si rafforzavano a vicenda. La Siria forniva un corridoio terrestre cruciale che consentiva all’Iran di convogliare personale e rifornimenti in Libano, creando un collegamento essenziale nella connettività geografica della proiezione di forza dell’Iran. Hezbollah ha svolto un ruolo prezioso nel coordinamento delle milizie in Siria da parte dell’Iran, e la Siria ha garantito il collegamento terrestre tra Iran e Hezbollah. Per l’Iran, quindi, il 2024 è stato un disastro, con Hezbollah gravemente colpito dall’IDF e la Siria ora in uno stato di collasso.

Israele ha, di fatto, creato un ciclo di feedback cinetico che sta erodendo la posizione dell’Iran nella regione. Hezbollah è indebolito dalla guerra di 14 mesi con l’IDF, e la sua leadership e infrastruttura sono in disordine dopo una serie di devastanti attacchi israeliani, tra cui sia la famigerata operazione di esplosione del cercapersone sia un attacco aereo che ha ucciso Hassan Nasrallah. Lo stato indebolito di Hezbollah li ha lasciati completamente incapaci di intervenire per impedire il crollo del regime di Assad, e ora quello stesso crollo significa che l’Iran deve escogitare un modo per ricostruire le capacità operative di Hezbollah senza il vitale collegamento logistico terrestre che ha utilizzato a lungo.

Truppe dell’IDF vicino al monte Hermon

Per Israele, quindi, il 2024 ha portato almeno una neutralizzazione temporanea di gran parte dell’apparato di comando di Hezbollah, la rottura del collegamento terrestre dell’Iran con il Libano e un’area di sicurezza allargata controllata dall’IDF attorno alle alture del Golan. C’è una crescente sensazione che Israele possa agire con quasi impunità, dopo aver condotto un’impressionante serie di sparatorie contro personale nemico di alto valore, aver combattuto una campagna terrestre estenuante e devastante a Gaza e aver scambiato attacchi aerei contro l’Iran stesso.

L’idea che Israele se la sia cavata molto bene da tutto questo tende a far infuriare le persone e a sollecitare le solite accuse di sionismo, ma la realtà è abbastanza semplice. Israele ha ucciso un gran numero di personale nemico di alto rango, tra cui i massimi leader sia di Hamas che di Hezbollah. L’IDF ha mantenuto una presenza terrestre nella Striscia di Gaza per mesi e ha ridotto gran parte della sua espansione urbana in macerie. Israele ha ucciso il presidente dell’Ufficio politico di Hamas nella stessa Teheran. Ha sequestrato una zona cuscinetto ampliata nel Golan e ha visto crollare il collegamento terrestre dell’Iran con il Libano. Queste sono manifestazioni oggettive di forza cinetica: i cercapersone che esplodono, i carri armati dell’IDF e gli attacchi aerei lo sono semplicemente. Qualsiasi idea che Israele non sia su di giri sarebbe un atto di ignoranza volontaria e inutile intransigenza cognitiva.

L’Iran, ovviamente, ha una certa profondità strategica e opzioni per ricostruire la sua posizione. Mantiene ancora milizie in Iraq, ha la possibilità di impegnarsi con le SDF (le milizie guidate dai curdi nella Siria orientale), mantiene proxy produttivi nello Yemen e ha dimostrato capacità di attacco contro Israele. Tuttavia, è chiaramente molto sulla difensiva e si trova di fronte alla prospettiva di ricostruire faticosamente una posizione in Libano e Siria dopo aver investito molto nella regione nel corso dei decenni.

Nel frattempo, la Turchia ha chiaramente soppiantato l’Iran e la Russia come potenze esterne dominanti in Siria. Una serie di interessi turchi sono in gioco in Siria, tra cui il respingimento dei rifugiati siriani (quasi quattro milioni dei quali sono attualmente in Turchia e la cui presenza rimane sgradita a molti), il ritiro del controllo curdo (SDF) nella Siria orientale e l’espansione dell’influenza turca nel Caucaso meridionale, dove la Turchia e il suo alleato azero continuano la loro pressione.

La sconcertante facilità con cui la Turchia è riuscita a travolgere il governo di Assad, in quanto principale sostenitore straniero di Tahrir al-Sham, ha messo Ankara in una posizione dominante in cui avrà un ruolo centrale nel plasmare il futuro politico della Siria. Il problema per la Turchia, tuttavia, è che i suoi interessi vanno controcorrente. Ankara vorrebbe vedere il ritorno dei rifugiati siriani, una stabilizzazione del confine meridionale della Turchia, un’influenza turca duratura nella politica siriana e, soprattutto, vuole impedire l’emergere di una politica curda stabile e duratura nell’est della Siria. Tutti gli interessi della Turchia, in altre parole, implicano il ritorno della vecchia integrità territoriale della Siria sotto la guida sunnita.

La Turchia ha soppiantato la Russia come attore esterno più potente in Siria

In breve, la Turchia ha vinto questa fase della guerra, ma ora deve “vincere la pace”, come si dice. Se la Siria ricadrà in un’altra fase di sanguinosa guerra civile, la Turchia tornerà al punto di partenza per quanto riguarda i suoi obiettivi strategici. Ankara è molto simile a Sisifo con la sua pietra insanguinata: l’ha fatta rotolare quasi fino alla cima della collina, e ora deve cercare di tenerla lì.

Per la Russia, i principali problemi in gioco sono i diritti di base navale sulla costa mediterranea della Siria e la perdita di influenza su Ankara che in precedenza derivava dal regime di Assad. Possiamo considerarli a turno.

La Russia mantiene basi nella fascia costiera della Siria, tra cui basi aeree e navali vicino a Tartus e Latakia. Queste basi sono un prezioso collegamento nella proiezione di potenza russa nel Mediterraneo e, per il momento, sembra chiaro che Mosca ha deciso di lavarsi le mani di Assad e cercare di salvare le basi attraverso accordi con qualsiasi governo emerga in Siria.

Il problema più grande per Mosca è la perdita di influenza nei confronti della Turchia. Mentre il regime di Assad rimaneva al potere, la Russia era funzionalmente l’arbitro delle relazioni tra Turchia e Damasco. La Siria era un punto di pressione per la Turchia che Mosca era in grado di utilizzare per influenzare le decisioni di Ankara su altre questioni come l’Ucraina e il Mar Nero. Con la caduta di Assad, tuttavia, la relazione è ora invertita. Ora è il proxy turco a controllare Damasco, piuttosto che uno russo, e Mosca dovrà soccorrere Ankara se vuole mantenere le sue basi sulla costa.

Riepilogo: La Siria al bivio e nel mirino

In ultima analisi, la caduta del regime di Assad è dovuta alle instabilità intrinseche nella costruzione della Siria, in particolare in assenza di un controllo consolidato sull’intero ex territorio dello Stato. Senza esportazioni di petrolio e le regioni in crescita attorno all’Eufrate, la Siria non può sostenersi e la cintura di città-oasi è destinata a una mezza vita impoverita. Il problema più grande di Assad è anche il problema della Turchia: i milioni di rifugiati che languono in Turchia sono strettamente collegati ai soldati sottopagati e demotivati di Assad, in quanto entrambi sono una manifestazione di un Paese affamato ed esausto.

Il problema della Siria, in quanto tale, è che la fattibilità fiscale-economica dello Stato è al massimo precaria e si basa sul controllo consolidato dell’ex territorio dello Stato, ma questo a sua volta richiede di saldare insieme un’amalgama di gruppi etnici e settari, infiammabili nelle migliori circostanze, mentre le potenze straniere cercano di incendiarli. La logica etnica e la logica economica della Siria rasentano la totale incompatibilità e sono state storicamente tenute insieme dalla repressione e dalla violenza.

Inoltre, la Siria si trova quasi letteralmente a un bivio geostrategico, come estuario di grandi potenze esterne. In particolare, la Siria forma una zona di collisione tra il potere iraniano e quello turco. Chiunque di queste potenze si trovi in svantaggio nella regione ricorre all’incendio doloso strategico, ovvero all’intenzionale incendio di un trashcanistan per creare un pericolo nocivo per il rivale. Mentre il regime di Assad deteneva il potere, grazie al generoso sostegno di Mosca e Teheran, è stata Ankara a fornire un potente sostegno, e alla fine di successo. Affinché la Turchia consolidi la sua vittoria, deve stabilire con successo un governo stabile in Siria, mitigare l’autonomia curda e invertire il flusso di rifugiati. Ma con l’Iran ora in ritirata, il dietrofront è leale e la Siria, con la sua base economica traballante e la schiera di divisioni settarie, è una terra piena di legna da ardere per un piromane geostrategico.

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La debolezza dell’approccio di Israele alla guerra _ Di  George Friedman

La debolezza dell’approccio di Israele alla guerra

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Il Medio Oriente si è trasformato in uno stato di combattimento estremo. Il crollo del sistema di governo in tutta la regione ha aperto nuovi fronti di guerra. Storicamente, tali situazioni sono state gestite dall’esercito israeliano. Questa realtà di base – che Israele è la forza militare dominante nella regione – rimane. Ma c’è una nuova dimensione del conflitto. Dobbiamo considerare se la strategia militare israeliana può essere definitiva – cioè se Israele ha la capacità di continuare a imporre la sua volontà ai suoi nemici su territori più vasti. In un certo senso, gli israeliani hanno alcune opzioni, nessuna delle quali è necessariamente attraente.

Il problema inizia con Hamas. Dopo l’attacco del 7 ottobre, Israele si è trovato di fronte a un dilemma: riteneva di dover distruggere Hamas in modo schiacciante. La strategia israeliana, quindi, è stata quella di imporre ad Hamas un sistema progettato per distruggere le sue capacità. In teoria, questo sembrava ragionevole. In pratica, è stato difficile da eseguire. Si è tradotta in attacchi massicci in tutta Gaza. Se Israele fosse stato più moderato, la strategia avrebbe potuto funzionare. Invece, ha attaccato i suoi nemici in battaglie sempre più intense che non hanno mai sopraffatto Hamas, permettendogli così di sopravvivere.

In altre parole, Israele pensava che colpendo ripetutamente Hamas avrebbe avuto la meglio. Non è stato così. La debolezza dell’approccio israeliano consisteva nel fatto che si svolgevano sempre le stesse operazioni con gli stessi risultati. Non era così che Israele faceva la guerra in passato. La guerra era condotta con una capacità tattica chiara e limitata. Nel caso di Hamas, questa chiarezza non esisteva: l’idea di attaccare su più fronti è diventata un principio. Anche in questo caso, non si tratta di un approccio irragionevole, fino a quando non si verifica una situazione in cui gli attacchi multipli sono semplicemente insufficienti a distruggere il nemico. Israele doveva condurre una guerra incentrata non sulla ridondanza, ma su un’attenta pianificazione. La questione ora è cosa ne pensiamo della strategia di Israele. Non è riuscito a distruggere Hamas e ha cercato di risolvere il problema moltiplicando le sue tattiche, e a parte i costi delle relazioni pubbliche, ha permesso al nemico di sopravvivere e di creare un altro sistema.

In particolare, le limitate capacità di Israele sono diventate una questione politica, con vari elementi che hanno sostenuto una varietà di attacchi, nessuno dei quali è stato efficace. Non è chiaro se Israele sia in grado di adattarsi. Nel contesto della guerra è molto difficile abbandonare una strategia. Implica la convinzione di un fallimento, ma spesso non ha un intento chiaro. Questo è ora il problema fondamentale che Israele deve affrontare. Israele dovrebbe essere sufficientemente vittorioso a questo punto per porre fine alla guerra, ma non è in quella posizione, né è in grado di cambiare la sua concezione della guerra per raggiungere un certo grado di vittoria, indipendentemente da ciò che dice il suo governo.

Ad onor del vero, molti Paesi hanno avuto questo problema. Ma Israele non ha avuto questo problema in passato, e quindi è una vera sfida per l’adattamento. In prospettiva, la domanda è dove andranno a finire le forze armate israeliane. Per Israele, la soluzione sembra essere spaventosa: Continuerà questa strategia semplicemente perché la capisce meglio degli altri. Non sono convinto che le forze israeliane siano in grado di condurre attacchi con ripetizioni infinite in guerra in quest’epoca.

Gli obiettivi di Israele in Siria

Le forze israeliane sembrano intenzionate a occupare a lungo le aree strategiche delle Alture del Golan.

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Di Andrew Davidson

L’improvvisa fuga di Bashar Assad dalla Siria ha lasciato un vuoto di potere. I ribelli che lo hanno rovesciato sono impegnati a rassicurare l’opinione pubblica e i leader stranieri che la transizione sarà ordinata e il più possibile pacifica. Nel frattempo, però, le potenze straniere si stanno giocando la posizione – nessuna più drammaticamente di Israele, le cui forze di terra occupano ora le alture del Golan, un tempo demilitarizzate, e i cui attacchi aerei in meno di una settimana hanno demolito i resti delle capacità militari della Siria. Di conseguenza, qualsiasi governo emerga in Siria sarà praticamente indifeso, e opererà a piacimento di qualsiasi potenza straniera in grado di esercitare la maggiore influenza o forza – il che va benissimo per Israele.

Poco dopo la fuga di Assad dal Paese, le forze israeliane si sono spostate nella zona cuscinetto controllata dalle Nazioni Unite nelle Alture del Golan, un altopiano di 1.800 chilometri quadrati che domina Israele, Siria, Giordania e Libano. Rispondendo alle accuse secondo cui l’invasione avrebbe violato l’Accordo sul disimpegno del 1974, che istituì la zona cuscinetto e pose fine alla Guerra dello Yom Kippur, i funzionari israeliani hanno affermato che la caduta del regime di Assad ha segnato la fine dell’accordo e che il controllo israeliano delle alture del Golan e del Monte Hermon è vitale per la sicurezza di Israele. La preoccupazione immediata di Israele è che i disordini siriani possano estendersi al suo territorio, una minaccia da cui può difendersi meglio se le truppe israeliane mantengono il controllo delle alture.

Tuttavia, l’occupazione israeliana non sembra destinata a essere temporanea. Domenica, il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che l’esercito si sta preparando a trascorrere i mesi invernali sul versante siriano del Monte Hermon, esortando al contempo il governo ad aumentare il bilancio della difesa. Lo stesso giorno, il governo israeliano ha approvato un piano per raddoppiare la popolazione nella regione contesa. Nonostante ciò, Ahmad al-Sharaa, il nuovo leader de facto della Siria, meglio conosciuto con il suo nome di battaglia Abu Mohammed al-Golani, ha dichiarato che il suo Paese, “stanco di guerra”, non si lascerà trascinare in un’altra guerra – anche se ha accusato Israele di perpetrare una “escalation ingiustificata” con falsi pretesti.

Non che la Siria, nelle sue condizioni attuali, possa fare molto per resistere. Dalla caduta di Assad, Israele ha condotto centinaia di attacchi aerei su obiettivi militari in Siria. Ha colpito navi da guerra siriane nei porti di Al-Bayda e Latakia, oltre a campi d’aviazione, attrezzature militari, cache di armi, impianti di produzione di armi e siti di armi chimiche. Israele ha anche dichiarato di aver distrutto più del 90% delle capacità di difesa aerea della Siria, il che significa che i suoi aerei possono continuare a operare liberamente nello spazio aereo siriano. Secondo Katz, è importante per Israele distruggere le “capacità strategiche” potenzialmente minacciose e garantire che gli estremisti non mettano le mani su armi pericolose. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato di aver comunicato ai nuovi leader siriani che Israele è pronto a usare la forza per impedire all’Iran di ristabilirsi nel Paese. Tuttavia, è probabile che le limitazioni di personale impediscano a Israele di avanzare più in profondità in Siria o di affrontare direttamente il nuovo governo siriano.

Nonostante il chiaro elemento difensivo alla base degli attacchi di Israele, quest’ultimo sembra intenzionato a occupare a lungo la zona cuscinetto, soprattutto alla luce dei piani del governo di trasferire più civili israeliani nell’area. Il controllo di punti strategici nelle Alture del Golan permetterà a Israele di condurre operazioni offensive anche in seguito.

Ma Israele non è l’unico a considerare come trarre vantaggio dalla transizione del governo siriano. L’elenco delle principali potenze straniere interessate a plasmare il futuro della Siria è lungo e comprende Turchia, Iran, Russia e Stati Uniti. La distruzione delle capacità militari siriane da parte di Israele ha lasciato i nuovi leader estremamente deboli e vulnerabili all’influenza esterna. Le maggiori ricompense potrebbero arrivare a coloro che, come Israele, si muovono più velocemente.

Andrew Davidson è attualmente uno stagista della GPF e sta completando un master in relazioni internazionali. Prima di entrare a far parte della GPF, ha prestato servizio nell’esercito degli Stati Uniti per 11 anni.

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“Il PRANZO DI BABELE”, di Cesare Semovigo

“Il PRANZO DI BABELE”

La sconfitta del governo di Bashar al-Assad rappresenta uno frattura epocale nella geopolitica mediorientale. Con la caduta della fragile fù Repubblica Siriana, i riabilitati miliziani di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e dell’Esercito Siriano Libero (ESL), dopo aver piegato lo spazio tempo anti-Newtoniano, conquistano la capitale. Gettano la Siria in una dimensione indefinibile ad alto rischio e le probabilità che l’area venga investita da una cronica instabilità esponenziale, sono altissime.

Forse, proprio per questo, nessuno osa fare chiarezza nella rappresentazione dei media generalisti, quasi come per esorcizzare e allontanare il momento nel quale, la consapevolezza delle masse narcotizzate del mondo “libero” dovrà fare i conti con se stessa e le sue dinamiche autoassolutorie di impero centralizzato decadente. Con solerzia, le muse dei media occidentali, ingessate dall’eccessivo uso di tossine metabloccanti, ci rassicurano, consolando prima di tutto loro stesse; attraverso la ripetizione di slogan come: “la Siria ha scelto ! “, “Finalmente liberi”, si compie il paradosso suicida di una propaganda ridondante, nuda nel manifestare i suoi intenti e quindi controproducente rispetto alla finalità ipnotica perdente.

Lasciate si compia con una disarmante scioltezza il destino del “designated survivor” al-Joulani. Partì JIadista, giunse “moderato”, suo malgrado artefice di un destino folgorante, analizzando il quale, non faccio fatica a immaginare possiate ora interrogarvi rispetto alla credibilità della sua ascesa, Avatar folgorato sulla strada di Damasco.

L’esercito siriano, ormai eroso da anni di conflitto e logorato da una crisi interna senza precedenti, si è arreso alle forze Salafite jihadiste e Turcomanne, segnando la fine del controllo dell’ultimo esponente degli Al Assad su un paese diviso e tribalizzato all’ennesima potenza, ormai incapace fisiologicamente di sopportare un altro scontro sanguinoso.

Un ruolo fondamentale nel contenimento dell’ISIS e di altre formazioni jihadiste era stato svolto dal Gruppo Wagner che operava in stretta collaborazione con le unità governative siriane. Questo contributo è stato dettagliato nel libro “Io, comandante Wagner” di Andrei Kolesnikov, ex ufficiale con legami diretti con i contractor russi. Kolesnikov descrive non solo l’ampio supporto logistico e operativo fornito, ma anche le difficoltà strutturali dell’Esercito Arabo Siriano (SAA), spesso caratterizzato da un’organizzazione efficiente e da un morale basso. Wagner è stato essenziale per compensare queste debolezze, fornendo una guida tattica e un’efficace forza d’urto nelle battaglie più critiche. Ma ecco la ciliegina sulla torta: l’escalation sia da parte di Israele che della Turchia, insieme alle gesta quasi shakespeariane di al-Julani, potrebbero non essere così casuali come sembrano. È forse una musica orchestrata da potenze maggiori?

Tra le unità più celebri assistite dal Gruppo Wagner spiccano i “Cacciatori dell’ISIS”, un’unità specializzata nella contro-guerriglia e nel recupero di posizioni chiave, e le “Tiger Brigades”, comandate dal carismatico generale Suheil al-Hassan, una delle figure più iconiche della guerra civile siriana. Al Hassan, noto per il suo stile operativo diretto e per le sue vittorie chiave, fu determinante durante l’assedio di Aleppo, un’operazione che segnò una svolta decisiva per il regime di Assad. La sua capacità di combinare attacchi mirati con una strategia di assedio prolungato ha reso le Tiger Brigades un simbolo del successo tattico siriano.

Tuttavia, con il progressivo trasferimento del Gruppo Wagner verso altri teatri operativi, come la Libia e il Sahel, si è verificato un indebolimento evidente delle linee governative siriane. La ritirata dei “musicisti”, che avevano svolto un ruolo di coordinamento critico, ha lasciato un vuoto che l’Esercito Arabo Siriano non è stato in grado di colmare. Privato di un coordinamento tattico di alto profilo e logorato da anni di conflitto, il SAA ha mostrato segni di rilassamento nel mantenimento delle posizioni.

Questa situazione ha dato il via a un effetto domino, in cui la mancanza di leadership strategica ha accelerato lo smembramento del fronte governativo. L’assenza di un supporto esterno disciplinato e la progressiva frammentazione delle forze leali hanno lasciato il terreno fertile per l’avanzata di forze jihadiste come HTS, contribuendo in modo determinante alla caduta del regime di Assad.

La “Pistola Fumante” dell’Offensiva HTS/ESL

L’attacco partito da Idlib, ironicamente ribattezzato “califfato di Idlibistan”, ha messo in evidenza la complessità delle formazioni ribelli e jihadiste attive nel quadrante settentrionale della Siria. Questa galassia di gruppi in tutto ben 13 agisce con una sorprendente coesione operativa:

  1. Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), guidata da Abu Mohammad al-Julani, ex comandante di Jabhat al-Nusra (Salafiti), che si pone come principale forza egemone nella regione.
  2. Brigate dell’Esercito Siriano Libero (ESL), parzialmente aggregate sotto l’ombrello turco e utilizzate da Ankara come strumento di pressione militare e politica.
  3. Milizie jihadiste minori, tra cui fazioni salafite e turcomanne finanziate da monarchie del Golfo, con particolare coinvolgimento del Qatar, che continua a supportare attori non statali con una chiara matrice ideologica.

L’offensiva, lanciata con impressionante rapidità entro 48 ore dagli incontri diplomatici ad Ankara, sembra essere stata sostenuta da un apparato logistico e militare di alto livello. Testimonianze locali e analisi satellitari indicano il coinvolgimento di forniture militari avanzate Standard Nato di origine Turca, Blindati Pantera (Giordania), UAV Shaheen (droni armati e da ricognizione – Giordania -), MRLS ruotati e Grad, Artiglieria AA ruotata 50 mm (affusti USA anni 50), Binate 20 mm su Toyota, sistemi di comunicazione sicuri e una logistica paragonabile a quella di eserciti regolari. Proprio il ruolo dell’industria scintillante giordana Jadara sarà la protagonista di un’inchiesta che seguirà a breve nella quale faremo chiarezza su questa realtà molto moderna e ben connessa con companys blasonate occidentali e quale è stato il suo ruolo in questa operazione e di chi abbia fornito il supporto satellitare e di targeting ai droni Shaheen che dal primo giorno di invasione hanno attirato la mia attenzione ed il fatto che nessuno ne ha fatto menzione mi ha convinto ad occuparmene, come vedrete, con risultati “esplosivi” a partire dai suoi illustri azionisti da una parte e da chi non ti saresti mai aspettato nel consiglio di amministrazione in questa parte del globo.

Questo livello di sofisticazione, unito alla coincidenza temporale con i colloqui del 23-24 novembre, solleva più di un sospetto su una possibile convergenza di interessi tra i principali attori della regione. Interessante è la tattica simile a quella usata dagli Ucraini a Kursk; in questo casa è risultata vincente, ma come vedremo dietro la staccionata il nulla. Tralascio i rumors circa gli addestratori di Budanov per i droni, vorrei non fosse vero per non confermare quella nota trash da distopic B movie alla quale siamo ormai abituati da tempo.

Interpretazioni Strategiche

La mobilitazione di Hay’at Tahrir al-Sham e delle altre fazioni che operano nella regione di Idlib può essere interpretata come parte di una strategia più ampia per contenere l’influenza iraniana, limitare la capacità di Hezbollah e spezzare ulteriormente l’asse sciita, secondo studi condotti dal Middle East Policy Council e dalla International Crisis Group. L’ottica anti-iraniana e antisciita sarebbe corroborata dal contributo di attori come il Qatar, già noto per il sostegno finanziario e politico a gruppi salafiti, il cui ruolo chiave nell’alimentare la galassia jihadista di Idlib mira a rafforzare la presenza sunnita in contrapposizione al blocco sciita. Nell’analisi di Stratfor e di alcuni report investigativi pubblicati da Al Jazeera, emerge inoltre il possibile coinvolgimento di intelligence occidentali e turche: la sofisticazione delle operazioni sul campo, compresi i sistemi UAV di ultima generazione e tecnologie di comunicazione avanzate, suggerisce una partnership non ufficiale, mediata da Ankara, con apparati euro-atlantici interessati a limitare l’influenza iraniana. Questa sinergia, da molti considerata un piano coordinato, potrebbe in realtà essere una convergenza di interessi differenti che si incontrano e si rafforzano in una dinamica assai più complessa, come ipotizzato anche dai colleghi analisti del Brookings Institution, lasciando aperti interrogativi sulla natura e la direzione futura di tale alleanza de facto in una Siria già segnata da anni di conflitto.

L’incredibile sincronia tra gli incontri diplomatici di alto livello ad Ankara e il successivo inizio delle ostilità è difficile da interpretare come una semplice combinazione fortuita. Piuttosto, appare come il risultato di una convergenza tattica tra attori con obiettivi complementari: indebolire il regime di Damasco, arginare l’influenza iraniana e consolidare il controllo turco sulle aree settentrionali della Siria. Sebbene non si possa parlare con certezza di un’alleanza formale tra Turchia, Qatar e potenze occidentali, emergono chiari segnali di una complementarietà strategica, dove interessi autonomi si sovrappongono nel perseguire obiettivi comuni.

La “pistola fumante” dell’offensiva HTS/ESL non sta solo nelle armi avanzate o nei sofisticati sistemi di intelligence, ma anche nella precisa tempistica con cui è stata orchestrata. Questa operazione, condotta con il tacito avallo — o almeno la neutralità benevola — di vari attori internazionali, ha portato a una nuova destabilizzazione del Levante.

Le Conseguenze di un Levante Rimodellato

Le implicazioni di questa offensiva vanno ben oltre la Siria settentrionale. L’azione militare ha ulteriormente frammentato il territorio siriano, lasciando il Libano ancora più isolato e aumentando le difficoltà logistiche per Hezbollah. La comunità internazionale, intanto, sembra sempre più distante dal trovare una soluzione politica condivisa, lasciando la Siria intrappolata in un conflitto di lunga durata che alimenta la precarietà regionale. Se l’obiettivo di Ankara, Israele e delle monarchie del Golfo era ridisegnare l’assetto del Levante, l’offensiva HTS/ESL potrebbe essere vista come un passo determinante in questa direzione, ma con costi umani e politici enormi.

Mentre gli attori regionali ricalibrano le loro strategie, Israele e Turchia emergono come due protagonisti principali. Pur senza formalizzare un’alleanza, entrambi sembrano perseguire interessi strategici complementari, sfruttando l’opportunismo che accomuna queste due potenze regionali.

La trasformazione di HTS, sotto la guida di Abu Mohammad al-Julani, da organizzazione jihadista a potenziale forza governativa, apre scenari inquietanti. La leadership di al-Julani, un tempo affiliata ad al-Qaeda, solleva interrogativi sulla sostenibilità di questa “nuova Siria”, ma ancor più sul ruolo delle potenze che hanno, direttamente o indirettamente, facilitato questa transizione. La sceneggiatura, degna di un film di Carpenter, racconta tradimenti e reazioni tossiche (l’Occidente e quella fidanzata difficile chiamata verità) che segnano un capitolo amaro. Come la parabola del nostro Nicolas Cage salafita, che dopo l’arresto rieducativo nelle carceri dorate del più famoso servizio segreto cinematografico, vive ora il meritato successo, rendendo orgogliosi i suoi produttori: i padri dell’epopea dell’Hollywoodismo.

Mi riferisco allo script scadente, visto e rivisto, della narrativa decadente del “Nuovo Secolo Americano”. Fonti anonime spoilerano persino il titolo del film: al-Julani alla ricerca del tesoro per conto dei Templari.

Il suo discorso “magnum” (camicia da “Barbudos” pacatezza da condottiero salafita) che lo ha lanciato nell’olimpo della storia moderna, è avvenuto nella più iconico luogo di culto della tradizione ottomana in Siria: la Moschea di Tekkiye Süleymaniye (o Moschea Süleymaniye) a Damasco. Tutte le strade portano ad Ankara e Tel Aviv.

Geopolitica degli intrighi e menti raffinatissime.

Questa volta abbiamo intersecato un lavoro certosino di fonti con la ricerca di piccole note stampa insignificanti, tuttavia senza le intuizioni scaturite dai primi droni israeliani sulla Siria durante le operazioni contro Hezbollah, le varie localizzazioni e tracce radar parziali dagli aeroporti di partenza fino all’appoggio indiretto idf a htf colpendo i ponti sulla linea logistica delle retrovie di Homs non saremmo riusciti ad condurvi insieme a noi a ritroso fino realizzare l’algoritmo logico e fattuale che ha prodotto queste nostre solide ipotesi. Ma a volte le risposte più serie si nascondono dietro le battute più leggere. Proprio in questi momenti ci rendiamo che “essi vivono” insieme a noi come nei film John Carpenter, il maestro del surrealismo esoterico.

Ankara: convergenze o alleanze?

Prendiamo il recente incontro tra Ronen Bar, capo dello Shin Bet israeliano, e İbrahim Kalın, capo dell’Organizzazione Nazionale di Intelligence turca (MIT). Questo summit non proprio alla luce del sole si è svolto ad Ankara il 16-17 novembre 2024, in un fine settimana che potrebbe sembrare come tanti.

Ma ecco la ciliegina sulla torta: l’escalation sia da parte di Israele che della Turchia, insieme alle gesta quasi shakespeariane di al-Julani, potrebbero non essere così casuali come sembrano. È forse una musica orchestrata da potenze maggiori?

L’obiettivo dell’incontro? Discutere il possibile ruolo della Turchia nella ripresa dei negoziati per uno scambio di prigionieri con Hamas. E qui entra in gioco l’Egitto, che secondo le fonti israeliane, dovrebbe mantenere il ruolo di mediatore principale, nonostante il Qatar abbia messo temporaneamente in pausa i suoi sforzi di mediazione, in attesa di vedere un autentico spirito di collaborazione tra Israele e Hamas.

Il balletto degli ostaggi e le pressioni su Hamas

La questione degli ostaggi detenuti da Hamas rappresenta un nodo cruciale nelle dinamiche regionali. Fonti israeliane indicano che la liberazione degli ostaggi è al centro di intense trattative, con Israele che sollecita un intervento più deciso da parte degli Stati Uniti per esercitare pressioni su Hamas. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, vede in una risoluzione positiva di questa crisi un’opportunità per rafforzare la sua posizione politica interna.

Nel frattempo, il Qatar ha sospeso i suoi sforzi di mediazione, dichiarando che riprenderà solo quando entrambe le parti dimostreranno una reale volontà di dialogo. Questo ritiro ha aperto spazi per la Turchia, che, riallacciando i legami con i Fratelli Musulmani, potrebbe assumere un ruolo più attivo nel processo, sebbene non come mediatore principale.

Questi incontri suggeriscono una ricalibrazione delle relazioni tra Turchia e NATO, con Ankara che cerca di rafforzare la sua posizione all’interno dell’Alleanza, mentre persegue parallelamente i propri interessi regionali.

 

Le manovre israeliane nel sud della Siria e in Libia

 

Israele sta ampliando il suo raggio d’azione oltre Gaza, concentrandosi sul sud della Siria e sulle comunità druse. Alcuni analisti ipotizzano che Netanyahu stia considerando mosse per consolidare il controllo su queste aree strategiche, sia per motivi di sicurezza che per rafforzare la sua posizione politica interna.

Parallelamente, emergono speculazioni su possibili iniziative israeliane nel sud della Libia, volte a stabilire alleanze con tribù locali per estendere la propria influenza nel Nord Africa.

Il bello viene ora: nonostante le relazioni tra Israele e Turchia siano tese, aggravate dalle critiche incendiarie del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nei confronti delle operazioni militari israeliane a Gaza, i due paesi sembrano avere una capacità quasi camaleontica di mantenere i canali di comunicazione aperti. È un po’ come vedere due ex amanti che, nonostante si lancino i cocci, non riescono a smettere di mandarsi messaggi erotici di mezzanotte.

Il 23 novembre, un altro incontro si svolge in uno scenario meno pubblicizzato. I dettagli sono oscuri, le fonti scarse, ma gli echi di discussioni sulla sicurezza regionale tra figure chiave suggeriscono che il plot si infittisce.

Poi, il 24 novembre, il segretario generale della NATO, l’lOlandese Rutte, incontra a porte chiuse alcune delle stesse figure chiave. Gli argomenti? Coordinamento su sicurezza e, forse, un po’ di diplomazia preventiva. E come un buon dramma siriano, tutti sanno che oggi alleati possono essere domani avversari.

Numerosi rilevamenti geolocalizzati indicano che la mobilitazione dei ribelli sia avvenuta nei pressi della base militare turca di Gaziantep, uno snodo strategico da cui storicamente transita un notevole volume di rifornimenti destinati alle operazioni turche in Siria. Subito dopo tali incontri, HTS ed ESL hanno lanciato una campagna contro le residue difese del regime di Assad a Idlib, evidenziando un alto grado di organizzazione e un supporto logistico avanzato. Parlare di coincidenze risulta dunque arduo: la stretta vicinanza temporale tra i vertici di alto livello e l’offensiva solleva il sospetto di una regia comune o, quanto meno, di un tacito coordinamento mirato a sfruttare la vulnerabilità del regime siriano e dei suoi alleati.

Faccio presente ai colleghi che ancora non ho letto una sacrosanta interpretazione del funambolico attentato ai gioielli dell’industria bellica di Ankara, appioppato — perdonatemi il volgare — alle armate di San Sebastiano Curde, che a quanto pare, dopo aver rinnegato anche l’Odisseo del PKK, attendevano questo epilogo degno dell’Anabasi, ma in direzione inversa e senza ritorno. Spero possa perdonarmi Senofonte per questa mia misera licenza per niente eroica nell’immagine che fornisce.

E come sempre, nel grande gioco del Medio Oriente, le alleanze sono come le onde del mare: vengono, vanno, e talvolta travolgono.

E mentre il mondo osserva, analizza e ipotizza, le manovre imperialiste di USA, Turchia e Israele potrebbero essere interpretate come un’orchestrazione coordinata, un trio che danza sul filo del rasoio geopolitico, con la Siria come scacchiera.

Gli ultimi sviluppi sul campo siriano si inseriscono in una più ampia strategia di contenimento dell’Iran, che sta progressivamente erodendo la capacità di Teheran di mantenere il suo storico corridoio logistico verso il Mediterraneo. Con la caduta di Assad e il conseguente vuoto di potere a Damasco, il cosiddetto “Asse della Resistenza” — composto da Siria, Hezbollah e Iran — si trova di fronte a sfide sempre più pressanti.

Hezbollah, tradizionalmente il pilastro sciita nell’area, è stato costretto sulla difensiva. I suoi ritiri oltre il fiume Litani e le crescenti difficoltà logistiche hanno minato la sua capacità operativa. Inoltre, la perdita di accesso diretto e sicuro alla Siria complica ulteriormente il rifornimento delle sue linee e la sua capacità di resistenza contro Israele. La situazione è aggravata dall’attivismo della Turchia, che sostiene milizie di etnia turcomanna e finanzia forze anti sciite, e dal coinvolgimento di intelligence euro-atlantiche, spesso coordinate con attori del Golfo a matrice salafita. Questa pressione multiforme che combina tattiche militari, finanziamenti regionali e operazioni di intelligence ha reso quasi impossibile per Teheran mantenere la solidità della sua influenza su Damasco, Beirut e lungo il confine siriano-libanese. L’Iran si trova così a fronteggiare una coalizione di interessi regionali e internazionali che, pur agendo in maniera non sempre coordinata, converge sull’obiettivo comune di ridurre l’influenza iraniana nel Levante.

Parallelamente, Israele ha approfittato della debolezza dell’asse sciita per intensificare i suoi attacchi mirati contro obiettivi strategici in Siria. L’attivismo di Tel Aviv, unito all’azione turca e al sostegno delle monarchie del Golfo alle formazioni jihadiste, configura una situazione in cui l’asse Damasco-Teheran-Beirut è sempre più accerchiato e indebolito. Questa pressione non solo impedisce all’Iran di espandere la propria sfera d’influenza, ma pone in seria discussione la sua stessa capacità di mantenere una presenza efficace nell’area.

La posizione dell’Iran, quindi, è in bilico, intrappolata tra la necessità di consolidare le sue alleanze e l’impossibilità di contrastare efficacemente una pressione combinata, che si manifesta sia sul piano militare che su quello economico e politico. Se il corridoio iraniano verso il Mediterraneo dovesse cedere definitivamente, le implicazioni strategiche sarebbero enormi, non solo per Teheran, ma per l’intero equilibrio regionale.

Questa offensiva, scattata a poche ore dalla fragile tregua tra Israele e Hezbollah, sembra mirare a scalzare ulteriormente le residue posizioni governative in Siria. L’isolamento del Libano via terra dall’Iran e l’indebolimento dell’asse Damasco-Teheran-Beirut costituiscono obiettivi strategici chiari, perseguiti con azioni ben sincronizzate e metodicamente pianificate. L’apparente passività di alcune unità governative siriane durante l’offensiva, unite a segnalazioni di abbandono di posizioni senza distruggere depositi di armi e mezzi, potrebbe riflettere protocolli di pressione o persuasione negoziata operati da intelligence turche (MIT) e partner occidentali. Ah, chiedo perdono al Mossad, che non si offenda, è dato per scontato.

Da un lato, la Turchia continua a coltivare rapporti con HTS, offrendo un canale di legittimazione per l’organizzazione, nel tentativo di mantenere la pressione su Assad e, al contempo, contenere la presenza curda. Dall’altro, i successi di HTS consentono ad Ankara di consolidare la sua influenza su una fascia strategica del nord della Siria, che le permette di proiettare potere sulla regione senza un coinvolgimento diretto e costoso. La complementarità di obiettivi con Israele appare evidente: entrambi perseguono, con modalità diverse, la frammentazione dell’asse sciita e il contenimento dell’Iran.

Israele e il “bottino di guerra”: Eau de Escalation (N°5)

Israele, sempre pragmatico e spietato nelle sue mosse geopolitiche, sembra uscire da questa crisi come il principale vincitore. La caduta di Assad segna un duro colpo per l’asse sciita, isolando il Libano dall’Iran e costringendo Hezbollah a ritirarsi oltre il fiume Litani. Ma il vero colpo da maestro potrebbe essere l’annessione di fatto del Golan, un progetto che Israele ha cullato per decenni e che, grazie alla disgregazione siriana, si avvicina sempre di più alla realtà.

Con la disintegrazione del potere centrale siriano, Tel Aviv ha iniziato a ventilare progetti di intesa con la comunità drusa del sud della Siria. Gli elementi chiave di questo piano comprende la concessione del doppio passaporto — una strategia già applicata ai drusi del Golan, quasi tutti cittadini israeliani — e una narrazione di protezione e integrazione che mira a cementare il controllo israeliano sull’area. Questo non solo rafforzerebbe la sicurezza ai confini settentrionali, ma fornirebbe a Netanyahu, noto per la sua abilità camaleontica, un “bottino di guerra” politico capace di rilanciare la sua carriera.

Bibi Netanyahu, sempre fedele al motto mai lasciare che una crisi vada sprecata, potrebbe infatti vendere questo risultato come un successo senza precedenti. Un sequel politico inaspettato per un leader longevo e opportunista, che ha fatto del rischio calcolato la sua cifra distintiva. Persino il miglior giocatore d’azzardo non avrebbe potuto prevedere che la disintegrazione della Siria avrebbe offerto una ricompensa così ricca e insperata. Ma Netanyahu non è solo un rischiatutto: è il tipo di uomo che non solo punta tutto al tavolo da gioco, ma riesce anche a convincere gli altri che il mazzo è segnato a suo favore (il banco, in ogni caso, tende a dargli le carte che desidera).

Sebbene non vi siano prove definitive di un’alleanza formale tra Turchia e Israele, la complementarità dei loro obiettivi strategici appare evidente. La frammentazione della Siria, l’isolamento dell’Iran e la marginalizzazione dell’asse sciita servono sia gli interessi di Ankara che quelli di Tel Aviv. La Turchia ottiene un’enclave operativa nel nord della Siria, utile per contenere i curdi e proiettare potere nella regione. Israele, dal canto suo, elimina un nemico storico e si garantisce una sicurezza strategica senza precedenti lungo il confine settentrionale.

Questa complementarità potrebbe non essere frutto di un coordinamento esplicito, ma il risultato è tanto efficace quanto lo sarebbe una vera alleanza. Ankara e Tel Aviv stanno riscrivendo le regole del gioco in Medio Oriente, ciascuna perseguendo i propri interessi ma sfruttando le stesse dinamiche regionali.

Tralascio colpevolmente le scuse Israeliane, attendo la prossima: Abbiamo portato il sale pensando fosse Cartagine. Preventivamente nelle migliori delle tradizioni, in fede Mosè D…. Sorry Bibi.

Rapporti di buon vicinato

Alla luce della situazione, diviene sempre più evidente la presenza di un complesso intreccio di interessi regionali e internazionali. La convergenza di interessi occulti salafiti, qatarioti, turcomanni, oltre agli immancabili servizi anglo-occidentali, combinati al supporto logistico turco, sembra orchestrare un’azione coordinata atta a contenere i successi del Cremlino sul fronte ucraino e a ridisegnare gli equilibri del Levante, in particolare mirando alla marginalizzazione dell’asse sciita e alla frammentazione del fronte della resistenza.

L’imminente transizione politica negli Stati Uniti, con l’arrivo della futura amministrazione Trump, potrebbe accelerare ulteriormente le iniziative militari e diplomatiche di attori regionali, intenzionati a consolidare posizioni prima che nuove politiche estere possano ridefinire le priorità globali in un contesto saldato alle più che pronosticate contromisure del tutt’altro che sconfitto stato profondo.

La Giordania, pur essendo uno dei principali punti di transito per gli armamenti verso la Siria, si è sempre dichiarata estranea alla proliferazione non controllata. Tuttavia, il ruolo di questo crocevia logistico resta controverso, e l’ampia disponibilità di armi avanzate nelle mani di HTS pone interrogativi inquietanti. Quali meccanismi hanno consentito che tali forniture raggiungessero un gruppo jihadista? E quanto della frammentazione siriana può essere attribuito a errori — o strategie discutibili — nei programmi di armamento internazionale?

il Qatar, l’Italia e il denaro che parla la lingua dei Fratelli Musulmani

Che il Qatar sia da anni il “salvadanaio globale” dei Fratelli Musulmani non è un mistero per chi osserva la politica mediorientale con occhio lucido. Doha, attraverso Qatar Charity e altre strutture finanziarie, si è distinta come epicentro di un’attività capillare: finanziamenti a moschee, centri islamici e progetti educativi con chiara matrice politico-religiosa, specialmente in Europa. Larry Johnson descriverebbe il metodo con la freddezza tipica della CIA: “Non serve mandare armi quando puoi inviare milioni. La religione è un fiume, il denaro è la sua sorgente”. Ed è esattamente ciò che è avvenuto, soprattutto in Italia, uno dei principali terreni di coltura dell’influenza qatariota.

Il libro Qatar Papers di Georges Malbrunot e Christian Chesnot ha squarciato il velo. I finanziamenti milionari qatarioti sono arrivati direttamente nelle mani delle comunità islamiche più vicine all’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), a sua volta collegata all’influenza dei Fratelli Musulmani. Non parliamo di “charity”, ma di una strategia ben congegnata. Dai centri islamici in Lombardia fino a moschee in Toscana e Sicilia, Doha ha riversato fondi per consolidare quella che si potrebbe definire “una testa di ponte culturale mascherata da tolleranza religiosa”. È soft power, con implicazioni profonde e di lungo termine: non solo religione, ma un’architettura politica che plasma il pensiero.

L’Italia, spesso inconsapevole o troppo compiacente, è stata il terreno perfetto. La Qatar Investment Authority (QIA), con i suoi 335 miliardi di dollari, non si limita a finanziare infrastrutture: possiede quote in banche, alberghi di lusso e settori strategici italiani. I soldi del Qatar, ammantati di legalità, comprano accesso e influenza.

Primavere Arabe e la caduta dei Fratelli Musulmani: un passo indietro per prepararne due avanti

Dopo le Primavere Arabe, i Fratelli Musulmani erano destinati al trionfo. La vittoria di Mohamed Morsi in Egitto sembrava l’incipit di una nuova era islamista. Poi arrivò il 2013. Il golpe militare di Abdel Fattah al-Sisi, sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, ha decapitato il movimento in modo sistematico. Arresti, esecuzioni, un’intera generazione di quadri politici distrutta. I Fratelli sono passati da vincitori ad appestati Quando la politica fallisce i carri armati risolvono il problema. E Al-Sisi risolse, ma il prezzo fu alto: un regime che oggi appare come una fortezza di sabbia, sostenuta da corruzione e spese militari folli.

Eppure, i Fratelli non sono mai scomparsi. Come un fiume carsico, si sono nascosti, sostenuti in esilio da Doha e dalla Turchia di Erdoğan, dove hanno trovato protezione e risorse. Il Qatar è il cuore finanziario, la Turchia il braccio politico e militare. Questo rinascimento islamista preoccupa Al-Sisi, che non ha dimenticato l’ombra lunga della Fratellanza. Gli scontri verbali degli ultimi giorni tra il Cairo e Ankara riflettono questa tensione: Erdoğan gioca su più tavoli, alimenta le frange islamiste per tenere Al-Sisi sotto pressione, mentre rafforza il proprio ruolo di mediatore nella crisi siriana e palestinese.

 

 

Al-Sisi sotto assedio: l’Egitto tra crisi economica e ricatti geopolitici

 

La disputa con l’Etiopia per la Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) è solo la punta dell’iceberg. Per proteggere il controllo sul Nilo, Al-Sisi ha inviato uomini, armi e denaro ai governi alleati in Somalia e Eritrea, nel tentativo di isolare Addis Abeba.

Ma mentre l’Egitto combatte questa battaglia a sud, un’altra tempesta si avvicina da nord. Israele, con il suo approccio “preventivo” come lo definisce Scott Ritter “capolavoro artistico sionista di sopravvivenza politica e territoriale”, guarda all’Egitto come all’anello debole. Gli 8 miliardi di dollari offerti da Israele ad Al-Sisi per ospitare i palestinesi nel Sinai non sono stati accettati. E qui il problema: Israele non chiede, impone. Al-Sisi ha risposto schierando l’esercito al valico di Rafah. È una mossa disperata per difendere non solo i confini, ma la propria legittimità.

 

Quando il nemico ti chiede di accogliere milioni di rifugiati, non sta offrendo aiuto. Sta preparando la tua fine.

 

Israele e Turchia, con obiettivi diversi ma complementari, stanno preparando un doppio cappio: destabilizzare Al-Sisi con la minaccia interna dei Fratelli Musulmani e con quella esterna della pressione umanitaria palestinese.

La nostra prossima inchiesta in arrivo si occuperà di queste dissonanze e svelerà il ruolo unilateralmente velenoso del rapporto di pessimo vicinato tra i player del Medio Oriente, oltretutto svelando come la reputazione del sovrano più genuflesso e “Badogliano” dell’area abbia, anche questa volta, giocato un ruolo determinante, confermando che l’occasione rende auto assolto anche il traditore fedelmente seriale. Ironicamente, pertanto sia opera ardua, questo presupposto potrebbe assegnare per disperazione le attenuanti generiche alla catastrofica alleanza dei Curdi stretta con “l’altare di Baal” chiamato Stati Uniti.

In definitiva, l’ascesa dell’auto-proclamato “Idlibistan” non può essere considerata un evento isolato o fortuito. Al contrario, essa appare come il risultato di un ben orchestrato sistema di convergenze tattiche, progettato per destabilizzare l’asse sciita e rafforzare l’influenza di potenze come Turchia e Qatar, con il tacito sostegno di servizi euro-atlantici. Le prossime settimane saranno probabilmente decisive per capire se questa convergenza evolverà in un’escalation ancora più ampia, aggravando le già precarie condizioni di un Medio Oriente in perenne crisi.

Prossimamente assisteremo alla nascita embrionale del piano Neo-Ottomano tanto atteso dal grande manovratore di Ankara; il momento tanto atteso dai Fratelli Mussulmani per lavare l’onta successiva alla primavera araba. Questa realtà sottolinea come HTS non sia solo un fenomeno locale, ma il risultato di un intreccio globale di dinamiche geopolitiche, errori di calcolo e convergenze di interessi. Un “califfato” armato, ben organizzato e determinato, che ora si configura come un nuovo polo di potere nella regione, con risvolti difficili da prevedere, ma certamente destabilizzanti.

Chi osserva con attenzione sa che quello che si vede è solo una frazione di quello che accade, e se non si collegano i fili tra eventi apparentemente scollegati si rischia di perdere il senso del quadro più grande. Israele ed Egitto, dopo un periodo lungo di distensione quasi cortese , oggi sono due attori in collisione su più fronti, e questa frizione si manifesta su scenari molto distanti, ma profondamente connessi: Gaza, il Sinai e il Corno d’Africa. La radice è chiara: il rifiuto di Al-Sisi di accogliere i palestinesi in fuga da Gaza, a fronte delle proposte israeliane di 8 miliardi di dollari. Questo “no” di Al-Sisi è stato interpretato da Tel Aviv non solo come una sfida politica, ma come un ostacolo alla sua strategia di lungo termine. Israele non dimentica e non perdona, e quando i propri interessi sono bloccati, reagisce in anticipo. Le ultime mosse israeliane nel Corno d’Africa sono la manifestazione concreta di questa risposta della quale ci occuperemo nella prossima inchiesta contemporanea sulle filiere logistiche degli armamenti made in Giordania.

La Grande Diga del Rinascimento Etiope (GERD), imponente progetto idroelettrico sul Nilo Azzurro, rappresenta non solo un’ambizione nazionale etiope, ma anche un nodo cruciale nelle dinamiche geopolitiche regionali. L’Egitto, fortemente dipendente dal Nilo per le sue risorse idriche, percepisce la GERD come una minaccia esistenziale, temendo che il suo riempimento e funzionamento possano compromettere l’approvvigionamento idrico e, di conseguenza, la stabilità economica e sociale del paese. Nonostante anni di negoziati, non è stato raggiunto un accordo vincolante tra Egitto, Sudan ed Etiopia sulla gestione della diga, e il completamento del quarto riempimento da parte dell’Etiopia nel settembre 2023 ha ulteriormente inasprito le tensioni, con il Cairo che ha definito l’azione “illegale” e unilaterale.

In questo contesto, l’interesse di attori regionali come Israele e la Turchia aggiunge ulteriori strati di complessità. Israele ha mostrato un crescente interesse nel rafforzare i legami con l’Etiopia, offrendo assistenza tecnologica e supporto diplomatico. Questo coinvolgimento può essere interpretato come una strategia per aumentare la propria influenza nella regione e per bilanciare le relazioni con l’Egitto. D’altro canto, la Turchia, sotto la leadership di Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di espandere la sua presenza in Africa orientale attraverso accordi economici e cooperazione militare, mirando a consolidare la sua posizione come potenza regionale.

È interessante notare che sia l’Egitto che l’Etiopia hanno recentemente aderito ai BRICS, un gruppo di economie emergenti che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. L’adesione ai BRICS potrebbe offrire a entrambi i paesi una piattaforma per negoziare e risolvere le loro divergenze in un contesto multilaterale, sfruttando le opportunità economiche e diplomatiche offerte dal gruppo. Tuttavia, la Turchia, pur avendo espresso interesse ad aderire ai BRICS, non è ancora membro a pieno titolo, il che potrebbe limitare la sua influenza nelle dinamiche interne al gruppo.

Alla luce di queste dinamiche, emerge una domanda cruciale: le manovre di Israele e Turchia nel contesto della GERD sono semplici mosse tattiche per aumentare la loro influenza regionale, o fanno parte di una strategia più ampia per mettere sotto pressione l’Egitto, già indebolito economicamente, e ridurre il suo ruolo nel conflitto siriano?

HTS e il “Califfato Siriano”

Con la rapida avanzata di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e il crollo del regime di Assad, il panorama del nord-ovest siriano si è trasformato in un mosaico frammentato, dominato da questa potente formazione jihadista. HTS, sotto la guida di Abu Mohammad al-Julani, ha consolidato il controllo su Damasco e gran parte della Siria settentrionale, aprendo la strada a un progetto di “califfato siriano” che si presenta come una minaccia diretta alla stabilità regionale.

Le risorse militari di HTS appaiono impressionanti e non sono il risultato solo di saccheggi o appropriamenti locali. Diverse fonti indicano come parte dell’arsenale sia riconducibile ad armamenti provenienti da reti clandestine di traffico, con armi leggere e munizioni che avrebbero origini giordane. Secondo alcune ricostruzioni, le armi destinate originariamente ad attori legittimi durante le fasi iniziali del conflitto — comprese quelle fornite tramite programmi occidentali di supporto ai ribelli moderati — sarebbero finite nelle mani di HTS, alimentando la loro capacità bellica.

Premetto che indugerò sulla figura del Fidel dei Sunniti e sul ruolo giordano in vista di un’inchiesta che seguirà a breve. Alcuni analisti, e parzialmente concordo con loro, reputano inconsistente la “massa” cinetica militare degli islamisti per uno strike completo delle forze di Assad. Io penso sia parzialmente vero. Né senza l’ammorbidimento sotterraneo delle forze di intelligence avverse, né senza i “partners” finanziatori dell’operazione si sarebbe potuto fare jackpot.

Con onestà intellettuale ammetto che probabilmente è buona responsabilità — di cui un buon 50% riconducibile all’embargo e al furto di risorse Usa e turco — dell’ormai disciolta Repubblica Siriana, da troppi anni pallido simulacro del sogno baathista della dinastia fondata da Assad padre, umiliato anche dopo la morte dal carosello macabro degli jihadisti sul suo sepolcro, dato alle fiamme dopo aver “canniBaalizato” i marmi preziosi.

Un rito pagano che i più occulti esoteristi, seguaci di Aleister Crowley, avranno celebrato in qualche dimora vittoriana dello Lincolnshire o dondolando nel patio “bianchissimo” di fronte alle colonne in stile coloniale di qualche esclusiva villa d’oltreoceano (con buona pace dei complottisti, senza se e senza ma, di YouTube).

Approfondisco per apportare fonti alle mie affermazioni e rendere l’idea della difficoltà oggettiva di far fronte a limitazioni realisticamente draconiane.

 

Sanzioni Occidentali (Make Siria poor, again and again)

 

Le misure adottate dai Paesi occidentali nei confronti del governo siriano si configurano come una strategia di pressione multilivello, con effetti profondi e spesso devastanti sull’economia nazionale e sulla capacità del regime di mantenere il controllo politico e militare. Tali provvedimenti, combinati a una situazione geopolitica già compromessa, hanno contribuito a delineare uno scenario di fragilità sistemica.

In primo luogo, spicca l’isolamento quasi totale della Banca Centrale Siriana dal circuito finanziario internazionale, una misura che ha bloccato le capacità di finanziamento del governo, riducendo drasticamente la possibilità di avviare progetti di ricostruzione o di ammodernare le forze armate. Questa limitazione si accompagna al congelamento dei beni e dei conti correnti riconducibili a l’élite politica e militare del regime, indebolendo ulteriormente le reti clientelari che storicamente costituiscono una delle colonne portanti del potere in Siria.

Un ulteriore colpo è stato inferto dalla proibizione di importare petrolio e relativi derivati, una misura che ha impedito a Damasco di convertire i proventi degli idrocarburi in valuta pregiata. La Siria, tradizionalmente dipendente dalle esportazioni petrolifere, si è trovata costretta a dipendere in misura crescente dagli aiuti esterni, con una progressiva riduzione delle sue capacità di autofinanziamento.

A rendere ancora più complicata la gestione del conflitto interno e della crisi economica vi sono le restrizioni imposte sull’export di tecnologie “dual use”. Questi vincoli limitano l’accesso a componenti essenziali per la manutenzione e l’ammodernamento delle Forze Armate, dei sistemi d’arma e degli apparati di sorveglianza elettronica. Il risultato è un esercito sempre meno efficace, con infrastrutture logistiche che si avvicinano progressivamente al collasso.

Il quadro è ulteriormente aggravato dalle sanzioni secondarie, che penalizzano chiunque intrattenga rapporti con soggetti siriani già colpiti dalle misure internazionali. Questo meccanismo alimenta un effetto domino di deterrenza che scoraggia potenziali partner commerciali e diplomatici, isolando ulteriormente il Paese.

Secondo diversi report (U.S. Department of the Treasury – Syrian Sanctions Program; Council of the European Union – Syria: EU Sanctions; HRW – Syria: Impact of Sanctions), tali disposizioni hanno eroso progressivamente le risorse del governo siriano, compromettendo il mantenimento delle strutture militari e amministrative.

A fronte di ciò, la capacità di contrastare le milizie jihadiste e di gestire le dinamiche interne è stata drasticamente ridotta. In questo contesto, è emerso un assetto bellico frammentato, in cui attori esterni e forze jihadiste hanno trovato terreno fertile per espandere la loro influenza, colmando il vuoto lasciato dal regime.

Le sanzioni, concepite per indebolire un regime già isolato, hanno così finito per accentuare una spirale di instabilità. Se da un lato hanno limitato la capacità di manovra del governo di Assad, dall’altro hanno contribuito a lasciare campo aperto alle potenze regionali e alle milizie jihadiste, aggravando una situazione che si presenta oggi come uno dei nodi geopolitici più complessi del Medio Oriente.

 

Fonti documentali delle sanzioni alla Repubblica Araba Siriana

  • U.S. Department of the Treasury – Syrian Sanctions Program

Documenta le disposizioni in vigore, comprese le sanzioni secondarie e il “Caesar Act”.

  • Council of the European Union – Syria: EU sanctions

Elenca i diversi atti normativi dell’UE contro funzionari e comparti industriali siriani.

  • HRW (Human Rights Watch) – Syria: Impact of Sanction

Analisi dell’effetto delle misure sul tessuto sociale ed economico siriano, incluse le criticità per l’accesso a beni di prima necessità.

La Russia e il Ritiro: Tra Pragmatismo e Nuove Opportunità

Il rapido crollo del governo di Bashar al-Assad ha imposto alla Russia una ricalibrazione delle sue strategie in Siria. Di fronte a un panorama geopolitico mutato, Mosca ha avviato un ritiro ordinato dalle basi avanzate, ridistribuendo le sue forze verso il mare e le due basi principali. Questo ridimensionamento sembra rispondere non solo a necessità operative, ma anche al chiaro intento di evitare un coinvolgimento prolungato e infruttuoso in un conflitto che sta sfuggendo a qualsiasi controllo centralizzato.

Le immagini satellitari hanno documentato smontaggi logistici di infrastrutture militari, incluso il trasferimento di elicotteri dalle basi avanzate a Hmeimim. Contemporaneamente, i voli degli Ilyushin Il-76, aerei cargo pesanti, continuano a imbarcare mezzi blindati, artiglieria e altri equipaggiamenti pesanti, segnalando un’azione pianificata e sistematica di ripiegamento. Questo movimento non rappresenta un abbandono totale della Siria, ma piuttosto una razionalizzazione delle risorse, con l’obiettivo di concentrare la presenza russa nei punti nevralgici e ridurre al minimo l’esposizione a rischi non necessari.

Parallelamente, alcune fonti anonime suggeriscono che Mosca stia mantenendo canali di comunicazione discreti con Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) per garantire che non si verifichino incidenti fortuiti che potrebbero innalzare la tensione. Sebbene tali contatti non siano confermati ufficialmente, appaiono coerenti con l’approccio pragmatico del Cremlino, che preferisce prevenire eventuali provocazioni piuttosto che dover rispondere con azioni militari in un momento in cui le priorità russe sembrano essere altrove.

Un Capitolo Libico per Mosca?

La domanda che emerge è inevitabile: la Russia sta preparando un nuovo capitolo operativo in Libia? Con il generale Khalifa Haftar che continua a offrire ospitalità strategica alle forze russe, la Libia rappresenta un’opportunità unica per Mosca. In un contesto relativamente meno caotico rispetto alla Siria e con evidenti prospettive economiche legate ai giacimenti energetici, il teatro libico potrebbe essere la nuova priorità per il Cremlino. Un disimpegno graduale dalla Siria potrebbe essere interpretato non come una sconfitta, ma come un riallineamento strategico, che riflette la volontà di concentrare le risorse russe su contesti dove esiste un ritorno geopolitico più immediato e gestibile.

La ritirata verso Tartus e Hmeimim non è solo una necessità logistica, ma una scelta strategica. Con Assad fuori dai giochi e la frammentazione del territorio siriano ormai conclamata, la permanenza prolungata in Siria rischierebbe di trasformarsi in una trappola logorante. Ogni giorno in più aumenta la probabilità di episodi fortuiti o provocazioni intenzionali, che potrebbero costringere Mosca a risposte che non è in grado di sostenere senza conseguenze politiche o militari.

Il ritiro russo, dunque, non è un segnale di debolezza, ma di pragmatismo. Analizzeremo nei prossimi approfondimenti i retroscena e quella inesauribile predisposizione all’adattamento liquido della cultura diplomatica e militare di Mosca e della sua ineluttabile tradizione nell’implementazione dei piani B. Se la Libia diventerà davvero il prossimo teatro operativo per la Russia, il Cremlino dovrà dimostrare di aver imparato dalla complessa esperienza siriana, trasformando il disimpegno in un’opportunità per rafforzare la propria influenza in una regione altrettanto strategica.

In Libia, la Russia ha saputo costruire una presenza strategica significativa, rafforzando i legami con il Generale Khalifa Haftar, figura centrale dell’Esercito Nazionale Libico (LNA). Le sue forze, ufficiali o meno, sono state coinvolte nel consolidamento del controllo su aree chiave come Bengasi e la Mezzaluna Petrolifera, regioni cruciali per le ricchezze energetiche del paese. Attraverso basi operative come Al-Jufra, Mosca ha garantito un punto di appoggio nel cuore del conflitto libico, utilizzando la Libia non solo come piattaforma per proiettare influenza nel Mediterraneo, ma anche come nodo di accesso a risorse e rotte strategiche.

In verità qualcosa mi suggerisce che le due basi principali della Siria siano ancora sul tavolo e la grande saggezza pragmatica combinata a una buona dose di opportunismo , cammuffato da scaltrezza di Mosca potrebbe ancora salvare il salvabile , distribuendo l’equipaggiamento e gli uomini dragati dalle basi minori abbandonate nella zona Orientale del paese verso le coste Libiche.Vedremo se sarete voi a pagarmi la birra o , sarò io a finire rovinato per aver perso la scommessa.

 

Uno scenario possibile ?

L’ipotesi di un coordinamento segreto per lanciare l’offensiva jihadista da Idlib dopo l’intesa di cessate il fuoco fra Israele e Hezbollah è forse la parte più inquietante di questa vicenda, suggerendo che l’orologio della guerra in Siria non abbia mai veramente smesso di ticchettare e che a detta di molti era già stata progettata da tempo. Indizio è il tempismo maniacale considerando la crisi dell’“ancien régime” sul fronte del Donbass dove tutte linee rosse immancabilmente superate suggeriscono che anche questo tavolo secondario in verità non sia altro che una conseguenza di quello principale, nel quale sono in gioco anche le nostre insignificanti vite di questa partita con il nostro daemon più oscuro.

In questa partita di texano chiamata “Il pranzo di Babele”, dove tra gambler immortali, cabalisti e bluffatori emuli di Ataturk, credo che alla fine, come la mia esperienza di giocatore di poker, solito nel contare le carte mi insegna, vince chi non gioca.

Sono sicuro che avrete capito chi stia aspettando la mano giusta. Ma da qualche tempo, timidamente, il banco ha smesso di vincere, quasi sempre.

Anarmygeddon 23

 

Fonti, riferimenti, storici e media agency

  • Al-Masdar News – aggiornamenti quotidiani sulla situazione siriana.
  • Syria Live Map – piattaforma di mappatura in tempo reale dei conflitti.
  • Andrei Kolesnikov, “Io, comandante Wagner” – testimonianza parziale su Wagner in Siria.
  • Elijah J. Magnier – analisi e reportage su Hezbollah e conflitti nel Levante.
  • Moon of Alabama (MoA) – osservazioni e discussioni sulle dinamiche internazionali in Siria.
  • BBC Monitoring / Reuters – notizie sulle visite di Hakan Fidan, Ronen Bar e Mark Rutte ad Ankara.

 

Link citati:

  1. Aljazeera: Filling of Grand Ethiopian Renaissance Dam

https://www.aljazeera.com/news/2023/9/10/filling-of-grand-renaissance-dam-on-the-nile-complete-ethiopia-says

  1. ISPI Online: Egitto sotto pressione da Gaza al Corno d’Africa

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/egitto-sotto-pressione-da-gaza-al-corno-dafrica-184375

  1. Geopolitica.info: Relazione Turchia-Israele Erdogan

https://www.geopolitica.info/relazione-turchia-israele-erdogan/

  1. Focus on Africa: Turchia in Etiopia come accesso all’Africa

https://www.focusonafrica.info/etiopia-lavanzata-della-turchia-come-accesso-per-lafrica/

  1. Notizie Geopolitiche: Etiopia, tensioni con l’Egitto per la diga GERD

https://www.notiziegeopolitiche.net/etiopia-crescono-le-tensioni-con-legitto-per-la-diga-gerd/

  1. Il Sole 24 Ore: Turchia verso i BRICS

https://www.ilsole24ore.com/art/turchia-siamo-stati-invitati-essere-partner-brics-AGzG206

  1. CESI Italia: La Turchia e i BRICS

https://www.cesi-italia.org/it/articoli/la-turchia-verso-i-brics-prospettive-e-opportunita-economiche

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La Turchia e il peggior scenario possibile, di Michelangelo Severgnini L’accordo Erdogan – Netanyahu, di Gabriele Germani

La Turchia e il peggior scenario possibile

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La Turchia e il peggior scenario possibile

 

di Michelangelo Severgnini

Dal precipitare degli eventi in Siria a oggi ho meticolosamente scandagliato la stampa turca e curda, presente e passata, per ricostruire perlomeno un pezzo della verità, perlomeno fonti alla mano, ricostruendo come il crollo di Assad sia percepito da questo lato della faccenda.

Questione quanto più sotto i riflettori dal momento che moltissimi analisti hanno da subito messo la Turchia sul banco degli imputati, riconoscendola mandante di questo improvviso epilogo del governo siriano.

Tuttavia tutto ciò non trova riscontri oggettivi ed è piuttosto la facile suggestione per colmare quell’inevitabile vuoto di comprensione che si crea in ciascuno di noi. Insomma, se qualcosa non torna, è colpa dei Turchi.

Questo mio intervento è motivato dall’unico obiettivo di vederci meglio e di diradare qualche fumo. Ho vissuto anni in Turchia, paese al quale sono legato, e leggo il turco. Faccio questa premessa per scoraggiare chi voglia leggere queste righe come quelle di un difensore della politica turca, che in passato (vedi con l’Urlo a Tripoli) non ho avuto problemi a denunciare.

Piuttosto credo che un processo sommario alla posizione turca, per altro non suffragato quanto piuttosto frutto di suggestione, in questo momento favorisca quegli obiettivi secondari del conflitto in corso, ma non meno importanti, quali la rottura diplomatica tra i soggetti firmatari gli accordi di Astana (Turchia, Russia e Iran) e l’allontanamento della Turchia dai Brics.

E non voglio favorire senza motivo il raggiungimento di questo obiettivo.

 

QUEL FILO DIRETTO TRA GLI ATTENTATI DI ANKARA E LA CADUTA DI ASSAD

 

Lo scorso 23 ottobre, come sappiamo, una cellula del PKK ha compiuto un attentato ad Ankara contro la sede delle Industrie Aerospaziali Turche, facendo 5 vittime.

Non tutti sanno che quella stessa mattina sui quotidiani turchi, a 9 anni di distanza dalla volta precedente, comparivano le parole di Abdullah Öcalan, leader del PKK curdo e condannato all’ergastolo e dal 1999 imprigionato in un carcere di massima sicurezza.

Strana coincidenza che coincidenza non è. In quegli stessi giorni il presidente Erdogan si trovava a Kazan al vertice dei Brics, segnando il punto di massima distanza della Turchia dall’Occidente.

Il motivo per cui il governo turco aveva deciso finalmente di ridare la parola a Öcalan, incontrato  in carcere da una delegazione che ha raccolto le sue parole, era quanto il leader curdo aveva da dire e che poi ha detto: “Se ci sono le giuste condizioni, ho il potere teorico e pratico per spostare questo processo dal terreno del conflitto e della violenza al terreno legale e politico”.

Questo stesso concetto era stato espresso da Öcalan già nel 2015 e gli è costato allora 9 anni di isolamento e di silenzio, perché al tempo Erdogan aveva bisogno di montare una guerra nell’area curda che gli consentisse di rimanere in sella e aveva bisogno del PKK per farla.

Ma quei tempi sono passati. Non sono più i tempi in cui Erdogan minacciava i rivali naturali della Turchia in Siria “che se la sarebbero dovuta vedere con la Nato”. Nel frattempo c’è stato il tentato golpe del 2016, partito dalla base americana di Incirlik. Da quel tentato golpe in poi la Nato per la Turchia, da essere un dispositivo di deterrenza contro i propri nemici naturali, è diventata una  diretta minaccia per il partito AKP e per la tenuta democratica del paese.

Tutto ha il suo tempo. Ma il lento scivolamento della Turchia è stato quello.

Dagli accordi di Astana in poi la Turchia ha un solo problema in Siria: il PKK mascherato da SDF. E aveva un altro problema: fare in fretta.

Ecco perché mentre Erdogan era a Kazan, il governo turco ha tirato Öcalan fuori dal cassetto ed ecco perché il PKK ha subito battuto un colpo.

Quella è stata la prima scossa di terremoto. Quella che ha annunciato la grande botta.

 

“NON C’E’ UN MINUTO DA PERDERE”

 

Lo scorso 11 giugno Erdogan afferma: ”Siamo pronti per la normalizzazione”. Il 7 luglio cerca di essere più esplicito: “Siamo arrivati a un punto tale che non appena Bashar Assad farà un passo verso il miglioramento delle relazioni con la Turchia, noi mostreremo lo stesso approccio nei suoi confronti. Perché ieri non eravamo nemici della Siria, non eravamo nemici di Assad. Ci siamo incontrati come una famiglia. Speriamo che con questo invito vogliamo riportare le relazioni Turchia-Siria allo stesso punto del passato”.

Il 25 luglio Bashar Assad afferma in Parlamento che, nonostante i tentativi dei mediatori, non vi sono stati progressi significativi nelle relazioni con Ankara: ”Nonostante la serietà e la sincerità dei mediatori, gli sforzi non hanno portato finora alcun risultato degno di nota”.

I mediatori non fanno pregressi perché la Siria chiede come condizione alla Turchia di ritirare le proprie truppe e il proprio sostegno all’SNA filo-turco che occupa il nord della Siria. La Turchia dichiara di essere disposta a parlarne, ma al tavolo. Perché a quel tavolo dovrà chiedere in contropartita la fine dell’esperienza delle SDF nell’area curda, lo smantellamento delle brigate curde e l’espulsione dalla Siria del PKK. Da qui le due posizioni non si muoveranno. Perché?

Il 22 settembre Erdogan invia un messaggio alle Nazioni Unite prima del suo viaggio negli Stati Uniti: “Diremo chiaramente che la tensione in Siria deve finire e che l’instabilità è causata dal terrorismo di Stato, in particolare dalle organizzazioni terroristiche, e ovviamente da Israele. Questo non è più un semplice terrorismo ordinario, è terrorismo di stato. Lo abbiamo ripetuto e detto tante volte, ma alcuni, soprattutto i Paesi occidentali, continuano a non capirlo. (…) La Turchia e la Siria possono intraprendere insieme i passi per porre fine a questa tensione e garantire la pace e la stabilità nell’intero territorio siriano. Vediamo che l’amministrazione di Damasco e l’opposizione hanno assicurato che non ci fosse conflitto in Siria per un po’. Questa situazione fornisce un ambiente favorevole per aprire una porta efficace verso una soluzione permanente. Milioni di persone fuori dalla Siria aspettano di tornare in patria. Abbiamo lanciato il nostro appello su questo tema. Abbiamo anche dimostrato la nostra volontà di incontrare Bashar Assad per normalizzare le relazioni tra Turchia e Siria. Ora aspettiamo una risposta dall’altra parte. Siamo pronti per questo”.

In Turchia i titoli sono: “Siria, non c’è un minuto da perdere!”.

Il 23 ottobre ci sono gli attentati di Ankara, mentre l’appello di Öcalan per il disarmo del PKK compare al mattino sui quotidiani turchi.

L’11 novembre a Riyadh, durante un incontro della Lega Araba, Erdo?an e Assad appaiono all’interno della stessa foto di rito per la prima volta dal 2011. Ma l’incontro ufficiale non avviene. In seguito Erdogan dichiara: “Sono ancora fiducioso riguardo ad Assad. Ho ancora la speranza che possiamo unirci e, si spera, rimettere in carreggiata le relazioni tra Siria e Turchia”.

Il 30 novembre i gruppi armati guidati da Hayat Tahrir al Sham lanciano l’offensiva su Aleppo.

Il 6 dicembre, intervenendo dopo la preghiera del venerdì, Erdogan afferma: “Mentre continuava la resistenza con le organizzazioni terroristiche, abbiamo lanciato un appello ad Assad. Abbiamo detto, determiniamo insieme il futuro della Siria. Tuttavia, non abbiamo ricevuto una risposta positiva. Per ora, dopo Idlib, anche Hama e Homs sono nelle mani dell’opposizione. l’obiettivo è naturalmente Damasco. La marcia dell’opposizione continua”.

Queste frasi inequivocabili vengono manipolate in occidente e presentate come se Erdogan rivendicasse la marcia di avanzamento di HTS (qui definita “opposizione” per concetto esteso), dando a intendere che l’obiettivo della Turchia fosse arrivare a Damasco. I più inoltre omettono di riportare la parte finale di quel discorso: “Queste marce travagliate che continuano nell’intera regione non sono ciò che desideriamo, i nostri cuori non le vogliono”.

Un giorno più tardi, il 7 dicembre, alla vigilia della caduta di Assad, Erdogan afferma: “Non desideriamo nemmeno un sassolino di nessun Paese. Speriamo che la nostra vicina Siria raggiunga la pace e la tranquillità che desidera da 13 anni. (…)

Possono esserci confini tra di noi, ma il nostro destino e il nostro dolore sono comuni in questa geografia. Continueremo a essere per l’unità e la solidarietà per molti secoli.

C’è una nuova realtà politica e diplomatica in Siria. La Siria appartiene ai Siriani con tutti i suoi elementi etnici, settari e religiosi. Saranno i Siriani a decidere il futuro del loro Paese.

Siamo consapevoli che l’organizzazione terroristica separatista sta agendo con l’ansia di afferrare un tronco dalla piena. Non permetteremo alcuna mossa che metta a rischio la nostra sicurezza nazionale.

Gli eventi degli ultimi 13 anni dovrebbero dimostrare che non si ottiene nulla spargendo sangue, prendendo vite e sganciando bombe sui civili. Le terre siriane sono sature di guerra, sangue e lacrime. I nostri fratelli e sorelle siriani meritano libertà, sicurezza e una vita pacifica nella loro patria.

Il regime di Damasco non ha capito il valore della mano tesa dalla Turchia e non è riuscito a comprenderne il significato. La Turchia è dalla parte giusta della storia, come lo era ieri. Vogliamo vedere una Siria in cui nessuno sia escluso o perseguitato e in cui le diverse identità convivano in pace”.

 

“ABBIAMO VISTO CHE IL REGIME SIRIANO STAVA LENTAMENTE CROLLANDO E VOLEVAMO IMPEDIRLO”

 

Il 7 e 8 dicembre scorsi, a cavallo della caduta di Assad, i ministri degli esteri di Turchia, Russia e Iran si sono ritrovati a Doha per un incontro all’intero dell’Astana format, appunto quel processo che ha portato al congelamento per anni del conflitto in Siria.

Le dichiarazioni del ministro degli esteri turco ribadiscono il concetto già espresso da Erdogan: “Purtroppo, negli ultimi mesi, il nostro Presidente ha cercato di contattare Assad, ma non abbiamo ricevuto risposta a questa chiamata. Abbiamo visto che il regime stava lentamente crollando e volevamo impedirlo. In breve, non abbiamo avuto contatti con il regime.

Negli ultimi 13 anni, la Siria è stato in subbuglio. Tuttavia, dal 2016, attraverso il processo di Astana, abbiamo smorzato la situazione e sostanzialmente congelato la guerra.

Questo tempo prezioso avrebbe dovuto essere utilizzato dal regime per riconciliarsi con il proprio popolo, ma il regime non ha sfruttato questa opportunità.

Quando tutti i tentativi sono falliti, lo stesso presidente Erdogan ha teso la mano al regime per aprire una strada verso l’unità nazionale e la pace in Siria. Anche questo è stato negato. (…)

Le potenze regionali e globali devono agire con prudenza e calma e astenersi dall’infiammare le tensioni in Siria”.

Di quali fiamme ha timore la Turchia? “Ci sono tre partiti curdi legittimi che lavorano insieme nel nord della Siria e fanno parte dell’opposizione siriana più ampia da molto tempo. Tuttavia, qualsiasi estensione del PKK in Siria non può essere considerata una parte legittima da coinvolgere in qualsiasi trattativa in Siria. In breve, no, non c’è nessuna possibilità, a meno che non cambino loro stessi”. E l’SDF, le forze armate curde in Siria sono esattamente un estensione del PKK.

Non sfugga che sin dalle prime ore dell’attacco di HTS su Aleppo, l’SNA sostenuto dai Turchi ha da subito cominciato una propria guerra parallela. Non in direzione di Damasco, ma sulle roccaforti curde nel nord della Siria.

Questo in risposta a una pronta reazione dell’SFD, molto mobile sin dalle prime ore del 30 novembre, quando era riuscito in un primo momento a ricongiungere l’enclave di Tel Rifat con il resto delle zone controllate dai curdi.

Risultato: Tel Rifat, dopo 8 anni, è stata strappata ai Curdi e persino Manbij in questi giorni è caduta. Se i Curdi hanno dimostrato di essere pronti a cogliere l’occasione per espandere il proprio controllo sul nord della Siria, la Turchia non si è fatta trovare impreparata.

 

LAVROV E IL PARADOSSO DI DOHA

 

Ma non era sola la Turchia ad accorgersi dei fragorosi scricchiolii che il regime siriano produceva ormai da tempo. Sia fonti russe che fonti iraniane hanno ribadito lo stesso concetto.

Tuttavia, di fronte alle grossolane accuse alla Turchia, il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov nei giorni di Doha è stato esplicito. A precisa domanda del giornalista di Al Jazeera se pensasse che la Turchia stesse cavalcando la situazione (eufemismo per non dire che l’avesse provocata) Lavrov risponde: “Sono attori molto influenti in Siria, penso che voi lo sappiate. Sono preoccupati per la sicurezza dei loro confini con la Siria. Ne abbiamo discusso all’interno dell’Astana Format e all’interno dell’Astana Format + Syria, in vista della normalizzazione dei rapporti tra la Turchia e Damasco. Ci sono diverse idee che vorremmo mettere in pratica per mantenere il territorio siriano integro ed unito, garantendo la sicurezza di un confine che è poroso, che è stato poroso, per i terroristi che hanno colpito nel territorio turco (cfr l’ultimo attentato ad Ankara). Gli accordi di Adana (del 1998) sono un esempio di come si potrebbe affrontare la questione. Non ho il più piccolo dubbio che le relazioni tra la Siria e la Turchia vadano normalizzate e noi faremo di tutto per essere d’aiuto>>.

Ma il ministro degli Esteri russo era stato ancora più esplicito solo qualche ora prima di fronte al giornalista americano Tucker Carlson che gli aveva chiesto: “Ma i gruppi di terroristi che hai descritto, chi li sostiene?”. Risposta di Lavrov: “Abbiamo alcune informazioni e vorremmo discutere con tutti i nostri partner in questo processo il modo per tagliare ogni canale di finanziamento ed equipaggiamento militare (a questi gruppi). Le informazioni di dominio pubblico che stanno girando, fanno riferimento agli Americani, ai Britannici e qualcuno dice che Israele è interessato ad aggravare la situazione in modo che Gaza non sia più sotto l’occhio di osservazione. È una faccenda complicata, molti attori sono coinvolti e spero che l’incontro programmato per questa settimana (con gli omologhi turco e iraniano) aiuti a stabilizzare la situazione”.

Purtroppo l’incontro a Doha non è servito a stabilizzare l’occasione. Ma i colpevoli, o i mandanti, sono individuati e messi sul tavolo. Tra questi, non a caso, la Turchia non compare. Ma, per paradosso, gli analisti internazionali continuano a ritenerla responsabile. Il Financial Times addirittura proclama Erdogan il vincitore di questa operazione. Ma al dio degli Inglesi non credere mai.

 

O QUANTE BELLE FIGLIE MADAMA DORE’

 

In questi giorni uno dei fenomeni più interessanti ed influenti del conflitto è stata la comunicazione, terreno di scontro non meno che il campo di battaglia. Si è assistito tra gli altri al comparire di post, rilanciati in forma di screeshot, che sarebbero scritti da figlie illustri quanto incolpevoli: Esra la figlia di Erdogan, Sara la figlia di Hanieyh e altre figlie di altri leader musulmani vivi o scomparsi sono intervenute per felicitarsi con la Siria per la caduta di Assad. Ovviamente la figlia di Erdogan non poteva esimersi dal proclamare suo padre il vincitore della vicenda. Tutte queste belle figlie di leader musulmani, tutte arruolate nelle celebrazioni per la caduta di Assad, hanno però una cosa in comune: sono tutti troll israeliani.

Le dichiarazioni volano, fanno il giro di canali e pagine di giornalisti e analisti. E contribuiscono ad inquinare la ricerca della verità.

La macchina della disinformazione israeliana si muove tuttavia all’interno di un quadro d’azione più ampio che evidentemente coinvolge gli Stati Uniti. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller ha affermato il 10 dicembre che l’ingresso dell’esercito israeliano nel territorio siriano oltre le alture di Golan è una “situazione temporanea” a causa della lacuna di sicurezza. La caduta di Assad “ha creato un vuoto che potrebbe essere riempito da organizzazioni terroristiche, minacciando potenzialmente Israele e i suoi cittadini”.

Tuttavia riguardo all’avanzata delle forze militari di opposizione filo-turche dell’SNA impegnate contro le SDF curde a Manbij, il portavoce Miller ha dichiarato: “Non vogliamo che nessuno approfitti di questo periodo di instabilità e cerchi di avanzare le proprie posizioni in Siria”. Insomma, Israele può muoversi e fare progressi sul territorio siriano, la Turchia no, si deve astenere. Persino il principio della “lacuna di sicurezza” vale per Israele, ma non per la Turchia.

 

IL PEGGIOR SCENARIO POSSIBILE

 

La politica coltivata in questi ultimi 4 anni dalla Turchia in Siria prevedeva la piena attuazione degli accordi di Astana, al tavolo dei quali stava seduta pure l’opposizione siriana. Sulla base di questa linea la Turchia ha chiesto invano per mesi ad Assad di avviare un processo di “normalizzazione” delle relazioni, che in poche parole prevedeva lo smantellamento delle forze armate curde delle SDF in concomitanza, ma non successivamente allo smantellamento dell’SNA filo-turco. Infine, non da ultimo, il ritorno dei profughi e l’ingresso dell’opposizione siriana all’interno delle dinamiche politiche del Paese. Arrivati a questo punto, per quell’enclave ad Idlib dove covava l’HTS, ribattezzata sulla stampa turca “piccolo Afghanistan”, non ci sarebbe stata più ragione di esistere né speranza di sopravvivere.

Assad avrà avuto tutti i suoi motivi per tirarsi indietro. Ma questi erano gli accordi.

A questo scenario si era preparata la Turchia.

Ma come poi riferito da più fonti, né Russia né Iran erano impreparate del tutto agli eventi. Sia Russia che Iran conoscevano bene la debolezza del SAA, dell’esercito di Assad, reticente verso gli “aiuti” russi e iraniani, adagiato sul ritorno della Siria nella Lega Araba, confuso dalle lusinghe del Golfo, riformato di recente su base nepotistica ed esposto alla fragilità degli eventi. Pertanto, tantomeno la Turchia era del tutto impreparata a questi eventi.

Nei primi giorni dell’attacco dell’HTS, l’SNA filo-turco entra in azione in risposta all’avanzare delle SDF curde, non punta verso Damasco. E ancora lì sono impegnate. I vertici del PKK hanno  nel frattempo incontrato emissari di Israele, e presto i territori di influenza israeliana in Siria potrebbero unirsi a quelli controllati dalle forze curde. A questo punto per la Turchia si verrebbe a creare il peggior scenario possibile.

Per questo la Turchia oggi è costretta a rimanere aggrappata all’Astana Format. E’ costretta a far di tutto per sostenere quella che era l‘opposizione siriana che si era presentata ad Astana, perché non lasci l’egemonia in mano all’HTS. Solo così ha la possibilità di contrastare diplomaticamente il PKK in Siria, mentre nelle prossime settimane vedremo cosa dirà il campo di battaglia. La Turchia sa bene, come ricordato dal presidente Erdogan in questi giorni, che se salta la Siria, la prossima può essere la Turchia. Se salta Erdogan, saltano tutti gli accordi firmati sulla via della seta, a cominciare dal Road Development Project che avrebbe unito Bassora ad Hatay, provincia meridionale turca affacciata sul Mediterraneo, che avrebbe dovuto portare il petrolio iracheno nel mediterraneo e il cui percorso sarebbe dovuto transitare proprio per il confine turco-siriano ormai pacificato.

E’ alla luce di queste considerazioni che vanno lette le dichiarazioni rilasciate questo martedì da Erdogan: “Si spera che le organizzazioni terroristiche come Daesh e PKK/PYD in altre parti del paese vengano schiacciate il prima possibile. (…) Trovo utile ricordarlo a tutti coloro che mettono gli occhi sulle terre siriane. Come Turchia abbiamo fatto grandi sacrifici per portare la Siria a questo livello. Lo abbiamo fatto con soddisfazione, senza lamentarci. Non possiamo permettere che il territorio siriano venga nuovamente diviso. (…) Non resteremo a guardare mentre alcune persone incendiano la regione con il coraggio che ricevono dalle forze su cui fanno affidamento”.

Se non è una dichiarazione di guerra, manca ancora poco.

Il destinatario della dichiarazione che non tarderà ad arrivare sono le forze turche dell’SDF. Alle loro spalle l’ombra di Israele, già sporca del sangue di Gaza. A quel punto il peggior scenario possibile per la Turchia si sarà materializzato. In questi giorni la stampa anglosassone tratta Erdogan come nella favola del corvo e la volpe. Tutti lo dipingono come vincitore, come grande stratega. In realtà è il prossimo nel mirino.

Michelangelo Severgnini

Michelangelo Severgnini

Regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Il suo film “L’Urlo” è stato oggetto di una censura senza precedenti in Italia.

L’accordo Erdogan – Netanyahu passa per i drusi e la base USA di Al-Tanf?

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L’accordo Erdogan – Netanyahu passa per i drusi e la base USA di Al-Tanf?

di Gabriele Germani

 

Israele prosegue l’avanzata nella buffer zone gestita dalle forze UNDOF, la missione dell’ONU per il confine con la Siria. Nei giorni passati, a seguito della caduta del governo Assad, Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Tel Aviv non avrebbe tollerato la nascita di una minaccia ai propri confini e che avrebbe adottato tutte le misure necessarie alla propria difesa. Lo sconfinamento è stato condannato dall’ONU, indicandolo come una violazione degli accordi presi nel 1974.

Tra il 6 e il 25 ottobre 1973, Siria ed Egitto attaccarono Israele: potevano contare sul supporto del mondo arabo e sovietico; Tel Aviv su quello degli USA. Il conflitto fu vinto da Israele, ma gli stati arabi imposero, tramite l’OPEC, un vistoso aumento del pezzo del petrolio, causando lo shock energetico.

Sul finire del ‘73, Israele aveva preso il controllo di vari villaggi siriani. L’occupazione sulle alture del Golan risalente al ‘67 era stata estesa. Dopo che l’Egitto giunse ad un accordo con Israele, si avviarono trattative serrate tra sauditi, statunitensi, siriani e israeliani per giungere anche in quel caso ad una chiusura.

Il 31 maggio del ‘74, Israele e Siria chiudevano il conflitto con l’accordo sul disimpegno che prevedeva la reciproca restituzione dei prigionieri e il ritiro israeliano dai territori occupati durante la guerra del Kippur. Tra i due stati si sarebbe creata una zona di disimpegno, gestita dall’UNDOF.

Tornando al presente, al momento l’ingresso è limitato a questa zona, anche se ci sono allerte (per ora non confermate) di ulteriori sconfinamenti; la versione israeliana è di voler occupare esclusivamente la zona smilitarizzata.

Proseguono i bombardamenti in tutto il territorio siriano, anche nelle regioni non adiacenti la capitale o il confine, il ministro della difesa di Tel Aviv ha detto che sono stati colpiti prevalentemente depositi di armi, così da rendere innocua una futura minaccia alla sicurezza nazionale. Netanyahu, nella giornata di ieri, ha detto che le alture del Golan rimarranno israeliane per l’eternità, al momento l’occupazione è riconosciuta a livello internazionale dai soli Stati Uniti e il premier ha ringraziato Donald Trump per aver riconosciuto questa annessione durante il suo primo mandato presidenziale.

Più timorose le cancellerie mediorientali, dall’Arabia Saudita al Qatar, dall’Iraq all’Iran arrivano moniti a rispettare l’integrità territoriale siriana e a non trasformare la crisi in occasione di conquista. A Doha, il piccolo emirato qatariota nel golfo al centro della diplomazia regionale, si teme una recrudescenza della crisi libanese.

Anche la Cina condanna ogni minaccia all’integrità territoriale e invita Israele a non proseguire nell’occupazione. Iraq e Arabia Saudita nei loro appelli hanno fatto riferimento al diritto internazionale e hanno invitato l’ONU ad agire contro la politica del fatto compiuto perseguita da Tel Aviv.

Il governo israeliano ha rivendicato indirettamente la paternità sulla caduta di Assad, dicendo che i duri colpi inferti nei mesi passati ad Hezbollah, Hamas e Iran, hanno scatenato la catena di eventi fino alla fuga dell’ex capo di Stato.

Vi è il timore che Israele possa superare la buffer zone del 1974 e che miri alla costruzione di una nuova zona cuscinetto in collaborazione con le milizie druse, le prime tra i ribelli ad essere giunte a Damasco e che per motivi religiosi potrebbero non collaborare con i jihadisti attualmente al potere nella nuova Siria.

Si potrebbe venir a creare una sorta di continuità territoriale tra l’area israeliana (Golan e zona smilitarizzata del ’74), uno stato druso sotto protezione di Tel Aviv nel distretto Sud, la base statunitense di Al Tanf nel Sud-Ovest e il Rojava ad Est e Nord-Est, chiudendo i vecchi confini meridionali e orientali della Siria e isolando dalle rotte di terra con l’Asse della Resistenza il Libano ed Hezbollah. La Turchia potrebbe organizzare una sorta di protettorato sul nuovo stato islamico, messo in piedi da Al-Joulani attorno alla direttrice Idlib, Aleppo, Homs, Damasco. La Grande Israele e la Grande Turchia potrebbero coesistere nel nuovo Medio Oriente.

Israele vedrebbe estesa la sua area di occupazione, colpito il potenziale di penetrazione iraniano, ribaltato Assad, depotenziato ed isolato Hezbollah e uno stato cuscinetto sotto protezione assicurerebbe continuità territoriale con una grande base USA in una zona ricca di pozzi di petrolio. Il resto della Siria finirebbe indirettamente sotto controllo turco, uno stato della NATO e sunnita, dunque non interno all’asse sciita Iran-Hezbollah. Infine, gli USA – secondo la nuova dottrina Trump – potrebbero dire di uscire rinforzati dalla regione senza essere impantanati nelle nuove fiammate di guerra civile, continuando a giustificare la propria presenza attraverso la necessità di proteggere i curdi ed eventualmente combattere un fortuitamente redivivo ISIS.

Il tutto potrebbe avvenire con una cantonalizzazione della Siria, una sorta di soluzione bosniaca riadattata alla situazione locale: l’unità territoriale potrebbe essere formalmente salvata, creando tante aree formalmente legate tra loro e in realtà indipendenti, anzi dipendenti da potenze straniere.

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