RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITÀ STRUMENTALE di G. La Grassa

Pubblichiamo qui sotto un  interessante saggio di Gianfranco La Grassa sul concetto di razionalità strategica e razionalità strumentale. La definizione ad inizio dello scritto introduce, in realtà, rapidamente al tema dell’analisi concreta delle formazioni sociali partendo dalle dinamiche conflittuali tra centri strategici e dal tentativo di riproporre in maniera più corretta e realistica la questione di una loro trasformazione che porti all’emancipazione degli strati subalterni. Un chiaro superamento della rappresentazione dualistica del conflitto sociale.

Lo scritto, tuttavia, apre più o meno esplicitamente numerose questioni piuttosto che risolverne come del resto è ovvio che sia per un tentativo di rottura critica di chiavi di interpretazioni ormai inadeguate e deleterie.

  • tende a liquidare troppo sbrigativamente il lavoro di ricerca teorico-filosofico teso ad individuare le caratteristiche intrinseche del politico e le relazioni di questo con gli altri ambiti dell’agire umano e tra esse la funzione della cooperazione oltre che del conflitto; un tale impegno è ovviamente parte integrante del contesto storico, sociale e culturale nel quale agisce ma è altrettanto indispensabile per individuare ed inquadrare sistemicamente le nuove chiavi di interpretazione, l’analisi concreta e gli obbiettivi politici senza sostituirsi ad essi, specie in Italia dove il dibattito in merito langue da almeno quarant’anni
  • il saggio, al pari delle precedenti elaborazioni di La Grassa, attribuisce un ruolo prioritario all’azione dei centri strategici, quindi all’azione e ai loro disegni politici; sottolinea che, con il rapporto capitalistico, il politico pervade ed agisce nell’economico; per meglio dire, è una mia precisazione, il ruolo politico della e nella funzione economica si accresce. Ma sino a che punto in termini assoluti e soprattutto rispetto agli altri ambiti?
  • l’autore parla di conflitto tra formazioni sociali capitalistiche e tra centri strategici (capitalistici?) in esse e tra di esse. Poiché, secondo definizione marxiana, il capitalismo è un rapporto sociale di produzione, laddove il possessore dei mezzi di produzione sovrasta il salariato, non si rischia di tornare alla surdeterminazione dell’economico, al meglio del politico nell’economico, rispetto agli altri ambiti?
  •  GLG sancisce l’inesistenza del “popolo”; sembra ricondurre la sua estinzione al processo di frammentazione e specializzazione proprio delle formazioni capitalistiche più mature ed evolute e all’incapacità, quindi, dei loro centri strategici di garantire i sufficienti livelli di coesione e di assimilazione identitaria necessari a garantire la sostenibilità interna ed esterna di esse. Mi pare una affermazione troppo apodittica che tende a sottovalutare le capacità di ricomposizione, magari sotto nuove vesti e nuovi nuclei, dei centri strategici e ad assecondare la facile, ma a mio avviso poco fondata, contrapposizione tra ad esempio i comunitaristi portatori della positiva pienezza dei valori umani, alla Fusaro e de Benoist, e i mercificatori alienatori della natura umana, propri dei capitalisti globalizzatori
  • con l’occasione il prof. La Grassa riprende il tema dell’emancipazione degli strati subalterni e delle particolari condizioni di crisi sistemica di particolari formazioni che potrebbero favorire la loro sollevazione e affermazione. Non si tratterebbero più di classi in sé, ma di gruppi o strati ben condotti da centri ben determinati ed alternativi. Il discorso nella fattispecie, una caratteristica comune a tutti, compreso chi scrive, rischia di cadere nell’indeterminatezza ed oscillare inconsapevolmente tra l’utopia di una società libera e egualitaria e l’azione magari anche meritoriamente redistributiva interna al sistema, ivi comprese le gerarchie stabilite. GLG avverte per altro saggiamente delle capacità dinamiche, propulsive e di sviluppo di un sistema fondato sulla concorrenza; della capacità, quindi, di riassorbimento, il più delle volte, delle contraddizioni più esplosive. Si tratta comunque di un avvertimento molto più opportuno e proficuo se finalizzato ad individuare nelle formazioni sociali e nei processi riformatori e rivoluzionari quelle figure e strati sociali e quei centri strategici i quali, per acquisire il controllo del potere o la partecipazione ad esso siano disposti a riconoscere un ruolo ed una condizione diversa e migliore, ivi compresa la mobilità, agli strati più subalterni. Anche in questo caso, però, il rischio di scambiare il classico piatto di lenticchie alle prospettive di sviluppo dinamico e duraturo è sempre presente. L’esperienza dei paesi socialisti, ancorché poco studiata, è tutta lì a dimostrarlo.

Mi sembrano cinque dei punti già sufficienti a consentire un’ulteriore spinta alle ipotesi di ricerca suggerite dal professore. Buona lettura_ Giuseppe Germinario

 

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GIANFRANCO LA GRASSA _ RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITA’ STRUMENTALE  http://www.conflittiestrategie.it/razionalita-strategica-e-razionalita-strumentale-di-g-la-grassa

 

  1. Non intendo qui diffondermi troppo sui due tipi di razionalità (e di funzioni); su entrambe sono state scritte infinite pagine e considerazioni. Mi interessa semmai chiarire alcune differenze e distinzioni. Innanzitutto, la metis – l’astuzia, il raggiro, l’inganno, ecc. (“il cavallo di Troia”) – fa parte dell’arte strategica, ne può in certi casi costituire l’aspetto principale, ma non fa conseguire, in ultima analisi, una vera supremazia, non consente di prevalere se non in casi assai particolari e magari in presenza di una discreta dose di ingenuità dell’avversario. Nemmeno credo si possa identificare la funzione strategica con la mera volontà di potenza, comunque quest’ultima possa essere intesa.

La strategia non è solo “arte”, non è solo carattere vitalistico e prorompente di una “personalità” – anche collettiva, in senso allora assai lato – portata a prevalere e a subordinare le altre, quelle “nemiche”. La strategia esige un elemento intuitivo (almeno all’apparenza), il cosiddetto colpo d’occhio, ma deve strettamente intrecciarsi con una precisa valutazione della situazione sul campo: risorse a disposizione, articolazione e movimento delle forze in campo, attenta mappatura e studio di quest’ultimo; con rapida presa in esame di ogni mutamento della situazione stessa e delle risposte da dare ai cambiamenti.

D’altra parte, la valutazione della situazione sul campo non è eseguita in base alla semplice razionalità strumentale, quella del minimo mezzo o del massimo risultato; quest’ultima attiene principalmente all’ambito economico in senso stretto, pur se poi è stata ampliata ai vari aspetti della vita personale e collettiva (sociale). Sia per quanto concerne la sua applicazione in campo economico sia per il suo generalizzarsi ad altri settori di attività, detta razionalità si è affermata essenzialmente in epoca capitalistica. Nella stessa conduzione delle attività produttive, agricole e artigianali, in formazioni precapitalistiche, essa non veniva affatto in evidenza; i saperi produttivi, frutto di una lunghissima e in genere lenta accumulazione storico-culturale, non avevano molto a che vedere con una mentalità semplicemente strumentale, che sarebbe anzi stata una vera “palla di piombo ai piedi” per artigiani e contadini delle società precapitalistiche, e avrebbe condotto alla disgregazione delle stesse per l’impossibilità di conciliare la struttura produttiva con quella del potere (che è poi quanto in definitiva accaduto durante la lunga transizione dal feudalesimo al capitalismo). In ogni caso, anche nella formazione sociale del capitale la posizione di preminenza attribuita alla razionalità strumentale ha carattere largamente ideologico. Certamente essa è creazione del capitalismo, e in quest’ultimo viene largamente utilizzata nei vari ambiti dell’attività sociale, ma non assurge affatto alla posizione di vertice nell’agire delle “classi” dominanti nemmeno in questa forma di società.

E’ stato un errore dello stesso marxismo – tutto centrato sul problema dell’ottenimento del massimo profitto (e quindi della massima estrazione del pluslavoro/plusvalore) da parte del capitalista, visto come essenzialmente proprietario e non invece quale agente di strategie – pensare che la razionalità strumentale (quella della cosiddetta efficienza) sia non solo acquisizione fondamentale del “modo di produzione” capitalistico, ma sorregga l’insieme dei rapporti caratteristici della società da questo strutturata e ne alimenti la dinamica decisiva; e rappresenti addirittura una conquista della Ragione che, sciolta dall’esigenza (del puro proprietario) di conseguire il massimo utile individuale, sarebbe cruciale anche nella futura società comunista onde sviluppare le forze produttive e conseguire quella massa di beni, cui potrebbe attingere ogni membro della società “secondo i suoi bisogni”.

 

  1. L’analisi della situazione sul campo – configurazione di quest’ultimo, forze in campo, ecc. – e le risposte ai mutamenti della stessa non si basano quindi sul mero principio del minimo mezzo o del massimo risultato; nel contempo, esse non consistono certo esclusivamente nel colpo d’occhio, nell’intuizione dell’agente strategico. Quest’ultima ha un che dell’arte, ma l’analisi e le risposte di cui si parla sono più vicine allo spirito dell’osservazione scientifica. Infine, nella preliminare individuazione delle tecniche e delle metodiche da impiegare per far fronte ai problemi osservati e analizzati, inizia a farsi avanti la razionalità della “efficienza economica”, quella del minimo mezzo, insomma quella detta strumentale. Quest’ultima ha dunque un ruolo subordinato, non è funzione esplicata dagli agenti “dominanti” (sto parlando delle differenti funzioni, non degli individui empirici che le supportano e che possono esercitarne contemporaneamente più d’una). Per il dominio, cioè per conquistare la supremazia attraverso la lotta, occorre l’analisi – assimilabile all’osservazione scientifica – e l’“artistico” colpo d’occhio sull’insieme e le sue intrinseche, ma non manifeste, potenzialità dinamiche (forza e direzione dei possibili eventi da provocare o impedire o deviare, ecc.) che debbono essere volte al successo della propria lotta tesa a prevalere.

Per ottenere la “vittoria in battaglia” sono perciò necessarie soprattutto le funzioni del “comandante in capo” (che, ovviamente, non è obbligatoriamente un solo individuo), capace di cogliere quello specifico potenziale insito nell’insieme, e le funzioni dello “Stato Maggiore” atte a svolgere i compiti relativi alla lucida e “scientifica” analisi del campo e delle forze in campo, con tutto ciò che segue. Il potenziale dell’insieme è la ben nota singolarità, che non è soggetta a generalizzazioni; pur se le varie “battaglie” svoltesi in passato, e le innumerevoli mosse strategiche in esse impiegate, sono sempre sottoposte a studio e a vaglio accurato in previsione di quelle future. L’analisi e valutazione del campo e delle forze in campo sono invece soggette a queste generalizzazioni (di tipo scientifico, per l’appunto), ma non debbono pesare sulle decisioni da prendere in future “battaglie” secondo una loro scolastica e pedantesca ripetizione, che condurrebbe quasi sempre a “sconfitta”. Ancor meno debbono pesare, sulle decisioni strategiche cruciali prese nella lotta per la supremazia, le tecniche e metodiche secondo cui vengono in essa impiegate “efficientemente” determinate risorse; tecniche e metodiche che, come sopra rilevato, attengono ai compiti delle funzioni strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato.

 

  1. L’aver posto tali funzioni (rette dalla razionalità strumentale) come essenziali e pervasive dell’intera attività dei dominanti capitalistici (trattati quali meri proprietari dei mezzi produttivi e finanziari) – e averne addirittura fatto una conquista generale del pensiero umano per ogni futuro sviluppo e trasformazione della società, addirittura in direzione del presunto comunismo – ha veramente ottuso le capacità critiche degli anticapitalisti. Quella che è soltanto ideologia – con la solita funzione di mascheramento delle fonti effettive del predominio degli agenti capitalistici, che non sono affatto semplici proprietari – è passata per una conquista fondamentale del pensiero razionale; una conquista, come altre del capitalismo, da mantenere e sviluppare poiché se ne supponeva l’indispensabilità anche ai fini della transizione al socialismo e poi comunismo.

Se, come ho chiarito più volte negli ultimi anni, fosse stata valida l’ipotesi di Marx relativa alla formazione, per dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico, del lavoratore collettivo cooperativo, in cui tutte le diverse funzioni (intellettuali e manuali, direttive ed esecutive) si sarebbero integrate in un unitario e compatto tessuto produttivo, allora la sussistenza di tale mascheramento ideologico non avrebbe alla fine nuociuto più che tanto. Il movimento reale – non l’opera di costruzione del socialismo da parte di presunte avanguardie della Classe (per antonomasia) – avrebbe condotto all’esaurirsi delle funzioni produttive dei proprietari capitalistici, trasformati in rentier, e all’affievolirsi dello spirito di competizione per la supremazia di dati gruppi sociali su altri. A questo punto, la razionalità del minimo mezzo sarebbe in effetti divenuta quella prevalentemente applicata nelle attività sociali (non della sola sfera economica) in quanto dirette soprattutto allo “sfruttamento” del “fondo naturale” per ottenere di che soddisfare i bisogni degli individui stretti in una società coordinata e di cooperazione, senza conflitti antagonistici né sfruttamento degli uomini su altri uomini.

Poiché la dinamica capitalistica, intrinseca o meno che sia, non conduce affatto in simili direzioni virtuose, è ovvio che le conclusioni da trarre sono totalmente differenti. La razionalità strumentale diventa un semplice mezzo per procurarsi, nel migliore (più efficiente) modo possibile, le risorse necessarie all’espletamento delle funzioni legate alla lotta per la supremazia, e che sono quelle appena sopra illustrate. La formazione sociale si frammenta, si segmenta e si stratifica sempre più complessamente, le minoranze predominano sulle maggioranze, ma attraverso lo scontro tra i vari gruppi di agenti di cui sono composte, gruppi che applicano strategie di lotta ai fini della prevalenza di alcuni su altri. Non si va minimamente formando alcun vertice ristretto e sempre più unitario di sfruttatori. La lotta tra gruppi conosce varie “periodicità” – da me adombrate con i termini di monocentrismo e policentrismo – che sono fasi (epoche) diverse in riferimento sia a quella da me indicata quale formazione sociale in generale sia alla formazione globale, costituita da una mutevole articolazione di tante formazioni particolari fra loro in conflitto, con i connessi fenomeni comportanti lo sviluppo ineguale dei vari gruppi capitalistici, in sede “nazionale” come “internazionale”.

In una società per null’affatto interessata da un movimento interno di omogeneizzazione e compattamento “armonico”, bensì da processi di frammentazione crescente e di – più o meno acuta a seconda di un periodico “pulsare” per epoche o fasi dell’evoluzione capitalistica – interazione contraddittoria e conflittuale tra i suoi vari comparti (o raggruppamenti, dominanti e non), le funzioni strumentali, attinenti al conseguimento del massimo risultato, scadono a semplice mezzo per procurarsi, con la massima “economicità”, le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni strategiche, compito precipuo degli agenti dominanti in reciproca lotta per gruppi (per “bande”) ai fini della supremazia. A questo punto, sono gli “Stati Maggiori” con i loro “Comandanti in capo” a rappresentare quella “classe capitalistica”, che il marxismo pensava fosse invece costituita da semplici proprietari. Questi avrebbero esercitato una funzione produttiva propulsiva nel capitalismo concorrenziale – poiché il conflitto era visto dai marxisti come un fatto prevalentemente economico, un fenomeno in ultima analisi orientato dalla finalità del massimo prelievo di plusvalore in quanto profitto dell’impresa capitalistica – mentre sarebbero divenuti parassiti e “similsignori” nel capitalismo monopolistico strutturato in grandi società per azioni. Si sarebbe trattato certamente di “signori” differenti da quelli feudali o protocapitalistici per il tipo di rendita percepita: non più dalla terra, non più dal semplice prestito in denaro, ma prevalentemente dalla proprietà azionaria, dalla “attività” di “staccare cedole”.

Nella società capitalistica realmente affermatasi, strutturata in gruppi sempre più numerosi e in crescente disarticolazione, con “successiva” (in senso logico) ri-connessione interattiva tramite forme varie di conflitto di periodicamente differente intensità e acutezza, i dominanti sono gli agenti strategici (del “colpo d’occhio d’insieme” e dell’analisi del campo e delle forze in campo) che rendono la società capitalistica un terreno di battaglia, in cui tutti, ai più vari livelli della scala sociale, sono coinvolti; anche se gli strati sociali bassi sono quasi sempre truppe al seguito degli “Stati Maggiori”, ecc. Solo raramente, in particolari frangenti storici (congiunture), le truppe –  “incontrando” dati gruppi di dirigenti e di capi – sono in grado di nuocere agli agenti dominanti in una certa fase di acuto scontro tra questi ultimi; ma non è affatto deciso ineluttabilmente, come il novecento ha ampiamente dimostrato, quale sia l’effettivo sbocco degli eventi “rivoluzionari”. Sia l’ideologia dei dominanti (agenti capitalistici), sia quella degli un tempo oppositori e intenzionati a trascinare le “truppe” (le masse popolari) contro il loro potere, hanno provocato un totale annebbiamento della strutturazione della formazione capitalistica: sia di quella in generale sia di quella globale con le sue articolazioni particolari.

 

  1. E’ ormai indispensabile uscire – puntando intanto su di essa il riflettore del pensiero critico – da questa ideologia della razionalità strumentale in quanto elemento fondante e carattere decisivo della struttura capitalistica e dunque del movimento dei suoi rapporti di dominazione/subordinazione; un elemento che sarebbe negativo se utilizzato dai proprietari (dei mezzi produttivi) per sfruttare il lavoro (estorsione del massimo pluslavoro/plusvalore), ma che la “rivoluzione comunista” avrebbe potuto rovesciare in positivo, “estraendone il nocciolo razionale”, eliminando la proprietà privata e affidando il coordinamento cooperativo della produzione alla classe lavoratrice (cioè alle sue pretese “avanguardie”).

Deve essere contrastato questo ottundimento del pensiero, che ha condotto a pratiche inizialmente anche “eroiche” e che hanno rappresentato il famoso “assalto al Cielo”, ma che poi si sono, loro, rovesciate in aberrante dominazione di masse “abbrutite” da parte di capi degenerati in perpetua lotta (assassina) fra loro. Un comunismo, incapace di uscire dalla ideologia “annebbiante” fin qui illustrata, ha avuto un suo grande periodo in cui è sembrato essere il movimento di emancipazione dei diseredati contro i bestiali sfruttatori capitalisti (e colonialisti e imperialisti), ma ha poi abdicato completamente ai suoi ideali originari per divenire il peggiore e più devastante dei movimenti politici esistenti nell’ambito del capitalismo. Basta dunque con il comunismo in tutte le salse lo si voglia cucinare; e basta con il marxismo che ha toccato l’apice di quanto poteva farci conoscere per poi decadere a “dottrina religiosa” del tutto ottenebrante; una “religione” che non è nemmeno più l’oppio dei popoli, ma solo di piccole sette di inutili cultori del nulla teorico e politico.

Tuttavia, la reazione a questo annebbiamento ideologico non deve portare a rivalutare le sconfortanti banalità dell’ideologia conservatrice neoliberista o delle sue versioni “riformiste” neokeynesiane. Dalla padella nella brace; peggio la toppa dello strappo! Questa è l’alternativa che ci offre un ceto intellettuale fra i più fatui e sciocchi annoverati nella storia dell’Umanità; un vero campionario di “idioti con alto quoziente di intelligenza”, come recitava un “salmo” del movimento sessantottardo, che volentieri sostituirei con la più incisiva battuta di quel genio che fu Ettore Petrolini: “idioti con lampi di imbecillità”.

Ogni inizio è senza dubbio difficile. E’ tuttavia necessario che soprattutto i più giovani, e liberi di mente, non ottenebrati da quel cumulo di fanfaluche ammassate dagli intellettuali soprattutto negli ultimi trenta-quarant’anni, si mettano in moto al più presto; e prendano a calci chiunque parli di liberismo, di keynesismo, di marxismo; chiunque ancora si riempia la bocca di quelle ormai sconce parole – sia chiaro: di ben altro significato ed elevatezza molto tempo addietro – che sono democrazia liberale, socialismo, comunismo, con tutte le loro infinite variazioni.

 

  1. Cominciamo con il riportare al centro della questione, cioè dell’organizzazione dell’attuale società nella sua globalità (mondialità), il principio della preminenza delle funzioni strategiche che sottomettono, piegano ai loro fini, quelle strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato. In questo contesto, non mi sembra di alcun interesse lanciarsi in disquisizioni filosofiche o simili chiedendosi se lo spirito di competizione – teso però alla preminenza tramite prepotenza, sopraffazione, asservimento (e anche inganno e raggiro) esercitati dagli uni sugli altri – sia connaturato o meno all’essere umano. La millenaria storia dell’Umanità non induce certo all’ottimismo in proposito, ma tenuto conto degli orizzonti temporali su cui siamo in grado di allargare la nostra “vista” (teorica), compiendo analisi e sviluppando argomentazioni dotate di un minimo di realismo e credibilità, è assolutamente inutile arrovellarsi sulla “natura” umana, sulle “costanti antropologiche”, e via dicendo. Credo che discussioni del genere abbiano senso, così come ha senso dibattere sulla religione, sull’esistenza o meno di un Essere chiamato Dio e su molti altri problemi dello stesso ordine che, se hanno da sempre spinto grandi intelletti a profondervi le migliori energie, non sono evidentemente destituite di significato come spesso pensano coloro che hanno cervelli simili a computer, e sistemi nervosi solo dediti alle più elementari sensazioni animalesche.

Tuttavia, per una analisi che in qualche modo si richiami alla scienza della struttura e dinamica della società nell’attuale epoca storica – un’analisi che voglia porre le basi di prese di posizione pratico-politiche in essa, pur se magari ancora assai generali e non indirizzate alla soluzione di problemi “puntuali” – non è gran che rilevante decidere se le tendenze al conflitto per la preminenza, tramite sconfitta e subordinazione dell’avversario, fanno parte dell’intima costituzione dell’essere umano oppure se vi sono speranze circa l’avvento, in un futuro imprecisato, di una società fondata su rapporti interindividuali, al limite ancora competitivi, non però caratterizzati dalla prevaricazione, dalla menzogna e subornazione, ecc. Penso che chi non accetta la società così com’è adesso, diciamo pure quella capitalistica (perché abbiamo in definitiva a che fare con strutture sociali di questo tipo), debba mantenere un atteggiamento di contrasto e di critica radicale dello spirito conflittuale, basato sulla prepotenza e ricerca del predominio, che in detta società si dispiega pienamente in tutte le sue sfere (economica, politica, ideologico-culturale); non ci si deve però porre nella situazione del “profeta disarmato”.

E’ ora di farla finita con la favoletta della non violenza gandhiana, che sarebbe il miglior modo di vincere le proprie battaglie e di porre le basi per una organizzazione sociale di pace e armonia. A parte le falsità storiche raccontate dall’agiografia di Gandhi, che non era poi così pacifico come si vuol far credere (ai gonzi), la sua vittoria è nata dalla reale sconfitta subita dall’Inghilterra nella seconda guerra mondiale. Apparentemente tale paese faceva parte delle potenze vincitrici, ma in realtà uscì dalla guerra nettamente ridimensionato, avendo definitivamente perso il suo ruolo di grande potenza capitalistica e imperialistica (coloniale). Non poteva in nessun caso mantenere l’India nella situazione precedente la guerra, così come dovette rinunciare alle sue altre sfere di influenza asiatiche e africane. Non parliamo del “pacifismo” attuale dell’India, dotatasi dell’arma atomica, in ricorrente conflitto con il Pakistan, con alcuni (molti) suoi governi locali che reprimono moti popolari tipici di un paese lanciatosi nello sviluppo ad alti ritmi, con le sue “naturali” conseguenze fortemente squilibranti in termini sociali.

Oggi, c’è solo da decidere se è relativamente prossima (qualche decennio) una nuova epoca policentrica, con il rinnovarsi dei conflitti per la supremazia tra le diverse formazioni particolari componenti quella globale; oppure se permarrà ancora a lungo una sostanziale preminenza, sempre più deficitaria comunque, degli USA mentre altri paesi (Russia, Cina, India, Giappone, ecc.) non riusciranno ad andare oltre un conflitto tra potenze di carattere “regionale” (degli outsiders insomma). Credo che la tendenza sia verso un autentico conflitto policentrico, preceduto comunque da un periodo, probabilmente di alcuni decenni, in cui si assisterà al rafforzamento delle potenze “regionali”. E tenendo sempre in debito conto il problema dello sviluppo ineguale, per cui si verificheranno durante tale periodo delle “sorprese”: qualche formazione particolare (paese), oggi in ascesa, si arresterà e “deluderà” le aspettative, mentre magari ne verrà fuori alla distanza qualche altra.

Non si deve comunque contare – per tutto il periodo lungo il quale si sarà in grado di formulare qualche previsione in base al processo di gestazione di nuove categorie teoriche interpretative (ipotetiche) – sull’affievolirsi delle tendenze al conflitto e al predominio. E si deve tener presente che le tendenze in questione saranno prevalentemente guidate dai gruppi dominanti strategici di diverse formazioni capitalistiche. I conflitti più acuti si svilupperanno tra: a) la potenza (formazione particolare) centrale odierna e le potenze per il momento regionali, che non possono rinunciare (pena la decadenza dei gruppi dominanti all’interno di esse) al tentativo di contrastare il predominio della prima; b) tra le formazioni particolari o pienamente sviluppate capitalisticamente (USA in testa) o in forte ascesa quanto a sviluppo capitalistico e quelle arretrate o che hanno appena iniziato il loro sviluppo (ad es. l’Iran). In queste formazioni, ancora non pienamente maturate dal punto di vista capitalistico, i gruppi dominanti appaiono in buona parte con-fusi con la massa del popolo, un aggregato anche in tal caso non del tutto omogeneo, ma comunque nemmeno scisso in raggruppamenti ben distinti come nel capitalismo avanzato; un aggregato spesso cementato da una solida cultura comune, spesso da una forte religione. Assai meno acuti e rilevanti appaiono, al presente, i conflitti interni alle formazioni particolari capitalisticamente avanzate, dove la frammentazione sociale è assai spinta e l’interazione tra i vari comparti, in orizzontale e in verticale, non sconvolge la riproduzione capitalistica dell’insieme societario, poiché ci si limita a ridiscutere sia la divisione della “torta” (prodotto complessivo sociale) – il che implica mutamenti di condizioni di vita e di lavoro dei vari comparti in oggetto – sia le rispettive posizioni quanto a “fette di potere”, a status, a diritti e doveri, ecc.

 

  1. Una volta fissato un quadro orientativo di larga (larghissima) massima, si deve decidere dove collocarsi nello svolgimento della propria attività teorica e pratica; ricordando che la teoria – nella misura in cui sia solo quella di carattere scientifico attinente alla “visione” della struttura e dinamica della società – è in definitiva un lato della pratica stessa. Ha certo suoi caratteri propri, esige particolari strumentazioni, ma non “sta da un’altra parte”, non risponde ad altre esigenze, quelle che definiamo, non importa se propriamente o meno, “spirituali”. In questo senso, “la teoria è grigia” e tale deve rimanere. Non è che ciò la renda impermeabile alla penetrazione, mascherata e inconsapevole, di una qualche ideologia; ma deve stare sempre in guardia contro simili influssi (pur non sapendo in anticipo da che parte arriva il pericolo), deve compiere i suoi passi con prudenza e sempre sorvegliandosi. Non punta in ogni caso ad accendere gli animi, a suscitare entusiasmi, a dare un senso alto alla propria lotta. Questi compiti spettano ad altri lati dell’agire umano.

Guai se Lenin fosse sceso nell’agone della rivoluzione russa con in mano Il Capitale o anche semplicemente il suo Che fare o il saggio sull’imperialismo; guai se avesse “predicato” la teoria del valore lavoro e insegnato che questa dà la certezza dello sfruttamento della forza lavorativa (dei dominati); guai se avesse spiegato il concetto di modo di produzione (e l’intreccio tra forze e rapporti produttivi), se si fosse messo ad elucubrare sullo sviluppo ineguale, e via dicendo. Avremmo una rivoluzione in meno e un mondo assai diverso; e chissà se in poche righe, in un qualche manuale di storia, verrebbe ricordato che in un qualche anno dell’inizio del novecento, in un qualche luogo della Russia, un pazzo furioso era stato picchiato a sangue (forse ucciso) da masse popolari mentre stava vaneggiando e pronunziando parole smozzicate, prive di senso compiuto; e aveva malamente reagito all’indifferenza degli astanti, li aveva insultati, minacciati, maledetti per la loro ignoranza.

 

  1. A me sembra evidente che chi vive nel nostro paese debba accettare la prospettiva di sviluppare la propria attività (teorica e pratica) nell’ambito di una formazione particolare appartenente all’area del capitalismo avanzato, di quella tipologia che in altra sede ho indicato quale formazione dei funzionari (strategici) del capitale. E’ nell’ambito di questa che si dovrà “studiare” come muoversi, almeno in un primo approccio orientativo. Viene in evidenza, innanzitutto, l’impossibilità di trascurare l’humus conflittuale in cui si attua la riproduzione dei rapporti tipici della società in questione. Due errori sono da evitare. In primo luogo credere di poter contrastare immediatamente e direttamente la mentalità del conflitto per il predominio, che permea la società ad ogni livello. Non si tratta di un comportamento tenuto soltanto dagli agenti dominanti. Questi, essendo una minoranza, avrebbero già perduto ogni potere – ed è quanto pensava Marx che non immaginava affatto un capitalismo tanto durevole – se la conquista della supremazia non fosse il movente dell’agire in ogni più piccolo ambito della società. L’ideologia dei dominanti chiacchiera in continuazione della cooperazione, dell’utilità di unirsi, ecc. Ma ogni coagulazione di gruppi di individui si verifica sempre con il fine di meglio lottare contro altri gruppi; non ci si allea per spirito di fratellanza, ma perché, come dice il detto popolare: “l’unione fa la forza”. Anche dove, a parole, si celebra ad ogni istante l’amore (ad es. nella famiglia), in realtà si vivacizza sovente un confronto più o meno aspro o invece attutito dalla “giusta” valutazione delle rispettive posizioni di forza.

E’ ovvio che si cerchino tutti i marchingegni (legali) possibili per contemperare l’uso reciproco della violenza, per non andare incontro alla generale disgregazione e indebolimento, ecc. Ma si tratta del conseguimento di equilibri del tutto instabili che, qualunque sia la loro assai diversa durata, sono comunque soltanto periodiche soste tra uno squilibrio e l’altro. Non si raggiunge per via puramente formale ciò che non diventa insito nel movimento riproduttivo dei rapporti sociali. Nella società capitalistica, d’altronde, si è solo verificata l’estensione alla sfera economico-produttiva del principio del conflitto, che in altre epoche storiche vigeva soprattutto in quella politico-militare e in quella ideologico-religiosa. Certamente, questa estensione ha “involgarito” le classi dominanti; la generalizzazione della forma di merce, che significa la pervasività sociale del pagamento in denaro, ha reso tutto “comprabile”: l’onore, la dignità, il coraggio, la lealtà, ecc. Tutte queste belle qualità, però, servivano nelle precedenti epoche a stabilire regole diverse, e forse più “nobili”, di scannamento generale (o di duello individuale). Il principio del conflitto per sopraffare gli altri e assumere la predominanza non è però differente da quello degli “ultimi”….cinque o diecimila anni (o quanti? Credo da sempre).

Lo sviluppo nella “pacifica” India è del tutto simile a quello in atto nella “crudele” Cina; poiché è comunque disarmonia, squilibrio, lotta. Prima si sviluppano alcune regioni del paese e poi, sussistendo certe politiche effettuate da dati gruppi dominanti, assistiamo ad un trasmissione del dinamismo all’insieme, ma senza che si verifichi alcun livellamento delle differenze; quasi sempre, invece, in accentuazione. L’arricchimento di una parte della società – dei gruppi dominanti – è poi seguito, sempre se vengono attuate le opportune politiche, da un più “timido” innalzamento del livello di vita degli strati sociali dominati, e non in modo uniforme ed eguale neppure in quest’ambito. Il realismo impone di prendere le mosse dalle considerazioni appena fatte, non dalle menzogne, consapevoli o meno che siano, di ideologi imbonitori al servizio delle classi dominanti (sempre, anche quando sembra che difendano i dominati). Qui si pone quel problema che i vecchi “marxisti” incanalavano, con “falsa coscienza”, nella discussione sul rapporto tra riforme e rivoluzione. Ormai, tale problema non mi sembra proprio debba essere più posto nei termini di un tempo ben lontano.

I vecchi comunisti e marxisti pensavano l’attività riformistica – necessitata qualora ci si trovasse in un contesto sociale ancora fortemente dominato dalla classe capitalistica proprietaria – quale periodo di training e di accumulazione delle forze della classe in sé portatrice della rivoluzione. Le riforme, attuate nella sfera della distribuzione e del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (salariati), avrebbero vieppiù messo in evidenza l’impossibilità di contrastare per tale via lo sfruttamento (estrazione di pluslavoro, sia pure nella ingannevole forma del valore-lavoro delle merci, che sembra assicurare il mero scambio di equivalenti); nel contempo, tramite le lotte riformistiche si sarebbe rinsaldata l’unione della classe deputata al rivolgimento dei rapporti capitalistici, già in via di compattamento a causa del movimento intrinseco alla riproduzione sociale, teso alla già rilevata formazione del lavoratore collettivo cooperativo.

Una volta abbandonata questa scorretta e ormai inaccettabile visione della dinamica capitalistica, e appurata la crescente frammentazione (segmentazione e stratificazione) del tessuto sociale, le lotte dei vari raggruppamenti – di lavoratori o meno; e di lavoratori sia salariati che cosiddetti autonomi – restano strettamente confinate al livello distributivo della riproduzione dei rapporti sociali. I problemi della crisi, non nel suo semplice aspetto economico che è il meno dannoso e pericoloso per i dominanti capitalistici (malgrado l’enfasi posta su di essa dagli epigoni di Marx), nascono proprio dalle modalità assunte dallo sviluppo nell’ambito sia della formazione in generale che, soprattutto, di quella globale con riferimento all’articolazione di quelle particolari che la compongono. Lo sviluppo, causato dalla forte tensione dinamica impressa dalla lotta per la preminenza (estesasi nel capitalismo anche alla sfera economico-produttiva), provoca scissioni e distanziamenti tra ceti sociali e tra le diverse formazioni particolari (in genere paesi o gruppi degli stessi); diventano così molto probabili periodiche acutizzazioni delle tensioni sociali e delle lotte che da queste derivano.

Tuttavia, la situazione si aggrava nettamente quando si verifica lo sviluppo ineguale: sia tra gruppi dominanti diversi in una certa formazione particolare sia tra differenti formazioni particolari nell’ambito di quella globale. E’ l’alterazione dei rapporti di forza tra gruppi sociali, in specie tra quelli dominanti e soprattutto quando i mutamenti avvengono rapidamente in seguito a lotte estremamente acute, a provocare crisi politico-istituzionali, ideologico-culturali, ecc. che lacerano il tessuto sociale con possibilità di ristrutturazioni radicali. Le stesse considerazioni valgono per le crisi legate all’affermarsi di differenti rapporti di forza tra formazioni particolari e al precipitare di scontri accesi tra di esse per la preminenza globale. Va anche detto che spesso, e più facilmente, le crisi interne a determinate formazioni e quelle inerenti al confronto tra più formazioni in ambito (geopolitico) globale si intrecciano e alimentano vicendevolmente.

E’ bene ricordare ancora una volta che, per quanto riguarda sia la lotta tra gruppi all’interno di una data formazione particolare sia il conflitto tra più formazioni particolari, le crisi di maggiore intensità e ampiezza si manifestano quando lotta e conflitto si inaspriscono soprattutto tra dominanti. Se una certa costellazione di forze dominanti (costituita da intrecci di agenti strategici delle varie sfere sociali) fa entrare una formazione particolare in situazione di difficoltà, stagnazione, crisi, malcontento sempre più generalizzato, ecc., è più probabile, almeno in un primo tempo, l’emergere di altri gruppi dominanti che si pongono in alternativa. Così pure, quando si transita alle fasi policentriche, il conflitto si acutizza specialmente, provocando i più netti risultati trasformativi (passaggi d’epoca), tra formazioni particolari dell’area a capitalismo avanzato, caratterizzate da differenti ritmi di sviluppo, che non accettano più di sottostare alla formazione particolare fino ad allora in posizione predominante.

 

  1. Non è qui il caso di riferirsi specificamente alla formazione particolare Italia, che andrà analizzata ad un “più basso” livello di astrazione teorica. Tuttavia, sia pure per linee assai generali e generiche, è bene trarre alcune conclusioni da quanto fin qui sostenuto. Non esiste intanto alcuna classe, in via di omogeneizzazione e compattamento, da cui emerga uno strato di élite in grado di avere una visione complessiva e ben delineata della necessaria prassi trasformativa del capitalismo; per di più nella direzione di una determinata società altra del tipo del comunismo. Nemmeno è più possibile pensare ancora alla formazione, pur in qualche modo artificiale, di avanguardie “di classe”, che presuppongono pur sempre la sussistenza dell’in sé di quest’ultima, dunque di un movimento oggettivo verso la suddetta sua omogeneizzazione e compattamento, che faccia da supporto alla soggettiva azione rivoluzionaria delle avanguardie in questione.

Esistono sempre, in ogni epoca e in numero maggiore o minore, singoli gruppi di soggetti (individui) – per null’affatto caratterizzati in maggioranza da una determinata collocazione “di classe”, anzi provenienti dai più svariati comparti in cui si frammenta vieppiù la società del capitale – che si pongono criticamente rispetto ai caratteri di prepotenza, sopraffazione (e certo inganno, raggiro, ecc.), tipici del conflitto in questa (come in precedenti) forma di società. Tali gruppi di “critici” si espandono e rafforzano nelle situazioni in cui le tensioni sociali si fanno via via più acute: sia all’interno di una formazione particolare come tra più formazioni (in sviluppo ineguale) nell’ambito di quella globale. Tali gruppi perdono le loro potenzialità – e al limite possono di fatto costituire una “carta di riserva” per i dominanti – se “distraggono” forze da una critica sociale adeguata; soprattutto quando, con estremismo apparente, predicano l’eguaglianza, il pacifismo e altre favole edificanti. In primo luogo, bisogna comprendere la positività della competizione, se sfrondata dei lati di aperta violenza per conquistare la supremazia eliminando o asservendo i competitori. In secondo luogo, va rilevato che la critica alla forma assunta dal conflitto nel capitalismo deve comunque tener debito conto di essa e saperla gestire e sfruttare per i propri fini.

Le “anime belle”, spesso non proprio in buona fede, sono comunque, quand’anche “oneste” (anzi, sono ancora più pericolose in tal caso), del tutto negative e vanno combattute perché indeboliscono l’azione critica. E’ perfettamente inutile cercare di sfuggire alla contraddizione: da una parte è obbligatorio criticare, anzi opporsi drasticamente alla forma capitalistica del conflitto per la preminenza; tuttavia, è nel contempo necessario condurre la propria azione contro i gruppi dominanti, sapendo di strategia e del misto di forza e malizia che l’agire trasformativo (“rivoluzionario”) comporta nell’attuale società. Così pure, è indispensabile orientare i dominati – e prima di tutto unire i raggruppamenti decisivi degli stessi (che non sono affatto in via di amalgama) – per ottenere i risultati trasformativi (di rivoluzionamento sociale); nel contempo, bisogna saper entrare, e proprio nei momenti in cui ciò diventa possibile, nelle contraddizioni tra gruppi dominanti, le cui interrelazioni conflittuali e rispettivi rapporti di forza sono differenti in epoche diverse, in fasi mono o invece policentriche. E via dicendo.

Di tutto ciò è meglio essere ben edotti, avendo inoltre la piena consapevolezza che la propria azione tende a convergere, e rischia di confondersi, con quella degli agenti politici da me denominati rivoluzionari dentro il capitale, messi in campo da nuovi gruppi di dominanti intenzionati, una volta rottisi gli equilibri precedenti, a rovesciare il potere dei vecchi gruppi, le cui strategie – sia interne ad una formazione particolare sia applicate al confronto tra più formazioni –  aprono congiunture di crisi, di tensione sociale, di sfarinamento delle istituzioni, di caduta del consenso, ecc. In definitiva, si tratta delle stesse congiunture in cui si manifestano le maggiori possibilità d’azione da parte dei gruppi anticapitalistici. A causa di questa confusione, di questa “fatale” vicinanza di intenti “rivoluzionari” profondamente diversi, non è mai assicurato il successo, nemmeno nei momenti di massima crisi interna a date formazioni particolari, delle forze che agiscono specificatamente contro il capitale.

 

  1. Riassumiamo. Quella che continuiamo a chiamare società capitalistica – composta da ondate successive di sviluppo di formazioni sociali caratterizzate da via via differenti strutture di rapporti (capitalismo “borghese”, dei “funzionari del capitale”, ecc.) – non ha (più) molto a che vedere con le indicazioni forniteci dalla teoria di Marx; a meno di non rifarsi alla banale ripetizione delle “giuste” previsioni marxiane circa la centralizzazione monopolistica dei capitali, la generalizzazione della forma di merce e la continua estensione del mercato globale, e via cianciando. Se Marx avesse “scoperto” solo simile “acqua calda”, sarebbe veramente uno studioso di secondo rango. Ha detto molto di più, può quindi stimolare ben altre formulazioni teoriche; queste però debbono oggi soltanto aiutarci a percorrere nuovi sentieri. Le riflessioni di Marx vanno prese come un invito pressante a rimuginarne di nuove, che si distanzino dalle sue; è ben noto che, quando ci si allontana criticamente da un grande pensatore, non lo si abbandona e tanto meno lo si tradisce, bensì lo si usa – proprio mediante la negazione determinata delle sue tesi – quale pungolo ancora fecondo e vitale. Solo i dottrinari “chiesastici”, quali sono i rimasugli marxistoidi d’oggi, non capiscono tale problema e ci propinano sterili rimasticature del passato remoto.

I gruppi dominanti non tendono a centralizzarsi ed unificarsi, permangono invece in conflitto continuo con alternanza di acutizzazione e attenuazione dello stesso; quell’alternanza che, al livello delle interazioni fra formazioni particolari nell’ambito di quella globale, danno vita alle epoche (di lunga durata) di mono e policentrismo. All’interno delle singole formazioni particolari, le fasi di accentuazione dello scontro tra dominanti conduce, non però necessariamente e ineluttabilmente, a congiunture di “rivoluzione” con sbocchi non predeterminati: contro o dentro il capitale (più facilmente si realizza la seconda soluzione). Le modalità del conflitto sono quelle da sempre in uso tra i dominanti nelle diverse forme storiche di società; solo che in quelle precapitalistiche, le strategie del conflitto per la supremazia, fondate su forza e astuzia (detto in estrema sintesi), erano utilizzate nelle sfere politico-militare e ideologico-culturale, mentre nel capitalismo pervadono pure l’intera sfera economica duplicatasi in merce e denaro (produzione e finanza), una sfera che fornisce a questo punto i mezzi essenziali per l’attuazione delle strategie in ogni ambito sociale.

Un conflitto del genere produce sviluppo, e tramite questo consente l’egemonia dei gruppi dominanti e l’accettazione del dominio da parte dei sottoposti che migliorano comunque – come tendenza di lungo periodo – le loro condizioni di vita; diciamo pure quelle materiali, ma con ciò non si incrina di un ette il consenso generalizzato per questa forma sociale. Oltre allo sviluppo, il conflitto produce anche segmentazione e stratificazione crescenti della società, con interazione, quanto meno non armonica, tra i vari spezzoni e comparti sociali (segmenti e strati). Lo sviluppo è esso stesso disarmonico, avviene con ritmi diseguali in tempi e spazi diversi e conduce a periodi (e aree) di acutizzazione. Soprattutto nei periodi e aree (formazioni particolari o loro gruppi) in cui si accentuano disarmonia e crisi, si rafforza la “disaffezione” e spesso l’antagonismo nei confronti delle modalità di uno sviluppo fondato sulle strategie del conflitto per prevalere con la forza e con l’inganno; inizialmente lo scontro si fa più acuto tra i dominanti, ma ne vengono poi investiti sempre più largamente tutti gli altri ceti sociali.

I gruppi di agenti che criticano apertamente le caratteristiche del conflitto strategico tra dominanti – gruppi del tutto minoritari e relativamente isolati nelle fasi di attenuazione delle lotte e di prevalente consenso al capitale – non sono avanguardia di “una classe”, ma hanno anzi “estrazione sociale” assai composita. Chiedersi che cosa li unisca e che cosa essi rappresentino oggettivamente non è senza senso, ma credo costituisca in determinati periodi un esercizio perfettamente inutile. E’ più interessante chiedersi come mai essi – in genere figli di una passata epoca di acutizzazione del conflitto interdominanti – si trovino in situazione di crescente debolezza e di isolamento nell’ambito di formazioni particolari, man mano che queste accedono agli alti gradini dello sviluppo capitalistico, nel raggiungimento dei quali il processo di differenziazione sociale ha sciolto la “massa” del popolo dai suoi legami con più antiche tradizioni e culture. Non esiste anzi nemmeno più un popolo in senso proprio, bensì un insieme articolato di vari comparti sociali fra loro in interazione, diversamente posizionati sia in orizzontale che in verticale.

I gruppi critici (anticapitalistici) debbono comportarsi piuttosto differentemente nei periodi di attenuazione e in quelli di accentuazione degli scontri. Essi si muovono necessariamente tra molte contraddizioni che vanno assunte consapevolmente e senza pretese di una “purezza” di intendimenti, che si pretendono rivolti all’“amore per il popolo”, ormai del tutto inesistente come appena rilevato. E’ necessario condurre una critica delle modalità strategiche del conflitto tra dominanti, demistificando le varie ideologie “armoniciste” (e di falsa cooperazione) che le occultano e mistificano; e tuttavia si debbono conoscere tali modalità e rivolgerle contro i dominanti. Vanno condotte azioni politiche – sottoposte all’attento vaglio di date ipotesi teoriche circa la struttura e dinamica capitalistiche – atte a favorire il collegamento tra gli strati “bassi” della società (quelli più nettamente dominati) e la possibile loro alleanza in un dato “blocco sociale”; sarebbe però un errore decisivo dimenticare la lotta interdominanti e non assumere determinate posizioni in grado di acuirla e di favorire comunque i gruppi nuovi e più dinamici contro quelli ormai intorpiditisi e tendenzialmente parassitari. E’ semplicemente sciocco e avventuristico – tanto da far pensare talvolta alla mala fede di certi finti critici del capitalismo – inimicarsi proprio gli strati sociali “bassi” predicando contro lo sviluppo (solo “materiale”; che “orrore”! Questo però lo affermano certi intellettuali dalla pancia fin troppo piena); e tuttavia non vi è dubbio che non ogni tipo di sviluppo favorisce la crescita delle forze dette “antisistema”.

In ogni caso, si tenga presente che le possibilità “rivoluzionarie” si presentano soprattutto nelle congiunture di crisi. Ovviamente, come più sopra rilevato, non si tratta mai di crisi puramente economiche; occorrono ben altre condizioni di sfilacciamento della trama sociale complessiva, di affievolirsi del consenso e di forti incrinature degli apparati politici e istituzionali. Condizioni simili rendono perciò problematico lo sviluppo; questo diventa del resto ancora più debole, incerto e soggetto ad inversioni di tendenza anche in seguito al sempre più duro confronto interdominanti, che vede spesso intrecciarsi il conflitto tra formazioni particolari nel contesto globale e quello tra gruppi dominanti “vecchi” e “nuovi” all’interno delle formazioni particolari. Qui nasce allora una ulteriore complicazione per i gruppi di agenti politici che nutrono aspirazioni anticapitalistiche. La loro lotta si interseca, e rischia di confondersi, con quella degli agenti “rivoluzionari” dentro il capitale, intenzionati a rilanciare il sistema capitalistico sostenendo sia i nuovi gruppi di agenti capitalistici in una data formazione particolare, sia la propria formazione particolare contro le altre sul piano internazionale (epoche policentriche). Anche per questo, pur in congiunture adatte è comunque difficile l’attività dei gruppi anticapitalistici, che debbono porre molta attenzione a quanto predicano, pena l’alienarsi le simpatie di gran parte dei segmenti e strati – perfino di quelli situati nei bassi gradini della scala sociale (ed economica) – che tendono allora a raggrupparsi in “blocco sociale” sotto la direzione dei suddetti “rivoluzionari” dentro il capitale.

Se l’esperienza del fascismo, ma soprattutto del nazismo, non ha insegnato nulla, allora poveri noi! Vogliamo ancora sostenere la menzogna, sciocca e illusoria, che le masse erano antifasciste e antinaziste, che sono state subornate (chissà come e perché), che sono state piegate antidemocraticamente con la pura violenza? Se vogliamo continuare ad autoingannarci, seguendo i mediocri antifascisti che blaterano sciocchezze da tempo immemorabile, sotto la copertura della vittoria delle “democrazie” capitalistiche (il “migliore involucro della dittatura borghese” per Lenin), facciamolo pure; ma non avremo imparato nulla dall’esperienza storica. E ripeteremo i clamorosi errori degli anni trenta; non solo l’errore di definire socialfascisti i socialdemocratici, ma anche quello di aver in seguito costituito con questi ultimi un’alleanza “antifascista” confusa e pasticciata, che ha posto una bella pietra tombale su ogni velleità anticapitalistica. Non entro evidentemente in questa sede in una discussione, più storica che teorica (ma comunque orientata da nuove ipotesi teoriche), che sarebbe lunga e qui sviante. Certo, se qualcuno infine assolvesse un compito del genere, si farebbe chiarezza su temi ormai avvolti dalla spessa nebbia ideologica sparsa dai vincitori (capitalisti tanto quanto i perdenti).

 

  1. Questo è un altro piccolo pezzo di una lenta e faticosa costruzione teorica, che tenta in ogni caso di staccarsi dai vecchi lidi senza affatto perderne la memoria. Pur dove magari non sembra, mi confronto in realtà sempre con il passato (non solo teorico), sforzandomi però di prendere un diverso indirizzo. Non ho certo la pretesa di possedere le capacità intellettive di alcuni grandi di tempi trascorsi – non mi riferisco semplicemente a Marx e ai marxisti – che hanno dato forti contributi alla crescita di una teoria della società, soprattutto di quella capitalistica; una teoria capace anche di suggerire precise pratiche politiche ed economiche. Resto inoltre ben saldo sulla posizione assunta da Althusser quando affermò che Marx ha aperto alla scienza il Continente Storia.

Malgrado quanto appena ricordato, sono sempre più convinto della necessità di percorrere nuove strade, tornando eventualmente sui propri passi se ci si accorge di essere incappati in un “cul di sacco”; non arretrando però fino a ritrovarsi al punto di partenza per poi fermarsi e segnare il passo con stanche giaculatorie. Del resto, tanto per fare un esempio eclatante, Galileo, pur essendo un genio, non giungeva all’altezza di pensiero di Aristotele; eppure seppe mandare al diavolo gli aristotelici del suo tempo. Non mi sembra di vedere oggi in giro geni “galileiani”, ma ciò non deve impedire ad alcuna persona appena un po’ sensata di mandare infine al diavolo i marxisti o i weberiani o gli schumpeteriani o i keynesiani….ecc. ecc. (tanti sono i grandi del passato) onde avviarsi lungo sentieri non ben segnati, estirpando intanto un bel po’ di erbacce che intralciano il cammino.

Quindi mi sento tranquillo: non sono presuntuoso e tanto meno folle, so bene di essere lontanissimo dai livelli di intelligenza di Marx, ma anche di tanti altri marxisti minori. Tuttavia, sono del tutto insoddisfatto delle attuali analisi della società da qualsiasi parte provengano; credo perciò che ci sia spazio per pensare e “innovare”. Comunque tento, e andrò avanti passin passino, con estrema prudenza. Solo alla fine, se ne avrò il tempo, sonderò la possibilità di elaborare il tutto in un nuovo libro che segni un deciso passo in avanti rispetto agli Strateghi del capitale.

 

 

I MANIFESTI NEMICI _ REPLICA DI ROBERTO BUFFAGNI AD ALESSANDRO VISALLI_ULTIMA PARTE

I manifesti nemici

Replica ad Alessandro Visalli – seconda e ultima parte

1a PARTE   http://italiaeilmondo.com/2017/11/07/i-manifesti-nemici-di-roberto-buffagni/

In basso a destra della pagina principale del sito, nella categoria dossier, alla voce “Europa Unione Europea” sono disponibili gli articoli sin qui prodotti sull’argomento

 

Tocco qui il punto della Dichiarazione di Parigi che Visalli definisce “una scelta che proprio non posso condividere.” Riporto per esteso il brano criticato da Visalli sia per comodità del lettore, al quale sono stati presentati i testi in esame qualche settimana fa, sia perché il punto è importante.

Qual è la scelta che Visalli trova inaccettabile? Così la descrive il brano della Dichiarazione di Parigi citato e commentato dal nostro interlocutore: (sottolineature mie)

Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro…Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.”.

Visalli critica così: (sottolineature mie) “Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza…. Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Replico brevemente alla critica di Visalli.

1) Le classi e i ceti, cioè a dire la diseguaglianza sociale, sono una regolarità storica permanente. La diseguaglianza sociale può affermarsi nella realtà effettuale in molti modi; e in molti modi può essere legittimata. Le distanze gerarchiche possono essere più o meno grandi e più o meno rigide, le asimmetrie di potenza maggiori o minori, ma la diseguaglianza sociale resta un dato storico permanente e universale.

2) E’ possibile e desiderabile, un’azione politica tendente a eliminare la diseguaglianza sociale? Si badi bene: eliminare, non ridurre, o modificare ricostruendola su basi anche radicalmente diverse?

3) No. L’eliminazione della diseguaglianza sociale è impossibile, e dunque indesiderabile, perché produce effetti enantiodromici. La dinamica è la seguente: a) per eliminare la diseguaglianza sociale è necessario intervenire sulla realtà sociale non egualitaria b) per intervenire efficacemente sulla realtà sociale è indispensabile il potere c) il potere non può essere esercitato da tutti, sennò l’eguaglianza ci sarebbe già d) il potere viene invece esercitato da alcuni: come sempre il potere, che è per sua natura un differenziale di potenza, + potente/- potente d) risultato: più eguaglianza sociale si vuole ottenere, più dispotismo politico risulta necessario impiegare e) alla fine delle operazioni, si ottiene molta eguaglianza per i molti, molto potere per i pochi.

4) Questa dinamica paradossale ed enantiodromica è la caratteristica più vistosa di quel che Eric Voegelin chiamò “gnosticismo politico”[1], cioè a dire la trasposizione sul piano storico, immanente, delle categorie escatologiche cristiane. La trasposizione è motivata dalla reazione patologica a un’esperienza universalmente umana: l’orrore di fronte all’esistenza – per esempio, l’orrore di fronte all’ingiustizia sociale, che può assumere forme veramente atroci – e il desiderio di fuggirne. Il cristianesimo sdivinizza, “disincanta” il mondo naturale e storico. Quando la fede cristiana nella trascendenza si eclissa, l’angoscioso vuoto di senso che si spalanca nel mondo viene riempito dalle gnosi: che prendono forma politica qualora le società non trovino più sufficiente legittimazione nel loro ethos tradizionale, e sentano il bisogno di un’efficace, coesiva teologia civile. Lo gnosticismo politico non commette soltanto un errore teorico in merito al significato dell’eschaton cristiano. In conformità a questo errore, le ideologie gnostiche e i movimenti che le traducono in azione politica interpretano una concreta società e l’ordine che la regge come un eschaton; e dando una lettura escatologica di concreti problemi sociali e politici, fraintendono la struttura della realtà immanente: cioè sognano quando sarebbe indispensabile essere ben desti. In particolare, il sogno gnostico oscura e rimuove la più antica acquisizione della saggezza umana: che ogni cosa sotto il sole ha un inizio e una fine, ed è sottoposta al ciclo di crescita e decadenza; che insomma tutto, nel mondo immanente, è governato dal limite.

5) Gli errori in merito alla struttura del reale hanno serie conseguenze pratiche, che spesso si manifestano in forma paradossale: come nell’esempio succitato, in cui perseguendo l’eliminazione della diseguaglianza sociale si ottiene il dispotismo; o come nel caso dell’immigrazione di massa, nel quale perseguendo l’accoglienza umanitaria indiscriminata degli stranieri si ottiene non soltanto il rischio di collasso delle strutture sociali, ma addirittura l’insorgenza del razzismo.

6) Se l’errore in merito alla struttura del reale consegue a un’ideologia gnostica, l’accecamento di fronte alla realtà diventa però una questione di principio. Immediata conseguenza: lo gnostico vuole ottenere un effetto, e ne ottiene un altro diametralmente opposto. Del baratro tra intenzione e risultato, però, lo gnostico non incolperà mai se stesso e il suo sogno: incolperà sempre gli altri, o la società nel suo insieme, che non si comportano secondo le regole in vigore nel suo profetico mondo di sogno.

7) Lo gnosticismo politico non si manifesta in una sola forma. Ieri si è manifestato in forma di comunismo, nazismo, puritanesimo, catarismo, etc. Oggi si manifesta in forma di progressismo, di “liberal-democrazia” mondialista.

8) Si può, e si deve, discutere a lungo e a fondo, dissentendo anche con asprezza, in merito ai contenuti, alle forme, alle ragioni di eguaglianza e gerarchia sociali. Il dibattito teorico, e il conflitto pratico, sono non soltanto inevitabili ma benefici: a patto che dibattito e conflitto non si si propongano obiettivi immaginari ma reali, e dunque limitati (può essere limitato anche un conflitto armato).

9) E’ un obiettivo immaginario e pertanto distruttivo ed enantiodromico l’abolizione delle diseguaglianze sociali, è un obiettivo reale e pertanto costruttivamente perseguibile una loro diminuzione, e/o una loro diversa composizione e legittimazione. Uno dei dati di realtà da tenere in conto è il conflitto dei valori: libertà/sicurezza, eccellenza/eguaglianza, democrazia/capacità decisionale, etc. In quest’ultimo caso, l’esperienza storica suggerisce che la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico; che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche. Nella cultura politica del repubblicanesimo antico e moderno si possono trovare molte utili indicazioni in merito alla funzione positiva e costruttiva della compresenza conflittuale di istituzioni che si rifanno a principi diversi: monarchico (esecutivo forte), aristocratico (senato), democratico (suffragio universale).

Per concludere. Non tocco, qui, il tema “quali eguaglianze, quali gerarchie siano desiderabili e perché”. Ne potremo discutere, con Visalli e con altri, in seguito. Quel che mi preme, per ora, è indicare il contesto entro il quale questa discussione mi pare fruttuosa: che non è l’antitesi radicale e principiale eguaglianza/gerarchia, progresso/reazione; ma le forme e i contenuti concreti delle eguaglianze, delle differenze, delle gerarchie possibili.

[1] Per una trattazione sintetica, v. Eric Voegelin, «Modernity without Restraint», in Collected Works of E.V., vol. V, Columbia and London: University of Missouri Press, 2000.

 

L’ aperi-cena filosofica _ Il Manifesto convivialista , di Elio Paoloni

 

 

L’ aperi-cena filosofica

Il Manifesto convivialista

 

Elio Paoloni

 

Su questo sito si discute di Manifesti, in particolare della Dichiarazione di Parigi,(https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/ ) che, come altri collaboratori del blog, condivido interamente. Parigi c’entra poco, in realtà, anche se tra i firmatari ci sono il medievista francese Rémi Brague, studioso di Maimonide e docente alla Sorbona e Chantal Delsol, la fondatrice dell’Istituto Hannah Arendt di Parigi: tra gli altri firmatari del documento, originariamente redatto in inglese,  troviamo Roger  Scruton, uno dei massimi filosofi anglosassoni, (https://eliopaoloni.jimdo.com/2013/01/14/un-conservatore-relativista ) il polacco Ryszard Legutko, ex ministro dell’Istruzione, docente di Filosofia antica all’Università Jagellonica di Cracovia e prima ancora responsabile intellettuale di Solidarnosc durante la Guerra fredda, il tedesco Robert Spaemann, a lungo compagno di ricerche e studi dell’allora professor Joseph Ratzinger e poi erede della prestigiosa cattedra che fu di Hans-George Gadamer a Heidelberg, lo spagnolo Dalmacio Negro Pavón, membro dell’Accademia reale spagnola per le scienze sociali e poi personalità olandesi, tedesche, norvegesi.

 

Francofoni erano invece i firmatari di un manifesto in cui mi sono imbattuto, quello convivialista, (qui http://www.edizioniets.com/scheda.asp?n=9788846739421 , qui un compendio in PDF http://www.postfilosofie.it/archivio_numeri/anno7_8_numero7/1compendio.pdf ), redatto qualche anno fa con il proposito di unire le diverse anime del pensiero alternativo, di “individuarne il massimo comun denominatore”.

 

Non è così difficile, in realtà, unire diversi volenterosi sull’ennesima esposizione di lodevoli principi: come non concordare sulla nocività della finanziarizzazione del mondo e della subordinazione di tutte le attività umane a una norma commerciale, iniziata con l’imposizione dell’idea di “Fine della storia”? Come dissentire dalla stigmatizzazione dell’imperio del Mercato a discapito di qualsiasi seria azione politica? Come non rammaricarsi, con i firmatari, che venga disconosciuta la “motivazione intrinseca” al lavoro, che si escluda il fare per senso del dovere, per solidarietà, per il gusto di un lavoro ben fatto e per il desiderio di creare?

 

Vediamo dunque i capisaldi della politica convivialista:

 

  • Principio di comune umanità: aldilà delle differenze di colore della pelle, di nazionalità, di lingua, di cultura, di religione o di ricchezza, di sesso o di orientamento sessuale, esiste soltanto un’umanità, che deve essere rispettata nella persona di ognuno dei suoi membri. Sai la novità! Dette duemila anni fa e riproposte, desacralizzate, due o tre secoli fa in tanto solenni quanto inerti dichiarazioni. Ma concordiamo pure.

 

  • Principio di comune socialità: gli esseri umani sono esseri sociali. Un po’ di storia della filosofia e la ritroviamo ancor più indietro dei duemila anni. Ma, ancora una volta, nulla da eccepire.

 

  • Principio di individuazione: la politica legittima è quella che permette a ciascuno di affermare al meglio la propria singolare individualità in divenire, sviluppando le proprie capabilità (apprezzabile richiamo all’etica di Amartya Sen).

 

  • Principio di opposizione controllata: è naturale che gli esseri umani possano opporsi. Ma è legittimo farlo solo se non si mette in pericolo il quadro di comune socialità. Perbacco! E ci si sono messi in quaranta?

 

In effetti i firmatari si rendono conto che la scommessa “porta esattamente su ciò che si cerca dall’inizio della storia umana: un fondamento durevole all’esistenza comune, al contempo etico, economico, ecologico e politico”. Per quel che mi riguarda quel Fondamento esiste già. Non per i convivialisti, ovviamente. Quale sarebbe dunque questo massimo comun denominatore?

 

Forse la costruzione di una società del care, “la cura, la sollecitudine – alle quali le donne per prime sono state storicamente assegnate”. Ed eccoci subito dinanzi alla mancanza di coraggio, o alla necessità di mediazione, insomma al timore di indispettire le femministe, perché quello storicamente andrebbe sostituito con biologicamente.

 

Ma questo non basta, ovviamente. Analizziamo le considerazioni morali dei firmatari: va proibito all’individuo “di sprofondare nell’eccesso e nel desiderio infantile di onnipotenza (la hybris dei Greci)”. Giustissimo! Ma la hybris si configurerebbe, qui, nel pretendere di appartenere a qualche specie superiore (perché mai, infatti, l’uomo dovrebbe essere superiore alla zanzara?) o nel monopolizzare una quantità di beni eccessiva. Non un cenno al galoppare dell’Eugenetica o al delirio di onnipotenza di chi cerca l’immortalità tagliandosi le tette in via preventiva, a prescindere, come la tristemente rifatta Angelina Jolie, approdo ultimo della vaccinocrazia, della medicalizzazione di ogni ambito della vita, della ricerca ossessiva della Sicurezza. Neanche una parola sul delirio di onnipotenza di chi intende annullare i generi, femminilizzare gli uomini, abbrutire le donne. Nessun riferimento a chi manovra per sradicare le tradizioni e imporre a tutto il pianeta, divinizzandolo, un unico regime politico, un unico governo. Ah, dimenticavo: il governo mondiale è anche nei disegni dei nostri buontemponi: nel paragrafo delle considerazioni politiche si prende atto che è illusorio attendere nel prossimo futuro la costituzione di uno stato mondiale. Pare di capire che in un futuro più remoto essa sia probabile, anzi auspicabile. Viva il mondialismo? E in che cosa sarebbe alternativo questo movimento? Nel frattempo, poveri noi, dovremmo accontentarci dell’azione politica di “associazioni e ONG”, magnifici strumenti sovranazionali, progressisti e – come dubitarne – indipendenti che abbiamo imparato a conoscere.

 

Concretamente, continuano i convivialisti, il dovere di ciascuno è di lottare contro la corruzione. Questi umanisti non hanno letto Croce (https://www.storiadellafilosofia.net/filosofia-moderna/benedetto-croce/l-onest%C3%A0-politica/ ). Ad ogni modo, occorre “rifiutare di fare ciò che la coscienza disapprova”. Coscienza con la minuscola? E perché mai, in un mondo relativista, la coscienza di Soros dovrebbe dettare gli stessi imperativi di quella di un derviscio rotante? Chi stabilisce, nel mondo del pensiero debole, liquido, più propriamente diarroico (che nessun convivialista si sogna di denigrare) cosa sia “giusto e intrinsecamente desiderabile”?

 

Ma nello specifico? Reddito di base, ovvero il grillino reddito di cittadinanza depurato dell’aggettivo troppo nazionalistico: non siamo tutti, soltanto, cittadini del mondo? Pare abbastanza condivisibile l’instaurazione di un reddito massimo, che però non scalfirebbe minimamente le grandi entità multinazionali e i centri di potere finanziari, le cui sedi sono immateriali. Ah, dimenticavo, nel convivialismo ‘pienamente realizzato’, il governo sarà planetario.

 

Evasivi, criptici, fumosi, gli altri proponimenti politici: “nella moltiplicazione delle attività comuni e associative, costitutive di una società civile mondiale… il principio di autogoverno ritroverebbe i suoi diritti, al di qua e al di là degli Stati e delle nazioni”. Cosa ci sarebbe qui di alternativo alla globalizzazione? Che senso ha scardinare le uniche entità che possono avere la forza di arrestare il tanto osteggiato dominio della finanza, a favore di un arcadia anarco-digitale? Digitale, già. Perché, come insegnava anche Casaleggio, “Internet è un potente mezzo di democratizzazione della società e di invenzioni di soluzioni che né il Mercato né lo Stato sono stati capaci di produrre… attraverso una politica di apertura, di accesso gratuito, di neutralità e di scambio”. Come se il Mercato non passasse ormai massicciamente dalla rete, come se la neutralità fosse un attributo necessario dei Gates e degli Zucherberg. Come se in assenza di Stato si potesse impedire il monopolio, quel monopolio che ora almeno viene – debolmente – avversato. Come se qualcuno, in assenza di Nazione, potesse garantire l’accesso gratuito. Come se davvero la gente usasse quel Linux che a costoro pare la panacea: tra le mie conoscenze, un solo amico lo ha installato (ma non lo usa: è uno smanettone e ha voluto provarlo, tutto qui).

 

Non è possibile commentare seriamente il proposito di rinnovamento dei servizi pubblici attraverso “emergenza, consolidamento e allargamento dei nuovi beni comuni dell’umanità”. Con scappellamento a destra?

La situazione planetaria “impone di regolare strettamente l’attività bancaria e i mercati finanziari e delle materie prime, limitando le dimensioni delle banche e mettendo fine ai paradisi fiscali”. Non ci avevamo pensato! Eppure sarebbe così semplice, tra una sarchiata nell’orto comunitario urbano e una corsa al mercatino equosolidale per acquistare il caffè, sbaragliare, convivialmente, i paradisi fiscali. Chi, esattamente, lo farà, in assenza di Stato e di Nazione? Ah, ecco: “sarebbe giudizioso creare un abbozzo di l’Assemblea Mondiale (Non ci sono bastate la Società delle Nazioni e l’ONU?) che comprenda rappresentanti della società civile mondiale associazionista, della filosofia, delle scienze umane e sociali e delle differenti correnti etiche, spirituali e religiose che si riconoscono nei principi del convivialismo”.

1980-16-pellegrinaggio-nucleare-cm86x71-0-126Non sbagliava Michel Lacroix: “Per affrontare i problemi odierni, il New Age sogna un’aristocrazia spirituale nello stile de La Repubblica di Platone, gestita da società segrete”. E codesta accolta di onesti uomini tecnici, che per fortuna non ci è dato sperimentare (dal brano di Croce sopra citato) che si ritroveranno a governare il mondo, così, per caso (per acclamazione?) come fermeranno i finanzieri cattivi? Con un armata di bocciofile? Con volenterose truppe internazionali, come i caschi blu di Srebrenica? No, essenzialmente con tre formidabili armi:

 

  • il sentimento di appartenere a una comunità umana mondiale” che è un sentimento abbastanza comune, preso genericamente (per certi versi un’ovvia constatazione) ma difficile da provare nel concreto a meno che non si appartenga agli esponenti della globocrazia, quella casta di cosmopoliti che scorrazzano per il mondo piegandolo ai loro illuminati voleri (Monti, Boldrini, Draghi, Rockefeller e via dicendo). Nel mondo reale solo una cerchia ristretta può essere avvertita come la nostra comunità. Già la nazione – fuori dai campionati di calcio – è qualcosa di difficilmente avvertibile: il soldato non lotta per la Patria ma per il suo plotone. L’umanità è troppo ampia perché la si possa – politicamente – avvertire come prossima. Non è questione di cultura o sensibilità: la storia tutta intera, l’antropologia, la sociologia e la psicologia ci avvertono che l’accento del paesino limitrofo già ci separa. Aci Trezza è tuttora acerrima nemica di Aci Castello. Eppure, secondo Fistetti, firmatario e postfatore del manifesto, “tocca ai cittadini delle società liberaldemocratiche «deporre le armi», o, come dice Mauss, «fidarsi interamente» e avanzare l’offerta di alleanza” ai migranti che, manco a dirlo, sono, nella loro totalità ‘profughi’ e, se proprio non ce la facciamo a infilarli nella categoria, ‘migranti ambientali”. Una «scommessa sulla generosità»(Caillé) tipicamente cristiana ma in assenza di cristianesimo e anche di una seria riflessione sulla natura della principale religione antagonista, quindi una follia. Un suicidio politico, e prima ancora morale.

 

  • l’indignazione degli onesti e, specularmente, la vergogna “che è necessario far provare a coloro che violano i principi di comune umanità” (si vergogni, califfo Al Baghdadi, si vergogni, mister Rothschild, si vergogni mister Soros. Ma se già i fantocci politici di casa nostra sono proverbialmente definiti “senza vergogna”!).

 

  • sempre in tema sentimentale, la mobilitazione degli affetti e delle passioni, ben al di là, udite udite, delle scelte razionali degli uni e degli altri. Ma come, ci hanno sempre messo in guardia dal far appello alla pancia dei cittadini, ai rischi dello scatenarsi di emotività nella massa! Ma no, nel Mondo Nuovo convivialista si affermerà per incanto “il meglio delle passioni”, “per inventare altre maniere diverse di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di insegnare”. Immaginazione al potere, quand’è che l’avevo già sentita? Basteranno nuove Enciclopedie – digitali, ça va sans dire – aggiornate ai dettami ecovegansolidalpacifisti, compulsate le quali narcos boliviani, narcotizzati telespettatori e coatti d’ogni continente si eleveranno a un nuovo stadio di spiritualità.

 

Scorrendo le pagine di questo fantasioso libello mi imbatto anche nell’“obbligo perentorio di far scomparire la disoccupazione”. Di perentorio in tal senso ricordo solo i piani quinquennali. Che si facevano rispettare a suon di deportazioni.

In fondo, finalmente, leggo che si “dovrà assolutamente puntare a ricongiungere sovranità monetaria, sovranità politica e sovranità sociale”. Ottimo! Anzi no: eravamo stati ingannati dalla formulazione ambigua: leggendo meglio si arguisce che la sovranità riguarderebbe una UE rafforzata, non i singoli Paesi.

 

Fin qui solo fuffa: un contenitore vuoto, una sequela di buonismi, di quelle buone intenzioni che sappiamo bene cosa sono destinate a lastricare. Anche di intenzioni pessime, per quel che mi riguarda, come lo è ogni proposito contro la sovranità nazionale. Ma, a ben vedere, una proposta politica concreta c’è: tra le anime alternative ne emerge prepotentemente una, che ho volutamente tralasciato, benché sia presente sin dalle premesse. La parola d’ordine è ‘decrescita’. Latouche risulta essere solo uno dei firmatari ma sui suoi vagheggiamenti si fonda buona parte del manifesto, che riprende i catastrofismi da Club di Roma e il tormentone del CO2 per approdare alla esaltazione della “sobrietà volontaria e dell’abbondanza frugale”. Il problema fondamentale sarebbe la “minaccia antropica”(ci mancava il neo-malthusianesimo), la “finitezza orami evidente del Pianeta e delle sue risorse naturali”. “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La situazione ecologica del pianeta rende necessario ricercare tutte le forme possibili di una prosperità senza crescita”.

 

Le infelici uscite di Latouche, che si fondano su un’idea primitiva dei sistemi economici, immaginati come insiemi di caratteristiche fisse ed immutabili nel tempo, sono state già ampiamente contestate: è chiaro per qualsiasi studioso vero che la riduzione del reddito nazionale non si traduce automaticamente in una produzione più pulita; anzi, è più facile che un calo delle risorse monetarie finisca con il tradursi in un processo di regressione industriale in cui vengano preferite tecnologie obsolete, e più dannose per l’ambiente (vedi il recente ritorno in auge del carbone tra le fonti di energia). E, soprattutto, gli effetti di una riduzione del PIL non sarebbero equamente distribuiti: andrebbero ad abbattersi in modo regressivo, colpendo la fascia più povera della popolazione, accrescendo proprio quella già enorme disuguaglianza additata nel Manifesto.

 

Collegate alla famigerata decrescita troviamo altre esplosive iniziative alternative: post-sviluppo, movimenti slow food, slow town, slow science; la rivendicazione del buen vivir, l’affermazione dei diritti della natura: “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La relazione di dono/contro-dono e di interdipendenza deve esercitarsi soprattutto verso gli animali, che non devono più essere considerati come materiale industriale. E, più in generale verso la Terra”.

Diritti della natura, attenzione. Non giuste e condivisibili preoccupazioni razionali su ciò che dobbiamo gestire e tutelare ma attribuzione di “diritti”. Per attribuirne alla gramigna e alle blatte non basta un paradigma filosofico, occorre una nuova religione, anzi no, basta forse reintrodurre quella andina (vedi elogio del pachamama). Non solo animalismo, insomma si accenna a cavalcare anche il misticismo dell’ipotesi Gaia, la teoria di Lovelock, allarmista pentito che non crede più alla fine del mondo per surriscaldamento e che, ad ogni buon conto, ha sempre sostenuto  l’unica energia abbondante veramente pulita e, per il nostro Paese, strategica e opportuna: quella nucleare, ovviamente demonizzata dai firmatari.

Il Sacro, scacciato dalla porta, rientra sempre dalla finestra. L’adorazione che non è rivolta al cielo si proietta verso il mondo. Gea, Iside o Mama Pacha, e l’immarcescibile Vitello d’oro (oggi Gattino, Cagnolino, Maialino), tutto si presta ad essere venerato dai nuovi pagani, i ‘laici’.

 

Ma cosa, insomma, sta dietro a questo movimento? Cosa lo differenzia da tanti generici propositi di tante brave (e anche pessime) persone? A conferire portata filosofica a questo documento di una povertà concettuale sconcertante, sarebbe, spiega Francesco Fistetti nella postfazione all’edizione italiana, il paradigma del Dono: molti degli studiosi firmatari, in particolare il propugnatore del manifesto, Alain Caillé, sono seguaci dell’eroe della tradizione antropologica francese, Marcel Mauss, autore del Saggio sul dono (1925), nel quale, interrogandosi sul rapporto tra diritto e interesse, teorizzava che la forma-dono delle società primitive resta uno dei capisaldi sui quali è fondata anche  la nostra società. “Non si concepiscono società senza mercato” e l’errore del socialismo è stato quello di volerlo abolire: il mercato va regolato.

Tutti noi non chiediamo di meglio anche se siamo convinti che per farlo ci vogliano un pensiero – e una azione – tutt’altro che slow. In cosa, ad ogni modo,  il convivialismo differisce dal Welfare State o dallo stato Keynesiano? Nel principio euristico, per cui l’economia, come la politica e la morale, è soltanto uno degli elementi dell’arte di viver in comune: “la società è un tutt’uno”. Non fa una piega. E dunque? “Occorre tornare al paradigma del dono”. Questo è lo slogan risolutivo, la panacea.

 

Ora, se questa parola d’ordine deve essere divulgata e portata sugli scudi, è necessario qualche chiarimento. Il termine dono , in questo contesto, è irrimediabilmente ambiguo, anzi fuorviante. Perché il destinatario del messaggio penserà al Dono, alla gratuità totale, a una postura caritatevole, disinteressata e amorevole come solo nella dimensione trascendente si dà. Stiamo invece parlando di un meccanismo di mercato molto ritualizzato e complesso, solo apparentemente libero e gratuito, in realtà obbligato e interessato (poiché il dono va obbligatoriamente ricambiato). Presso i Polinesiani gli attori coinvolti erano collettività: famiglie, clan, tribù; e non venivano scambiati solo beni ma anche “banchetti, riti, cortesie, azioni militari, donne, bambini”. Insomma “un sistema di prestazioni sociali totali”. Nelle quali, inutile dirlo, il manato ricambio veniva sanzionato anche duramente. Mauss riallacciava tutto ciò alle istituzioni di sicurezza e previdenza sociale. L’assicurazione è dunque un dono? E la previdenza? A me pare un mero accantonamento, una forma di risparmio, ma forse sto banalizzando.

 

Sarebbe il caso, ad ogni modo, di lasciar perdere questo mantra poiché il grande merito di Mauss è stato proprio quello di scoprire che quel dono non era affatto un dono. Lasciamo il Dono ai credenti e chiamiamo scambio questa forma della socialità.  Ecco che ci ritroviamo con un pallone sgonfiato. Che c’è di così nuovo nello scambio? Se ben comprendo, nel fare a meno della moneta tradizionale. Si parla infatti, nel manifesto, di commercio equo, mutua assistenza, monete parallele e complementari, sistemi di scambio locale. Si avversa dunque il signoraggio?

 

Il punto è, si sostiene, che mentre nelle società arcaiche l’economia era inserita nei rapporti sociali ora sono i rapporti sociali a essere inseriti nel sistema economico. Giusto. Sono anni che qui e su ogni sito decente del web si proclama che la politica deve riprendere il sopravvento sull’economia. Ma il dono non c’entra: c’entrano i rapporti di forza, nozione ormai abbandonata dagli intellettuali progressisti che la forza non vogliono sentirla nominare in alcun contesto.

 

Ad ogni modo, chiarito l’equivoco ci troviamo di fronte a un altro intoppo: abbiamo un paradigma che da un canto si sostiene già attivo – attivo da sempre, in ogni società, e – d’altro canto – non presente, dato che si chiede di  reintrodurlo. Si deve intendere che la reintroduzione consista semplicemente nel riconoscere – e ricollocare – le forme presenti oppure che si debba tornare a forme arcaiche, vale a dire alle usanze di piccole, lente e crudeli società patriarcali dove si “donavano” donne e bambini? C’è di che far spazientire.

 

babeleCosa disegnano costoro, insomma? Una società molto liquida basata su un economia di sussistenza, con strutture politiche anch’esse liquide, come avveniva appunto nelle società tribali, popolate di figure di prestigio prive di reale potere. Come poi tutto questo, una rete di centri sociali allargati percorsi dalla buona volontà senza neppure il supporto della Buona Novella, possa affermarsi su scala planetaria senza che si precipiti nell’anarchia più belluina non è dato comprendere. Vi saranno sempre nobili figure stoiche in grado di recepire imperativi morali, tratteggiare etiche e conformarvisi pure. Ma non è cosa che commuova le folle. Le lotte non si conducono con il salmodiare buonista ma con la dura analisi degli interessi storici e degli arcana imperii, diceva Costanzo Preve, che pure, per certi versi, col suo Nuovo Comunitarismo, potrebbe essere apparentato ai convivialisti.

 

Perché dunque spendere tante righe per confutare le affermazioni di un movimento così poco convincente, che è riuscito a darsi un nome improbabile, evocatore più di  libagioni da nouvelle cuisine che di lotte politiche, un movimento che presumibilmente si scioglierà come neve al sole o sopravvivrà in eterno come accade a quelle conferenze ininfluenti e costituzionalmente inconcludenti che sono i tavoli ecumenici del dialogo interreligioso?

 

Perché mentre i volenterosi pensatori francesi tentano di indurci alla frugalità volontaria i loro governanti si occupano della nostra decrescita forzosa. Tra banche, moda, alimentare, hi-tech ed energia, i cugini d’Oltralpe hanno speso negli ultimi cinque anni la bellezza di 24 miliardi di euro per mettere le mani sui gioielli grandi e piccoli, quotati e non, del made in Italy. Vedi qui: http://www.ilgiornale.it/news/politica/litalia-gi-colonia-francese-24-miliardi-1342668.html

 

Normali operazioni commerciali, all’apparenza. Ma quando il nostro governo, pochissimo tempo dopo aver stretto accordi di enorme importanza (e di mutuo soccorso militare) con Gheddafi, ha assistito coraggiosamente, favorendola pure, all’esplosione della Libia, voluta e fomentata col beneplacito della Clinton (vedi file wikileaks) dai nostri cari cugini al fine di estromettere l’ENI e concederci in cambio graziosamente la risorsa profughi, si è compreso che l’invasione è – anche – politica, strategica, preordinata. E’ di dominio pubblico la recente nazionalizzazione “temporanea” dei cantieri navali Stx, attualmente appartenenti a imprenditori coreani, pur di non farli finire nelle mani dell’italiana Fincantieri. Nonostante accordi ineccepibili con l’ex presidente Hollande. In altri tempi cose del genere potevano scatenare una guerra. Noi sorridiamo e libiamo ne’ lieti calici.

 

I nostri cari cugini, insomma, crescono, si espandono e si accaparrano risorse fossili, compreso l’uranio, mentre i loro chierici tentano di intortarci con le tavolate slow food.

 

 

 

 

MASSIMO MORIGI A PROPOSITO di CRISTIANESIMO, TOLLERANZA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. NOTE A MARGINE A TACCUINO FRANCESE! CHE COSA CI INSEGNA LA CRISI DEL FRONT NATIONAL? DI ROBERTO BUFFAGNI

15 Haec cum audisset quidam de simul discumbentibus, dixit illi: “Beatus, qui manducabit panem in regno Dei”.  16 At ipse dixit ei: “Homo quidam fecit cenam magnam et vocavit multos; 17 et misit servum suum hora cenae dicere invitatis: “Venite, quia iam paratum est”. 18 Et coeperunt simul omnes excusare. Primus dixit ei: “Villam emi et necesse habeo exire et videre illam; rogo te, habe me excusatum”. 19 Et alter dixit: “Iuga boum emi quinque et eo probare illa; rogo te, habe me excusatum”. 20 Et alius dixit: “Uxorem duxi et ideo non possum venire”. 21 Et reversus servus nuntiavit haec domino suo. Tunc iratus pater familias dixit servo suo: “Exi cito in plateas et vicos civitatis et pauperes ac debiles et caecos et claudos introduc huc”. 22 Et ait servus: “Domine, factum est, ut imperasti, et adhuc locus est”. 23 Et ait dominus servo: “Exi in vias et saepes, et compelle intrare, ut impleatur domus mea. 24 Dico autem vobis, quod nemo virorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cenam meam” ”

 Evangeliun Secundum Lucam 14: 15-24

 

Facendo i più vivi complimenti all’analisi politica svolta per “L’Italia e il Mondo” da Roberto Buffagni in “Taccuino francese! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?”, (1) un’analisi dove la puntuale conoscenza delle forze politiche che si scontrano sullo scenario transalpino viene eccellentemente unita ad una visione in profondità degli ultimi due secoli di storia francese, tale che vista l’importanza di questa nazione per la modernità politica occidentale, il “Taccuino francese!” può veramente aspirare ad essere una prima ricognizione non solo dei nostri problemi italiani (ed auspicabili soluzioni, posto, non mi stancherò mai di ripetere che in storia e nella vita delle società non si danno soluzioni come in matematica ma, semmai, nuovi problemi, dialetticamente connessi con quelli che li hanno preceduti) ma anche di quelli di tutte le odierne c.d. “democrazie”, è proprio sull’aspetto definito nell’analisi di Buffagni “metapolitico” (cioè della Weltanschauung e della politica culturale che dovrebbero connotare le consapevoli e più culturalmente attrezzate attuali forze antisistema) che si pone la necessità di una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema. Una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema che non può assolutamente sfuggire all’impostazione “culturalistica” datane da Antonio Gramsci quando nei suoi Quaderni del Carcere a livello di strategia politica preconizzava la graduale ed inesorabile conquista attraverso una lunga e paziente guerra di posizione delle “casematte” politico-culturali del nemico (dal suo punto di vista di comunista queste casematte erano occupate dalla borghesia e il movimento rivoluzionario non solo avrebbe dovuto battere il nemico di classe ma anche insignorirsi dei migliori valori di questa classe, in modo che non solo questi valori passassero al proletariato ma anche che i migliori rappresentanti della classe egemone ora sconfitta passassero dalla parte del proletariato) e formulava, con mentalità molto sorelliana, il mito del “moderno principe”, che non si riassumeva certo nell’ingannevole figura del classico “uomo forte”ma che rappresentava, piuttosto, la sintesi dialettica, incarnata in un movimento politico che sapesse fondere il momento più politico con quello di cultura politica – Buffagni lo definisce metapolitico – , fra le spinte dal basso politiche e culturali provenienti dal proletariato e le migliori istanze della borghesia che pur doveva venire sconfitta tramite la predetta guerra di posizione all’interno della società. Insomma, per Gramsci la cultura “nazionalpopolare” non era solo uno strumento per comprendere la società italiana del suo tempo ma era, soprattutto, un progetto rivoluzionario “in fieri” che doveva preludere alla rivoluzionaria vittoria del proletariato. E veniamo quindi ora ai punti “metapolitici” dell’articolo di Buffagni. Per farla breve, ed anche perché questo a mio giudizio è il cuore di tutto il ragionamento di Buffagni, cito direttamente il punto 3 che afferma: “L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo”. Ora, a parte il fatto che il termine ‘mondialismo’ dice troppo o troppo poco (ma si tratta di intendersi, tutti, compresi lo scrivente, soffrono della mancanza, dopo il fallimento storico delle esperienze e categorie marxiste, di un adeguato lessico rivoluzionario e ‘mondialismo’ – preso cum grano salis e con la consapevolezza della sua natura di strumento provvisorio da sostituire quanto prima con ben altre e più ficcanti terminologie, e il Repubblicanesimo Geopolitico è anche, se non soprattutto, impegnato nella formulazione di queste nuove “categorie del politico – può ben indicare la retoricizzazione a scopi di dominio politico interno e di proiezione imperialistica degli ideali democratici e dei c.d. diritti umani), è sull’opposizione totale e totalitaria all’illuminismo e all’universalismo che è necessario spendere qualche ulteriore riflessione (e diciamolo chiaramente anche qualche critica). Questo per due fondamentali motivi. Punto numero uno. Proprio perché come già affermato nelle vicende storiche e sociali non si danno mai soluzioni ma semmai nuovi problemi od assetti dialetticamente legati agli stati precedenti e che magari soddisfano, almeno parzialmente e per brevi periodi, coloro che li hanno generati ma che, in nessun modo, possono essere chiamati soluzioni alla stregua delle soluzioni matematiche, non ha dal punto di vista prettamente teorico alcun senso affermare che si è contro o a favore di una determinata situazione o periodo storico. O per essere ancora più radicali – ed anche apparentemente auto contraddittori – la teoresi politica e culturale è allo stesso tempo dialetticamente contro tutta la realtà che l’ha preceduta ma è anche attratta inesorabilmente da questa stessa realtà. Questo per il molto semplice e banale motivo che senza polarità di attrazione-repulsione della realtà che gli si pone di fronte, non solo non è possibile modificare la realtà stessa ma non esisterebbe nemmeno, a meno che non si voglia cadere nella “storia monumentale” di nietzschiana memoria, la teoresi stessa. E questa dialettica di attrazione-repulsione della teoresi verso la realtà non è altro, se ci si pensa bene, che la trasposizione su un piano prettamente teorico della dinamica del confronto-scontro strategico che avviene negli altri livelli della realtà, dalla evoluzione delle istituzioni e consuetudine umane all’evoluzione degli organismi in natura. Ma su questo fondamentale aspetto non mi voglio ora dilungare oltre, atteso che tutti i lettori sono a conoscenza della hegeliana dialettica servo-padrone ed anche perché – si parva licet componere magnis – è un aspetto che ho già precedentemente trattato e che troverà una ulteriore sistemazione nelle mie prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico. Secondo – ed ultimo – fondamentale motivo per cui il punto 3 dell’articolo di Buffagni necessita di una ulteriore messa a fuoco: è vero noi siamo tutti, tanto per intenderci su un piano di praticità operativa e retorica e in attesa anche di più scaltrite categorie politiche – contro l’universalismo ed il mundialismo ma – e qui ritorna in campo l’impostazione culturalistica di Gramsci – non dobbiamo assolutamente dimenticare (e Buffagni nei suoi punti assolutamente non dimentica) che universalismo e una delle sue degenerazioni che chiamiamo per comodità operativa mondialismo, sono l’ultimo anello di una catena che parte dal mondialismo (e mondializzazione altrimenti detta globalizzazione) occidentale iniziata coll’impero romano, proseguita dal cristianesimo e sfociata per ultimo in epoca moderna nelle grandi illusioni illuministe prima e marxistiche in finale di partita: tutto ciò per dire che ragionando con procedure dialettiche e gramsciane sembra veramente difficile che possa avere vita e forza politica, come invece sembra voler indicare Buffagni, una cultura nazionalpopolare che inglobi al suo interno una prospettiva cristiana ma rifiutandone ab imis l’universalismo relegandola ad una sorta di astratto momento ma disgiunto dall’azione vera e propria. In esergo a queste brevi considerazioni ho posto la parabola del convito dal Vangelo secondo Luca. Il padrone dice ai servi, costringete la gente ad entrare nel banchetto (compelle intrare: Luca 14:23). Nella tradizione della Chiesa, da Agostino a S. Tommaso d’Aquino, questa parabola è sempre stata citata per giustificare la persecuzione e la conversione forzata degli atei e degli infedeli. Se il lascito del cristianesimo riguardo ai rapporti col diverso fosse solo l’universalistico e mondialistico compelle intrare non ho nessuna remora ad affermare, nonostante tutti gli sforzi di sintesi dialettica che si debbono compiere in sede di teoresi, che non avrei proprio nessuna difficoltà a schierarmi toto corde contro cristianesimo, illuminismo e – ovviamente ça va sans dire – contro l’universalismo retorico e contro la sua ulteriore ed imperialistica estensione del mondialismo. Ma il cristianesimo non è stato solo questo, è stato, anche se perseguitato, spesso il suo contrario, e dal punto di vista storico e quindi della teoresi non è forse del tutto inutile ricordare che il concetto di tolleranza, ancor prima di assumere le modalità liberali di individualismo metodologico come infine sono state elaborate prima auroralmente e contraddittoriamente da Hobbes (libertà di coscienza ma solo nel foro interno e decisionismo sovrano che prevale nella società esterna schiacciando il sorgere pubblico di sette e divisioni all’interno della stessa), poi da Spinoza e infine definitivamente compiute in Locke, fu nella modernità occidentale elaborato dalle sette ereticali sorte in seguito alla Riforma, sette ereticali che, in polemica con la riforma stessa, affermavano, in buona sostanza, che l’amore universalistico che deve unire tutti gli uomini impedisce senza possibilità di alcun dubbio che qualcuno sia costretto ad entrare, sia cioè costretto a convertirsi. E queste sette e movimenti ereticali che fecero della tolleranza il loro maggiore lascito religioso, politico e culturale (gli eroici nomi delle loro guide spirituali: Sebastiano Castellione, (2) Bernardino Ochino, i Sozzini) erano gli eredi culturali del miglior e più scaltrito umanesimo italiano (il suo principale ed archetipo esponente, Lorenzo Valla) che tramite la loro critica filologica avevano ben capito che il compelle intrare ed altri luoghi comuni testuali, compormentali e culturali del cristianesimo o erano stati mal interpretati allo scopo di politiche di puro potere o, comunque, come tutti le umane imprese che nascono e muoiono nella storia, andavano debitamente contestualizzati tenendo sempre presente come stella polare l’universalismo dell’amore – e quindi della tolleranza – che giudicavano come il vero cuore pulsante del cristianesimo. Penso che una Kultur che avversi l’universalismo liberista e l’imperialista mondialismo e che partendo dalla storia della modernità occidentale sia sempre più radicata fino a diventare nazionale popolare (e quindi politicamente efficace) debba tenere ben presente anche questi elementi e del cristianesimo (3) e di questo aspetto di storia della religione che si sono manifestati proprio con estremo rigore e vigore in Italia. Concludo con una situazione estranea al bell’articolo di Buffagni ma che, anche se con una battuta, ci consente e di stigmatizzare il falso mondialismo democratico e di mostrare che l’ epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (progetto che fu anche di Gramsci, anche se con categorie per ora smentite dalla storia, ma avendo ben presente che si doveva dare origine ad un movimento politico-culturale “nazionalpopolare” e quindi radicato nella storia storia) non significa la falsa visione, portata a livello di massa, di un mondo intrinsecamente violento ma la consapevolezza molto strategica ma non necessariamente violenta che, esprimendoci con Alexander Werndt “anarchy is what states make of it”. (4) La bestiale repressione in Catalogna – e tanti saluti alla democrazia e ai diritti politici universalistici del mondo liberal-liberista falsamente propagandati dall’UE – ha fatto sì che, in piena tradizione esegetica cristiana mainstream di Luca 14: 15-24, si sia passati dal compelle intrare al compelle legnare. (5) Si tratta, in senso terroristico e con una versione della Kultur occidentale che noi avversiamo (contraddizione: non avevo appena detto che non si fanno i processi alla storia?) assieme ad una ulteriore conferma del detto wendtiano – ma in negativo, cioè della capacità umana, anziché di essere artefice del suo destino come indica la citazione wendtiana, di compiere il male – anche, attraverso la sua totale e speculare antitesi, dell’indicazione su cosa si deve intendere per ‘epifania strategica’. Una epifania strategica ed un senso delle più profonde e migliori radici della Kultur occidentale (6) che è del tutto assente nella mente e negli occhi spenti di questa attuale brutale Europa politica liberal-liberista e – usiamo ancora una volta questo termine sicuri che sappiamo capirci – mondialista.

Massimo Morigi – 4 ottobre 2017

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NOTE

1 Agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/, http://www.webcitation.org/6tvriCfRo e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F09%2F29%2Ftaccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni%2F&date=2017-10-03 .

2 Nell’ottobre 1553 venne messo al rogo a Ginevra l’antitrinitrario Michele Serveto (Michel Servet, Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553). L’anno successivo stigmatizzando la decisione di Calvino di mettere a morte Serveto, Sebastiano Castellione (Sébastien Castellion, o Chatellion o Châteillon, in italiano Sebastiano Castellione, Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 29 dicembre 1563) con lo pseudonimo di Martin Bellius pubblica il “De haereticis an sint persequendi” dove attraverso citazioni di diversi autori fra cui Martin Lutero, Erasmo da Rotterdam, Sebastian Frank e lo stesso Castellione, Castellione mostra l’insensatezza dell’intolleranza vista l’assoluta soggettività delle opinioni umane e, soprattutto, nella consapevolezza che il vero può essere avvicinato solo con una libera ricerca. Celebre la sua frase sul rogo di Serveto “Tuer un homme ce n’est pas défendre une doctrine, c’est tuer un homme. Quand les Genevois ont fait périr Servet, ils ne défendaient pas une doctrine, ils tuaient un être humain : on ne prouve pas sa foi en brûlant un homme mais en se faisant brûler pour elle” che consegna l’ “uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo” come una delle massime pietre miliari non solo della cultura occidentale ma anche (e ci sia concesso per un attimo il peccato dell’universalismo) di tutte le culture dell’uomo.

3 Altro tratto del cristianesimo fondamentale per il Repubblicanesimo Geopolitico per un’ulteriore sviluppo di una Kultur realmente alternativa alle attuali scemenze liberal-liberiste, e cioè il tormentato rapporto del cristianesimo di S. Paolo con la legge civile, è stato affrontato nel nostro “Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica” , che è stato pubblicato originariamente per “L’Italia e il Mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2017/07/29/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6sMcGBjay e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F07%2F29%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-31) e che poi è stato anche caricato autonomamente su Internet ed ora è quindi consultabile, oltre che su altre piattaforme, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia600809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf .

4 “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” è il titolo di un articolo di Alexander Wendt comparso nel 1992 sulla rivista “International Organization” (Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425), articolo nel quale viene esemplarmente esposto quell’approccio costruttivista che ha rivoluzionato la dottrina delle relazioni internazionali e che ha profonde affinità con l’impostazione dialettico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. L’articolo è ora anche consultabile su Internet, oltre altre piattaforme, all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf , mentre per l’importanza per il Repubblicanesimo Geopolitico del costruttivismo di Alexander Wendt, oltre a vedere “Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari”, pubblicato prima sul “Corriere della Collera” all’ URL https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/ e ora anche sull’ “Italia e il Mondo” all’ URL http://italiaeilmondo.com/2017/03/16/repubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6t4eGt59y e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F03%2F16%2Frepubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi%2F&date=2017-08-29), si rinvia, more solito, per la “dialettizzazione” del costruttivismo wendtiano alle prossime “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico”.

5 Proseguendo con gli ignobili giochi di parole, ma per certe situazioni e certi uomini non si può sprecare troppa intelligenza, dopo l’indegno discorso di re Filippo VI di Spagna in seguito alla brutale e bestiale repressione in Catalogna per un referendum definito incostituzionale (ma ammesso e non concesso che lo fosse, sarebbe bastato non riconoscerne il risultato, cercando di non farlo svolgere si denuncia la propria coda di paglia e, comunque, ne viene posto, de facto, un sigillo di legittimità se non giuridica certamente politica), ora per le vicende di Spagna al “compelle legnare” bisogna anche associare un “compelle regnare” (o, con (in)felice sintesi “per regnare compelle legnare”: comunque, non si sa bene ancora per quanto, visto che la giustificazione di un’istituzione anacronistica come la monarchia nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa si giustifica proprio per essere una voce , in ragione della sua natura non elettiva e quindi non sottoposta ad alcuna spinta elettoralistica, volta unicamente alla concordia del popolo, al di sopra delle fazioni e contro ogni demagogia – e nel caso della Spagna – delle bestialità autoritarie di leader politici – e degli agenti strategici politico-militari nostalgici del franchismo – che devono rispondere ai peggiori istinti totalitari del loro elettorato …).

6 Il Repubblicanesimo Geopolitico è debitore a Walter Benjamin, oltre alla elaborazione delle “categorie del politico” dell’ ‘iperdecisionismo’ e dello ‘stato di eccezione permanente’ che animano le “Tesi di filosofia della storia” (cfr. sull’argomento i nostri Massimo Morigi, “La Democrazia che sognò le fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico”) e Id.,Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola”, entrambi lavori pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” e consultabili anche su varie piattaforme Web), anche del suo particolare messianismo, non rivolto verso un imprecisato futuro ma inteso a salvare quanto nel passato era stato cacciato ai margini della storia ed oppresso. A questo proposito Benjamin creò la metafora del “balzo di tigre nel passato”. Nella Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopolitico, questo messianico “balzo di tigre nel passato” si tramuta in un’ epifania strategica che per realizzarsi si pone l’obiettivo di una Kultur non statica ma sempre in fieri , attraverso la quale vengano recuperate e rese strategicamente operative e vincenti tutte quelle situazioni e (fallite) soluzioni che nel passato appartennero agli agenti omega-strategici: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così per Robespierre l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, tesi n. 14 di “Tesi di filosofia della storia”.

Massimo Morigi a proposito del “podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa”

Un lungo commento di Massimo Morigi  al podcast sulle vicende presidenziali americane, ma con un occhio all’uomo “forte” del recente passato d’Italia

http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

 

«Dell’ “eroe”, sia pure popolare, nel senso emersoniano Mussolini ebbe ben poco (come ben poco ebbe del vero uomo di Stato, mentre indubbiamente fu un notevole uomo politico); in tutti i momenti nodali della sua vita gli mancò la capacità di decidere, tanto che si potrebbe dire che tutte le sue decisioni più importanti o gli furono praticamente imposte dalle circostanze o le prese tatticamente, per gradi, adeguandosi alla realtà esterna, il che non sembra poi molto diverso. Per molti aspetti fu piuttosto, per usare un suo pseudonimo giovanile, l’homme qui cherche e non l’ homme qui va e trovò la sua via giorno per giorno, senza avere una idea di dove sarebbe arrivato, ma “sentendo” da vero politico, quale fosse la propria direzione. Sotto questo profilo bene ci pare lo abbia capito Maurras quando scrisse nel suo Dictionnaire: “[in C. Maurras, Dictionnaire politique et critique, III, Paris 1932, p.124, nota bibliografica dal testo citato]:Mussolini ne procède pas en doctrinaire idéologue. L’expérience le conseille, il en suit la leçon, soucieux, au jour, de restaurer le nécessaire, nullement ambitieux de précipiter les éléments politiques et sociaux à la manière d’une pâte dans un gaufrier. Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.”» : Delio Cantimori, prefazione a Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einuadi, 1994, p. XXIII.

Così il più profondo e tormentato storico italiano del Novecento, Delio Cantimori, nella sua prefazione, si era nel 1965, alla prima edizione del primo volume della biografia di Renzo De Felice su Benito Mussolini, Mussolini il rivoluzionario, volendo rappresentare in pochi icastici tratti la personalità di Benito Mussolini, ci restituiva la rappresentazione di un uomo né genio né demonio ma quella di un personaggio “umano, troppo umano” in cui le debolezze caratteriali venivano celate da un decisionismo di facciata che copriva un vuoto di pensiero e di progetto politico, e in questo non solo troppo umano ma anche troppo italiano, troppo simile a quegli italiani (in questo veramente uguali al di là delle magliette degli opposti schieramenti di destra e di sinistra) dove sia sul piano personale che su quello pubblico pensano che una petizione di principio ed una trombonata retorica possano fare le veci di un serio impegno personale e di una seria preparazione sui problemi pubblici. Al di là dei decenni e delle sideralmente diverse condizioni culturali e politiche, vichiani corsi e ricorsi della storia (ma, ancor più, dell’eterna natura umana, sempre una natura di tipo conflittual-strategico: l’eterno problema è come questa natura viene declinata, se seriamente o in maniera da pagliacci. Insomma la machiavelliana dannata serietà della politica che, se non presa con la dovuta consapevolezza, e questo è uno dei più importanti lasciti del Segretario fiorentino, non solo si ritorce contro chi l’ha così stoltamente concepita ma si tramuta malignamente in una vera e propria crisi di civiltà): nel fresco ritratto di Donald Trump che ci restituisce il tredicesimo podcast di Gianfranco Campa, “Lo smarrimento dei vincitori”, emerge veramente un Donald Trump con tratti terribilmente simili al cantimoriano ritratto di Mussolini. Non una terribile ed onnicalcolante mente dittatoriale (nel caso di Trump, seguendo la vulgata politicamente corretta: un democratico imbevuto di idee fascistoidi) ma piuttosto, un abile, anzi abilissimo politico, che fece del suo principale difetto, la superficialità, la sua principale se non unica arma per la conquista del potere ed una personalità politica dove il decisionismo è una decisionismo completamente di facciata perché la sua unica preoccupazione fu sempre, almeno fino a quando la sua azione di governo ebbe una certa efficacia, quello di una diuturna mediazione fra le varie componenti del fascismo non creando mai una situazione originale e sfruttando costantemente le varie circostanze che gli si presentavano di fronte senza avere mai un approccio veramente creativo (dopo, quando egli pensò di essere veramente un genio non ascoltò più nessuno e a questo punto la sua superficialità unita ad una crescente megalomania lo dannò): comunque tutto si può dire di Mussolini tranne che non fosse un abilissimo uomo politico (nel peggior senso della parola, ovviamente, e in questa sua assenza di “creatività” politica e fortissimo opportunismo e crescente megalomania, vero “padre ignobile” dell’attuale ceto politico antifascista del regime sorto in seguito alla sconfitta militare e che perdura ancora sfacciatamente nonostante che i miti resistenziali abbiano mostrato la loro funzione di “arma di rimozione di massa” dell’esperienza del fascismo) e tutto si può concedere a Mussolini tranne il fatto che fosse uno statista, essendo il significato del suo percorso pubblico e privato la dimostrazione più lampante del suo esatto contrario, il demagogo, specie umana e politica che infesta in egual modo sia le dittature che le c.d. “democrazie”. Continuava Cantimori nel suo ritratto di Mussolini: «Visto in una simile prospettiva lo studio della vita di Mussolini, pur mantenendo tutte le sue peculiarità, assume in un certo senso un valore “tipico”, che può servire a capire non solo l?uomo Mussolini, ma il significato del fascismo stesso, e può costituire anche una sorta di primo specchio del modo e della misura nei quali il socialismo di Mussolini e poi il suo fascismo furono visti e valutati dai suoi contemporanei. È in questa funzione, anzi, che la nostra narrazione della vita di Mussolini procede con una prospettiva, un inquadramento, che potremmo definire “a ventaglio” (allargandosi cioè a mano a mano che gli orizzonti di Mussolini si dilatano e la sua figura assume una portata maggiore sino ad avere un ruolo nazionale ed europeo e, quindi, ad inserirsi in un contesto che non è più locale, di partito, nazionale, ma internazionale), ma contemporaneamente senza precorrere, se così si può dire, i tempi della sua evoluzione e del suo successo. Più che ricorrere per lumi e per conferme al poi, insomma, abbiamo di volta in volta preferito attenerci al presente; nel pensiero e soprattutto nell’azione di Mussolini è possibile infatti riscontrare, per dirla con Maurras, uno sviluppo, una traiettoria che hanno una loro logica precisa; voler vedere però in certe “svolte”, in certe “scelte” della vita di Mussolini la consapevolezza che esse lo avrebbero portato a certe soluzioni, a certi obbiettivi a lungo raggio ci sembra non solo arbitrario, ma tale da distorcere i fatti e la loro comprensione: si finirebbe per fare di Mussolini l’ homme qui va e quindi per non capire più il vero significato degli avvenimenti attraverso i quali egli pervenne al successo e per ridurre tutte le altre figure ad un ruolo subalterno, a manichini messi nel sacco da un mago istrione e non piuttosto a considerarle più correttamente come altrettanti protagonisti di una vicenda che – bene o male – ha corrisposto al momento di crisi della società liberale postunitaria e al realizzarsi (tra incertezze, sbandamenti ed errori, dovuti appunto alla grandiosità e alla novità di questa trasformazione e all’imponenza della posta in gioco) di una nuova società politica di massa.»: Ivi, pp. XXV-XXVI.

Dai podcast di Gianfranco Campa per “L’Italia e il mondo” emerge “un inquadramento a ventaglio” della vicenda di Donald Trump, una ricognizione che dalla puntuale individuazione delle caratteristiche “umane, troppo umane” del personaggio Trump si allarga alla profonda conoscenza di tutti i protagonisti e comprimari culturali, politici, economici e militari che avversandolo (la stragande maggioranza) o favarendolo (sarebbe meglio dire: creandolo) stanno dando origine all’attuale micidiale scontro strategico all’interno dell’attuale establishment americano. E in questo tumultuoso quadro magistralmente e puntualmente – ma anche con profondi e cupi tratti espressionistici – rappresentato da Gianfranco Campa, Donald Trump appare sempre più, piuttosto che l’ homme qui va , l’homme qui cherche, un homme qui cherche veramente all’insegna delle parole conclusive di Charles Maurras su Benito Mussolini: “Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.” Il gramsciano “ottimismo della volontà” di Gianfranco Campa, in un’analisi talmente partecipe della situazione politica statunitense quasi da voler diventare uno degli attori dello scontro che rappresenta (ma questo atteggiamento “attivistico” non costituisce una debolezza della stessa ma, dialetticamente, indica anche una precisa moralità politica per chi, anche in Italia, si pone in posizione radicalmente alternativa rispetto all’attuale “stato delle cose” ma non si concede la scorata passività dell’osservatore mussoliniano di Charles Maurras), oltre a fare, tramite il suo realismo, letteralmente piazza pulita della “pappa del cuore” della menzogna del politicamente corretto che infesta pressoché tutti i commentatori, destra o sinistra non importa, quando parlano degli Stati uniti, costituisce anche una precisa traccia per un’autentica moralità politica che ponga le basi per quel gramsciano “moderno principe” che dovrà essere l’esatta antitesi del tipo umano e politico rappresentato da Marraus descrivendo Mussolini. Che, proprio perché simmetrica antitesi, non dovrà avere nulla da spartire e combattere come i principali nemici coloro che respingono Trump perché lo rappresentano come un fascistoide …

Massimo Morigi – 26 settembre 2017

REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, CRISI UCRAINA, PER LA CRITICA DELLA VIOLENZA DI WALTER BENJAMIN ED EPIFANIA STRATEGICA, di Massimo Morigi

Prosegue la pubblicazione delle spigolature di Massimo Morigi tesa ad arricchire il contenuto del suo “repubblicanesimo geopolitico”
«Nella sua forma paradigmatica la violenza mitica è pura [bloße] manifestazione degli dei. Non mezzo per i loro scopi, quasi neppure manifestazione della loro volontà, ma innanzitutto manifestazione del loro esserci. La leggenda di Niobe ne è un esempio eminente. Potrebbe sembrare che l’azione di Apollo e Artemide sia solo una punizione. Ma la loro violenza, più che punire la trasgressione di un diritto preesistente, istituisce un diritto nuovo. L’orgoglio di Niobe le attira la sventura, non già perché offenda il diritto, ma perché sfida il destino a una lotta in cui esso deve necessariamente vincere – e solo nella vittoria, casomai, promuove la nascita di un diritto nuovo. Quanto poco la violenza divina fosse, nel senso antico, quella che conserva il diritto attraverso la punizione lo dimostrano le saghe in cui l’eroe, per esempio Prometeo, sfida il destino con notevole coraggio, lotta con esso con alterne fortune mentre la saga non lo lascia senza speranze di apportare un giorno un nuovo diritto agli uomini. Un eroe siffatto e la violenza giuridica del mito nato con lui è quel che il popolo cerca ancora oggi di figurarsi ammirando il delinquente.». (1)

Riproponendo oggi per l’ “Italia e il Mondo” a più di tre anni di distanza i cinque interventi che scrissi per “Il Corriere della Collera” a commento della crisi Ucraina (in stretta successione cronologica con i rispettivi URL diretti e con i loro “congelamenti” su Webcite: “Per capire l’economia internazionale occorre leggere Von Clausewitz”: https://corrieredellacollera.com/2014/02/17/per-capire-leconomiainternazionale-leggete-von-clausewitz-e-per-capire-la-geopolitica-occorre-leggereadam-smith-di-massimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ7zs5SU e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F02%2F17%2Fper-capire-leconomia-internazionale-leggete-vonclausewitz-e-per-capire-la-geopolitica-occorre-leggere-adam-smith-di-massimomorigi%2F&date=2017-08-08; “Crisi ucraina, strategia del caos USA e Repubblicanesimo Geopolitico”: https://corrieredellacollera.com/2014/03/03/cosasignifica-la-crisi-ucraina-per-la-geopolitica-italiana-di-antonio-de-martini-emassimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ8Bygpp e
http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F03%2F03%2Fcosa-significa-la-crisi-ucraina-per-la-geopolitica-italianadi-antonio-de-martini-e-massimo-morigi%2F&date=2017-08-08; “Ancora su Ucraina, Italia, Stati uniti (ma scomodiamo Carl Schmitt, lo jus publicum europaeum e la grande bellezza, scegliete”: https://corrieredellacollera.com/2014/03/08/ancorasu-ucraina-italia-stati-uniti-ma-scomodiamo-carl-schmitt-e-la-grande-bellezzascegliete-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ8TWZyl e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F03%2F08%2Fancora-su-ucraina-italia-stati-uniti-ma-scomodiamo-carlschmitt-e-la-grande-bellezza-scegliete-di-antonio-de-martini-e-massimomorigi%2F&date=2017-08-08; “Crisi ucraina: il signor Wolfowitz nel paese degli ignoranti ha fatto scuola”: https://corrieredellacollera.com/2014/03/13/crisi-ucrainail-signor-wolfowitz-nel-paese-degli-ignoranti-ha-fatto-scuola-di-antonio-de-martinie-massimo-morigi/, http://www.webcitation.org/6sZ8efRIz e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2014%2F03%2F13%2Fcrisi-ucraina-il-signor-wolfowitz-nel-paese-degliignoranti-ha-fatto-scuola-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi%2F&date=201708-08; “Lenin, l’imperialismo fase suprema del capitalismo, il nuovo scontro USA Russia in un mondo sempre più multipolare e il ruolo del Repubblicanesimo Geopolitico”: https://corrieredellacollera.com/2015/03/27/tra-usa-e-russia-si-staverificando-una-inversione-dei-ruoli-avuti-nella-prima-guerra-fredda-una-ripetizionea-rovescio-sarebbe-grottesca-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi-2/, http://www.webcitation.org/6sZ8sk28B e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com% 2F2015%2F03%2F27%2Ftra-usa-e-russia-si-sta-verificando-una-inversione-deiruoli-avuti-nella-prima-guerra-fredda-una-ripetizione-a-rovescio-sarebbe-grottescadi-antonio-de-martini-e-massimo-morigi-2%2F&date=2017-08-08), in sede di riflessione su questi vecchi interventi la citazione in effige, oltre a restituirci in tutta la sua pregnanza la “teologia politica” di Walter Benjamin, introducendoci a Per una critica della violenza non solo ci permette di approfondire i motivi profondi che hanno attraversato la crisi Ucraina (come del resto anche altre crisi di legittimità dei sistemi politici ritenuti – più o meno a ragione – autoritari a favore dei regimi ritenuti – con ancor meno ragione – “democratici”) ma anche ci permette di individuare nel pensiero politico moderno una delle più smaglianti definizioni della Gestalt che deve assumere l’ obiettivo limite del Repubblicanesimo Geopolitico, vale a dire la da noi più volta enunciata ‘epifania strategica’. Ma andiamo con ordine. Si è appena affermato che il brano in esergo si presenta come modello
esplicativo delle ragioni profonde della crisi ucraina e di altre consimili, tipo primavere arabe – nel caso in specie rivoluzioni colorate – et similia (al di là ovviamente di quanto puntualmente illustrato negli articoli in questione: in primis, la solita strategia del caos statunitense che per dominare un mondo sempre più multipolare non trova nulla di meglio che esportare l’ideologia democratica allo scopo – contrariamente a quanto accadeva durante la guerra fredda – non di stabilizzare il quadro internazionale, impresa ormai impossibile in un mondo sempre più multipolare, ma di “caotizzare” ulteriormente questo scenario; il tutto, ovviamente, all’insegna del sempiterno ed immarcescibile divide et impera) (2) ma questo modello esplicativo deve essere inteso nella sua negazione, il che significa che proprio perché l’attuale sensibilità politica dei popoli retti da democrazie rappresentative o vogliosi di essere governati da questa forma di dominio è sideralmente e polarmente lontana da quella espressa dal brano in esergo si possono spiegare vicende come quella Ucraina. Quale dunque la fondamentale acquisizione teorica che oggi non solo i popoli delle ex rivoluzioni colorate e le sparute minoranze che nelle primavere arabe sinceramente ed ingenuamente credevano nella c.d. “democrazia” ma che anche la scienza politica mainstream liberaldemocratica ha totalmente dimenticato (veramente possiamo volentieri concedere il marchio dell’insipienza politica ai popoli e ai gruppi, veri e propri agenti omega-strategici, testé nominati, ma non proprio agli “scienziati” politici, protagonisti scientemente della mai tramontata e sempreverde trahison de clercs) e che ci viene restituita con inusitata forza e chiarezza nella “teologia politica” di Per una critica della violenza? Questa fondamentale acquisizione consiste che con Per una critica della violenza Walter Benjamin è andato oltre il machiavelliano “il fine giustifica i mezzi” (mai detto dal Segretario fiorentino ma che, inteso dialetticamente, ben esprime una parte fondamentale e non rimuovibile della Weltanschauung del suo pensiero e per chi teme che così giudicando il più grande pensatore politico di tutti i tempi si possa macchiarne il suo repubblicanesimo, consiglio caldamente di dedicare la propria vita di studio all’ incidente di Roswell …) (3) per dirci che nella politica i mezzi sono anche il fine, per dirci cioè che se apparentemente il ruolo del potere è quello di dare ordine e domare la violenza (e quindi per ottenere questo risultato anche metodi violenti sarebbero consentiti, con conseguente un “fine che giustifica i mezzi” violenti), in realtà i mezzi violenti sono l’espressione nascente e primigenia del potere, mezzi violenti, quindi, che sono il potere allo stato nascente e unica ed esclusiva natura vera – ancorché celata dalla legge e dall’ideologia politica, nel caso ucraino in questione, dall’ ideologia democratica – e vero e proprio “cuore di tenebra” del potere stesso.
«La leggenda di Niobe ne è un esempio eminente. Potrebbe sembrare che l’azione di Apollo e Artemide sia solo una punizione. Ma la loro violenza, più che punire la trasgressione di un diritto preesistente, istituisce un diritto nuovo. L’orgoglio di Niobe le attira la sventura, non già perché offenda il diritto, ma perché sfida il destino a una lotta in cui esso deve necessariamente vincere – e solo nella vittoria, casomai, promuove la nascita di un diritto nuovo.». (4)
Niobe, nella versione della leggenda datane in Per una critica della violenza, viene punita dagli dei non perché abbia commesso un terribile delitto ma perché questo delitto è un atto di suprema violenza e come tale rischia di fondare una nuova legge diversa da quella che garantisce il potere degli dei, perché detto ancor più direttamente, questa violenza rischia di essere l’embrione di un nuovo potere nascente e quindi gli dei per garantire la loro stessa sopravvivenza devono provvedere con un pronto aborto, la punizione di Niobe. Con Per una critica della violenza, scritto giovanile di Walter Benjamin, il pensiero realista di matrice machiavelliana giunge così a piena maturazione, una piena maturazione che molti anni dopo, in finale di vita di Benjamin, troverà un altro altissimo momento nelle Tesi di filosofia della storia, nelle quali Walter Benjamin darà espressione al suo (anche se la locuzione non è benjaminiana ma risale interamente alla responsabilità teorica dello scrivente) ‘iperdecisionismo’, iperdecisionismo, che assieme alla compiuta e matura visione del potere espressa già in Per una critica della violenza, costituisce uno dei capisaldi del Repubblicanesimo Geopolitico.
E un pensiero come il Repubblicanesimo Geopolitico, definito in dottrina anche come ‘Lebensraum Repubblicanesimo’ (5) (repubblicanesimo dello spazio vitale, spazio vitale inteso però dialetticamente e principalmente in funzione culturale e politicosimbolica) e in cui l’obiettivo sociale limite è l’ ‘Aumentato e Diffuso Dominio Repubblicano Comune’ (‘Republican Increased Common Domination’ o RICD) nella sua visione del potere non come limite della libertà ma come unico momento generatore della stessa non può che sentire profondissime assonanza con la visione intimamente strategica del rapporto fra violenza e potere espressa in Per la critica della violenza: «La funzione della violenza nell’istituzione del diritto è, infatti, duplice. Da una parte l’istituzione del diritto mira come a suo scopo, con la violenza come mezzo, a ciò che viene instaurato come diritto, dall’altra parte, nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito, non licenzia (abdankt) la violenza, ma solo ora ne fa in senso stretto e immediato una violenza istitutrice di diritto. Così facendo, con il nome di potere, essa insedia come diritto non già uno scopo esente e indipendente da violenza, ma necessariamente e intimamente legato ad essa. Istituzione di diritto è istituzione di potere e in questa misura atto che manifesta
immediatamente la violenza. Giustizia è il principio di ogni istituzione divina di scopi, potere è il principio di ogni istituzione mitica di diritti. L’applicazione mostruosa e gravida di conseguenze di tutto ciò si sperimenta nel diritto pubblico, nel cui ambito l’istituzione di confini – così come è attuata dalla “pace” di tutte le guerre di epoca mitica – è il paradigma di violenza istitutrice di diritto. Qui si evidenzia nel modo più chiaro che quanto la violenza istitutrice di diritto deve garantire non è il guadagno anche ingente di possedimenti ma il potere [in sé]. Dove si fissano confini, l’avversario non viene semplicemente annientato, anzi, se il vincitore è strapotente, gli sono riconosciuti anche dei diritti. E in modo demoniacamente ambiguo pari diritti. Entrambi i contraenti non devono superare la stessa linea. [Ma chi traccia la linea? Il vincitore, naturalmente] Dove appare in tutta la sua temibile originari età la stessa mitica ambiguità delle leggi che si non possono “trasgredire”. Anatole France ne parlava in senso satirico, dicendo che le leggi vietano allo stesso modo ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti. ». (6)
Benjamin definisce mostruoso il fatto che sia la violenza ad istituire il diritto e qui quasi si percepisce una sorta di suo tremare di fronte alla terribilità demoniaca di questa consapevolezza, una Stimmung benjaminina ben rappresentata dal riferimento ad Anatole France e alle leggi che “vietano allo stesso modo ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti”, segno che, anche se in Critica per la violenza il realismo, da punto di vista della pura elaborazione teorica di Benjamin, ha già raggiunto la piena maturazione, a questo maturo realismo teorico manca ancora la pars construens, momento edificatore di una linea di riscrittura delle “categorie del politico” e quindi di azione politica che ritroveremo molti anni dopo nelle Tesi di filosofia della storia ed in particolare nell’ VIII tesi col suo ‘iperdecionismo” che la anima.
«Venendo meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade. Di questi tempi un esempio è dato dai parlamenti, che presentano il noto e desolante spettacolo, avendo perso coscienza delle forze rivoluzionarie, cui devono la loro esistenza. In particolare in Germania anche le ultime manifestazioni di questa autorità è rimasta senza effetti sui parlamenti. Manca loro il senso della violenza che instaura il diritto in essi rappresentata. Non c’è da meravigliarsi che non arrivino a conclusioni degne di quell’autorità ma curino in via compromissoria un modo di trattare gli affari politici supposto senza violenza. Ma,“pur disdegnando la violenza aperta, il compromesso rimane un prodotto interno alla mentalità della violenza, perché la motivazione al compromesso non è motivata da dentro ma da fuori, addirittura dalla motivazione opposta. Anche se liberamente accettato, ogni compromesso è impensabile senza carattere coattivo. ‘Sarebbe meglio diversamente’ è il sentimento al fondo di ogni compromesso” (Unger, Politik und Metaphysik, Berlin 1921, p.8).». (7)

Abbiamo appena affermato che in Per la critica per la violenza Walter Benjamin sembra quasi ritrarsi con orrore dalla conclusione di identificare il potere con la violenza e quindi si potrebbe concludere che per quanto Per la critica della violenza rappresenti una pietra miliare nello sviluppo della dialettica del pensiero realista che nella modernità ha per punto di riferimento Machiavelli non ha ancora maturato in pieno il concetto di quell’ ‘epifania strategica’ che verrà manifestato in pieno nelle Tesi di filosofia della storia ed in particolare all’ VIII tesi. (8) Il passo appena citato ci dimostra che questa ultima parte del ragionamento non risponde assolutamente a verità. In questo ultimo luogo benjaminiano se sono chiare le suggestioni che potevano provenire dal tumultuoso ed inconcludente Reichstag dei primi anni Venti della Repubblica di Weimar, è di tutta evidenza che si tratta di considerazioni che potrebbero essere traslate non solo agli attuali parlamenti delle democrazie rappresentative delle moderne società industriali ma anche ai quei popoli e gruppi, vedi caso ucraino, che abbindolati dalla propaganda occidentale rischiano un degrado sociale, politico, economico e culturale perché ormai del tutto dimentichi del sempiterno legame fra potere e violenza, (9) essendo quindi altrettanto di tutta evidenza che già in Per la critica della violenza è presente in Benjamin una vera e propria ‘epifania strategica’ tale che, anche se in maniera esplicita manca la sua pars construens, cioè non è ancora chiaramente esplicitata l’idea di portare questa ‘epifania strategica’ a conoscenza delle masse per farne il motore e l’idea stessa della rivoluzione (questo verrà fatto nelle Tesi di filosofia della storia con tutta la sua carica dialettica antipositivistica e antiriformistica), essa è già totalmente formata, se non espressamente come proposta politica operativa, come concetto costruttore di tutto il suo pensiero politico.

Insomma, possiamo affermare che partendo già dalla sua prima elaborazione giovanile sulla politica rappresentata da Per una critica della violenza, Walter Benjamin ha cominciato a sviluppare, sulla linea realistica che ha nella modernità il suo massimo rappresentante in Machiavelli e nell’antichità Tucidide, una sorta di ‘iperrealismo politico’, un iperrealismo politico che, dialetticamente elaborando il machiavelliano “il fine giustifica i mezzi” nei “mezzi sono anche il fine” che chiaramente riluce in Per la critica della violenza, manifesterà nelle Tesi di filosofia della storia la sua piena entelechia, manifesterà cioè la totale forza e completezza della sua ‘epifania strategica’ attraverso l’ ‘iperdecisionismo’ particolarmente evidente all’VIII tesi. (10) Abbiamo detto all’ inizio che Per la critica della violenza contiene gli elementi per comprendere le ragioni profonde del perché parte del popolo ucraino si sia fatto abbindolare dalle promesse universalistiche e democraticistiche della propaganda occidentale e statunitense e pensiamo che questa semplice esposizione dei suoi passi principali possa giustificare questa affermazione. Ma assieme all’indicazione del fatto che fra i fattori principali della vicenda Ucraina è stata la mancanza totale da parte di una sezione importante della sua popolazione di una qualsiasi sensibilità strategica, bisogna anche rettificare il titolo di uno dei cinque articoli che allora parlarono di questa vicenda. Uno di questi titoli recitava nel modo
seguente: “Crisi ucraina: nel paese degli ignoranti il signor Wolfowitz ha fatto scuola”. Ora è di tutta evidenza che gli ignoranti non albergano sono in Ucraina ma pullulano addirittura in tutto il mondo occidentale ed in particolare in Italia ed è ancora più evidente che per fare sì che l’ ‘epifania strategica’ conformi il comportamento politico degli agenti omega-strategici (per gli alfa-strategici alla Wolfowitz non c’è bisogno di nessun aiuto: con o senza teoria di supporto se la cavano benissimo da soli), sarà sempre più indispensabile elaborare pensieri e strategie di azione che si informino se non alla lettera allo spirito dell’ ‘iperrealismo politico’ di Walter Benjamin. Si tratta insomma di avere l’umiltà di comprendere che – come direbbe Bernardo di Chartres – non siamo altro che nani sulle spalli di giganti che si chiamano Tucidide, Machiavelli, Hegel, Marx, Lenin, Antonio Gramsci e Walter Benjamin e con la sua particolare – ma non esclusiva, come abbiamo visto – ‘epifania strategica’ (11) il Repubblicanesimo Geopolitico non si propone altro che essere uno dei più umili maieuti di questa rivoluzionaria e dialettica interpretazione e costruzione della società.

Ravenna, 12 agosto 2017

NOTE
1) Walter Benjamin, Per la critica della violenza (1920-1921?), traduzione italiana dal tedesco di Antonello Sciacchitano, p.10 (documento agli URL http://www.sciacchitano.it/Pensatori%20epistemici/Benjamin/Per%20la%20critica%20della %20violenza.pdf, http://www.webcitation.org/6sYjQJ8Za e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.sciacchitano.it%2FPensatori %2520epistemici%2FBenjamin%2FPer%2520la%2520critica%2520della%2520violenza.pd f&date=2017-08-08), traduzione eseguita su Idem, Gesammelte Schriften, vol. II.1, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, pp. 179-204. Nonostante la non ortodossia della citazione bibliografica pure costretta a servirsi di URL internettiani (ma con il congelamento dell’URL originale tramite WebCite pensiamo almeno di aver posto rimedio alla volatilità delle fonti internet), ho deciso di ricorrere alla traduzione di Antonello Sciacchitano di questo testo benjaminiano rispetto ad altre che possono vantare un traduttore più chevronné per il semplice fatto che la versione di Schiacchitano, col suo essere scritta in un italiano più scorrevole (e, in definitiva, migliore) permette meglio di apprezzare la portata politica e teorica di Per la critica della violenza. Valeva quindi assolutamente la pena di rischiare di passare, anche se solo a livello di citazione bibliografica, per non ortodossi. Con la presente comunicazione si spera però di essere incorsi nel peccato di non ortodossia non solo per questioni così formali.

2) Sulla strategia del caos statunitense, principale strumento USA per continuare ad operare in un mondo sempre più multipolare e, soprattutto, sul conflitto strategico fra dominanti reso ancor più evidente da questo sempre maggiormente frammentato quadro internazionale, non si può fare a meno di rinviare a tutta la magistrale opera degli ultimi vent’anni di Gianfranco La Grassa, alla quale con caldo consiglio di attento ed appassionato studio rinviamo ma
senza ulteriori precisazioni visto che tutta l’opera teorica del professore di Conegliano, nessuna parte di essa esclusa e nessun periodo escluso, deve essere attentamente percorsa e studiata non solo per comprendere il mondo multipolare post caduta muro di Berlino ma anche per smascherare gli idola theatri non solo delle ideologie che si proclamavano marxiste ma di quelle, da vera e propria fine della storia, che oggi si dichiarano liberali e liberiste (e quindi con un bel salto logico, vedi un po’, democratiche …).

3) Schianto di Roswell che pur non essendovi direttamente trattato può, fuor da ogni facezia, essere debitamente inquadrato dal punto filosofico e politico attraverso la lettura di Massimo Morigi, La Democrazia che sognò le Fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico), sul Web.

4) Ibidem.

5) Sul concetto di ‘Lebensraum repubblicanesimo’ vedi in particolare i primi contributi pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” sul Repubblicanesimo Geopolitico.

6) Ibidem.

7) Ivi, p. 6.

8) «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. »: Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (VIII tesi), citato da Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola, p. 5, documento agli URL https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico. LoStatoDi_459 e https://ia601609.us.archive.org/32/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesi moGeopolitico.LoStatoDi_459/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopo litico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-Neomarxismo.pdf .

9) Riportiamo senza commento L’Europa arretrata e l’Asia avanzata, articolo di Lenin pubblicato sulla“Pravda” nel maggio 1913: «La contrapposizione di queste parole sembra un paradosso. Chi non sa che l’Europa è avanzata, e l’Asia arretrata? Eppure le parole che formano il titolo di quest’articolo racchiudono in sé un’amara verità. L’Europa civile ed avanzata – con la sua brillante tecnica sviluppata, con la sua cultura ricca e multiforme e la sua Costituzione – è giunta a un momento storico in cui la borghesia che comanda sostiene, per tema del proletariato che moltiplica i suoi effettivi e le sue forze, tutto ciò che è
arretrato, agonizzante, medioevale. La borghesia moribonda si allea a tutte le forze invecchiate e in via di estinzione per mantenere la schiavitù salariata ormai scossa. Nell’Europa avanzata comanda la borghesia che sostiene tutto ciò che è arretrato. Nei nostri giorni l’Europa è avanzata non grazie alla borghesia, ma suo malgrado, poiché il proletariato, ed esso solo, alimenta ininterrottamente l’esercito formato dai milioni di uomini che combattono per un avvenire migliore; esso solo serba e diffonde un odio implacabile per tutto ciò che è arretrato, per la brutalità, i privilegi, la schiavitù e l’umiliazione inflitta dall’uomo all’uomo. Nell’Europa “avanzata” solo il proletariato è una classe avanzata. La borghesia ancora in vita, è pronta invece a qualsiasi atto brutale, feroce e a qualsiasi delitto per salvaguardare la schiavitù capitalista che sta per perire. Non si saprebbe fornire un esempio più impressionante di questa putrefazione di tutta la borghesia europea che quello del suo appoggio alla reazione in Asia per i cupidi scopi degli affaristi della finanza e dei truffatori capitalisti. In Asia si sviluppa, si estende e si rafforza ovunque un potente movimento democratico. Là la borghesia marcia ancora col popolo contro la reazione. Centinaia di milioni di uomini si svegliano alla vita, alla luce, alla libertà. Quale entusiasmo suscita questo movimento universale nel cuore di tutti gli operai coscienti, i quali sanno che il cammino verso il collettivismo passa per la democrazia! Quale simpatia sentono tutti i democratici onesti verso la giovane Asia! E l’Europa “avanzata”? Essa saccheggia la Cina e aiuta i nemici della democrazia, i nemici della libertà in Cina! Ecco un piccolo calcolo, semplice ma istruttivo. Il nuovo prestito cinese è stato contratto contro la democrazia cinese: l’ “Europa” è per Yuan Sci Kai, che prepara una dittatura militare. Ma perché lo sostiene essa? Perché fa un buon affare. Il prestito è stato contratto per una somma di quasi 250 milioni di rubli, al corso dell’84 per cento. Ciò significa che i borghesi d’ “Europa” versano ai cinesi 210 milioni mentre ne fanno pagare al pubblico 225. Eccovi di colpo, in qualche settimana, un beneficio netto di 15 milioni di rubli! Non è, in realtà, un beneficio veramente “netto”? E se il popolo cinese non riconoscerà il prestito? In Cina c’è la repubblica, e la maggioranza del Parlamento non è forse contraria al prestito? Oh, allora l’Europa “avanzata” leverà alte grida a proposito della “civiltà”, dell’ “ordine”, della “cultura” e della “patria”! Allora farà parlare i cannoni e schiaccerà la repubblica dell’Asia “arretrata”, in alleanza con l’avventuriero, il traditore e amico della reazione Yuan Sci Kai! Tutta l’Europa che comanda, tutta la borghesia europea è alleata con tutte le forze della reazione e del Medio Evo in Cina. In compenso la giovane Asia, vale a dire le centinaia di milioni di lavoratori dell’Asia, ha un alleato sicuro nel proletariato di tutti i paesi civili. Nessuna forza al mondo sarà capace di impedire la sua vittoria, che Libererà sia i popoli d’Europa che i popoli d’Asia.»: Lenin, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, pag 536-537.

10) ‘Iperdecisionismo’ benjaminiano per il quale rinviamo ancora a Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola.

11) L’opera di tutti questi autori è connotata da un profondo “momento strategico”. L’apporto del Repubblicanesimo Geopolitico a questo “momento strategico” consiste nel fatto che, oltre ad essere del tutto favorevole che la mentalità strategica sia condivisa a livello di massa (alcuni di questi autori, quelli più di “sinistra” e rivoluzionari la pensavano in questo modo, i rimanenti non sono favorevoli a questa ampia e rivoluzionaria condivisione), esso ritiene che questa impostazione strategica di massa abbia anche come ineludibile premessa pure la consapevolezza, sempre di massa, della natura dialettico-strategica non solo della realtà
politica, sociale, economica, storica e culturale ma della realtà tutta, cioè anche della realtà fisica e biologica.

Ravenna, 11 agosto 2017

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Seguono i 5 articoli pubblicati dal “Corriere della Collera” PER CAPIRE L’ECONOMIA INTERNAZIONALE OCCORRE LEGGERE VON CLAUSEWITZ

Di Massimo Morigi
Riguardo la presente crisi economica che ha colpito il mondo retto dal Washington consesus, un elemento accomuna tutte le analisi siano di matrice neoliberista o neokeynesiana o più di destra o più di sinistra per le politiche sociali da adottare: la più completa e totale assenza di un pur minimo inquadramento geopolitico. La visione dell’economia di tutti questi più o meno illustri osservatori (viene da dire più o meno somari commentatori), in fondo non si discosta dalla visione che ne ebbe a suo tempo il padre fondatore della moderna dottrina economica, Adam Smith, secondo il quale sul mercato la migliore allocazione delle risorse e l’incontro della domanda e dell’offerta è assicurata da una sorta di “mano invisibile”, la quale deve essere lasciata agire indisturbata al fine di assicurare la massima efficienza economica. Non è questa la sede per discutere nel dettaglio la attuale fallacia di questa affermazione ma può essere, invece, l’occasione per sottolineare, al di là dell’ambito strettamente tecnico, i guasti “ideologici” che nell’odierno pensiero politico – di destra come di sinistra – derivano dall’impostazione smithiana. A proposito della comprensione dei mercati oligopolistici, l’economista Kurt W. Rothschild ebbe a osservare che piuttosto che compulsare come fossero sacre scritture i testi degli economisti, meglio sarebbe stato rivolgersi al manuale di Carl von Clausewitz Sulla Guerra (Vom Kriege). Detto in altre parole, Kurt W. Rothschild sosteneva che considerando i soli parametri economici, l’economia era del tutto incomprensibile e che, se si vuole avere sull’argomento un qualche barlume di comprensione, bisogna mettere nel conto lo scontro fra le unità politico-territoriali di cui l’economia non è che una delle sue espressioni, nemmeno quella più importante e decisiva.
Il panorama che i mass media occidentali vogliono invece offrire alle masse intorpidite dei loro paesi non è altro che un’incomprensibile e postmoderno fluttuare
nell’aria di incomprensibili coriandoli di informazione: in Siria combattenti per la libertà lottano contro un regime dispotico che non si perita di usare i gas per imporre il suo regime dittatoriale, in Ucraina un popolo unito come un sol uomo lotta per raggiungere gli alti standard politici e di rispetto dei diritti umani che vigono all’interno dell’Unione europea (evidentemente la lezione greca avrebbe bisogno di un po’ di ripasso) e per unirsi alla stessa Unione europea in una sorta di abbraccio fraterno. Ma nel frattempo, la storia è veramente cinica e bara, l’Egitto che prima della cacciata di Mubarak era toto corde schierato con gli Stati uniti, acquista, con l’aiuto dell’Arabia Saudita, una consistente partita di armi dalla Russia (e di solito il commento non va al di là del risibile che il nuovo Rais egiziano Al-Sissi e Putin vanno d’accordo perché entrambi dittatori …) e ciliegina sulla torta accade, come puntualmente rilevato nel post di de Martini “PAESI BRICS CON SVALUTAZIONI SELVAGGE ( Brasile, India, Cina , Sud Africa)”, che gli Stati uniti riducono la loro liquidità in circolazione per colpire i BRICS (questa notizia, per la verità, dalla maggioranza dei mezzi di informazione e dai commentatori non viene nemmeno data o viene commentata non collegandola col quadro geopolitico generale). E trionfo del politically correct (e del politicamente ridicolo), ci viene detto che Putin è tanto cattivo perché nel suo medievale paese si permettono di trattenere per qualche ora il suo omonimo transgender italico perché in Russia (orrore degli orrori che fa impallidire le velleità belliciste statunitensi passate, presenti e future) ci sono leggi che proibiscono la propaganda dell’omosessualità. Se su un piano generale si può sempre dire che volere imporre i propri valori e stili di vita nasconde sempre una volontà di dominio, nei casi appena citati c’è da rilevare che, a differenza dell’epoca colonialista, la volontà di dominio non è solo rivolta contro i popoli da colonizzare ma nella presente epoca è rivolta anche contro le popolazioni delle metropoli sviluppate, che dal non riconoscimento del feticcio ideologico dell’esistenza di un’economia pura svincolata dal dato strategico della geopolitica (che fa il paio con l’altro imbroglio del politically correct) hanno tutto da perdere.
Studiare quindi Von Clausewitz anche per far uscire l’Italia dalla sua terribile crisi? Il Repubblicanesimo Geopolitico non è altro, in fondo, che il tentativo di diffondere acquisizioni e conoscenze che, a livello di programmazione strategica delle grandi potenze politiche ed economiche, sono il normale strumento di lavoro (e di scontro). La convinzione che lo anima è che la difesa e l’avanzamento della libertà debba abbandonare il terreno delle fairy tales per approdare ad una adulta consapevolezza dove libertà significa, innanzitutto, una concreta autonomia (a livello geopolitico come a livello delle formazioni socio-politiche all’ interno dei vari paesi per giungere al singolo individuo) dalle potenze in perpetua lotta per il dominio (un processo che, tanto per essere chiari, significa per quanto riguarda l’Italia che il nostro paese deve dare inizio ad una decisa riappropiazione di sovranità a tutti i livelli.
Altrimenti la propria prosperità rimarrà tristemente affidata nelle mani di coloro che si ostinano a non vedere alcun legame fra economia e geopolitica e la libertà rimarrà appannaggio, sempre più deperendo, ai cantori delle “gaie scienze”.

“Il Corriere della Collera”, 17 febbraio 2014

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CRISI UCRAINA, STRATEGIA DEL CAOS USA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO

Di Massimo Morigi

Se non fosse per gli aspetti di transizione epocale dell’attuale situazione internazionale, mettendo in confronto la crisi siriana con quella ucraina, verrebbe proprio da concordare su quanto scriveva Marx nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte
che la storia si ripete sempre due volte: “la prima come tragedia, la seconda volta come farsa”. Gli Stati uniti non contenti dei sanguinosi e disastrosi effetti (disastrosi per i loro interessi) delle da loro eterodirette rivoluzioni arabe, con la crisi ucraina stanno infatti cercando di applicare, con altro evidente insuccesso e – per fortuna – almeno per ora nessun altrettanto copioso spargimento di sangue, la stessa strategia del caos, la cui filosofia può essere riassunta nel seguente modo: siccome abbiamo sempre più difficoltà ad esercitare il ruolo di unica superpotenza, dobbiamo rinunciare al compito di egemonizzare con una sorta di pax americana tutto il mondo ma ci dobbiamo accontentare di portare il caos non solo all’interno del perimetro dei nostri avversari (vedi Siria ed ora Ucraina) ma anche dentro il nostro perimetro (vedi destabilizzazione USA dell’ Egitto e vedi pure il brillante risultato finale della vendita di armi da parte della Russia a quel paese). Insomma, se non si riesce più a essere i primi in un mondo più o meno ordinato, forse si può continuarlo ad esserlo in un mondo frammentato e tornato in una sorta di stato di natura alla Hobbes di tutti contro tutti. Anche se non si può negare che “c’è del metodo in questa follia” (e il metodo consiste nel fatto che l’esercizio del primato statunitense in questa fase di passaggio da un mondo unipolare ad uno multipolare non può che essere esercitato facendo saltare tutto il tavolo delle attuali relazioni internazionali, la cui evoluzione, se non si fa qualcosa, sarà inevitabilmente il suo ulteriore consolidamento in uno schema policentrico dove gli Stati uniti avranno sempre meno voce in capitolo), la follia, come è noto, deve fare i conti, prima o poi, con la realtà.
E la realtà, come in Siria così come in Ucraina, si chiama Russia, la quale solo i mentecatti che attualmente ispirano l’attuale politica obamiana potevano pensare che il paese guidato da Putin avrebbe potuto accettare questo agognato ridemensionamento geopolitico che contempla, tuttalpiù, una Russia solo stolto rifornitore per l’Occidente di riserve energetiche, un servo sciocco da essere affidato in tutela, come ulteriore sfregio per i suoi trascorsi storici, al nuovo maggiordomo degli americani che va sotto il nome di Repubblica federale di Germania. Si sta vedendo come stanno andando le cose. La Russia non accettando di essere ridimensionata ha mandato le sue truppe in Crimea (con la giustificazione “per difendere i nostri interessi” che, nella sua disarmante semplicità, fa meravigliosamente giustizia di tutte le fandonie lessicali e concettuali politically correct dell’attuale amministrazione Obama e dei suoi servi occidentali); la Germania, evidentemente impaurita per la piega che hanno preso le cose, offre i suoi buoni uffici per raffreddare la situazione. Siamo passati quindi dalla tragedia siriana alla – meno male – farsa ucraina. Ma questa farsa non ci deve però far dimenticare la dimensione tragica dell’attuale situazione, una situazione caratterizzata da uno scontro strategico degli Stati uniti contro tutte quelle forze – avversari ed anche alleati, poco importa – che vorrebbero
una stabilizzazione entro un quadro multipolare in progressiva e – più o meno – ordinata evoluzione verso una situazione policentrica. In questo quadro, un discorso a parte merita l’Italia. Il nostro paese, nell’ambito della strategia del caos statunitense, non ha nessun ruolo da giocare e, al limite, come è già successo per altri paesi amici degli Stati uniti, può diventarne addirittura una vittima.
Appare quindi di tutta evidenza che un suo spostamento verso posizioni neutraliste che lo mettano al riparo da quegli agenti strategici che puntano sull’attuale caos del quadro internazionale se, apparentemente, potrebbe sembrare una mossa avventata, alla lunga potrebbe rivelarsi come una delle fondamentali carte da giocare non solo perché il nostro paese possa riprendersi dall’attuale terribile crisi (ricordiamo ancora quello che disse l’economista Kurt W. Rothschild, per il quale piuttosto che studiare i testi degli economisti classici era meglio leggere il manuale di Carl von Clausewitz sull’arte della guerra e su quanto l’attuale crisi finanziaria sia stata assai poco finanziaria ma molto pesantemente politicamente eterodiretta nell’ambito dello scontro strategico internazionale, un aspetto quest’ultimo della situazione geopolitica generale che c’è da augurarsi divenga presto di appannaggio non solo degli addetti ai lavori) ma anche perché possa preservare la sua unità territoriale (come si è visto, la strategia del caos nella sua hubris retorica sui diritti umani, non bada certo alle irrisorie conseguenze che per perseguire questi alti obiettivi, gli stati possano anche polverizzarsi, con tutte le “insignificanti” conseguenze del caso …). In questo quadro che passa dalla tragedia alla farsa ma che si svolge, comunque, entro un orizzonte di crescenti scontri strategici, compito del Repubblicanesimo Geopolitico non è solo far comprendere i terribili pericoli insiti in un mondo non più monocentrico ma anche mettere in risalto le grandi potenzialità di un sistema internazionale in evoluzione verso il policentrismo. Una evoluzione che, però, non dovrà essere accompagnata solo da distaccate analisi sulla situazione ma dovrà vedere, da parte di tutti coloro che condividono questa analisi, la costruzione di concrete alleanze politiche fra tutti coloro che si oppongono alla strategia del caos. Per quanto riguarda l’Italia, lo ripetiamo, la posta in palio nel cogliere la giusta impostazione geostrategica, oltre a preservare la sua unità territoriale (come si è visto, la strategia del caos nella sua hubris retorica sui diritti umani, non bada certo alle irrisorie conseguenze che per perseguire questi alti obiettivi, gli stati possano anche esplodere, con tutte le “insignificanti” conseguenze del caso …) e saldare le alleanze politiche favorevoli, non è solo la sua libertà e prosperità ma anche la sua stessa esistenza.

“Il Corriere della Collera”, 3 marzo 2014

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ANCORA SU UCRAINA, ITALIA, STATI UNITI (MA SCOMODIAMO CARL SCHMITT, LO JUS PUBLICUM EUROPAEUM E LA GRANDE BELLEZZA. SCEGLIETE)

Di Massimo Morigi

Sebbene l’offerta di un miliardo di dollari fatta dal segretario di Stato John Kerry appena giunto in Ucraina richiami alla mente analoghe transazioni messe in atto dai nascenti Stati uniti verso i nativi americani o quelli delle potenze coloniali europee nella prima penetrazione e successiva colonizzazione del continente africano e benché tornando ai giorni nostri, non balzi alla mente, per contrasto, che quando un paese in termini geopolitici conta meno del due di coppe (vedi Grecia) questo può bellamente morire di fame aiutato solo da prestiti concessi con umilianti procedure e con tassi di interesse che non fanno che peggiorare la situazione, non ci si deve fermare a queste valutazioni – pur giuste dal punto di vista etico e realistiche dal punto di vista fattuale – ma è possibile, invece, trarne indicazioni che possano informare le valutazioni geopolitiche dei prossimi anni. Punto primo, che riguarda un giudizio sugli attori operanti sulla scena ucraina. Sulla strategia del caos statunitense abbiamo già detto ma, nonostante il giudizio estremamente negativo che ne abbiamo dato dal punto di vista della sua efficacia strategica, risulta veramente difficoltoso comprendere come l’amministrazione Obama possa essere così goffa nell’applicazione di questa pur discutibilissima strategia. Volendo escludere l’insipienza come giustificazione di queste lunga serie di malaparate di cui la crisi ucraina è solo l’ultima della serie (intendiamo insipienza da parte di quegli agenti strategici che portano avanti questo approccio caotico alle relazioni internazionali, perché, se guardiamo i singoli portavoce di queste forze,
insipienza ed hubris la fanno da padrone), quello che emerge è che la politica estera statunitense, oltre ad avere un approccio teorico ‘caotico’ è pure caotica in merito a chi debba esercitare la leadership di questa politica. Detto in altre parole: anche se, da un punto di vista di consolidata dottrina sarebbe necessario fare ammenda dell’ipostasi che quando si parla di uno stato questo lo si debba intendere come una sorta di persona che agisce animato da volizioni paragonabili a quelle umane ma, invece, sarebbe più realistico considerarlo come il manifestarsi vettoriale di forze strategiche contrastanti che trovano di volta in volta la risultante di incontro/scontro all’interno come all’esterno di ogni singolo paese, oggi, come mai non era accaduto in passato, appare evidente che per comprendere il percorso e la Gestalt dello scontro fra i vari agenti strategici statunitensi, (non tanto per prevederlo, ovviamente) è più utile ricorrere a metafore tratte dalla psichiatria (cioè pensare alla politica estera americana come il comportamento di una persona affetta da schizofrenia) piuttosto che ricorrere a schemi euristici tratti dalla scienza fisica (come vorrebbe il vecchio ed anche ormai datato realismo che ha sempre preferito schemi più meccanicisitici).
Di questa schizofrenia USA i vari governanti dei paesi alleati agli Stati uniti dovrebbero tenerne conto, e ne tengono conto, vedi l’ambiguità della Germania nel caso ucraino che partendo da un atteggiamento di supporto all’aggressività americana nello svolgimento della crisi ha cercato poi di sfilarsi.
Da questo punto di vista, l’atteggiamento italiano di estrema prudenza nella crisi ucraina non deve essere lodato, perché è di tutta evidenza che non è certo prodromo ad un auspicabile processo di collocazione in campo neutrale del nostro paese. Si tratta, più banalmente, di semplice buonsenso alla Sancho Panza di fronte alle follie del padrone d’oltreoceano. Punto secondo, una analisi che cerca d’andar oltre i pur evidenti problemi dell’amministrazione Obama e dei configgenti agenti strategici americani che attualmente operano sotto la copertura nominale di questa amministrazione. In fondo, quando parliamo di strategia del caos statunitense e imputiamo questa strategia alla volontà americana di reagire al suo fallito tentativo di egemonia unipolare post caduta del muro di Berlino compiamo, in un certo senso, un errore di prospettiva storica, un errore perché questa tendenza caotica nelle relazioni internazionali era già stata individuata agli inizi degli anni Cinquanta da Carl Schmitt nel suo Il Nomos della Terra nel Diritto Internazionale dello Jus Publicum Europaeum. In estrema sintesi, Carl Schmitt sosteneva che l’affermazione novecentesca su piano globale delle potenze marittime, prima l’Inghilterra oggi gli Stati uniti, aveva comportato il deterioramento del diritto pubblico europeo, con la conseguenza che nel nuovo diritto internazionale veniva gradualmente svanendo la personalità dei singoli stati, così come era stata concepita in seguito all’assetto westfaliano, per
essere sostituito da una visione privatistico-commerciale e della guerra e dei rapporti internazionali. Siamo quindi ritornati a John Kerry che offre un miliardo di dollari agli indianiucraini, in spregio del fatto che il governo verso il quale dimostra tanta generosità è frutto di un illegale colpo di stato e che come legittimità, tuttalpiù, non è maggiore a quella di una privata assemblea di condominio (che fra l’altro decida di deliberare in spregio alle vigenti norme del codice civile).
Che poi le conseguenze di questo operare caotico, o meglio, in spregio dell’assetto formalmente personalistico degli Stati in accordo allo Jus Publicum Europaeum, sia il rischio dello smembramento dell’Ucraina, poco importa. O almeno poco importa agli agenti strategici statunitensi. Agli agenti strategici italiani, invece, dovrebbe importare e molto. Costoro devono stare molto attenti perché per l’Italia la posta geopolitica dei prossimi anni non è tanto quale agente strategico nazionale sarà più abile a presentarsi come cameriere degli Stati uniti – per questo ruolo ne servono altri più strutturati di noi, vedi la Germania – ma a quale agente, distrutta de facto l’Italia come entità statuale, sarà data l’opportunità di esibirsi – come un tempo agli indiani nel circo di Buffalo Bill e come oggi nelle riserve – per il divertito passatempo degli agenti strategici americani. Ed è inutile sottolineare che il Repubblicanesimo Geopolitico per quanto non intenda astoricamente sposare un ritorno sic et simpliciter allo Jus Publicum Europaeum (il problema delle libertà politiche e civili era del tutto ignorato se non avversato dal giuspubblicista fascista di Plettemberg), intende battersi con tutte le sue forze sia dal punto dell’analisi che da quello delle alleanze politiche perché lo schizofrenico caos strategico statunitense non significhi per l’Italia la riduzione ad una condizione simile a quella delle riserve indiane dove magari, al posto della danza della pioggia, vengano officiati riti e litanie in onore della sua “grande bellezza”.

“Il Correre della Collera”, 8 marzo 2014

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CRISI UCRAINA: IL SIGNOR WOLFOWITZ NEL PAESE DEGLI IGNORANTI HA FATTO SCUOLA
Di Massimo Morigi
Anche se c’è da nutrire seri dubbi che gli agenti strategici e i centri decisionali istituzionali della politica estera statunitense nella loro attività di destabilizzazione caotica portata avanti a livello globale siano stati ispirati, oltre che da un pensiero che risulta da un mix di geopolitica e una visione del mondo e dell’uomo di stampo hobbesiano, da suggestioni di tipo letterario, nella vicenda Ucraina – come del resto in altre consimili: un caso con profonde analogie operative di tentato rovesciamento dei poteri legittimamente alla guida del paese, il Venezuela prima e dopo la morte di Chavez – questa certezza sembrerebbe per un attimo vacillare. In fondo cosa hanno cercato – e tentano tuttora – di fare gli Stati uniti con l’Ucraina? Molto semplicemente hanno cercato di replicare quanto il grande scrittore ucraino Gogol aveva immaginato nelle Anime morte attraverso la creazione del suo immortale antieroe Cicicov, il quale attraversava la Russia in lungo e in largo per acquistare i nomi dei defunti servi della gleba che, in seguito, avrebbero dovuto essere
truffaldinamente esibiti alle autorità per potere ottenere dei cospicui finanziamenti. E se certamente l’attività di acquisto e di corruzione da parte degli Stati uniti dei settori più disperati e di quelli gangsteristicamente più vocati della società ucraina richiama veramente l’idea di una compravendita di “anime morte” da esibire di fronte al mondo per giustificare il definitivo passaggio al Washington consensus dell’Ucraina, quello che sorprende non è tanto che gli agenti strategici statunitensi dimostrino di non conoscere come va a finire l’immortale romanzo di Gogol (Cicocov non riesce nel suo intento e l’ignobile furbata viene scoperta) ma di non aver preso nemmeno per un attimo in considerazione l’immancabile e scontata reazione della Russia che mai avrebbe accettato – e mai accetterà – il proposito americano di annientarla in quanto superpotenza (ed anche di progressivamente contrarla e sminuzzarla pure territorialmente facendo leva sulle sue varie componenti etnico-culturali). Nel caso specifico della crisi ucraina, la reazione russa a questa impostazione statunitense Grand strategy americana che non è una nostra elucubrazione ma che ha trovato già da più di due decenni una sua elaborazione esplicita nella cosiddetta dottrina Wolfowitz, vedi all’indirizzo http://work.colum.edu/~amiller/wolfowitz1992.htm – WebCite http://www.webcitation.org/6oxfFKkIl e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwork.colum.edu%2F~amill er%2Fwolfowitz1992.htm&date=2017-03-14 – urtext della politica estera statunitense dopo la fine della guerra fredda, della quale il primo commento fu fatto dal New York Times l’8 marzo 1992 con il significativo titolo, come da documento agli URL di cui sopra, U.S. Strategy Plan Calls for Insuring No Rivals Develop A One-Superpower World. Pentagon’s Document Outlines Ways to Thwart Challenges to Primacy of America) anche se parimenti del suo rivale americano nulla deve alla letteratura, forse qualcosa deve ad una visione certamente più creativa e meno nichilistica di quella portata avanti dagli agenti strategici del caos americani. Con l’indizione del referendum che staccherà la Crimea dall’Ucraina (dagli USA e dai suoi accodati alleati giudicato – parole evidentemente emesse senza il permesso del cervello ma sotto la convincente pressione del portafoglio – illegale), la Russia mostrando una sorta di astuzia luciferina e di machiavelliana noncuranza (cosa c’è infatti di più sacro dal punto di vista delle liberaldemocrazie e soprattutto dal punto di vista americano, del principio di autodeterminazione dei popoli: vedi il nefasto ruolo del presidente americano Wilson alla conferenza di pace di Parigi nello smembrare – con l’assai poco previdente appoggio delle principali potenze vincitrici – alla luce dei suoi “Quattordici punti”, senza alcun ritegno e logica geopolitica – se non una già allora incipiente “strategia del caos” – l’impero asburgico e vedi l’accusa americana incessantemente reiterata durante tutta la guerra fredda che l’Unione sovietica non permetteva la libera espressione dei popoli sottoposti al patto di Varsavia), ha dato
alla truffa Stati uniti/Cicicov una soluzione che non sarebbe dispiaciuta nemmeno all’autore delle Anime morte.
Quale soluzione? Molto semplicemente la Russia dice questo agli Stati uniti (e ai suoi alleati). Se volete, tenetevi pure le vostre anime morte (una Ucraina fallita economicamente e che dopo essere stata accolta a braccia aperte dall’Occidente diverrà preda dei mortali aiuti internazionali, Grecia docet), noi ve le lasciamo volentieri e, se ci riuscite, traetene pure un profitto. Noi, da parte nostra, ci limitiamo ad offrire una alternativa a coloro che non vogliono accettare di essere acquistati (la Crimea russofona) come una sorta di “anima morta” dalla truffa del novello Cicicov americano. La morale finale della storia vale non solo per quegli ucraini (chi in buona fede e chi direttamente pagati) si sono fatti trattare come carne da cannone in omaggio alla strategia del caos americana ma anche per quegli alleati di una superpotenza che ha ormai perso ogni ritegno nella sua hubris imperialistica. Al contrario che nel romanzo di Gogol, per le anime morte della strategia statunitense c’è una possibilità di ritorno alla vita. Dubitiamo fortemente che questa possibilità sia ancora a disposizione di un’Ucraina territorialmente integra. Il Repubblicanesimo Geopolitico crede fermamente invece che lo sia per quei paesi i cui agenti strategici abbiano un loro lungo e sedimentato passato che non può essere ridotto – come evidentemente nel caso ucraino – ad una triste ed opaca storia di famiglia di vecchie corrotte burocrazie di partito in cannibalesca ricerca di un agognato riciclaggio “democratico” e che, al contrario dell’Ucraina, si siano nel tempo legati allo sviluppo di forti appartenenze, tradizioni e culture nazionali. E dove in questo atlante geopolitico di forze ed agenti strategici che alla luce delle storie di “lunga durata” delle loro vite nazionali cercano una fuoruscita dagli idola theatri e dalle pratiche del Secolo breve sia la futura naturale collocazione dell’Italia è, pensiamo, persino offensivo accennarlo.

“Il Corriere della Collera”, 13 marzo 2014
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LENIN, L’IMPERIALISMO FASE SUPREMA DEL CAPITALISMO, IL NUOVO SCONTRO USA RUSSIA IN UN MONDO SEMPRE PIÙ MULTIPOLARE E IL RUOLO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO Di Massimo Morigi

Col proposito di fornire il quadro economico che aveva fatto da sfondo allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1915 Lenin iniziò a scrivere “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, il cui capitolo VII, “L’imperialismo, particolare stadio del capitalismo”, si presta sia al commento della crisi Ucraina dopo che il referendum ha ricongiunto la Crimea con la Russia sia a riflessioni teoriche, di natura politica e geostrategica, che investono in pieno il ruolo che deve svolgere il repubblicanesimo geopolitico nell’attuale fase. Scriveva dunque Lenin nel capitolo VII dell’ Imperialismo fase suprema del capitalismo: «[…] Quindi noi […] dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo, che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè: la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di una oligarchia finanziaria; la grande importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.» Dal punto di vista dell’analisi, queste parole di Lenin come rappresentano una pietra miliare per inquadrare la situazione geoeconomica che preluse allo scoppio della prima guerra mondiale, sembrano pure scritte per descrivere l’attuale situazione di scontro multipolare, con particolare riferimento alla vicenda Ucraina. Una vicenda, quella Ucraina, in cui come in nessun altra crisi è apparso chiaro il terribile ed immenso sforzo delle potenza imperialistica egemone di accaparrarsi con tutti i mezzi, in primo luogo tramite le immense risorse del capitalismo finanziario, quest’area vitale per la permanenza della Russia nel novero delle grandi potenze e per la possibilità di contrastare la potenza statunitense. Generalmente, quando si parla delle “inframmettenze” statunitensi in Ucraina, se si possiede un po’ di memoria storica, ci appaiono alla mente fra i principali missionari
dell’esportazione della democrazia marca USA nella terra di Gogol la figura di quel singolare personaggio che va sotto il nome di Gene Sharp e del suo Albert Einstein Institute. Per farla breve. Sia o non sia un agente della CIA o emanazione più o meno diretta di qualche altro agente od ente strategico statunitense (quello dell’appartenenza diretta di Sharp all’agenzia di intelligence statunitense fu tesi sostenuta a suo tempo da Chavez ed è anche convinzione condivisa dall’Iran; noi – non necessitati alle semplificazioni propedeutiche alla mobilitazione delle masse contro il nemico ma non per questo non consapevoli che in politica i complotti esistono, eccome – ci limitiamo a dire che per essere al servizio di un qualche agente strategico non è necessario esserne direttamente e consapevolmente al soldo), Sharp è autore di un libro From dictatorship to democracy. A conceptual framework for liberation (per chi vuole consultarlo nell’originale versione in inglese agli URL http://www.aeinstein.org/wp-content/uploads/2013/09/FDTD.pdf; Internet Archive: https://archive.org/details/FromDictatorshipToDemocracy-GeneSharp_921 e https://ia601500.us.archive.org/33/items/FromDictatorshipToDemocracyGeneSharp_921/FromDictatorshipToDemocracy-GeneSharp.pdf) che, sotto il pretesto di essere semplicemente una guida per combattere regimi dittatoriali sotto qualsiasi forma si presentino è storicamente risultato, a tutti gli effetti, non essere altro che un manuale scritto con pretta mentalità organizzativa militare per abbattere tramite la mobilitazione delle masse i regimi invisi agli Stati uniti. Ciò ha avuto pieno successo in Serbia, dove le istruzioni del manuale di Sharp sono state fondamentali, tramite l’emanazione locale dell’Albert Einstein Institute, l’Otpor, per la deposizione di Milosevic ed ha avuto poi una ancora più vasta applicazione su scala globale con il CANVAS (Center for Applied Nonviolent Action and Strategies), una diretta emanazione dell’ Otpor, che invece che sulla Serbia ha messo il suo zampino in tutte quelle aree, Ucraina compresa, dove gli Stati uniti hanno applicato i loro processi di strategia del caos quando attuati attraverso mezzi di intervento non diretto ma, piuttosto, di sobillazione delle masse eterodirette e più o meno non violente (vedi ruolo del CANVAS anche nelle primavere arabe). Ma se ci si limitasse alla semplice indicazione di sigle e di più o meno quinte o seste colonne che agiscono all’interno di alcuni paesi, che possono essere quelli che si oppongono al Washington consensus (ma non solo, vedi Egitto di Mubarak) ma alle quali si potrebbe ribattere con altrettanti nomi e sigle che rispondono – con diverso grado ed intensità – sotterraneamente ad agenti strategici del campo avverso – quello delle spie e degli agenti provocatori è uno strumento della politica internazionale che viene dalla notte dei tempi e non caratterizza certo l’attuale fase imperialistico-multipolare –, ciò non ci avvicinerebbe affatto al quadro disegnato da Lenin nel suo Imperialismo fase suprema del capitalismo. Più che la stretta elencazione di questi agenti, se vogliamo
comprendere quanto nella situazione ucraina (e quindi anche nelle altre aree di crisi dove le summenzionate quinte colonne hanno avuto la possibilità di agire) abbiano contato le oligarchie finanziarie indicate da Lenin per tentare di accaparrarsi quest’area geopolitica, è ancor meglio ascoltare le parole pronunciate pubblicamente dall’assistente segretario di stato per gli affari europei ed euroasiatici Victoria Nuland. Ebbene il 13 dicembre 2013, in una conferenza tenuta a Washington, Victoria Nuland ha affermato che a partire dal 1991 in Ucraina gli Stati uniti hanno finanziato organizzazioni politiche e non governative per un ammontare di 5 miliardi di dollari («Since Ukraine’s independence in 1991, the United States has supported Ukrainians as they build democratic skills and institutions, as they promote civic participation and good governance, all of which are preconditions for Ukraine to achieve its European aspirations. We’ve invested over $5 billion to assist Ukraine in these and other goals that will ensure a secure and prosperous and democratic Ukraine»). Chi si vada a leggere il testo integrale di questa conferenza (per il quale si rimanda agli URL http://iipdigital.usembassy.gov/st/english/texttrans/2013/12/20131216289031.html; Internet Archive: https://archive.org/details/AssistantSecretaryNulandAtU.s.ukraineFoundationConference e https://ia601504.us.archive.org/15/items/AssistantSecretaryNulandAtU.s.ukraineFoundationConference/AssistantSecretaryNulandAtU.s.ukraineFoundationConference_IipDigital.html), potrà avere contezza non solo di queste “candide” affermazioni che ci fanno capire quanto in Ucraina – e di riflesso negli altri paesi che rifiutano il Washington consensus – sia stato immenso l’apporto di risorse che, attraverso il capitale finanziario, gli agenti strategici della principale potenza su piazza hanno riversato sulle quinte colonne alla Otpor o alla CANVAS per sovvertire “pacificamente” i governi che si volevano opporre agli Stati uniti ma potrà anche vedere il grado di arroganza usato dagli Stati uniti contro i governanti ucraini per costringerli all’adesione all’Unione europea e per accettare gli aiuti del Fondo monetario internazionale ( sempre citando dalla conferenza di Victoria Nuland: «As you all know, and as I’m sure you just heard from Anders and other colleagues, Ukraine’s economy is in a dire state, having been in recession for more than a year and with less than three months worth of foreign currency reserves in place. The reforms that the IMF insists on are necessary for the long-term economic health of the country. A new deal with the IMF would also send a positive signal to private markets and would increase foreign direct investment that is so urgently needed in Ukraine. Signing the Association Agreement with the EU would also put Ukraine on the path to strengthening the sort of stable and predictable business environment that investors require. There is no other path that would bring Ukraine back to long-term
political stability and economic growth»). Se fin qui l’analisi leniniana sulla situazione che fece da sfondo allo scoppio della prima guerra mondiale si rivela fondamentale per fotografare non solo la dinamica degli agenti strategici e finanziari operanti in Ucraina ma più in generale su tutto lo scacchiere internazionale, l’esperienza storica sta però a dimostrarci – al contrario di quanto sperava il marxismo ed in genere tutti i movimenti ad alto tasso di millenerarismo – che la speranza nelle “ultime fasi”, oltre a essere strettamente collegata ad una mentalità propensa al totalitarismo, è anche una previsione del tutto sbagliata (e di questo Lenin ne era anche inconsciamente avvertito: se il titolo del suo libro richiamava la fase terminale del capitalismo, nel titolo del capitolo da noi citato, l’imperialismo veniva degradato a “fase particolare” del capitalismo). Detto in parole semplici e tradotto ad uso del Repubblicanesimo Geopolitico. 1) L’attuale sconfitta che gli agenti strategici statunitensi stanno subendo nella loro strategia del caos attuata attraverso la leva del capitale finanziario e l’impiego sul campo delle masse eterodirette dallo smart power delle NGO modello Otpor o CANVAS non prelude affatto ad una loro uscita di scena (non prelude affatto, cioè, ad una loro “fase finale” ma semmai ad un rimodulazione del loro modus operandi, con un possibile ritorno a pratiche destabilizzanti muscolari dell’era Bush: Obama attenzione guardati alle spalle, i tuoi agenti strategici non sono molto contenti del tuo operato …) ma, semmai, ad un passaggio dalla fase unipolare post caduta del muro di Berlino ad una policentrica molto più travagliata di quella che – ingenuamente – da parte della stragrande maggioranza degli osservatori ci si era aspettati all’indomani della prima elezione di Obama. 2) Se nel suo vedere la “fase finale” del capitalismo Lenin dovette pagare il pegno al profetismo chiliastico del marxismo, la sua mentalità strategica, o meglio geostrategica, comprese benissimo che la lotta contro i monopoli poteva avvenire ed avere successo in quei paesi che costituivano “l’anello debole” di questa evoluzione del capitale finanziario. Dimostrazione della correttezza di questa visione strategica leniniana di puntare sull’anello debole delle nazioni capitalistiche per far vincere la rivoluzione (e con questo successo che però non poté tramutarsi nel sogno comunista ma nell’edificazione “solo” di una moderna superpotenza, l’Unione Sovietica, anche dimostrazione della successiva impossibilità storica e teorica di realizzare la rivoluzione proletaria) fu la Russia con l’abbattimento dello zarismo ed il successo della rivoluzione bolscevica.
Certamente, alla luce del referendum che ha ricongiunto alla grande madre Russia la Crimea, un anello debole della strategia americana di invasione del mondo col suo capitale monopolistico si è dimostrata l’Ucraina. Ciò è certamente un punto segnato da Putin che, degno successore di Lenin, ha sempre dimostrato di sapere colpire al momento opportuno e con inusitata efficacia gli “anelli deboli” della strategia del
caos statunitense. Il punto molto semplice è però che, visto che le “fasi finali” delle transizioni da uno stato unipolare a uno multipolare – come quelle, per fortuna, del passaggio millenaristico e definitivo dal capitalismo al comunismo – appartengono al mondo dei sogni e non alla realtà dello scontro fra agenti strategici, gli spazi di libertà che sono la naturale conseguenza della messa in crisi della potenza ancora attualmente egemone non possono essere affidati in un unico appalto a chi ora contesta, e con successo, questa potenza. Qui sta il compito del Repubblicanesimo Geopolitico: alla luce di un quadro ormai brulicante di “anelli deboli” del Washington consensus, diffondere la consapevolezza che un aumento degli spazi di prosperità e libertà dell’Italia e del suo popolo sia nell’accettare con coraggio la nascente fase multipolare. E nell’altrettanto forte consapevolezza, che in definitiva ci viene proprio da Lenin, che nella scelta degli alleati, interni ed internazionali, che rendano possibile questo passaggio, le “fasi finali” appartengono al mondo delle fate o, per esprimerci in termini politici, a quello delle ideologie. Proprio come stanno a provare nella loro pelle gli ingenui ucraini trattati come carne da cannone dall’ UE e dagli USA, nella scelta delle alleanze e dei compagni di viaggio, di tutto abbiamo bisogno tranne che ripercorrere meccanicamente e solo in senso contrario quello che è già stato fatto negli ultimi cinquant’anni.
“Il Corriere della Collera”, 26 marzo 2014
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PERCHÉ LA CHIESA CATTOLICA VIENE ATTACCATA DALL’ONU Di MASSIMO MORIGI

Prosegue la pubblicazione delle varie riflessioni di Massimo Morigi riguardanti il “repubblicanesimo geopolitico”. Anche questo breve scritto è preceduto da un lungo commento odierno dell’autore

Repubblicanesimo Geopolitico e  Katargēsis Messianica

di Massimo Morigi

«[19] Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. [20] Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. [21] Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; [22] giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: [23] tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, [24] ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. [evidenziazione dal versetto 21 al versetto 24 del redattore] [25] Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, [26] nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. [27] Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede[28] Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. [evidenziazione dal versetto 27 al versetto 28  del redattore] [29] Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! [30] Poiché non c’è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi. [31] Rendiamo allora inoperante [katargoumen: rendiamo inoperante, rendiamo inefficace, annulliamo, aboliamo, distruggiamo, superiamo, ndr] la legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge. [evidenziazione del verseto 31 del redattore]  »: Rm 3, vv. 19-31.

 

In  Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu  pubblicato sul “Corriere della Collera” il 9 febbraio 2014 (all’URL https://corrieredellacollera.com/2014/02/09/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ e ora anche su WebCite agli URL http://www.webcitation.org/6sJ58D0JY e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2014%2F02%2F09%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-28), dopo aver indicati i motivi geopolitici e di politica internazionale (in estrema sintesi: l’opporsi, per difendere la presenza cristiana nell’area, alla polverizzazione politica e statuale mediorientale operata dalla politica del caos statunitense) a causa dei quali la Chiesa cattolica, attraverso l’accusa di ogni nequizia sessuale possibile ed immaginabile stava subendo (e tuttora sta subendo) un possente attacco dei grandi centri strategici internazionali (stranamente, tanto per fare un esempio, l’Arabia Saudita, con la sua “singolare” visione del rapporto fra i sessi non ha dovuto subire mai nulla di simile; altrettanto singolare poi che la punta di lancia di queste accuse provenisse da quella pia organizzazione internazionale, le Nazioni unite, che è il consesso internazionale dove hanno possibilità di veto proprio quegli stati che spingendo un bottone possono distruggere l’umanità e che storicamente e tutt’oggi s’ingegnano a compiere i maggiori massacri in giro per il mondo), chiudevo le mie brevi considerazioni con queste parole: «Ed è altrettanto evidente che nel contrastare questo vuoto culturale e politico la Chiesa cattolica non solo non deve essere lasciata sola ma deve essere affiancata anche da apporti che se, apparentemente, hanno più a che fare con quello che deve essere dato a Cesare piuttosto che a Dio, cionondimeno affondano le loro radici, come il Repubblicanesimo Geopolitico, in una concezione di vita e di cultura che è nata nello stesso terreno sul quale ha prosperato la religione che ha dato forma alla civiltà occidentale.». Lo scopo dell’articoletto, la denuncia delle vere ragioni per le quali si tentava (e si tenta tutt’ora) di far apparire la Chiesa cattolica come la sentina di ogni vizio morale e sessuale non rendevano opportuna l’occasione, tranne il mero ma non ulteriormente precisato passaggio  sulle molte comuni radici fra la Chiesa cattolica ed il Repubblicanesimo Geopolitico, per diffondersi sull’argomento. La rinnovata cortese ospitalità dell’ “Italia e il Mondo” per i primi vagiti del Repubblicanesimo Geopolitico nonché la necessità –  oltre a rinnovare la difesa della Chiesa cattolica sempre e comunque sotto attacco –  di pubblica chiarificazione delle sue fonti teoriche, nella fattispecie delle presenti  considerazioni sotto l’aspetto della sua ‘teologia politica’, ci fornisce allora l’occasione per chiarire il senso delle impegnative considerazioni conclusive di Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu .

Tutti conoscono la frase di Gesù e riportata dai tre vangeli  sinottici laddove il Figlio di Dio afferma “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” e da parte dei zelanti – ma ahimè non proprio molto scaltriti –  sostenitori della tesi  dell’assoluta non ingerenza della Chiesa cattolica nella vita dello stato (più o meno) laico (quasi che la politica attuale effettuale di una antichissima  istituzione possa essere giudicata alla luce delle parole attribuite da più di  duemila anni  al  suo Messia) e dei polemisti contro l’Islam (quasi che la Chiesa non abbia mai storicamente voluto imporre una sua propria particolare sharia), questa frase viene incessantemente citata per indicare il rapporto assolutamente libero ed autonomo della Chiesa stessa rispetto alla legge civile. In effetti, anche se non proprio per le ragioni indicate dalla maggior parte degli zelanti sostenitori della Chiesa cattolica (ragioni, fra l’altro, molto spesso condivise, anche da parte di coloro che si qualificano come laici, i quali pur non riconoscendo alla Chiesa cattolica attuale alcun disinteresse verso la legge civile, molto volentieri concedono al Figlio di Dio una corretta impostazione “laica” del problema, e a questo punto non si sa più se ridere o piangere a vedere come si è ridotto il c.d. “pensiero laico”), la frase e sì importantissima per delineare l’intima disposizione che per più di duemila anni ha animato il cristianesimo – e nello specifico – la Chiesa cattolica verso la legge civile ma il punto è che si tratta di una Stimmung  che non ha proprio nulla a che fare con l’angelico disinteresse verso la legge civile che ci consegnerebbero le parole di Cristo. In breve. Chiunque non voglia piegare (anche in perfetta buonafede, per carità!) il “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ad esigenze “politiche” s’accorge immediatamente della loro inequivocabile ambiguità di fondo. Ora il sopracitato (rozzo) pensiero laico, risolve questa ambiguità con un “semplicismo” di stampo pseudostorico affermando che, qualsiasi fossero le recondite intenzioni per cui Gesù Cristo pronunciò quelle parole e le concrete condizioni che lo indussero ad esprimersi in questo modo,  fino ai nostri giorni tutti i tentativi della Chiesa cattolica sono stati indirizzati a piegare la legge civile ai dettami della religione finalizzandola, quando le condizioni storiche lo rendevano possibile, alla costruzione di uno stato teocratico. Invece un pensiero, come il Repubblicanesimo Geopolitico, non proprio intenzionato ad essere l’ottuso cantore del “Brave New World”, del mondo liberal-liberista, della democrazia di massa e rappresentativa e dei formidabili diritti dell’uomo oltre a notare l’intima contraddittorietà delle parole di Cristo riconosce in questa parole una contraddizione che è anche la propria trattandosi di un “crampo del pensiero” che è proprio di ogni pensiero autenticamente rivoluzionario che pur volendo generare una propria incontestabile legalità ha con la legge positiva (e, conseguentemente,  anche con la futura legge rivoluzionaria) un rapporto non proprio molto sereno (anche se, come vedremo) dialetticamente molto profondo. E che nel cristianesimo delle origini e nella futura Chiesa cattolica il rapporto con la legge civile fosse dialetticamente assai poco risolto, ben lo vediamo dalla lettera di S. Paolo ai Romani –  come da noi mostrato  in Rm 3, vv. 19-31 posto in esergo al presente  commento a Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu   – dove al versetto 31, dopo un irrisolto ragionamento in merito al rispetto della legge civile chiedendosi «Rendiamo allora inoperante  [katargoumen: rendiamo inoperante, rendiamo inefficace,  annulliamo, aboliamo, distruggiamo, superiamo, sospendiamo, ndr] la legge mediante la fede?» scioglie la domanda con un contraddittorio «Nient’affatto, anzi confermiamo la legge.», contraddittorio perche ai vv. 21-24 aveva appena affermato «Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù.». Sul problema della  katargēsis messianica della legge civile  in  Rm 3, vv. 19-31 (ma noi  con non forzata analogia possiamo ben parlare del problema della katargēsis  rivoluzionaria rispetto alla legge, cioè del problema mai risolto della rivoluzione rispetto non solo alla legge che l’ha preceduta ma anche rispetto alla legge “rivoluzionaria” prossima ventura) si è magistralmente espresso Giorgio Agamben in il Tempo che resta e in Homo Sacer , opere entrambe da cui traiamo ora  ampie citazioni e commentando le quali potremmo cominciare a formulare le nostre conclusioni riguardo le comuni radici fra ogni autentico pensiero rivoluzionario, fra i quali deve essere annoverato anche il Repubblicanesimo Geopolitico, e l’irrisolto rapporto che il cristianesimo e la Chiesa cattolica hanno intrattenuto fin dagli inizi con la legge. Scrive quindi Agamben a proposito della katargēsis messianica: «Come dobbiamo pensare lo stato della legge sotto l’effetto della katargēsis messianica? Che cos’è una legge che è, insieme, sospesa e compiuta? Per rispondere a queste domande, non trovo nulla di più istruttivo che far ricorso a un paradigma epistemologico che sta al centro dell’opera di un giurista che ha posto la sua concezione della legge e del potere sovrano sotto una costellazione esplicitamente antimessianica –  ma che, proprio per questo, in quanto «apocalittico della controrivoluzione»  – non può evitare di introdurre in essa dei  theologoumena genuinamente messianici. Secondo Schmitt – avrete capito che è a lui che mi riferisco –  il paradigma che definisce la struttura e il funzionamento proprio della legge non è la norma, ma l’eccezione: “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto … L’eccezione  è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo esso conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. (Schmitt 1921, 41) [nell’ultima edizione italiana : Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it, Bologna, 1972 (ed. 2013), p.41, ndr]”. È importante qui non dimenticare che, nell’eccezione, ciò che è escluso dalla norma non è, per questo, senza rapporto con la legge; al contrario, questa si mantiene in relazione con l’eccezione nella forma della propria autosospensione. La norma si applica, per così dire, all’eccezione, disapplicandosi, ritirandosi da essa. L’eccezione è, cioè, non semplicemente un’esclusione, ma un’esclusione inclusiva, un’ex-ceptio nel senso letterale del termine: una cattura del fuori. Definendo l’eccezione, la legge crea e definisce nello stesso tempo lo spazio in cui l’ordine giuridico-politico può avere valore. Lo stato di eccezione rappresenta, in questo senso, per Schmitt la forma pura e originaria della vigenza della legge, a partire dalla quale soltanto essa può definire   l’ambito normale della sua applicazione. » (Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani,Torino: Bollati Bolinghieri, 2000, pp. 98-99), una   katargēsis  messianica che sembra letteralmente esplodere sotto il peso delle sue contraddizioni: «Di qui l’ambiguità del gesto di Rm. 3, 31, che costituisce la pietra d’inciampo di ogni lettura della critica paolina della legge: “Rendiamo dunque inoperante [katargoumen] la legge attraverso la fede? Non sia! Anzi, teniamo ferma [histdnomen] la legge”. Già i primi commentatori avevano notato che l’apostolo sembra qui contraddirsi (contraria sibi scribere: Origene 1993, 150): dopo aver dichiarato più volte che il messianico rende inoperosa la legge, qui sembra affermare il contrario. In verità è proprio il significato del suo terminus technicus che si tratta qui per l’apostolo di precisare, riportandolo al suo etimo. Ciò che è disattivato, fatto uscire dall’ enérgeia, non è, per questo, annullato, ma conservato e tenuto fermo per il suo compimento.» (Ibidem, p. 94).

Per Agamben, quindi, mettendoci la katargēsis messianica  di fronte ad una legge  sospesa e compiuta  al tempo stesso, per ricostruire la vera genealogia della Gestalt dello stato di eccezione schmittiano, la cui intima natura espressiva è la messa al mondo della legge stessa ma contraddittoriamente facendola precedere in importanza gerarchica ed operativa  proprio dal  suo annullamento e/o negazione, lo stato di eccezione appunto, dobbiamo ricorrere alla lettera di S. Paolo ai  Romani. Riprendiamo più per esteso la citazione schmittiana del Tempo che resta: «Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto. […] Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica della ripetizione. » ( Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it, Bologna, 1972 (ed. 2013), pp. 40-41).

Questo è il luogo di tutta la produzione schmittiana dove meglio comincia a prendere forma quel concetto definito in sede di elaborazione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico  come  ‘stato di eccezione permanente’ , uno ‘stato di eccezione permanente’ che troverà la sua completa forma stilistico-espressiva (anche se non la sua compiuta definizione lessicale, la cui responsabilità risale interamente allo scrivente, sull’argomento cfr. Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola ed anche Idem, La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) ) all’ VIII tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.».

Attraverso questo e altri luoghi benjaminiani è stato del tutto naturale per il Repubblicanesimo Geopolitico una reinterpretazione di Walter Benjamin alla luce del concetto di ‘iperdecisionismo’, un iperdecisionismo benjaminiano che va addirittura oltre  il  decisionismo del giuspubblicista fascista Carl Schmitt risolto in funzione katechontica e non  rivoluzionaria come invece in Benjamin (cfr ancora  Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola e La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) ) e ‘stato di eccezione permanente’ e ‘iperdecisionismo’ benjaminiani assunti in pieno  dal Repubblicanesimo Geopolitico che nella Stimmung del loro contraddittorio e dialettico rapporto con la legge (qualsiasi movimento rivoluzionario sviluppa sempre un contradditorio rapporto con la legge: proprio come nella  katargēsis  paolina vorrebbe, attraverso un diktat originario e ad legibus solutus, cioè assoluto, abolire la vecchia legge ma, al tempo stesso, conservarne i suoi principi ordinatori in una nuova legge, ma da negarsi nel momento stesso che viene resa vigente) ben si riflettono nel tortuoso e tormentato precedere della lettera di S. Paolo ai romani.

«In his interpretation […], Kurt Weinberg has suggested that one must see the figure of a “thwarted Christian Messiah” in the shy but obstinate man from the country (Kafka’s Dichtungen, pp. 130-31). The suggestion can be taken only if it is not forgotten that the Messiah is the figure in which the great monotheistic religions sought to master the problem of law, and that in Judaism, as in Christianity or Shiite Islam, the Messiah’s arrival signifies the fulfillment and the complete consummation of the Law [evidenziazione nostra]. In monotheism, messianism thus constitutes not simply one category of religious experience among others but rather the limit concept of religious experience in general, the point in which religious experience passes beyond itself and calls itself into question insofar as it is law (hence the messianic aporias concerning the Law that are expressed in both Paul’s Epistle to the Romans and the Sabbatian doctrine according to which the fulfillment of the Torah is its transgression)  [evidenziazione nostra]. But if this is true, then what must a messiah do if he finds himself, like the man from the country, before a law that is in force without signifying? He will certainly not be able to fulfill a law that is already in a state of suspension, nor simply substitute another law for it (the fulfillment of law is not a new law) [evidenziazione nostra]. […]  This is precisely the situation that, in the Jewish tradition (and, actually, in every genuine messianic tradition), comes to pass when the Messiah arrives. The first consequence of this arrival is that the Law (according to the Kabbalists, this is the law of the Torah of Beriah, that is, the law in force from the creation of man until the messianic days) is fulfilled and consummated [evidenziazione nostra]. But this fulfillment does not signify that the old law is simply replaced by a new law that is homologous to the old but has different prescriptions and different prohibitions (the Torah of Aziluth, the originary law that the Messiah, according to the Kabbalists, would restore, contains neither prescriptions nor prohibitions and is only a jumble of unordered letters). What is implied instead is that the fulfillment of the Torah now coincides with its transgression. This much is clearly affirmed by the most radical messianic movements, like that of Sabbatai Zevi (whose motto was “the fulfillment of the Torah is its transgression”). From the juridico-political perspective, messianism is therefore a theory of the state of exception – except for the fact that in messianism there is no authority in force to proclaim the state of exception; instead, there is the Messiah to subvert its power [evidenziazione nostra].» (Giorgio Agamben, Homo sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press-Stanford, 1998, pp.37-38). Con  quest’ultima citazione agambeniana veniamo allora a chiudere rapidamente il nostro discorso sulla longue durée delle vere ragioni del perché la Chiesa cattolica oggi come ieri ha un rapporto conflittuale con i grandi agenti strategici che dominano la politica internazionale (oltre naturalmente i già accennati contrasti geopolitici contingenti velocemente riassunti nella presente comunicazione come in Perché la Chiesa Cattolica viene attaccata dall’Onu ) . Detto brutalmente: oggi come ieri i grandi agenti strategici non potranno mai accettare una grande organizzazione spirituale ma anche secolare in cui una parte così fondamentale del suo essere la principale, se non l’unica,  agenzia di senso etico e comportale presente sullo scenario geopolitico derivi direttamente dalla  paolina  katargēsis messianica col suo dialetticamente rivoluzionario (rivoluzionario anche al di là della consapevolezza che ne ha la Chiesa) rapporto con la legge, proprio quella legge sulla quale i grandi agenti strategici, mentre ne operano lo svuotamento di fatto, vorrebbero operare, a scopo di continuazione dei rapporti di forza a loro favorevoli, una sua deificazione e mummificazione per l’eternità ( e l’esempio più clamoroso e chiaro di questa deificazione e mummificazione sono le retoriche sullo stato di diritto, la democrazia rappresentativa e i diritti umani). E  quelle dottrine che, come il Repubblicanesimo Geopolitico, sono basate  su una loro katargēsis rivoluzionaria che mai accetterà un rapporto morto e reverenziale con la legge sono destinate, proprio come la Chiesa cattolica, ad una eterna lotta contro questi agenti strategici conservatori. Il Repubblicanesimo Geopolitico si propone quindi come il primo grande agente strategico che storicamente opera a favore di una dialetticamente consapevole katargēsis rivoluzionaria. L’irrisolto rapporto con la legge ha connotato i duemila anni di vita del cristianesimo come in ultima istanza, oltre ad essere l’innesco delle rivoluzione stesse,  ha minato alle basi i tentativi rivoluzionari che dal XVIII secolo fino ad oggi sono stati uno dei principali motori (pur se fallimentari nel loro esito) della storia umana (se la rivoluzione non ossifica e deifica la legge, seppur rivoluzionaria, viene subito spazzata via; se invece lo fa forse sopravvive ma nega le sue stesse ragioni e poi, alla fine, sparisce lo stesso sotto il peso delle sue contraddizioni). Chiaramente non possiamo pretendere che il successo possa arridere solo in virtù della consapevolezza della presenza di una ineliminabile contraddizione ma, come la storia della Chiesa e quella dei movimenti rivoluzionari ben dimostra, questa sensibilità sulla presenza del “thwarted Christian Messiah” – conscia o inconscia, chiaramente o confusamente espressa  non importa –  ha impedito che il discorso rivoluzionario, religioso, culturale o sociale che fosse, cadesse per sempre nel ridicolo e in un definitivo oblio. E al Repubblicanesimo Geopolitico questo al momento basta e avanza.

 

Massimo Morigi – 29 agosto 2017

 

PERCHÉ LA CHIESA CATTOLICA VIENE ATTACCATA DALL’ONU 

Di MASSIMO MORIGI del 9 aprile 2014

La Chiesa cattolica è la più antica – e ormai unica – “agenzia di senso” globale ancora in dotazione ed operativa in un mondo in cui tutte le narrazioni politiche della modernità hanno fallito e stanno lasciando un panorama di autentica devastazione. In questo quadro, per quanto riguarda il perimetro delle (post)liberaldemocrazie occidentali, si cerca di riempire lo spazio geopolitico dell’ ideologia con quelle che viene definita “noopolitik” (politica di conquista a livello planetario delle menti e delle intelligenze: la propaganda di vecchia memoria ma enormemente potenziata rispetto al passato dalla nascita di internet e da più scaltrite conoscenze della psicologia delle masse), la cui apparente ragione sociale è la difesa dei diritti umani, una difesa che in realtà non è altro che la copertura per l’aggressione prima mediatica (ed eventualmente, in seguito, anche militare) di quei paesi che non si vogliono piegare al Washington consensus. Papa Francesco ha poi, da parte sua, avuto il coraggio di opporsi con tutte le sue forze – e con successo – all’aggressione alla Siria e alla “strategia del caos” che gli Stati uniti volevano applicare anche su questo paese mediorientale, sempre con la scusa della difesa dei diritti umani. E, a questo punto, fa la sua comparsa la ridicola commissione dell’ONU che non solo accusa la Chiesa di ogni possibile nequizia sessuale ma che anche vorrebbe imporre alla Santa Sede una sua particolare ideologia “politically correct” in materia di morale sessuale. Al di là delle considerazioni che si potrebbero fare in merito ad un tentativo di delegittimazione di stampo mafioso-totalitario contro la Santa Sede, rimanendo su un piano più asettico, c’è solo da notare che anche da questo episodio emerge in tutta evidenza che tutto l’impianto politico, ideologico ed infine anche istituzionale che ha retto a livello interno ed internazionale le cosiddette liberaldemocrazie dopo il secondo conflitto mondiale ha definitivamente cessato non solo diciamo di essere efficace ma anche minimamente credibile. Ed è altrettanto evidente che nel contrastare questo vuoto culturale e politico la Chiesa cattolica non solo non deve essere lasciata sola ma deve essere affiancata anche da apporti che se, apparentemente, hanno più a che fare con quello che deve essere dato a Cesare piuttosto che a Dio, cionondimeno affondano le loro radici, come il repubblicanesimo geopolitico, in una concezione di vita e di cultura che è nata nello stesso terreno sul quale ha prosperato la religione che ha dato forma alla civiltà occidentale.

PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO, di Massimo Morigi

Proseguono le spigolature a proposito del “repubblicanesimo geopolitico” con un commento attuale DELL’AUTORE al testo 

SEMBRA POCO, MA FORSE È MOLTO, VERAMENTE MOLTO

Di MASSIMO MORIGI

 

«Diventa sempre più necessaria una nuova politica estera italiana e la creazione di una struttura statuale in grado di resistere a questo nuovo tipo di guerra, rafforzare la solidarietà europea e limitare drasticamente le attività delle fondazioni, ONG , Think Tank e tutti gli altri strumenti di sovversione miranti –  nei fatti – a disgregare il nostro stato. La Patria è finita a puttane da un bel pezzo. Ne riparleremo dopo averli cacciati.»: agli URL https://corrieredellacollera.com/2017/07/22/marco-tullio-cicerone-e-tajip-erdogan-democrazie-gemelle-con-suggerimenti-per-noi-di-antonio-de-martini/, http://www.webcitation.org/6s8qrEbxM e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2017%2F07%2F22%2Fmarco-tullio-cicerone-e-tajip-erdogan-democrazie-gemelle-con-suggerimenti-per-noi-di-antonio-de-martini%2F&date=2017-07-22.  In sede di commento di “PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO”  ora sull’ “Italia e il Mondo” avendo evidentemente fiducia sulle potenzialità prassistiche del Repubblicanesimo Geopolitico e a fine gennaio 2015 sul “Corriere della Collera” (agli URL https://corrieredellacollera.com/2015/01/29/italia-lelezione-del-presidente-della-repubblica-affidata-a-cricche-il-grande-baratto-ci-privano-della-sovranita-politica-in-cambio-della-indulgenza-individuale-come-nei-paesi-dellest-degli-an/, http://www.webcitation.org/6s8qXhvlw e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F29%2Fitalia-lelezione-del-presidente-della-repubblica-affidata-a-cricche-il-grande-baratto-ci-privano-della-sovranita-politica-in-cambio-della-indulgenza-individuale-come-nei-paesi-dellest-degli-an%2F&date=2017-07-22),  penso che non vi possa essere miglior incipit della citazione  della chiusa dell’articolo di Antonio de Martini appena pubblicato dallo stesso De Martini sempre sul “Corriere della Collera” e che invito tutti  ad andare a leggere nella sua interezza perché accanto a considerazioni di filosofia politica (che sottoscrivo in pieno e  che sono riassunte nelle ultime parole citate) contiene anche considerazioni di geopolitica mediorientale che fanno da coerente quadro alla visione filosofico-politica che con queste brevi parole intendo sviluppare. In effetti, sulle ragioni teoriche esposte in “PER PRECISARE ANCORA MEGLIO IL CAMPO DEL NEMICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO” molto poco o molto ci sarebbe da aggiungere. Molto poco sul piano fattuale perche la politica italiana e la politica internazionale hanno mostrato sul piano fattuale, nonostante siano passati pochi mesi dall’articolo,  una ulteriore violentissima e travolgente deriva verso quella politica di inflazione dei diritti messa in atto dalle classi dirigenti liberaldemocratiche per gabbare quei poveri “agenti omega-strategici” ai quali vengono sempre più sottratti diritti sostanziali e spazi reali e concreti di possibilità di azione pubblica e personale (spazi vitali sostanziali e concreti di azione che per il Repubblicanesimo Geopolitico, che può essere definito anche “Lebensraum Repubblicanesimo”, sono l’unico vero indicatore non metafisico ragionando sul quale ha senso parlare di libertà), per non menzionare il “trascurabile” dettaglio che la retorica sui diritti umani è proprio quell’elemento che non permettendo una reale e seria lotta contro il “terrorismo”,  la criminalità organizzate e,  per ultimo ma fondamentale,  la squilibrata distribuzione delle risorse fra la popolazione risulta così essere, de facto, la miglior formula per comprimere questi residui spazi di libertà degli “agenti omega-strategici” perché impedendo questa retorica la possibilità di mettere in atto politiche repressive e/o di proiezione geopolitica veramente violente ed efficaci (oltre, al contrario di quelle che vengono messe oggi in atto dalle moderne democrazie, con obiettivi concreti di azione sociale e non fantasmatici tipo la difesa della democrazia interna ed internazionale), rende possibile, accanto alla diuturna  ripetizione ad nauseam  del mantra su sacri principi scaturiti dalla rivoluzione francese, l’instaurazione di uno stato di eccezione permanente vista l’inefficacia (voluta) di queste farlocche risposte politiche (inefficaci per combattere il “terrorismo” ma, ovviamente, molto efficaci attraverso lo “stato di eccezione permanente” per consolidare il potere delle classi dirigenti liberaldemocratiche). Molto, al contrario, ci sarebbe da dire sul piano teorico, perché un pensiero che si proponga concretamente di tracciare le mappe degli amici e dei nemici della Weltanschauung  liberaldemocratica non dovrebbe assolutamente fare a meno di tutta una serie di autori, segnatamente i pensatori controrivoluzionari, vedi Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés per finire con Charles Maurras, molti dei quali ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo del pensiero realista del giuspubblicista fascista Carl Schmitt e autore al quale il Repubblicanesimo Geopolitico, pur respingendo la sua Katechontica  visione reazionaria e dialetticamente monca – e anzi presentandosi, in veste di “acceleratore” benjaminiano, come la sua polare antitesi –,  deve importantissime suggestioni nella sua inedita visione realista. E per chiudere l’ancora molto non detto teorico sul Repubblicanesimo Geopolitico e sul tracciamento delle sue “amity lines”, mi limiterò ad aggiungere che in “GLOSSE AL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO” di prossima pubblicazione un autore controrivoluzionario viene in verità citato. Si tratta di Edmund Burke. Le ragioni di questa ruolo di primazia riservato a Burke è dato dal semplice dato di fatto che in sede di iniziale costruzione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico (e siamo tuttora in questa fase) e nella elaborazione del suo pensiero rivoluzionario era sì  necessario scegliere autori anche antirivoluzionari ma la cui natura katechontica contro i venti della rivoluzione dell’ ’89 non fosse sostanzialmente toccata da nessuna venatura di tipo mistico che avrebbe inevitabilmente “intorpidito”, almeno a livello di recezione del messaggio,  l’impostazione realistica e dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico (dialettica che, al contrario di quando crede l’ingenuo realismo, essendo basata su un radicale immanentismo, è l’assoluto rifiuto del misticismo). Lasciandoci quindi alle spalle i problemi teorici e le sue apparenti – o reali ? –  contraddizioni (ma come, nelle “GLOSSE” di prossima pubblicazione si è ancora in una fase teoricamente meno avanzata rispetto a queste parole che le precedono e che, in aggiunta, si limitano ad indicare un futuro svolgimento rispetto alle future “Glosse” ma non lo sviluppano ?), torniamo allora alle proposte concrete di De Martini sottoscritte da noi in pieno su come effettualmente combattere i nemici che il Repubblicanesimo Geopolitico – ma, ancor meglio, su come  un elementare buon senso politico animato da un autentico amor di Patria deve intendere la futura azione politica. Ed  è quindi allora venuto il momento di dire a chiare lettere che fra i grandi agenti interni ed internazionali politici ed economici che restringono sempre più i residui spazi di azione degli agenti omega-strategici  basandosi sulla tronfia retorica dei diritti umani e politici (che riducono, insomma, il Lebensraum di azione dei “poveracci” dal punto di vista economico e del potere politico, e per non avere l’impressione di volersi tirar fuori da questa torma di disgraziati, anche della classe intellettuale e per una trattazione più approfondita di questi agenti omega-strategici si rimanda volentieri alla nostra “TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE”) ci sono anche le ONG che solo un deficiente (politico, per carità) non capirebbe che sono strumenti in mano agli agenti alfa-strategici (grande potenza imperiale occidentale con relativi reggicoda emersi più o meno vittoriosi dalla seconda guerra mondiale,  grande finanza, politici asserviti al sistema liberaldemocratico) per distruggere i popoli e quel poco che rimane ancora dei loro  spazi di libertà (la libertà, per intenderci, come pensata dal Repubblicanesimo Geopolitico o Lebensraum Repubblicanesimo e non certo la libertà mitologica liberaldemocratica, capostipite Benjamin Constant). C’è nello scenario politico italiano ed internazionale qualcuno che non in preda a misticismi reazionari o al delirium tremens del “terrorismo” (funzionale alla permanenza dello status quo) che intenda far sua questa consapevolezza di riscrittura ab imis delle categorie (e dell’azione) del politico? Aspettando allora lo scioglimento (o meglio, l’ulteriore sviluppo) di tutti i nodi e le  contraddizioni teoriche segnalate anche in questo articolo, la migliore prospezione di una feconda unione fra pensiero e azione è stata allora indicata anche  dall’autore citato all’inizio inizio di queste parole e che per non eccedere in piaggeria non nomino per l’ennesima volta. Sembra poco ma forse è molto, veramente molto … 

Massimo Morigi – 22 luglio 2017

QUI SOTTO IL TESTO DI RIFERIMENTO

Per precisare ancora meglio, per porre la base per un futuro dibattito e per perimetrare il campo del nemico del Repubblicanesimo Geopolitico: la costituzione materiale dell’Italia si esprime attraverso un regime di libera ed autorizzata conflittualità fra diversi gruppi oligarchici totalmente irresponsabili e in cui questa irresponsabilità viene dissimulata attraverso l’uso ideologico del concetto di ‘democrazia’, un uso ideologico che trova il momento di sua massima espressione nelle contese elettorali formalmente libere ma sostanzialmente del tutto inutili nel mettere in discussione l’irresponsabilità dei gruppi dirigenti.
Sotto questo punto di vista, la “democrazia” italiana ha profonde analogie con la “democrazia” degli ex paesi del socialismo reale, nella quale l’ideologia della dittatura del proletariato e la sua pratica – ed antinomica – traduzione nella cosiddetta democrazia popolare era solo un feticcio per nascondere gli scontri fra i vari gruppi di potere operanti all’interno del partito unico comunista (in certi casi era anche consentito un vero e proprio pluripartitismo ma senza possibilità teorica e pratica di contestare il sistema oligarchico e ciò configura ancor più profonde analogie col sistema italiano e, più in generale con le democrazie elettoralistiche occidentali) e, come nel sistema italiano, rispondenti solo verso il loro interesse di gruppo ed irresponsabili rispetto al soggetto – il proletariato nei sistemi socialisti, il popolo senza aggettivazione di classe sociale nelle democrazie rappresentative – in nome e per conto del quale esercitavano il potere pubblico.
A differenza che nei paesi del socialismo reale, in Italia esiste ancora una certa libertà di espressione politica e, soprattutto, nell’esercizio dei diritti afferenti alla sfera personale (attenzione questa libertà di per sé non significa affatto democrazia, un dispotismo illuminato può ben permettere lo ius murmurandi ed anche una notevole tolleranza rispetto a stili di vita non omologabili a quelli della maggioranza della popolazione).
É peraltro di empirica evidenza che anche questa libertà – e in questo aspetto la situazione italiana segue un trend del tutto analogo alle altre più consolidate e tradizionali democrazie elettoralistico-rappresentative dei paesi maggiormente sviluppati – sta subendo nel nostro paese un singolare fenomeno: una forte contrazione a livello di esercizio dei diritti politici e una apparente espansione per quanto riguarda i diritti afferenti alla sfera personale (un aumento e una sempre più marcata sottolineatura politico-ideologica dei cosiddetti diritti alla “diversità”).
Insomma, disvelando il trucchetto delle oligarchie irresponsabili potremmo sintetizzare: nella democrazia dei postmoderni vi togliamo sempre maggiori quote di potere (democrazia puramente elettoralistica e, in Italia, ancora peggio che altrove, dove non si scelgono i propri rappresentanti e dove la maggiore carica dello stato è fornita attraverso una elezione di secondo grado) e in, cambio, vi riempiamo di chiacchiere in merito a fantomatici diritti alla diversità, che, apparentemente, significano maggiore democrazia ma, in realtà, di per sé sono solo in grado di definire una situazione di dispotismo illuminato, dove i moderni despoti, le oligarchie irresponsabili, sono ben felici di concedere al popolo alcuni infantili divertimenti e trasgressioni fra le lenzuola (e qualche sollievo dagli ingenui sensi di colpa derivanti dalle strutture di dominio che si giustificavano e poggiavano sulla polarizzazione sessuale e non ancora, come oggi, sul totale nascondimento, attraverso l’ideologia democratica, delle oligarchie e degli agenti strategici dominanti).
Massimo Morigi – 29 gennaio 2015

LA NUOVA POLITICA ESTERA DELLA GERMANIA E LE CRISI NELL’EST EUROPA, di Massimo Morigi_ Testo del 5 febbraio 2014

Proseguono le spigolature di Massimo Morigi sul “Repubblicanesimo Geopolitico” con una breve introduzione dell’autore

«Non appena la terra fu compresa nella forma di un globo reale, non solo miticamente, ma quale dato di fatto scientificamente esperibile e quale spazio praticamente misurabile, si aprì subito un problema del tutto nuovo e sino ad allora inimmaginabile: quello di un ordinamento spaziale di diritto internazionale dell’intero globo terrestre. La nuova immagine globale dello spazio richiedeva un nuovo ordinamento globale dello spazio. Questa la situazione che emerse in seguito alla circumnavigazione della terra  e delle grandi scoperte dei secoli XVI e XVII. Contemporaneamente si iniziava con ciò l’epoca del moderno diritto internazionale europeo, che si sarebbe conclusa solo nel secolo XX. La scoperta del Nuovo Mondo provocò subito anche l’accendersi della lotta per la conquista delle terre e dei mari facenti parti di esso. La divisione e la ripartizione della terra divennero allora in misura crescente una faccenda riguardante tutti gli uomini e le potenze coesistenti sullo stesso pianeta. Vennero ora tracciate linee per dividere e ripartire la terra intera.»: Carl Schmitt, Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, Milano, Adelphi, 2006, p. 81.
Nel secondo  capitolo del Nomos della Terra, “La conquista territoriale di un nuovo mondo”, al suo primo paragrafo, “Le prime linee globali (Dalla “raya” attraverso la “amity line”, alla linea dell’emisfero occidentale)”,  Carl Schmitt inizia così a tracciare la logica storico-genetica della nascita delle amity lines. Da una parte la lotta delle grandi potenze cristiane per accaparrarsi la maggior quota possibile delle nuove terre conosciute attraverso le scoperte geografiche cinquecentesche. Dall’altra la necessità di arrivare fra queste potenze ad una sorta di entente cordiale per la spartizione di queste terre. La risultante fra queste due spinte contrastanti (lotta di rapina fra le potenze cristiane per strapparsi le nuove terre e necessità di addivenire ad un accordo di spartizione) fu la nascita delle cosiddette  amity lines, amity lines che nell’argomentare schmittiano rivestono una doppia natura, potevano cioè essere semplici accordi di spartizione territoriale, insomma accordi alla stregua del Trattato di Tordesillas fra Spagna e Portogallo, oppure l’amity line può avere un significato più metapolitico, può essere cioè il riconoscimento dell’alterità fra il mondo cristiano e le nuove terre e genti da conquistare e questa alterità aveva la conseguenza che contro questo mondo ogni forma di aggressività era consentita mentre nella lotta fra le potenze per la conquista dello stesso la guerra doveva seguire delle regole, insomma la guerra fra potenze doveva assumere la forma di iustum bellum e la potenza che si batteva contro un’altra assumeva  così  la natura di  iustus hostis, un nemico che per quanto avverso era riconosciuto nella sua dignità di cristiano e  contro il quale non era così consentito impiegare l’indiscriminata violenza che poteva e doveva essere esercitata contro il nemico dimorante nei territori al di là delle amity lines. Erano cosi state poste le basi per quel ‘Nomos della terra’ che verrà sconvolto dalle due guerre totali del Novecento scatenate per Schmitt per responsabilità delle due potenze talassocratiche Inghilterra e Stati uniti, potenze le quali proprio per la loro natura marina e liquida non potevano riconoscere né una divisione more geometrico del globo terrestre né giusti nemici o giuste guerre caratterizzanti l’ormai sorpassato nomos della terra  perché per Schmitt la mentalità marittima  può solo mettere in atto azioni di sregolata  pirateria ai danni del nemico (ciò che per Schmitt sono state la prima e seconda guerra mondiale ai danni della Germania da parte dell’Inghilterra  e degli Stati uniti) e ripudiare la guerre en forme del Nomos della terra implicante “giusti nemici” e non nemici da annientare nati con le due guerre totali novecentesche e quindi mettere al bando farisaicamente la guerra (e da questo farisaico ripudio della guerra en forme, la nascita del nemico dell’umanità, nel Novecento storicamente rappresentato dalla Germania che aveva perso le due guerre mondiali).  Da questa lunga premessa schmittiana, la grammatica elementare per comprendere gli elementi di continuità fra la situazione descritta nell’articolo “La nuova politica estera della Germania e le crisi nell’est Europa”, scritto nel febbraio del 2014, e l’odierna situazione dell’estate del 2017, dove a differenza che nel 2014 sembra che apparentemente le posizioni della Germania e degli Stati uniti stiano sempre più divaricandosi. Certamente, come magistralmente insegna Gianfranco La Grassa, il quadro internazionale è in via di una progressiva ed incalzante frantumazione e questo processo dal 2014 ad oggi non ha fatto altro che accentuarsi ma il punto è, e qui il pensiero di Schmitt, può veramente venirci in soccorso per comprendere la situazione, che non è affatto detto che la frantumazione all’interno del vecchio perimetro delle alleanze debba necessariamente portare ad una sorta di guerra totale all’interno fra i vecchi soci dello stesso. Insomma, all’interno del vecchio perimetro dell’alleanza occidentale è possibile e verosimile che si costituisca una sorta di amity line che, se apparentemente assume le movenze della guerra politica e/o militare (allo stato la seconda ipotesi è veramente molto remota), si tratta di una guerra en forme tipica del periodo della nascita e sviluppo delle amity lines. Ma purtroppo da questa ipotesi di evoluzione del quadro internazionale non deriva alcunché  di buono per il nostro paese, perché in questo quadro l’Italia rischia veramente di fare la fine di quel mondo extracristiano per il quale non valevano amity lines e guerre più o meno in forma. Questi  paesi fuori dal perimetro della cristianità e all’esterno delle amity lines dovevano subire guerre di depredazione delle risorse e guerre di sterminio e/o genocidiare. E se qualcuno pensa che magari il brave new world della democrazia potrà sì implicare gerarchie certamente dure ma ha definitivamente abbandonato queste pratiche barbare, noi da modesti geopolitici invitiamo a considerare quello che è accaduto negli ultimi anni dal punto di vista economico all’Italia con la distruzione della sua capacità produttiva a vantaggio del capitale straniero e dal punto di vista dello stravolgimento dell’assetto demografico-culturale, quello che si continua a perseguire favorendo sul nostro territorio il flusso e la permanenza di popolazioni allogene, flusso indiscriminato e permanenza culturalmente assimilabile solo in un demente delirio multiculturale alla united colors of Benetton o lucidamente desiderabile solo in un cosciente e criminale disegno di cancellazione dell’identità storico-culturale italiana tali da poter dire che in Italia si rischia di mettere in atto un novello tipo di genocidio, un genocidio che al contrario di quelli novecenteschi non contempla lo sterminio di una popolazione ma il suo annegamento e il suo azzeramento a dosi omeopatiche attraverso l’immane afflusso di nuove popolazioni allogene (quindi genocidio  per diluizione attuato sotto regime “democratico” e degli universalisti diritti umani anziché genocidio per sterminio  e con il mito della razza o dell’uomo nuovo tipico dei totalitarismi novecenteschi). Il tutto con la benedizione interessata delle potenze la cui vicendevole aggressività è regolata e delimitata  dalle nuove amity lines post guerra fredda e che fra  litigi ed accordi tipici della guerre en forme di un mondo sempre più multipolare, grandemente  prediligono  per compiere le loro incontrollate e violente  scorrerie assai poco en forme ma tipiche dell’ hobbessiano homo homini lupus la presenza di territori coloniali dove tutto è consentito ai danni di questi territori. E l’Italia fa purtroppo pienamente parte di questi nuovi tristi e sempre più depredati territori coloniali dell’era post caduta muro di Berlino e di un mondo sempre più frantumato e multipolare.

Massimo Morigi – 30 giugno 2017

Gli interventi sul “Corriere della Collera” di Antonio de Martini sulla crisi Ucraina – e sulla prossima crisi della Moldova che già si intravvede – ci offrono una doppia chiave di lettura in merito al delinearsi e disporsi delle forze che si contendono il dominio dello scenario internazionale.
In primo luogo, come peraltro rilevato da più osservatori, c’è da rilevare che la Germania sta definitivamente abbandonando il ruolo di gigante economico ma nano politico a favore di una politica che al posto della vecchia Ostpolitik, consunto ricordo di una Germania ancora divisa, intende piuttosto sposare l’ancor più vecchio – e carico di lugubri e tragici ricordi – Drang nach Osten che fu uno degli slogan non solo della criminale politica nazionalsocialista ma anche la linea guida della politica guglielmina riguardo l’Europa orientale, che già nei piani di guerra della Germania imperiale doveva essere completamente asservita (vedi il September Programme che fra le altre cose, tipo l’annessione del Belgio, contemplava ad est la creazione di stati satelliti completamente sottomessi alla Germania ed in funzione anti-russa).

Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 8 di 11

Oggi, a differenza che nel September Programme e nel Drang nach Osten, questa spinta verso oriente non viene più effettuata dalla Germania manu militari ma in modo indiretto sobillando tumulti verso quelle aree dell’ex impero sovietico che si mostrano più credulone – ed anche più corrotte nelle loro classi dirigenti – riguardo alle “magnifiche sorti e progressive” assicurate dall’ingresso nell’Unione europea (alla quale non a caso è stato conferito il premio Nobel per la Pace …).
E con ancor maggior differenza che nel passato novecentesco, in quest’opera di tentata disgregazione dell’area di influenza russa in Europa, la Germania viene spalleggiata dagli Stati uniti, ai quali non sembra vero di aver trovato finalmente un attivo proconsole che nell’area del Vecchio continente la possa appoggiare nella sua “strategia del caos”, peraltro praticata in altre aree con alterne fortune.
La seconda considerazione riguarda, more solito, la totale disinformatzia di cui ha goduto l’evento in questione. Come al solito (vedi primavere arabe, vedi caso Siria) nessun mass media e nessun intellettuale – tranne le solite pochissime eccezioni – ha proferito una sillaba su quello che sta realmente accadendo in Ucraina, sulle forze che si stanno scontrando e sugli interessi che realmente sono sul tappeto. E a costo di ripeterci ancora, questo occultamento della verità se è da un lato è spiegabile con l’ “umano, troppo umano” di coloro che operano nei mezzi di informazione (mezzi di informazione che anche all’estero, contrariamente a quanto si crede, sono anch’essi quasi totalmente funzionali al rincretinimento delle masse), dall’altro richiama in campo la necessità di fuoruscita dagli idola fori ereditati dalla seconda guerra mondiale.
Il Repubblicanesimo Geopolitico è il tentativo di operare questa fuoruscita e in nome di un autentico e concreto praticato percorso di libertà vuole far sì che il disvelamento delle menzogne ideologiche che hanno prosperato all’ombra dei nobilissimi concetti della tradizione politica occidentale non porti il ripiombare – de facto – nelle vecchie forme di autoritarismo.
Un’impresa per la quale, come tutte le evidenze stanno a mostrarci, è veramente molto vocata – mutatis mutandis – l’Unione europea e prima di tutti il caposcalo di zona agli ordini degli Stati uniti, che risponde a nome di Repubblica Federale di Germania.
Massimo Morigi – 5 febbraio 2014

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA, di Massimo Morigi

Ancora una spigolatura di Massimo Morigi risalente a gennaio 2014. I fatti sono ovviamente datati, il tema attuale_Giuseppe Germinario

 

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA O APTOSI DEL MITO DEMOCRATICO?

di Massimo Morigi_ COMMENTO

 

Nell’articolo “Apoptosi della democrazia” inteso a suscitare indignazione per la vicenda dell’oro della Banca d’Italia si affermava che il  furto legalizzato di quest’oro da parte del sistema bancario nazionale profilava, de facto, una morte programmata della democrazia, l’apoptosi della democrazia appunto. Ora in sede di questo auto commento all’articolo non volendo tornare sui motivi del perché la mobilitazione contro il blocco politico- finanziario nazionale non abbia avuto alcun riscontro e volendo soffermarci invece sulle affermazioni teoriche contenute in “Apoptosi della democrazia”, ci sarebbe da dire che, per coloro che abbiano seguito i ragionamenti sul “Repubblicanesimo Geopolitico” gentilmente ospitati dall ‘ “Italia e il Mondo”, dal punto di vista del “Repubblicanesimo Geopolitico” stesso sarebbe più corretto parlare, anziché  di ‘Apoptosi della democrazia’, di ‘Apoptosi del mito della democrazia’. In effetti, chi avanzerebbe questa osservazione sarebbe completamente nel giusto e sia per ulteriormente consolidare questo corretto profilo pubblico del Repubblicanesimo Geopolitico presso la platea dei suoi osservatori sia per ancora approfondirlo dal punto teorico, vedremo come alla fine anche la vicenda dell’ oro della Banca d’Italia si possa ricollegare con le considerazioni politiche e filosofiche sulla nascita e sviluppo del modello “democratico”  occidentale e sul sostegno mitologico che questo ha da subito avuto bisogno che fanno da sfondo a tutti i ragionamenti del Repubblicanesimo Geopolitico. Il mito della rivoluzione, iniziato con la rivoluzione francese –  e che stancamente si trascina fino ai giorni nostri –  sta dentro e dà forma alla modernità politica occidentale ma come ogni mito cela una realtà sotto mentite spoglie così il mito della rivoluzione è il travestimento e quindi cela e rivela al tempo stesso ciò che è stato sempre dentro e ha dato forma alla modernità politica occidentale stessa: e cioè il conflitto strategico. Questa affermazione di per sé non sarebbe particolarmente qualificante per comprendere le caratteristiche peculiari della nostra modernità politica, come abbiamo infatti più volte affermato il conflitto strategico informa ed è la natura stessa, solo per rimanere al “politico” e non trascolorare in tutte le altre  manifestazioni della realtà, della società (per chiarire per l’ennesima volta il concetto: per noi tutta la realtà è, in ultima analisi, conflitto strategico, per noi nulla è escluso dal momento pantocratore del conflitto strategico, per il quale è persino superfluo rinviare a Gianfranco La Grassa e a questo proposito ci permettiamo di segnalare, fra gli altri,  la nostra “Teoria della Distruzione del Valore” e il di prossima pubblicazione “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma nella modernità politica occidentale, a differenza che nelle forme politiche più arcaiche, dopo la soluzione di continuità della rivoluzione francese che ha comportato l’uccisione di un re consacrato non in virtù di un giudizio divino (morte in battaglia, morte naturale od anche procurata ma una uccisione che poteva essere sempre mascherata come una sorta di decreto della divinità) ma di una deliberazione tutta palesemente e manifestamente politica, c’è stata l’impellente necessità di dare una sorta di travestimento simildivino all’orrenda vicenda dell’uccisione del monarca. Da questa necessità di nascondere la natura puramente conflittual-strategica della rivoluzione, ecco allora nascere per arrivare stancamente fino ai nostri giorni il mito della rivoluzione e con questo mito nascere anche la pretesa metafisica dell’esistenza  sempre simildivina  di diritti umani e politici la cui esistenza e doverosità di applicazione andrebbe al di là di qualsiasi contingenza storica e sistema politico (e da qui l’imperialismo diritto-umanistico e democraticistico che ha sostituito il cristiano dovere di convertire le genti pagane e che è la nuova sgangherata versione del “fardello dell’uomo bianco”). Ma se il mito della rivoluzione, con tutti i suoi annessi e connessi democraticistici e dirittoumanistici (o nella versione dei defunti paesi socialisti di dittatura del proletariato) è arrivato al capolinea (mito della rivoluzione al capolinea più per i  fatti storici post caduta del muro di Berlino che per vera ed approfondita conoscenza teorica, mito dei diritti umani e politici di natura simildivina al capolinea per ora solo a livello di analisi teorica, nella quale il Repubblicanesimo Geopolitico rivendica il suo ruolo di primo piano, mentre a livello di massa si continua a praticare, anche se in forme distratte e degradate, vedi il proliferare dei diritti, specialmente quelli di genere e legati alla diversità sessuale, il culto dei diritti umani), non deve arrivare assolutamente al capolinea quello che è l’autentico lascito per il futuro di questa tradizione, vale a dire la fortissima tensione culturale, politica, filosofica e psicologica generata dalla necessità di travestire con vesti divine (lo ripetiamo: mito della rivoluzione, con complementare mito della democrazia  e dei diritti umani e politici) un conflitto strategico portato agli estremi e che ha comportato l’uccisione non giustificata da nessun intervento  divino di tipo tradizionale di un re consacrato, la decapitazione di Luigi XVI di Borbone.  Abbandonando quindi la credenza nel  mito di una rivoluzione che  permette tramite i suoi idola fori dei diritti umani e democraticistici di perpetuare  le pratiche di potere dei  sempre eterni stessi oligarchici  agenti strategici, questa tensione di occultamento del factum horribile dell’uccisione ingiustificata del re consacrato ci conduce allora alla vera origine della nostra modernità politica, e cioè al prodursi di un conflitto strategico, la cosiddetta rivoluzione francese e poi le altre che la hanno seguita, che per poter essere accettabile ha dovuto creare, visto che aveva gettato nel cesto oltre la testa del re ghigliottinato anche ogni tradizionale trascendenza, delle sub trascendenze (mito della rivoluzione, mito della democrazia e dei diritti politici ed umani) che non avendo però la blindatura a prova di realtà dell’originale trascendenza hanno generato due secoli di continue crisi politiche (e di crisi del mito stesso). Compito  del Repubblicanesimo Geopolitico è quindi cogliere l’autentico nucleo rivoluzionario ed imperituro della tradizionale rivoluzionaria occidentale sotto il duplice aspetto che si è qui cercato di enucleare. Da un lato, rendendosi conto che non tutto per tutti può essere non diciamo pubblicamente svelato  (la straussiana “ermeneutica della reticenza” anche prima dell’esplosione della rivoluzione informatica della comunicazione ha sempre avuto una sapore più di nostalgia archeologica che di vera possibile e praticabile proposta politico-filosofica) ma accettato, non rifiutare ed anzi utilizzare la tensione generata da un mito rivoluzionario e oggi democratico sempre al di sotto delle sue aspettative presso la maggioranza di vasti  e trasversali strati della popolazione (siano questi sezioni della popolazione spiccatamente non intellettuali o ceto intellettuale vero e proprio non importa: la tendenza all’illusione e a non volere vedere il conflitto strategico è equamente suddiviso in tutte le classi ed i ceti). Dell’utilizzo di questa tensione generata dalla credenza nel mito e dalla delusione della continua sua  smentita da parte dei fatti (e in cui l’analisi teorica ancora clemente concede, esplicitamente o implicitamente, l’esistenza di un tempo, non il nostro, dove il mito era forse una realtà, in un atteggiamento simile a coloro che, criticando la chiesa cattolica odierna, si rifanno miticamente alla chiesa delle origini) è un chiaro esempio l’articolo che costituisce lo spunto di questo commento, “Apoptosi della democrazia”, dove prendendo lo spunto dalla vicenda dell’oro della Banca d’Italia, si afferma che in Italia si sta assistendo all’ “Apoptosi della democrazia”, cioè alla morte programmata della democrazia, mentre se si fosse stati teoricamente ancora più affilati si sarebbe dovuto dire che si sta assistendo all’ “Apoptosi del mito democratico”. Dall’altro lato il cogliere il nucleo veramente fondante della nostra modernità politica consiste proprio nel disvelare pubblicamente che questo nucleo è un conflitto strategico che ha per sempre bruciato (o per meglio rappresentarlo storicamente storicamente: ha tagliato la testa) la possibilità di un ritorno ad una qualsiasi trascendenza politica e in cui la natura  della sua radicale immanenza sta proprio nella dialettica di una filosofia della prassi che pratichi il suo gioco politico utilizzando le tensioni generate dal mito (tentativo di questo utilizzo ma non disvelando la natura del mito, l’articolo “Apoptosi della democrazia”) e anche denunciando la natura tutta mitologica del misto stesso (il presente commento). La conclusione che non conclude è che non è certo la prima volta che una arretrata situazione politica (nel caso specifico quella italiana, evidentemente) ha dato origine ad un profondo rinnovamento teorico e a promettenti (ancorché drammatici) sviluppi politici. Ogni riferimento a personaggi storici e a situazioni che per rispetto all’intelligenza dei lettori non vengono neppure nominati è puramente non casuale. 

Massimo Morigi – 8 giugno 2016

 

Con il tentativo da parte del sistema bancario nazionale di derubare il popolo italiano dell’oro della banca d’Italia (e con le totalmente assenti reazioni da parte della politica e dei media a questa mostruosità, de facto genocidiaria contro gli italiani), le oligarchie politico-finanziarie del nostro paese hanno finalmente mostrato il loro vero volto, e cioè hanno palesato l’intenzione di instaurare un processo di morte programmata di quanto ancora rimane della democrazia italiana.

Possiamo così dire che la situazione italiana sta introducendo un’inedita variabile nei processi degenerativi delle democrazie già descritti in dottrina.
Se finora la scienza politica classificava fra i processi che pongono fine alla democrazie o violenti assalti contro l’ordine costituito o un lento scivolamento verso unità decisionali più efficienti e potenti di quelle nominate attraverso il principio della rappresentanza (in altre parole le tecnoburocrazie che prevalgono sui parlamenti e gli esecutivi, in un processo definito da Crouch postdemocrazia), oltre, come già detto, segno di un proposito di schiavizzazione e/o annientamento del popolo, il furto dell’oro della banca d’Italia non può che essere interpretato altrimenti – tralasciando ogni altra considerazione “catastrofica” per la storia del nostro paese ma limitando l’analisi su un piano meramente politologico – come la manifestazione di una volontà programmata all’uccisione della democrazia e, prendendo a prestito il concetto noto in biologia come apoptosi – che contempla un processo ove le cellule, anziché per malattia, per trauma o per senescenza possano morire in virtù di un loro specifico programma che pone termine alla loro esistenza –, come una sorta di inedita ‘apoptosi democratica’, una morte programmata della democrazia portata
Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 6 di 11

avanti per la prima volta nella storia della democrazia occidentale da parte di quelle stesse élite politiche e finanziarie che precedentemente svolgevano il ruolo di “Lord protettore” del sistema pluralistico.
A questo punto, veramente le “categorie del politico” ereditate dal Novecento si dissolvono come neve al sole e le reazioni a questo nuovo quadro devono tenere conto dell’elementare dato di fatto che l’ ‘apoptosi democratica’ non è nemmeno giustificabile come l’antidemocratico scivolamento verso un sistema maggiormente efficiente anche se non democratico (il processo postdemocratico) ma non significa altro che la riduzione in schiavitù del popolo. Che fare quindi?
In primo luogo essere consapevoli del processo e svincolarsi da qualsiasi forma di sottomissione anche mentale da un quadro politico-culturale sorto dopo la seconda guerra mondiale e che oggi non è altro che una cortina fumogena per impedire di prendere consapevolezza del definitivo (e voluto) decesso del vecchio canone politico liberaldemocratico.
In secondo luogo, sembrerà poco ma in realtà è moltissimo, contrastare democraticamente questo processo di ‘apoptosi democratica’ laddove esso si è manifestato in maniera così spudorata e violenta.
Si tratta, in altre parole, di essere presenti alla manifestazione di fine maggio in occasione della prossima assemblea della Banca d’Italia. Non è una manifestazione contro l’ennesimo scandalo politico italiano ma è il primo atto per dire che abbiamo capito che questo sistema ha esaurito il suo ciclo storico e che se si vuole non solo la sopravvivenza ma l’ampliamento della sfera delle libertà repubblicane (secondo il programma del Repubblicanesimo Geopolitico) un altro deve prendere il suo posto. E l’aurora di questo nuovo sistema repubblicano è anche cominciare a dire a chiare lettere che l’oro della banca d’Italia appartiene, come la sua cultura ed identità, al popolo italiano e che chi vuole mettergli le mani sopra deve essere trattato come i criminali processati a Norimberga, che per la loro folle volontà di potere e rapina distrussero popoli ed etnie. Come si propongono oggi di fare gli attuali ingegneri dell’ ‘apoptosi democratica’ e ladri dell’oro degli italiani.
Ma noi rinviamo al mittente queste intenzioni lottando, piuttosto, per l’apoptosi (“robustamente” assistita e sorretta dalla nostra consapevole iniziativa) di questa classe dirigente.
Nessuno escluso.
Massimo Morigi – 24 gennaio 2014

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