LIBERTA’ SI’, MA SENZA IL LIBERATORE (…?)_di Daniele Lanza

LIBERTA’ SI’, MA SENZA IL LIBERATORE (…?)
(da leggere come “il paradosso della nazione lettone”)
Tripudio e gaudio dalle istituzioni dell’indipendente repubblica di Lettonia ! Dal cuore della capitale – RIGA – vengono abbattuti, rimossi, quasi 80 metri di obelisco….quello dedicato alla vittoria dell’armata rossa (magniloquente memoriale sovietico edificato alla metà degli anni ottante per il quarantennale della vittoria).
Il governo di RIGA aveva annunciato la misura sin da maggio e la porta a termine adesso a fine estate : lo scopo, questo è chiaro, è quello di estirpare simbolicamente il 1945 stesso, dalla memoria, dal tessuto del paese.
Ci si libera di un ospite sgradito, si eradica la memoria di quel liberatore non percepito come tale dagli autoctoni lettoni, e ancor più dalle sue nazionaliste rappresentanze governative, le quali quindi si disfano del fardello.
Come metterla ? Provo a dirla così : che un popolo possa liberamente, in base alla propria sensibilità decidere chi sia o meno amico e chi sia o meno “liberatore” (termine che certamente ha del relativo) lo ritengo del tutto LECITO. Il nodo – perlomeno in una prospettiva etica – è che tale imprescindibile facoltà di scelta, dovrebbe accompagnarsi ad un altrettanto imprescindibile coerenza generale : in parole elementari, se l’armata rossa staliniana non avesse prevalso, allora sarebbe stata la Wehrmacht hitleriana a prevalere (….).
Ora, io mi astengo dal fare paragoni o bilanci morali tra i due contendenti sopra : sottolineo semplicemente che l'”indomabile” Lettonia in un modo o in un altro…….sarebbe stata COMUNQUE sotto qualcuno. O russi o tedeschi). L’entità lettone, tra due universi culturali e militari di grande spessore come quello slavo e quello germanico, non avrebbe mai avuto la possibilità di formarsi come ha fatto.
L’emergere dello stato Lettone – come altri analoghi – nell’ultimo centinaio di anni è stato dovuto più che non alla capacità organizzativa dei propri popoli, alla debolezza del contenitore in cui erano : il collasso della casa zarista prima e quello della casa sovietica dopo. Poco altro oltre questo (senza offesa per l’identità lettone).
La zona, assolutamente minuscola, era “destinata” nel gioco amorale della geopolitica a divenire parte di qualcuno o qualcosa in ogni caso (sarebbe stata satellite dello stato kaiseriano se quest’ultimo non si fosse eclissato nel 1918, così come di quello nazista non si fosse disintegrato nel 1945).
Con quanto affermato sopra vado al punto essenziale : la Lettonia trova la sua libertà non tanto per moto interno interno…..quanto per il venire meno, contemporaneamente, delle due entità che potremmo sintetizzare come occidentale ed orientale (“orientale” sta per Russia naturalmente……….mentre “occidentale” sta per Prussia – o Germania in senso tradizionale se preferite – ossia non occidentale in senso atlantico e anglosassone come lo concepiamo oggi).
Identità ed indipendenza lettoni – con tutto il rispetto per l’autodeterminazione dei popoli – sono frutto del decesso naturale dei propri “sovra-ordinati” su un piano geostrategico (tali da svariati secoli, ma venuti momentaneamente meno nella finestra contemporanea).
E’ un discorso molto difficile e non condivisibile da molti (lo posso intendere), ma è un fatto su cui riflettere. La libertà lettone è basata più su un….”vuoto”, sull'”assenza” che non su una “presenza”. Ed abbattere il memoriale della vittoria sovietico non fa che incrementare il problema.
Fa specie ricordare che un buon 1/4 degli abitanti della Lettonia sono etnicamente russi e all’incirca 1/3 parlano correntemente la lingua come idioma madre. Nella capitale poi, la proporzione sale al 50% : buona parte di costoro nemmeno ha la cittadinanza.
Io direi, a questo punto perchè non sbarazzarsi anche di costoro e costringerli ad un esodo di massa ?!? (per carità le istituzioni lettoni questo lo pensano e pianificano già da anni pur senza poter utilizzare metodi che non sarebbero passabili nell’opinione pubblica internazionale delle democrazie odierne)
Mi viene in mente la tragicomica metafora di un popolo che volendo liberarsi di qualsiasi cosa gli avevano lasciato gli invasori passati per ritrovare sè stesso…….si ritrovò col NULLA in mano (nemmeno i suoi abitanti).
Tratto da facebook

 

I POZZI ED IL PENDOLO, di Pierluigi Fagan

I POZZI ED IL PENDOLO. Era noto da anni che i fondali del Mediterraneo orientale fossero pieni di gas, basta vedere una cartina altimetrica delle profondità. Ma i trivellamenti davanti la costa di Egitto e poi davanti Israele hanno poi anche dato conferma probante. Ieri ENI ha confermato che assieme a Total (cartina nel primo commento), hanno trovato bei giacimenti al largo di Cipro. Altrettanti ce ne sono ancora di trivellare, anche davanti al Libano e Siria, nell’Egeo e nelle isole davanti la Turchia che però sono greche. La questione ucraina che ha imposto il nostro de-linking con la Russia accelera ora la ricerca e sfruttamento di questa ghiotta alternativa. Era tutto noto da tempo, ma si preferiva lasciare le cose come stavano anche perché nuovi giacimenti in zone condivise da sei stati, con di mezzo greci e turchi, ciprioti, siriani e libanesi (tra cui Hezbollah) con israeliani solo per parlare dei pozzi, poi si dovrebbe parlare delle condotte, dei diritti di trivellazione e di molto altro, promettevano conflitti certi. Ora ci siamo tolti il problema perché abbiamo un altro conflitto certo in Ucraina e quindi visto che abbiamo sdoganato il conflitto, diamoci sotto!
A me non va di scrivere un articolo di dettaglio, a voi probabilmente di leggerlo. Resto quindi sulle generali per dire una cosa più generale. Non dico su facebook e non dico a fini politici immediati, però direi che qualcuno tra gli studiosi di cose politiche dovrebbe forse rendersi conto della infondatezza degli attuali paradigmi entro i quali pensiamo.
Il mondo è sempre più complesso, imprevedibile, competitivo e rissoso. In questo scenario si muovono soggetti massivi (Stati grandi e potenti) di prima ed ormai anche di seconda potenza. Ogni questione con la quale abbiamo a che fare ci chiede o di esser interpretata a nostro modo, se ne abbiamo la forza (potenza) o di esser subita secondo convenienza altrui. Le questioni mondo sono analizzate e previste dai centri di intelligenza geo-strategica delle prime e seconde potenze. Noi non abbiamo nulla di tutto ciò.
Noi prendiamo il gas dai russi, poi qualcuno decide che no, allora scopriamo che “fortuna!” c’è un sacco di gas nel Mediterraneo. Che bello! Pensiamo ora, poi tra qualche anno quando ci saranno battaglie navali, colpi di stato qui e lì, migranti disperati, sofferenza e dolore per disputarsi i diritti sui nuovi giacimenti, diremo “che brutto!”. Segue donazione Save the Children e profluvio di articoli critici che criticano il perché piove mentre casca l’acqua. Noi ci stupiamo come bambini della pellicola di un film che qualcuno fa scorrere davanti a noi, gioendo, preoccupandoci, polemizzando, credendo di aver capito cose che non capiamo affatto. Noi pendoliamo emotivamente partecipando e giudicando eventi che però hanno noi dentro, non sullo schermo. Eventi che non spuntano fuori uno dopo l’altro come acqua da fontana sono serie di catene causative note e previste, a volte manipolate secondo altrui intenzione. La sola urgenza che molti sentono e giudicare, chi sono i cattivi, chi i buoni, chi quelli come me, chi quelli diversi e quindi contro di me. Noi non ci occupiamo di fatti ma di quello che altri pensano su quei fatti che siamo convinti di conoscere e non conosciamo affatto.
Trivelle, ecologia, nucleare, energia, produzione industriale, armi, fondi di ricerche, alleanze, sovranità, autonomie strategiche, culture strategiche, come tutto ciò va con “democrazia” sono speso argomenti che ci urtano, non ci piacciono, ci impongono studi che non sappiamo e vogliamo o possiamo fare. Soprattutto, ci imporrebbero il sacrificare valori per voleri. Eppure, è ciò che promana dalla realtà.
Il campo del pensiero ha una urgenza forte, riflettere sulle nostre categorie, sulle logiche, sugli strumenti, gli spazi ed i fondi necessari, l’organizzazione stessa visto che queste forme di pensiero invocano lavoro collettivo. Se non riformiamo il campo del pensiero, non avremo piani di azione realistica da condividere e senza questi non avremo massa critica per far cose che non sono facili affatto e sempre che siano anche solo possibili.
Se volete, potete senz’altro fare l’elenco dei desideri, via dall’UE, dall’euro, dalla NATO, dal neoliberismo, dal capitalismo, dall’Occidente brutto e cattivo, dalla Terra anche. Tanto più la realtà è brutta tanto più pendolerete verso le storie belle. Ma il “cosa” non vale nulla senza il “come” come disse quello …

LO STATO DELLE COSE DELLA GEOPOLITICA, di Massimo Morigi _ 9a di 11 parti

AVVERTENZA

La seguente è la nona di undici parti di un saggio di Massimo Morigi. Nella prima parte è pubblicata in calce l’introduzione e nel file allegato il testo di Morigi; nella sua nona parte è disponibile la prosecuzione a partire da pagina 130. L’introduzione è identica per ognuna delle undici parti e verrà ripetuta solo nelle prime righe a partire dalla seconda parte.

PRESENTAZIONE DI QUARANTA, TRENTA, VENT’ANNI DOPO A LE
RELAZIONI FRA L’ITALIA E IL PORTOGALLO DURANTE IL PERIODO
FASCISTA: NASCITA ESTETICO-EMOTIVA DEL PARADIGMA
OLISTICO-DIALETTICO-ESPRESSIVO-STRATEGICO-CONFLITTUALE DEL
REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO ORIGINANDO DALL’ ETEROTOPIA
POETICA, CULTURALE E POLITICA DEL PORTOGALLO*

*Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista ora presentate sono
pubblicate dall’ “Italia e il Mondo” in undici puntate. La puntata che ora viene
pubblicata è la prima e segue immediatamente questa presentazione, e questa prima
puntata (come tutte le altre che seguiranno) è preceduta dall’introduzione alla stessa di
Giuseppe Germinario. Pubblicando l’introduzione originale delle Relazioni fra l’Italia
e il Portogallo durante il periodo fascista come prima puntata e che, come da indice,
non è numerata, la numerazione delle puntate alla fine di questa presentazione non
segue la numerazione ordinale originale in indice delle parti del saggio, che è stata
quindi mantenuta immutata, quando questa presente.

NONA PUNTATA STATO DELLE COSE

Terrorismo saheliano: è giunta l’ora di fare il punto, di Bernard Lugan

Il declino inarrestabile della Francia e della sua eredità coloniale in Africa. La fine di un ordine relativo. Giuseppe Germinario

Nel Sahel la situazione sembra ormai fuori controllo. Richiesto dagli attuali leader maliani in seguito ai molteplici errori di Parigi[1], il ritiro francese ha lasciato il campo aperto ai GAT (Gruppi terroristici armati), offrendo loro persino una base d’azione per destabilizzare Niger, Burkina Faso e paesi vicini. I risultati politici di un decennio di coinvolgimento francese sono quindi catastrofici.

Un disastro che può essere spiegato da un errore originale nella diagnosi. La polarizzazione sul jihadismo era infatti l’alibi usato per mascherare l’ignoranza dei decisori francesi, unita alla loro incomprensione della situazione, essendo il jihadismo qui prima di tutto la superinfezione di ferite etniche secolari e talvolta addirittura di millenni.

Smettere di vedere la questione del Sahel attraverso il prisma delle nostre ideologie europeo-democratico-centriche e dei nostri automatismi è ormai una necessità imperativa. La sostituzione dell’attualità nel loro contesto storico regionale è quindi la prima priorità in quanto legata a un passato sempre attuale che condiziona largamente le scelte e gli impegni di entrambe le parti[2].

L’ho già scritto molte volte, ma è importante ripeterlo, quattro errori principali che spiegano l’attuale deterioramento della situazione della sicurezza regionale sono stati commessi dai decisori politici francesi:

Errore n. 1

Aver “essenzializzato” la questione qualificando sistematicamente come jihadista qualsiasi bandito armato o anche qualsiasi portatore di armi.

Errore #2

Aver scambiato per “contanti” l’astuzia degli “esperti” che facevano credere loro che coloro che definivano jihadisti fossero mossi dal desiderio di combattere l’islam locale “deviato”. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, eravamo in presenza di trafficanti che si dichiaravano jihadisti per coprire le loro tracce; perché è più gratificante pretendere di combattere per la maggior gloria del Profeta che per cartoni di sigarette o carichi di cocaina. Da qui il connubio tra tratta e religione, il primo avvenuto nella bolla assicurata dall’islamismo.

Errore #3

Aver rifiutato di vedere che ci trovavamo di fronte al groviglio di rivendicazioni etniche, sociali, mafiose e politiche, adeguatamente vestite con il velo religioso. Secondo Rikke Haugegaard (2018) “ Shariah “affari nel deserto”. Comprendere i legami tra reti criminali e jihadismo nel nord del Mali . “, Online , saremmo quindi al cospetto di tutto questo contemporaneamente, con gradi di importanza diversi di ogni punto a seconda del momento:

“Le azioni dei gruppi jihadisti sono guidate da una combinazione di fattori, che vanno dalle lotte di potere locali ai conflitti interni ai clan, al perseguimento di interessi economici associati al commercio di contrabbando”.

Nel suo rapporto del 12 giugno 2018, Crisis Group ha scritto:

“(…) il confine tra il combattente jihadista, il bandito armato e colui che imbraccia le armi per difendere la sua comunità è sfumato. Fare a meno di questa distinzione equivale a collocare nella categoria dei “jihadisti” un vivaio di uomini armati che, al contrario, trarrebbero vantaggio da un trattamento diverso” Crisis Group., (2018) “Confine Niger-Mali: mettere al servizio lo strumento militare di approccio politico ”. Rapporto Africa n°261, 12 giugno 2018.

Errore #4

Questo errore che spiega gli altri tre è l’ignoranza delle costanti etno-storico-politiche regionali, che ha avuto due grandi conseguenze negative:

– Spiegazioni semplicistiche sono state applicate alla complessa, mutevole e sottile alchimia umana saheliana.

– Mentre qui il jihadismo è prima di tutto la superinfezione di vecchie ferite etno-storiche, proponendo come soluzione l’eterno processo elettorale che altro non è che un’indagine etnica a grandezza naturale, la necessità di colmare il “deficit di sviluppo” o la ricerca perché “buon governo” è ciarlataneria politica…

Ecco perché un conflitto originariamente localizzato solo nel nord-est del Mali, limitato a una fazione tuareg, e la cui soluzione dipendeva dalla soddisfazione delle legittime richieste politiche di quest’ultima, si è trasformato in una conflagrazione regionale che sfugge ora a ogni controllo.

Torna indietro :

Nel 2013, quando il progresso di Serval e la riconquista delle città del nord del Mali hanno dovuto essere subordinati a concessioni politiche da parte del potere di Bamako, i decisori francesi hanno esitato. Poi non hanno osato imporli alle autorità meridionali del Mali, scegliendo di appoggiarsi all’illusione della democrazia e al miraggio dello sviluppo.

Tuttavia, come dimostrano costantemente gli eventi, in Africa democrazia = etno-matematica, che ha come risultato che i gruppi etnici più numerosi vincono automaticamente le elezioni. Per questo, invece di estinguere le fonti primarie degli incendi, i sondaggi le riaccendono. Per quanto riguarda lo sviluppo, in quest’area si è già sperimentato di tutto fin dall’indipendenza. Invano. D’altronde, come possiamo ancora osare parlare di sviluppo quando è stato dimostrato che la demografia africana suicida vieta ogni possibilità?

Dimentichi della storia regionale, i decisori francesi non hanno visto che i conflitti attuali sono prima di tutto rinascita di quelli di ieri e che, facendo parte di una lunga catena di eventi, spiegano gli antagonismi o la solidarietà di oggi.

Così, prima della colonizzazione, i sedentari del fiume e delle sue regioni esposte venivano catturati nelle tenaglie predatorie dei Tuareg a nord e dei Fulani a sud. Alla fine dell’800, con la colonizzazione liberatoria, l’esercito francese bloccò l’espansione di queste entità predatorie nomadi il cui crollo avvenne nella gioia delle popolazioni sedentarie da loro sfruttate, i cui uomini massacrarono e vendettero donne e bambini agli schiavisti nel mondo arabo-musulmano.

Ma, così facendo, la colonizzazione ha ribaltato gli equilibri di potere locali offrendo vendetta alle vittime della lunga storia africana, riunendo predoni e predoni entro i limiti amministrativi dell’AOF (Africa occidentale francese). Tuttavia, con l’indipendenza, i confini amministrativi interni di questo vasto insieme divennero confini statali entro i quali, essendo i più numerosi, i sedentari prevalevano politicamente sui nomadi, secondo le leggi immutabili dell’etnomatematica elettorale.

Come potrebbero allora i decisori francesi immaginare che con mezzi derisori sulla scala del teatro delle operazioni, e mentre i paesi della BSS sono indipendenti, sarebbe stato possibile per Barkhane chiudere queste ferite etnorazziali aperte? la notte dei tempi e quali costituiscono il terreno fertile per i gruppi terroristici armati (GAT)?

Nel 2020, a questa ignoranza dell’ambiente e della sua storia si è aggiunta l’incomprensione di una nuova situazione, quando la lotta all’ultimo sangue tra EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) e AQIM ( Al-Qaeda per il Maghreb Islamico ) , è peggiorato, offrendo così alla Francia una superba opportunità d’azione. Ma ancora, sarebbe stato necessario che i “piccoli marchesi” laureati in Scienze-Po che fanno la politica africana della Francia sapessero che:

– L’EIGS collegato a Daesh mira a creare in tutta la BSS (Banda Sahelo-Sahariana), un vasto califfato transetnico che sostituisca e comprenda gli stati attuali.

– Mentre AQIM è l’emanazione locale di grandi frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, vale a dire i Tuareg e i Fulani, i cui capi locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Fulani Ahmadou Koufa, non sostengono il distruzione degli attuali stati saheliani.

Tuttavia, in quanto ignoranti, i decisori politici parigini non hanno saputo sfruttare questa opportunità per cambiare politica poiché, conoscendo un po’ la regione, l’ho suggerito nel mio comunicato stampa del mese di ottobre 2020 intitolato ” Mali: è necessario il cambio di paradigma .

Tanto più che, e ancor di più, il 3 giugno 2020, la morte dell’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia saheliana, ucciso a colpi d’arma da fuoco dall’esercito francese. autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e ai Peul Ahmadou Koufa, liberandoli così da ogni soggezione esterna. Gli “emiri algerini” che fino ad allora avevano guidato Al-Qaeda nella BSS essendo stati liquidati da Barkhane , Al-Qaeda non era quindi più guidata lì da stranieri, da “arabi”, ma da “regionali”.

Nemmeno Parigi comprendeva che questi ultimi avevano un approccio politico regionale, che le loro rivendicazioni erano principalmente risorgive radicate nei loro popoli e che il “trattamento” delle due frazioni jihadiste meritava quindi rimedi diversi. Non vedendo che c’era un’opportunità sia politica che militare da cogliere, i decisori parigini hanno categoricamente rifiutato qualsiasi dialogo con Iyad ag Ghali. Al contrario, il presidente Macron ha persino dichiarato di aver dato a Barkhane l’obiettivo di liquidarlo. Infatti, obbedendo agli ordini, il 10 novembre 2020 le forze francesi uccisero Bag Ag Moussa, il luogotenente di Iyad ag Ghali, mentre, per diversi mesi, i funzionari militari francesi a terra avevano molto intelligentemente evitato di intervenire direttamente su questo movimento .

Contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane , Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “sfruttando” indiscriminatamente tutti i GAT perentoriamente qualificati come “jihadisti”, rifiutando così qualsiasi approccio “buono”… “à la french »…

Ecco perché, in definitiva, sommando errori, chiusi nella loro bolla ideologica e trascurando di tenere conto del peso dell’etno-storia, i leader francesi hanno definito una politica nebulosa che confonde effetti e cause. Una politica che potrebbe portare solo al disastro attuale…

Bernard Lugan


[1] Si vedano tra gli altri sul blog di Afrique Réelle i miei comunicati stampa dell’agosto 2019 ” Senza tenere conto della storia non si può vincere la guerra nel Sahel” ; di ottobre 2020 “ Mali: serve il cambio di paradigma ”; di giugno 2021 ” Barkhane vittima di quattro principali errori politici commessi dall’Eliseo”, e di febbraio 2022 “Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia “.

[2] A questo proposito si veda il mio libro: “ Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri ”.

Henry Kissinger è preoccupato per il “disequilibrio”, di Laura Secor

Dopo tanti commenti apparsi sulla stampa internazionale, pubblichiamo l’articolo originale del Wsj, apparso il 12 agosto, incentrato su una conversazione della giornalista con Henry Kissinger. Buona lettura, Giuseppe Germinario 

A 99 anni, Henry Kissinger ha appena pubblicato il suo diciannovesimo libro, “Leadership: Six Studies in World Strategy”. È un’analisi della visione e delle conquiste storiche di un pantheon idiosincratico di leader del secondo dopoguerra: Konrad Adenauer, Charles DeGaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lee Kuan-Yew e Margaret Thatcher.

Negli anni ’50, “prima di essere coinvolto in politica”, mi dice il signor Kissinger nel suo ufficio nel centro di Manhattan in una calda giornata di luglio, “il mio piano era di scrivere un libro sulla creazione della pace e la fine della pace nel 19° secolo, a cominciare dal Congresso di Vienna, e quello si trasformò in un libro, e poi avevo circa un terzo di un libro scritto su Bismarck, e sarebbe finito con lo scoppio della prima guerra mondiale. Il nuovo libro, dice, “è una specie di continuazione. Non è solo una riflessione contemporanea».

Tutte e sei le figure profilate in “Leadership”, dice l’ex segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale, sono state modellate da quella che chiama la “seconda Guerra dei Trent’anni”, il periodo dal 1914 al 1945, e hanno contribuito a plasmare il mondo che seguì esso. E tutti combinavano, secondo Kissinger, due archetipi di leadership: il pragmatismo lungimirante dello statista e l’audacia visionaria del profeta.

Alla domanda se conosce qualche leader contemporaneo che condivide questa combinazione di qualità, dice: “No. Vorrei precisare che, sebbene DeGaulle avesse questo in sé, questa visione di se stesso, nel caso di Nixon e probabilmente di Sadat, o anche di Adenauer, non l’avresti saputo in una fase precedente. D’altra parte, nessuna di queste persone era essenzialmente tattica. Padroneggiavano l’arte della tattica, ma avevano una percezione dello scopo quando sono entrati in carica”.

Non si va mai a lungo in una conversazione con il signor Kissinger senza sentire quella parola – scopo – la qualità che definisce il profeta, insieme a un’altra, equilibrio , la preoccupazione guida dello statista. Dagli anni ’50, quando era uno studioso di Harvard che scriveva di strategia nucleare, il signor Kissinger ha inteso la diplomazia come un atto di equilibrio tra le grandi potenze oscurate dal potenziale di una catastrofe nucleare. Il potenziale apocalittico della moderna tecnologia delle armi, a suo avviso, rende il mantenimento di un equilibrio di potenze ostili, per quanto a disagio possa essere, un imperativo prioritario delle relazioni internazionali.

“Nel mio modo di pensare, l’equilibrio ha due componenti”, mi dice. “Una sorta di equilibrio di potere, con l’accettazione della legittimità di valori talvolta opposti. Perché se credi che il risultato finale del tuo sforzo debba essere l’imposizione dei tuoi valori, allora penso che l’equilibrio non sia possibile. Quindi un livello è una sorta di equilibrio assoluto”. L’altro livello, dice, è “l’equilibrio di condotta, il che significa che ci sono limitazioni all’esercizio delle proprie capacità e del proprio potere in relazione a ciò che è necessario per l’equilibrio generale”. Raggiungere questa combinazione richiede “un’abilità quasi artistica”, dice. “Non capita molto spesso che gli statisti abbiano mirato ad esso deliberatamente, perché il potere aveva così tante possibilità di essere ampliato senza essere disastroso che i paesi non hanno mai sentito quel pieno obbligo”.

Il signor Kissinger ammette che l’equilibrio, sebbene essenziale, non può essere un valore in sé. “Ci possono essere situazioni in cui la convivenza è moralmente impossibile”, osserva. “Ad esempio, con Hitler. Con Hitler era inutile discutere di equilibrio, anche se ho una certa simpatia per Chamberlain se pensava di aver bisogno di guadagnare tempo per una resa dei conti che pensava sarebbe comunque inevitabile.

C’è un accenno, in “Leadership”, della speranza del Sig. Kissinger che gli statisti americani contemporanei possano assorbire le lezioni dei loro predecessori. “Penso che il periodo attuale abbia grandi difficoltà a definire una direzione”, dice il signor Kissinger. “È molto sensibile all’emozione del momento.” Gli americani si oppongono a separare l’idea di diplomazia da quella di “rapporti personali con l’avversario”. Tendono a vedere i negoziati, mi dice, in termini missionari piuttosto che psicologici, cercando di convertire o condannare i loro interlocutori piuttosto che di penetrare il loro pensiero.

Il signor Kissinger vede il mondo di oggi sull’orlo di un pericoloso squilibrio. “Siamo sull’orlo della guerra con Russia e Cina su questioni che in parte abbiamo creato, senza alcuna idea di come andrà a finire o cosa dovrebbe portare”, dice. Potrebbero gli Stati Uniti gestire i due avversari triangolando tra loro, come durante gli anni di Nixon? Non offre una semplice ricetta. “Non puoi solo ora dire che li separeremo e li metteremo l’uno contro l’altro. Tutto quello che puoi fare è non accelerare le tensioni e creare opzioni, e per questo devi avere uno scopo”.

Sulla questione di Taiwan, il signor Kissinger è preoccupato che gli Stati Uniti e la Cina stiano manovrando verso una crisi e consiglia fermezza da parte di Washington. “La politica attuata da entrambe le parti ha prodotto e consentito il progresso di Taiwan in un’entità democratica autonoma e ha preservato la pace tra Cina e Stati Uniti per 50 anni”, afferma. “Bisogna quindi stare molto attenti alle misure che sembrano cambiare la struttura di base”.

Il signor Kissinger ha corteggiato le polemiche all’inizio di quest’anno suggerendo che politiche incaute da parte degli Stati Uniti e della NATO potrebbero aver innescato la crisi in Ucraina. Non vede altra scelta che prendere Vladimir Putinha dichiarato seriamente le preoccupazioni per la sicurezza e ritiene che sia stato un errore per la NATO segnalare all’Ucraina che alla fine avrebbe potuto unirsi all’alleanza: “Pensavo che la Polonia, tutti i paesi occidentali tradizionali che hanno fatto parte della storia occidentale, fossero membri logici di Nato”, dice. Ma l’Ucraina, a suo avviso, è un insieme di territori un tempo annessi alla Russia, che i russi vedono come propri, anche se “alcuni ucraini” non lo fanno. La stabilità sarebbe servita meglio agendo da cuscinetto tra la Russia e l’Occidente: “Sono stato a favore della piena indipendenza dell’Ucraina, ma ho pensato che il suo ruolo migliore fosse qualcosa come la Finlandia”.

Dice, tuttavia, che il dado è stato tratto. Dopo il modo in cui la Russia si è comportata in Ucraina, “ora ritengo, in un modo o nell’altro, formalmente o meno, che l’Ucraina debba essere trattata in seguito a ciò come un membro della NATO”. Tuttavia, prevede un accordo che preservi i guadagni della Russia dalla sua incursione iniziale nel 2014, quando ha sequestrato la Crimea e parti della regione del Donbas, sebbene non abbia una risposta alla domanda su come un tale accordo sarebbe diverso dall’accordo fallito stabilizzare il conflitto 8 anni fa.

La pretesa morale rappresentata dalla democrazia e dall’indipendenza dell’Ucraina – dal 2014, chiare maggioranze hanno favorito l’adesione all’UE e alla NATO – e il terribile destino del suo popolo sotto l’occupazione russa si inserisce goffamente nell’arte di governo di Kissinger. Se evitare la guerra nucleare è il bene più grande, cosa è dovuto ai piccoli stati il ​​cui unico ruolo nell’equilibrio globale è quello di essere agito da quelli più grandi?

“Come coniugare la nostra capacità militare con i nostri scopi strategici”, riflette Kissinger, “e come metterli in relazione con i nostri scopi morali: è un problema irrisolto”.

Ripensando alla sua lunga e spesso controversa carriera, tuttavia, non è incline all’autocritica. Alla domanda se ha rimpianti per i suoi anni al potere, risponde: “Da un punto di vista manipolativo, dovrei imparare un’ottima risposta a questa domanda, perché viene sempre posta”. Ma mentre potrebbe rivisitare alcuni punti tattici minori, nel complesso, dice: “Non mi torturo con cose che avremmo potuto fare diversamente”.

https://www.wsj.com/articles/henry-kissinger-is-worried-about-disequilibrium-11660325251

 

TARANTO: LA NUOVA STATALIZZAZIONE DI MARIO DRAGHI PORTERA’ ALLA LIQUIDAZIONE DELL’EX ILVA, di Luigi Longo

TARANTO: LA NUOVA STATALIZZAZIONE DI MARIO DRAGHI PORTERA’ ALLA LIQUIDAZIONE DELL’EX ILVA.

di Luigi Longo

 

 

                                                                  Mala tempora currunt, sed peiora

                                                                  parantur (corrono brutti tempi, ma se

                                                                  ne preparano di peggiori).

                                                                                             Marco Tullio Cicerone

1.Premessa

Ho pubblicato diversi scritti (1) sull’ex Ilva di Taranto (dal 2021 Acciaierie d’Italia) e l’ipotesi avanzata della chiusura dell’ex Ilva perché non compatibile con il polo NATO-USA diventa sempre più solida, a mano a mano che avanza la fase multicentrica che sta avendo un’accelerazione da parte degli USA (potenza in declino relativo) con la guerra in Ucraina (via NATO e Unione Europea) e la provocazione di Taiwan (via Nancy Pelosi, presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti) contro le attuali potenze in ascesa Russia e Cina.

Il presente scritto cerca di riflettere sulla proposta avanzata da Mario Draghi di voler statalizzare l’ex Ilva (2). Perché proporla proprio oggi e per di più dopo averla gestita in malo modo e ceduta alla multinazionale Arcelor Mittal? Mario Draghi che crede nei feroci spiriti animali che regolano la vita della società, attraverso la forma democratica dei liberi mercati (sic), vuole far entrare lo Stato a gestire una impresa strategica per il Paese? Un pessimo marginalista che si converte in un rozzo keinesiano? No, è troppo! Soprattutto sapendo il suo ruolo di agente strategico esecutore incapace di strategie nazionali ne tantomeno di saperle gestire.

Per capire la proposta di Mario Draghi di statalizzare l’ex Ilva bisogna brevemente analizzare a) l’attuale fase multicentrica dove gli USA stanno alzando il livello del conflitto contro la Russia e la Cina; b) la situazione dell’ex Ilva ridotta ad uno stato di sopravvivenza minima, anticamera della sua morte.

Vediamo.

 

2.L’attuale fase multicentrica

 

Il disordine provocato dal conflitto in essere negli USA, tra i diversi centri di poteri per l’egemonia nazionale con relativa proiezione di potenza mondiale, ha indotto Henry Kissinger (uno stratega convinto dell’ordine mondiale a guida USA) – che critica la confusione presente negli agenti strategici conseguenza del conflitto non più componibile e incapace di creare una nuova sintesi di sviluppo, una nuova idea di società da contrapporre a quella multicentrica della Cina e della Russia (ormai sempre più centri del polo asiatico) – ad affermare che << Siamo sull’orlo di una guerra con la Russia e la Cina per questioni che abbiamo in parte creato noi, senza avere alcuna idea di come andrà a finire o di cosa dovrebbe portare […] Non si può dire che li divideremo e li metteremo l’uno contro l’altro (come negli anni di Nixon, mia precisazione LL). Tutto ciò che si può fare è non accelerare le tensioni e creare opzioni, e per questo bisogna avere uno scopo>>.

Per quanto riguarda la questione di Taiwan avverte che << […] La politica portata avanti da entrambe le parti ha prodotto e permesso il progresso di Taiwan in un’entità democratica autonoma e ha preservato la pace tra Cina e Stati Uniti per 50 anni […] Si dovrebbe essere molto cauti, quindi, nel prendere misure che sembrano cambiare la struttura di base >> (3).

La fase multicentrica comporterà per le potenze mondiali una strategia di approntamento, di risistemazione, di riorganizzazione delle strutture militari e civili a livelli territoriali (inteso in sensu lato cioè comprensiva anche dei territori del mare, dell’aria e dello spazio) – sia nazionali sia di macro aree che ricadono nelle rispettive aree di influenza da consolidare o da allargare – che hanno bisogno di un tempo non breve di realizzazione pensiamo, per esempio, ai corridoi europei, alle ristrutturazioni e alle riconversioni delle basi NATO-USA in Europa, alle nuove vie dell’Artico che possono modificare gli attuali equilibri geopolitici tra le potenze, alle nuove vie della Seta.

Per quanto detto ritengo che la fase multicentrica svelerà l’inganno della chiusura dell’ex Ilva di Taranto a vantaggio del polo NATO-USA così come è stato per la chiusura dell’Ilva di Bagnoli. Riporto a tale riguardo, per una comprensione della variabile tempo nelle strategie dei dominanti, quando scrissi nel mio Taranto da polo siderurgico a polo strategico della NATO << […] gli obiettivi erano le esigenze strategiche e territoriali della base NATO della città di Napoli (quartiere generale della NATO, sede di vari comandi di unità di servizi USA, grande centro per le telecomunicazioni del Mediterraneo dell’US Navy che coordina tutta l’attività di comunicazione, comando e controllo del Mediterraneo, eccetera). In quegli anni si svolgevano fatti di importanza mondiale per il nuovo equilibrio che si andava configurando con la caduta del muro di Berlino e con la successiva implosione dell’ex URSS. Si aprivano nuovi scenari per gli USA come possibilità di un unico centro di coordinamento mondiale e un nuovo ruolo della NATO. La chiusura dell’Ilva di Napoli per le esigenze territoriali della base del quartiere generale della NATO non poteva essere detta. Tutto fu velato dietro un fumoso progetto per il risanamento e il rilancio dello sviluppo della città di Napoli che passava attraverso il conflitto tra i settori economici (industriale, edilizio, turistico) : il progetto Fiat-Partecipazioni Statali degli anni ’80, l’idea della NeoNapoli di Paolo Cirino Pomicino, la fase di Tangentopoli, le lotte di blocchi di potere per i finanziamenti della bonifica di Bagnoli, non realizzata ( dal 2003 sono stati presentati ben 6 progetti di bonifica), gli indirizzi per la pianificazione urbanistica ( impianti di eccellenza per il turismo legato al sistema congressuale alberghiero, grande parco pubblico, rete di attività produttive connesse con la ricerca scientifica, eccetera).

L’Ilva di Bagnoli, una impresa in piena salute, fu chiusa e venduta ai cinesi.

Un sindaco, Antonio Bassolino, e un urbanista, Vezio De Lucia (i nomi sono l’espressione di gruppi di potere in riferimento agli agenti sub-dominanti), gestirono la fase di velamento culturale e ideologico della grande trasformazione della città di Napoli […] >>.

Sottolineo la diversa fase storica: nella chiusura dell’Ilva di Bagnoli, fu l’implosione dell’URSS (1991, la fine della storia di Francis Fukuyama) che aprì alla possibilità del coordinamento mondiale degli USA (per nostra fortuna non andò così!); nella ipotesi della chiusura dell’ex Ilva di Taranto è la fase multicentrica (2011) che segna l’inizio del declino degli USA (che sono per un mondo monocentrico) e l’ascesa di potenze come Russia e Cina (che sono per un mondo multicentrico).

La speranza blochiana è quella che il conflitto si fermi nella fase multicentrica, così come è già avvenuto nella storia.

 

3.Lo stato comatoso dell’ex Ilva

 

La narrazione del sistema di potere servile verso gli USA-NATO, da Mario Monti a Mario Draghi, presenta molte contraddizioni sull’ex Ilva. Le più importanti le riassumo per chiarezza:

  • La farsa di consegnare un’impresa strategica nazionale come ex Ilva alla multinazionale straniera dell’acciaio come Arcelor Mittal (il colosso siderurgico franco-indiano maggiore azionista di controllo dell’attuale Acciaierie d’Italia con una quota del 60% di capitale, società composta da Arcelor Mittal e da Invitalia, l’agenzia italiana per l’attrazione degli investimenti controllata interamente dal ministero dell’Economia e delle finanze, che possiede una quota del 40% del capitale) (4).
  • Il lavoro, l’ambiente, la salute, il territorio non possono essere tutelati in un sistema sociale a modo di produzione capitalistico. Sono merci e seguono il ciclo dell’accumulazione del capitale inteso come rapporto sociale storicamente dato, non altro.
  • L’impossibilità della completa bonifica ambientale e territoriale (si pensi, per esempio, alla contaminazione delle acque e al gioco, parzialmente riuscito, dei trasferimenti delle risorse finanziarie dalla bonifica alla decarbonizzazione operata con la norma Milleproroghe e con il DL Energia da Mario Draghi).
  • Il difficile se non impossibile rilancio dell’ex Ilva per la mancanza strutturale degli investimenti e, quindi, una programmata insufficiente produzione di acciaio (5) – che non può scendere ad una capacità di 4 o 4,5 milioni di tonnellate all’anno, pena un drastico ridimensionamento del tutto antieconomico per un impianto di quelle dimensioni – (6) in grado di rendere competitiva l’impresa e risolvere le questioni produttive, ambientali e finanziarie. Lucia Morselli, amministratrice delegata di Acciaieria d’Italia, sta applicando la stessa logica dei Riva che è quella della dismissione programmata (7).
  • Il sequestro degli impianti dell’area a caldo, anche se vige la facoltà d’uso degli impianti (2012, governo Mario Monti), impedisce il rilancio dell’ex Ilva (il dissequestro degli impianti è una delle condizioni fondamentali dell’accordo di investimento siglato il 10 dicembre 2020 tra Arcelor Mittal Holding Srl, Arcelor Mittal Sa e Invitalia e prorogato, a seguito della pronuncia della Corte di Assise di Taranto, al 31/5/2024) (8). Il conflitto tra i sub-decisori (da quelli che sostengono la chiusura a quelli che vogliono il rilancio, da quelli pubblici a quelli privati, da quelli nazionali a quelli europei), in opposizione e sostegno reciproco, è funzionale alla chiusura dell’ex Ilva.
  • La magistratura con il gioco del sequestro dell’area a caldo (nessun serio progetto di rilancio dell’ex Ilva è possibile), con il gioco dello scudo penale (l’Ilva non può essere gestita senza lo scudo penale e questo lo sanno tutti! Anche i magistrati che discutono di grande dottrina giuridica per la incostituzionalità dello scudo penale utilizzato ad hoc) e con il gioco dell’interesse nazionale (tutelando una impresa strategica nazionale dopo averla data alla multinazionale Arcelor Mittal?) entra nella vicenda Ilva per creare complessità strumentale al fine di perseguire l’obiettivo della chiusura.
  • La non compatibilità dell’impianto dell’ex Ilva con la base NATO-USA.
  • La fase multicentrica rafforza la presenza della base NATO-USA necessaria per le strategie statunitensi nel Mediterraneo, nei Balcani, nel Medio Oriente.

 

  1. La chiusura in nome della modernità

 

Lo scenario sopra delineato porta alla constatazione che la statalizzazione proposta da Mario Draghi è la fase finale della strategia per chiudere l’ex Ilva di Taranto, iniziata con la consegna alla multinazionale Arcelor Mittal, a favore del polo NATO-USA.

Rilevo la contraddizione tra l’ideologica affermazione di Mario Draghi << Ilva deve tornare a produrre al massimo delle sue potenzialità e ad essere la più importante fabbrica siderurgica d’Europa >> (con relativo stanziamento nell’ultimo decreto (Aiuti Bis) di un miliardo (che non è dato sapere come sarà impegnato se con aumenti di capitale o con diversi strumenti; preciso che non si fa esplicito riferimento all’Ilva, art.30, comma 1, DL 9/8/2022 n.115) e sottolineando la necessità di una governance pubblica per rilanciare l’Ilva) e la comunicazione del Ministero dello sviluppo economico in cui si sostiene che la norma di sostegno ad Acciaierie d’Italia prevista dal decreto Aiuti bis conterrà misure volte a supportare l’operatività della società: sia per quanto riguarda la liquidità, in modo da rilanciare la produzione siderurgica e tutelare i lavoratori, sia relativamente ai costi di approvvigionamento delle materie prime e dell’energia (9). Cioè normale amministrazione per galleggiare! Siamo al teatro dell’assurdo!

L’Arcelor Mittal, ricordiamolo che è la principale produttrice di acciaio mondiale, ha un ruolo importante per agevolare, dopo averla ridimensionata, la chiusura dell’ex Ilva a vantaggio del polo NATO-USA; oltre ad avere i propri vantaggi con l’eliminazione di una delle più grandi dirette concorrenti europee, con l’utilizzo delle quote di acciaio a proprio favore, con la riorganizzazione produttiva europea, con gli investimenti in India che hanno dirottato le risorse finanziarie destinate all’Ilva.

Mentre Taranto, in maniera segreta e con libidine di servitù, sta diventando un polo Nato-USA e i suoi servili decisori attuali e futuri gestiranno la fase finale della chiusura dell’Ilva (velata dai grandi progetti, irrealizzabili nel breve-medio periodo, come il “Cantiere Taranto” [che è una riproposizione del Contratto Istituzionale di Sviluppo per questa area (CIS)], la decarbonizzazione, il cambiamento climatico, la transizione energetica ed ecologica, la sperimentazione sull’idrogeno, le reti intelligenti, la rigenerazione del territorio, la città green, eccetera) il Mar Grande (nuova base navale) e il Mar Piccolo (Arsenale) saranno messi a disposizione delle strategie USA-NATO.

Se la mia ipotesi ha un minimo di fondamento, credo che l’accelerazione della fase multicentrica toglierà il velo sulla questione dell’ex Ilva di Taranto. E questa volta, al contrario di Vincenzo Bonocore che non sapeva perché l’Ilva di Bagnoli fosse stata chiusa, i tarantini e gli italiani sapranno che l’ex Ilva è stata chiusa per un cambio di paradigma della modernità che passa attraverso le strategie statunitensi.

In conclusione ricordo che se la strategia di gestione della chiusura dell’Ilva ha come scena la sfera economica (oltre a quelle istituzionale, giuridica e ideologica), attraverso il libero mercato e il ruolo di una grande impresa multinazionale, le vere ragioni della chiusura dell’Ilva vanno ricercate nella sfera politica dei pre-dominanti statunitensi i quali hanno bisogno, nel conflitto per l’egemonia mondiale, di quello spazio geograficamente e militarmente strategico di Taranto.

Nelle diverse fasi storiche Taranto ha usufruito di una posizione di rendita geografica

in quelle monocentriche (fasi di sviluppo pacifiche coordinate dalla potenza egemone) e di una posizione di sventura geografica in quelle multicentriche e policentriche (fasi di sviluppo conflittuali coordinate dalle strategie militari e dalle guerre).

La costanza storica è data dalla hegeliana denuncia dei gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione. Non è la marxiana storia che si ripete diventando farsa, ma è la lagrassiana storia che torna in maniera diversa.

 

 

 

 

NOTE

 

  1. I miei scritti sono apparsi sui siti www.conflittiestrategie.it e www.italiaeilmondo.com.
  2. Claudio Zanella, Draghi vuole l’Ilva prima acciaieria d’Europa. Letta parla di decarbonizzazione. Parole compatibili?, www.huffingtonpost.it, 8/6/2022; Marco Dell’Aguzzo, Cosa farà il governo per salvare Acciaierie d’Italia (ex Ilva), www.startmag.it, 5/8/2022. Marco Patucchi, Draghi vuole ricapitalizzare l’ex Ilva per anticipare il ritorno allo Stato, www.repubblica.it, 18/8/2022;
  3. Le frasi di Henry Kissinger sono riportate in una recente intervista al The Wall Street Journal, a cura di Laura Secor, del 12/8/2022, e sono tratte dall’articolo di Caitlin Johnstone, Il bellicismo americano spaventa addirittura Henry Kissinger, www.comedonchisciotte.org, 17/8/2022.
  4. Paolo bricco, Domenico Palmiotti, Ex Ilva, firmato l’accordo Mittal-Invitalia. Lo Stato rientra nell’acciaio. Contrari Regione e Sindaco, www.ilsole24ore.com, 10/12/2020.
  5. Domenico Palmiotti, Ex Ilva, risalita complessa della produzione, www.ilsole24.com, 15/6/2022; Valerio D’alò, Acciaierie d’Italia, tutti i flop, www.startmag.it, 5/5/2022; Comunicato sindacale della Fim Cisl, Acciaierie d’Italia: non accetteremo passivamente due anni di rinvio, www.fim-cisl.it, 13/6/2022.
  6. Acciaierie d’Italia sostiene che i volumi di produzione di 6 milioni di tonnellate, quelli attualmente autorizzati per i vincoli ambientali, sono “non sufficienti a garantire l’equilibrio e la sostenibilità finanziaria degli oneri derivanti dall’attuale struttura dei costi” (grassetto mio, LL), riportato in Domenico Palmiotti, Acciaio: nel piano ex Ilva 2 mld di investimenti e 8 milioni di tonnellate, www.ilsole24ore.com, 1/3/2022.
  7. Così scrissi nel mio Il destino di Taranto e’ segnato dalla sua storia militare e dalla sua geografia << Faccio osservare che l’impresa Ilva dei Riva era sulla strada della dismissione per mancanza di a) manutenzione ordinaria, straordinaria e di investimenti; b) rispetto di qualsiasi norma e legge; c) strategia per migliorare qualsiasi aspetto della produzione (l’introduzione di nuove tecnologie era impossibile su vecchi e usurati macchinari!), della salute, dell’ambiente, della città […]. La gestione dell’impresa Ilva, in un rapporto sociale storicamente determinato, è stata attuata con modalità da plusvalore assoluto e non da plusvalore relativo, […] senza pensare minimamente ad una strategia di ricaduta e di innervamento con lo sviluppo locale del territorio a diverse scale (locale, regionale, nazionale e mondiale). I Riva, ottimi cotonieri lagrassiani, hanno raschiato il fondo di tutte le risorse possibili nella produzione dell’acciaio >>.
  8. Gianmario Leone, Dissequestro Ilva, no della Corte d’Assise, www.corriereditaranto.it, 31/5/2022; Domenico Palmiotti, Ex Ilva, dieci anni fa il sequestro degli impianti a Taranto. Il rilancio incompiuto, www.ilsole24ore.com, 26/7/2022; Redazione CdG, No al dissequestro degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento ex Ilva. Per la Corte d’Assise di Taranto: “Salute ancora in pericolo”, www.ilcorrieredelgiorno.it, 1/6/2022.
  9. Annarita Digiorgio, Draghi dà un miliardo all’ex Ilva. Ma il PD sale sulle barricate, www.ilgiornale.it, 5/8/2022; Marco Dell’Aguzzo, Ecco come il governo salverà di nuovo Acciaierie d’Italia (ex Ilva), www.startmag.it, 5/8/2022; Marco Patucchi, Draghi vuole ricapitalizzare l’ex Ilva per anticipare il ritorno allo Stato, www.repubblica.it, 6/8/2022; Domenico Palmiotti, Ex Ilva, dal governo via libera ad aumento di capitale fino a un miliardo, www.ilsole24ore.com, 3/8/2022; Ministero dello sviluppo economico, Acciaio: Riunito al Mise tavolo su ex Ilva, Comunicato, www.mise.gov.it, 3/8/2022.

Ucraina, il conflitto 13a puntata Attentato a Mosca Con Stefano Orsi e Max Bonelli

Attentato abbietto a Mosca, bombe sulle sedi istituzionali delle repubbliche separatiste, ulteriori tre miliardi di dollari americani in un pozzo colmo ormai di 80 miliardi di finanziamento dell’impresa militare ucraina, il Dipartimento di Stato che intima agli americani di lasciare l’Ucraina immediatamente, il Ministro degli Esteri polacco che critica l’imperialismo tedesco, la Bulgaria che si aggiunge a quei paesi europei che hanno scelto di trattare con la Russia gli acquisti di gas e petrolio. Un crescendo convulso che lascia presagire le future dinamiche geopolitiche in Europa dove le ambizioni nazionalistiche, più che il prodotto genuino delle ambizioni di autonomia, diventano il veicolo ottuso e fanatico di una nuova modalità di penetrazione dell’egemonismo statunitense. E’ il discrimine che distinguerà la coltivazione di realistiche ambizioni di autonomia in un mondo multipolare dalla possibilità che il continente europeo diventi campo di battaglia di mire egemoniche esterneal continente. Il conflitto in Ucraina è un vaso di pandora dal quale sembra emergere piuttosto la seconda opzione. Ne parleremo più approfonditamente. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1h2wej-ucraina-il-conflitto-13a-p-attentato-a-mosca-con-s-orsi-e-m-bonelli.html

Sovranità economica, l’unica chance per sopravvivere alle illusioni dell’Ue, di Giuseppe Gagliano

La crisi commerciale con la Cina, l’epidemia di Covid, poi la guerra in Ucraina hanno distrutto i presupposti ideologici su cui si basava la costruzione europea. Il mito della “felice globalizzazione” è stato infranto a favore di una conflittuale regionalizzazione del commercio internazionale, ordinata intorno a Stati Uniti e alla Cina.

In questo contesto, la guerra è ormai la griglia di lettura di tutte le divisioni internazionali: guerra per l’acqua, metalli, diritto, dati. Guerra economica ovviamente, un concetto lontano da quello dell’autoregolamentazione e da quello dei seguaci di Adam Smith e della sua “mano invisibile”.

La guerra economica è rimasta a lungo un argomento tabù: presupponeva che un partner, perfino un “amico” fosse anche un avversario da cui proteggersi, e che certe dipendenze economiche avessero tragiche conseguenze politiche. La libera circolazione di uomini, idee, capitali, tecnologie e merci doveva così assicurare, dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del blocco sovietico, una pace e una prosperità ampiamente condivise. Ma al contrario la guerra è sempre stata il corollario di tutta la civiltà: non è uno sfortunato avatar, ma la dimensione naturale della storia umana, senza che nessuna parte di essa sfugga.

La Germania, per 150 anni; l’Inghilterra l’ha esercitata sui mari; gli Stati Uniti si sono ispirati al modello giapponese e gli Stati autoritari o totalitari come Russia e Cina si sono dotati di tutti gli strumenti per unire la loro potenza economica alla loro volontà politica. L’attuale Europa non costituisce una alterativa valida. Essa è nata da Jean Monnet, alleato degli Stati Uniti, e il suo trattato costitutivo appare come il ripristino del Piano Marshall: insomma una felice riduzione all’antico ruolo di vassalli. Al contrario l’America è un partner particolare, se ricordiamo l’affare Snowden – la rivelazione del tentacolare sistema di spionaggio americano – che ha suscitato solo molto misurata indignazione tra gli europei di fronte ad un cinico saccheggio: “il più grande stratagemma del diavolo è far credere di non esistere”. La guerra economica tra amici non è l’unico tabù infranto.

Ma questi errori dipendono anche da una concezione liberale secondo la quale la globalizzazione e il mercato ci avrebbero liberato dalle pulsioni malvagie o arcaiche di Stati e Nazioni, insomma dalla Politica. Al contrario dobbiamo recuperare il concetto di patriottismo economico su cui si deve appoggiare la politica pubblica dell’intelligence economica – protezione delle aziende, supporto per loro a livello internazionale, influenza nelle organizzazioni internazionali e formazione. Il patriottismo economico è la sola difesa e la promozione degli interessi nazionali nel rispetto della reciprocità.

Solo gli Stati Uniti e la Cina si sono dotati di una ricca panoplia di strumenti di sovranità, secondo il proprio modello politico. Ma in economia, come in diritto, la sovranità non può essere assoluta. È necessario che gli Stati europei ricostruiscano tutto: lo Stato, la sua capacità di anticipare e finanziare, l’industria. Guardiamoci dunque da un’illusione: quella della “sovranità europea”, perché l’Europa non ha la volontà di emancipazione dalla tutela americana.

https://www.ilsussidiario.net/news/scenari-sovranita-economica-lunica-chance-per-sopravvivere-alle-illusioni-dellue/2391230/

Il secolo asiatico arriverà su Cina e India che finalmente risolveranno le loro controversie sui confini, di Andrew Korybko

Il punto focale in grado di determinare la direzione delle dinamiche geopolitiche multipolari. Le classi dirigenti europee e statunitensi dovrebbero avere la forza di riconoscere la situazione di fatto per ritagliarsi un ruolo attivo e riconosciuto, pena l’isolamento e l’ostilità diffusa dai possibili esiti tragici anche in casa propria. Il mondo occidentale ha un retaggio troppo recente da farsi perdonare rispetto al dinamismo dei paesi emergenti, la cui natura è ancora tutta da disvelarsi; un fattore che pesa tantissimo in aree come l’Africa, l’America Latina, il Medio Oriente e il Sud-Est Asiatico. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Tutte le provocazioni di infowar da parte degli Stati Uniti per sfruttare le controversie irrisolte sul confine tra Cina e India devono essere adeguatamente affrontate e idealmente preventivamente ogniqualvolta possibile, al fine di garantire che questo ultimo schema di divide et impera contro quelle due grandi potenze asiatiche fallisca proprio così come il tentativo di creare un cuneo tra India e Russia.

Il ministro degli Esteri indiano (EAM) Subrahmanyam Jaishankar ha previsto che il secolo asiatico arriverà nel suo paese e la Cina risolverà finalmente le loro controversie sui confini, cosa che il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha concordato poco dopo. Queste due Grandi Potenze multipolari sono i più grandi paesi in via di sviluppo del mondo e sono quindi in grado di influenzare in modo significativo la transizione sistemica globale alla multipolarità . Ne consegue quindi che il mantenimento di relazioni stabili e il completo sviluppo dei progressi in questo senso sono tra le loro grandi priorità strategiche più importanti.

A tal fine, è assolutamente necessario che nessuna terza parte si intrometta in questo tema così delicato. La grande strategia dell’egemone unipolare americano in declino è l’opposto di quelle due grandi potenze multipolari in ascesa poiché mira a dividere e governare in modo aggressivo l’Eurasia al fine di prolungare indefinitamente la sua leadership in declino sugli affari internazionali. Per quanto ci si possa provare, gli Stati Uniti non sono riusciti a rivoltare l’India contro Cina e Russia, con i loro ultimi sforzi legati alla pressione sul partner dell’Asia meridionale affinché condanni e sanzioni il Cremlino, dimostrandosi controproducente dopo che Delhi li ha ripetutamente respinti con orgoglio.

L’India è anche riluttante a scuotere la barca anche nelle sue relazioni con la Cina, soprattutto dopo che alcune delle sue società hanno iniziato a utilizzare lo yuan per facilitare il commercio bilaterale con la Russia. Non solo, ma comprende perfettamente che gli Stati Uniti sono decisi a sfruttarli come proxy per contenere militarmente la Repubblica popolare. In nessun caso l’India si lascerà sfruttare per combattere una guerra per volere di qualcun altro dall’altra parte del mondo, ecco perché è estremamente a disagio con l’America che la spinge aggressivamente in questa direzione.

Dal momento che gli strateghi dell’egemone unipolare in declino non sono riusciti a imparare la lezione dalla politica controproducente di fare pressione sull’India affinché si rivoltasse contro la Russia, ci si aspetta che cercheranno di replicare questo stesso approccio senza successo nel tentativo di fare pressione sull’India affinché si rivolga contro la Cina. Ciò è particolarmente probabile dopo che il viaggio provocatorio della presidente degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taiwan all’inizio di questo mese ha fortemente suggerito che Washington sta pianificando di rilanciare il suo “Pivot to Asia” nel prossimo futuro, il che porta alla previsione che raddoppierà i suoi sforzi per dividere e governa quelle due grandi potenze asiatiche.

La linea di faglia più facile da sfruttare a questo riguardo sono le loro controversie di confine irrisolte, motivo per cui l’India deve rimanere all’erta per eventuali imminenti provocazioni di guerra ibrida nel dominio dell’informazione volte a realizzare questo scenario peggiore. L’America farà del suo meglio per rivoltare le persone della società prese di mira contro il loro governo su questa delicata questione, soprattutto dopo che è diventato ovvio che ” L’opposizione indiana sta eseguendo gli ordini dell’America battendo i tamburi della guerra contro la Cina ” e ” I media americani stanno manipolando le percezioni su Esercitazioni militari annuali congiunte con l’India ”.

Tutte queste provocazioni di infowar devono essere adeguatamente affrontate, e idealmente preventivamente quando possibile, al fine di garantire che questo ultimo schema di divide et impera fallisca proprio come quello che ha cercato di creare un cuneo tra India e Russia. Nel frattempo, Cina e India continueranno i colloqui sulla risoluzione pacifica delle loro controversie sui confini, ma è impossibile prevedere quanto tempo ci vorrà per ottenere progressi, per non parlare di quale sarà il risultato finale. Pertanto, la cosa più importante in questo momento è contrastare le minacce della guerra ibrida statunitense e quindi rimuovere tutti gli ostacoli di terze parti all’arrivo del secolo asiatico.

https://korybko.substack.com/p/the-asian-century-will-arrive-upon?utm_source=substack&utm_medium=email

 

Gli Stati Uniti hanno appena ammesso di intromettersi nella politica estera indiana, ma non ammettono ancora la sconfitta, di Andrew Korybko

una ostinazione che pagheremo drammaticamente nei prossimi anni con esiti destinati a rinsaldare mire egemoniche contrastanti ancora sopite. Una possibile dinamica che, per altro, l’autore tende a rimuovere o sottovalutare. Giuseppe Germinario

Commento

Ciò suggerisce fortemente che gli Stati Uniti raddoppieranno la loro politica fallita con la stessa passione con cui l’India ha raddoppiato la dimensione russa della sua grande strategia a doppia tripolarità, il che potrebbe portare quelle Grandi Potenze ad allontanarsi ulteriormente nei prossimi mesi.

Qualsiasi osservatore obiettivo si è reso conto sin dall’inizio di quello che la Russia ha chiamato operazione speciale in Ucraina; che gli Stati Uniti stavano esercitando pressioni aggressive su tutti i paesi affinché condannassero e sanzionassero Mosca nonostante Washington avesse negato la sua intenzione di intromettersi nelle loro politiche estere. Dopo aver reimposto con successo la sua egemonia unipolare fino a quel momento in declino sull’intera UE, l’America si è prontamente mossa per replicare la sua azione rispetto all’India, sebbene quello stato-civiltà dell’Asia meridionale abbia respinto con orgoglio tutte le pressioni degli Stati Uniti e persino raddoppiato sulla  dimensione russa della sua grande strategia a doppia tripolarità .

Tuttavia, gli Stati Uniti hanno continuato a dare gas al mondo affermando di non aver mai avuto alcuna intenzione del genere, di intromettersi nella politica estera indiana; eppure, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha appena lasciato il gatto fuori dal sacco durante una conferenza stampa mercoledì. Ha ammesso che “riconosciamo anche, come dicevo solo un momento fa, che questo non è premere un interruttore della luce. Questo è qualcosa che, soprattutto per i paesi che hanno relazioni storiche con la Russia, relazioni che, come nel caso dell’India, risalgono a decenni fa, sarà una proposta a lungo termine per riorientare la politica estera lontano dalla Russia”.

Non c’è altro modo per interpretare questa affermazione come qualcosa di diverso da una conferma ufficiale che gli Stati Uniti stanno effettivamente tentando di intromettersi nella politica estera dell’India continuando a fare pressioni su di essa per ridimensionare le relazioni con la Russia. Tuttavia, Price continua a non ammettere che questa politica sia fallita da quando in precedenza ha deviato dopo che un giornalista gli ha ricordato gli ultimi fatti collegati al partenariato strategico russo-indiano, in particolare per quanto riguarda l’ acquisto massiccio da parte dell’India del petrolio del suo partner, la consegna di Mosca di sistemi di difesa aerea S-400 a Delhi e la partecipazione di quello stato dell’Asia meridionale alle imminenti esercitazioni multilaterali.

Ciò suggerisce fortemente che gli Stati Uniti raddoppieranno la loro politica fallita con la stessa passione con cui l’India ha raddoppiato la dimensione russa della sua grande strategia a doppia tripolarità, il che potrebbe portare quelle Grandi Potenze ad allontanarsi ulteriormente nei prossimi mesi. Delhi non ha alcun desiderio di prendere le distanze né da Mosca né da Washington, ma non concederà unilateralmente in nessun caso su questioni che considera nei suoi interessi nazionali oggettivi. Ecco perché continua a espandere in modo completo i legami con la prima mentre critica pubblicamente quest’ultimo per averlo pressato.

La sorprendente ammissione di Price sull’aggressiva campagna di pressione dell’America contro l’India potrebbe in definitiva essere vista con il senno di poi come un punto di svolta nelle loro relazioni bilaterali. Tutti gli osservatori obiettivi sapevano già del piano degli Stati Uniti, ma è tutta un’altra cosa che il portavoce del Dipartimento di Stato lo confermi ufficialmente. Nessun paese che si rispetti e fiducioso come l’India potrebbe mai accettare che un altro paese parli apertamente di ingerenza nella sua politica estera, motivo per cui ci si dovrebbe aspettare che protesterà pubblicamente o almeno lo affronterà a porte chiuse.

Gli Stati Uniti di solito esprimono pubblicamente i loro problemi con altri paesi, tuttavia, a differenza della Russia che mantiene discreti i disaccordi con l’ambasciatore indiano per le recenti lodi di Mosca ai suoi ospiti mentre parla con Sputnik durante l’India Day Festival della scorsa settimana. Di conseguenza, e considerando che le discussioni private tra America e India finora non sono riuscite a appianare le loro divergenze sulla Russia, non ci sono ragioni per prevedere che la risposta diplomatica di Delhi (sia essa pubblica e/o privata) convincerà Washington ad abbandonare la sua campagna di pressione egemonica.

https://korybko.substack.com/p/the-us-just-admitted-to-meddling?utm_source=substack&utm_medium=email

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