Voi e l’esercito di chi?_di Aurelien

Voi e l’esercito di chi?

La NATO farebbe bene a rimanere fuori dall’Ucraina.

di Aurelien

https://aurelien2022.substack.com/p/you-and-whose-army

 

I will do such things –
What they are yet I know not, but they shall be
The terrors of the Earth! – 
Shakespeare, King Lear.

 

Politici ignoranti e opinionisti confusi hanno fatto rumore di recente, minacciando, o addirittura fantasticando, su una sorta di intervento formale della NATO in Ucraina. In generale, non hanno idea di cosa stiano parlando e di quali sarebbero le implicazioni pratiche di un intervento. Ecco alcuni esempi del perché è un’idea stupida.

 

Nel gennaio del 1990, mi trovavo nel quartier generale della NATO a Bruxelles per una riunione di routine. Era una di quelle giornate fredde e umide in cui il Belgio è specializzato, ma c’era molto di più dietro l’atmosfera gelida e da mausoleo dei corridoi deserti. Negli ultimi mesi, il terreno si era continuamente mosso sotto i piedi della NATO e, non molto prima di Natale, la Romania, l’ultimo rimasuglio del Patto di Varsavia, era andata in fiamme. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo la settimana successiva, per non parlare del mese successivo, e la NATO cominciava ad assomigliare a un manifestante con un cartello per una causa già superata. Le capitali nazionali facevano fatica a tenere il passo con ciò che stava accadendo. Ho chiesto a un collega appena tornato da Washington cosa dicevano i falchi dell’Amministrazione Bush. La risposta è stata: “Sono sotto shock”.

 

Il fatto che la NATO esista ancora quasi trentacinque anni dopo, e che ora abbia il doppio dei membri di allora, ha incoraggiato alcune persone che non hanno prestato attenzione a credere che la NATO sia ancora la stessa potente organizzazione militare che era nel 1989, e che quindi basti minacciare un suo coinvolgimento formale in Ucraina, e i russi si allontaneranno. Non potrebbero essere più pericolosamente in errore.

Il fatto che la NATO sia sopravvissuta dopo il 1989 è stata una sorpresa per alcuni. Ma, come ho sottolineato, l’Alleanza aveva in realtà una serie di scopi utili per gli Stati europei e, in ogni caso, il mondo stava cambiando così rapidamente che non solo era impossibile trovare un accordo intorno a con che cosa sostituirla, ma era anche impossibile sapere che tipo di compiti avrebbe dovuto svolgere una futura organizzazione. Le organizzazioni non si chiudono all’improvviso e, in ogni caso, la NATO aveva ancora molto da fare. Quel giorno del gennaio 1990, la NATO era ancora profondamente coinvolta nei negoziati per il controllo degli armamenti a Vienna, che avevano finalmente dato una degna sepoltura alla Guerra Fredda, e continuava ad avere molto da fare, mentre i partner negoziali dall’altra parte del tavolo iniziavano ad avere quelli che si potrebbero definire problemi di coordinamento, e uno di loro si avvicinava al nostro lato del tavolo. Quando quella saga e le relative complicazioni furono finalmente risolte, la NATO si ritrovò in Bosnia, poi ad accogliere nuovi membri in un modo che non era stato previsto, poi in Kosovo, poi in Afghanistan. Tutto questo è stato essenzialmente improvvisato: non c’era un piano generale, se non un consenso pervasivo sul fatto che la NATO era più utile che no, e che era necessario trovarle cose da fare per mantenerla in vita.

 

Ma dietro le quinte stavano cambiando molte cose. La struttura militare della NATO, creata in preda al panico dopo la guerra di Corea e sempre pronta a mobilitarsi con breve preavviso, non serviva più a nulla. All’inizio lentamente, poi sempre più rapidamente, i contingenti nazionali che avevano costituito le sue forze permanenti cominciarono a sciogliersi. Una dopo l’altra, le nazioni europee abbandonarono il servizio di leva nazionale, ridussero radicalmente le dimensioni delle loro forze militari e sospesero le procedure di mobilitazione. Le forze statunitensi tornarono progressivamente a casa. La generazione di equipaggiamenti militari che stava entrando in servizio all’epoca è stata infine dispiegata, in numero ridotto, e per la maggior parte è ancora in servizio. I carri armati e gli aerei che la NATO intende inviare in Ucraina (il Challenger II, il Leopard II, l’F-16) sono essenzialmente progetti degli anni ’70, anche se molto aggiornati.

 

Il riconoscimento che la capacità della NATO di condurre una guerra seria è l’ombra di ciò che era un tempo sta lentamente iniziando a diffondersi nella comunità strategica, che non vi ha prestato attenzione nell’ultima generazione o giù di lì, perché aveva lo sguardo fisso sull’Afghanistan e sull’Iraq. Ma in realtà la situazione è molto peggiore, e come spesso accade i veri problemi sono nascosti nelle complessità tecniche. Ne tratterò brevemente alcuni, per spiegare perché l’intervento della NATO in Ucraina non è realmente possibile, se fosse possibile non sarebbe auspicabile, e anche se fosse auspicabile sarebbe totalmente inefficace, e persino pericoloso. Poiché non ho una formazione militare, lascerò questa parte agli esperti e mi concentrerò sulle questioni più ampie.

 

Dato che di recente i britannici hanno emesso alcuni dei rumori più bellicosi, analizziamo cosa è cambiato in quel paese dai tempi della Guerra Fredda. Nel 1989, l’esercito britannico del Reno poteva schierare un corpo d’armata completo di quattro divisioni, circa 55.000 soldati, pronti a essere rinforzati in guerra da quasi altrettanti riservisti e unità regolari provenienti dal Regno Unito. (C’era anche una potente componente aerea. Durante la cosiddetta fase di transizione verso la guerra, la mobilitazione sarebbe avvenuta con poteri bellici d’emergenza, togliendo le persone dai posti di lavoro e requisendo le risorse logistiche e di trasporto per trasferire decine di migliaia di combattenti in Europa, mentre le famiglie venivano evacuate nella direzione opposta. Il governo normale sarebbe stato sostituito e il Parlamento si sarebbe, di fatto, dissolto. Decine di migliaia di altre truppe sarebbero state mobilitate per la difesa interna. Si sarebbero introdotte misure di difesa civile per far fronte ai bombardamenti e alle operazioni di sabotaggio previsti. Il governo stesso sarebbe stato disperso e i ministri avrebbero operato come commissari regionali.

Anche sul continente, naturalmente, si stavano prendendo disposizioni simili. Milioni di riservisti sarebbero stati richiamati, inviati alle loro unità e, in alcuni casi, trasferiti a centinaia di chilometri nelle loro sedi di guerra. La vita ordinaria si sarebbe di fatto fermata, perché la mobilitazione avrebbe richiesto tutte le risorse delle nazioni coinvolte. Questo è il significato della “guerra” moderna: perché i russi dovrebbero accettare ora un accordo che ci causa meno problemi? Perché dovrebbero accettare una sorta di “guerra light”, limitata solo all’Ucraina?

 

C’è quindi da chiedersi se le nullità che parlano di “guerra” con la Russia abbiano una qualche idea di cosa significhi, e se capiscano come al giorno d’oggi non esistano nemmeno i meccanismi più elementari per renderla possibile. Tanto per cominciare, la guerra non è solo qualcosa che facciamo agli altri. Non si tratta di salutare i ragazzi che salpano per andare a combattere in un paese straniero, ma di combattere deliberatamente con qualcuno che può farci molto più male di quanto noi possiamo farne a lui. Le implicazioni pratiche sono molteplici: vediamo solo alcune delle più importanti.

 

Oggi nessuno “dichiara guerra”. Dopo il processo di Norimberga e la Carta delle Nazioni Unite, in cui le nazioni si impegnano ad astenersi dall’uso della forza, non è più possibile iniziare proattivamente uno stato di guerra con un’altra nazione. Dire, come alcuni hanno fatto, “siamo in guerra con la Russia” non ha quindi alcun senso, se non come slogan politico. Non ha alcuna forza legale. L’unico organo in grado di “dichiarare guerra” è il Consiglio di Sicurezza, e questo non accadrà in questo caso. Poiché i russi si sono guardati bene dall’attaccare il territorio della NATO o dall’impegnare deliberatamente le forze della NATO, non si può parlare di “stato di guerra” con le nazioni della NATO.  Esiste invece uno stato di “conflitto armato”, che ha una sua definizione: essenzialmente violenza armata prolungata tra Stati o tra Stati e altri gruppi armati. Ma il “conflitto armato” è appunto uno stato di cose, non un processo o una dichiarazione, ed esiste o non esiste come questione di fatto e di diritto. Quindi, se è ovvio che esiste un conflitto armato in Ucraina, è altrettanto ovvio che gli Stati occidentali non ne sono parte. È quindi difficile capire come le fantasie dei politici bellicosi possano effettivamente realizzarsi.

 

L’unico modo in cui ciò potrebbe potenzialmente avvenire sarebbe se l’Ucraina facesse una richiesta formale di assistenza militare agli Stati occidentali. È così che i russi hanno giustificato le loro operazioni in Ucraina, sostenendo che stanno assistendo le repubbliche secessioniste nell’esercizio del loro diritto di autodifesa, che è preservato (anche se ovviamente non è stato stabilito) dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ma non è chiaro cosa significherebbe in pratica e fino a che punto le forze occidentali potrebbero effettivamente spingersi. Attacchi diretti al territorio russo, ad esempio, sarebbero probabilmente esclusi se si utilizzasse questo argomento.

Ma mettiamo che in qualche modo questi problemi possano essere superati e che si annunci con gioia che le nazioni della NATO entreranno nel conflitto come belligeranti a tutti gli effetti. Questo farebbe tremare i russi, non è vero? In realtà no. Vedete, se siamo in stato di guerra con un altro Paese e siamo liberi di attaccarlo, allora anche lui è libero di attaccarci. Non c’è modo di circoscrivere un simile conflitto all’Ucraina e non c’è motivo per cui i russi dovrebbero volerlo fare. Quindi la prima conseguenza è che le nazioni della NATO, le forze della NATO e gli obiettivi della NATO sarebbero esposti all’attacco immediato della Russia, in un momento in cui i sottocomitati stanno ancora lavorando a Bruxelles per cercare di generare forze. Cosa farebbero quindi i russi?

 

In uno stato di guerra, qualsiasi “obiettivo militare” può essere attaccato. In pratica, oggi questo significa unità militari, quartieri generali militari, la catena decisionale politica per la guerra e le infrastrutture di trasporto, energia, industria ecc. necessarie per sostenerla. Ora non sappiamo, e i russi ovviamente non ce lo diranno, quali siano le loro capacità di attacco a lungo raggio con armi convenzionali. Non sappiamo, ad esempio, di quali capacità dispongano per bombardare gli Stati Uniti con munizioni convenzionali da navi e sottomarini e se intendano usarle, ma non sarebbe saggio escludere questa possibilità. Ma dobbiamo presumere, anche solo a fini di pianificazione, che abbiano modo di colpire obiettivi importanti nella maggior parte o in tutti i Paesi occidentali, con missili lanciati da aerei, navi o sottomarini. Se limitiamo in modo molto prudente le capacità russe all’attacco di venticinque obiettivi principali, cosa potrebbero fare, tenendo presente che la NATO non ha una difesa efficace contro tali attacchi? Alcuni obiettivi sono ovvi: il Pentagono e la Casa Bianca, ad esempio, o le sedi della CIA e della NSA. Il quartier generale della NATO a Bruxelles non resisterebbe a lungo, così come il suo quartier generale militare a Mons. Anche i ministeri della Difesa, i quartieri generali militari e le cancellerie delle principali potenze europee possono essere considerati obiettivi probabili.

 

Ma ovviamente i russi non sono obbligati a consegnare una lista di obiettivi e quindi, in pratica, gli Stati occidentali dovrebbero considerare centinaia di siti come potenziali bersagli, a seconda delle scorte di missili di cui i russi dispongono e di come decidono di usarli. Ovviamente, tutti gli aeroporti militari sarebbero potenziali obiettivi. Ma mentre si concentrano le forze di terra in un momento di tensione, si disperdono le forze aeree. Durante la Guerra Fredda, molti Paesi tenevano in stand-by campi d’aviazione di riserva: mi stupirei se ce ne fossero molti oggi. In pratica, gli aerei dovrebbero essere dispersi in aeroporti civili, che diventerebbero obiettivi militari e dovrebbero essere chiusi ai voli civili. Tutte le basi militari, le guarnigioni militari, i quartieri generali, le strutture di stoccaggio delle munizioni, i depositi di riparazione, le basi navali, i porti civili in cui le navi militari potrebbero essere disperse, le strutture di raccolta dell’intelligence e i principali snodi di trasporto, tra le altre cose, dovrebbero essere considerati obiettivi potenziali.

 

Tutto questo è importante per due motivi. In primo luogo, nessun governo oggi ha preso provvedimenti seri per continuare a gestire il Paese durante una guerra convenzionale, con il rischio di attacchi aerei e missilistici. All’inizio della Guerra Fredda, i governi avevano previsto di nascondersi in rifugi speciali durante la fase convenzionale di una guerra, alcuni dei quali esistono ancora. Ma verso la fine, le armi nucleari erano diventate così precise e potenti che si riteneva molto improbabile che una di queste strutture potesse sopravvivere a un successivo attacco nucleare, e quindi tendevano a cadere in disuso. Quindi, di fatto, i Paesi della NATO non solo non sono in grado di difendersi da un attacco missilistico convenzionale, ma non hanno nemmeno i mezzi per proteggere la cosiddetta “continuità di governo” da tali attacchi. Quindi un missile sul Palazzo dell’Eliseo, uno sul Ministero della Difesa e uno sul Quartier Generale delle Forze di Terra a Lille, e questo sarebbe tutto per la Francia, ad esempio.

 

In secondo luogo, sebbene la nuova generazione di missili russi sia presumibilmente piuttosto precisa, dobbiamo ricordare che la precisione è relativa e non può essere garantita. La precisione viene normalmente espressa in base a una misura nota come Errore Circolare Probabile, o CEP. Si tratta del raggio dal bersaglio entro il quale si prevede che il cinquanta per cento dei missili cadrà. Non vengono fornite garanzie su dove atterrerà il restante cinquanta per cento. Quindi, se un missile ha un CEP di 200 metri, il cinquanta per cento delle volte si prevede che atterri entro un cerchio di 400 metri di diametro, il cui epicentro è il bersaglio previsto. Alla luce di ciò, del raggio d’azione delle esplosioni e della tendenza di alcuni missili a perdersi, si può affermare che chiunque o qualsiasi edificio si trovi nel raggio di un chilometro da un potenziale obiettivo di alto valore è potenzialmente a rischio. In tutto il mondo occidentale, centinaia di migliaia di persone vivono spesso vicino ad aeroporti, porti marittimi e sedi centrali. (Il quartier generale permanente del Regno Unito si trova in un tranquillo sobborgo di Londra).

In molte città europee, le strutture governative e militari sono raggruppate nel centro della capitale. Ciò significa che gran parte del centro stesso della città sarebbe a rischio. Nella maggior parte dei Paesi non è affatto chiaro dove il governo potrebbe trasferirsi, in caso di crisi, per continuare a operare. Anche se fosse possibile evacuare le figure di spicco del governo in un luogo nominalmente più sicuro, sarebbe necessario chiudere completamente al pubblico almeno il centro di alcune città (poiché alcuni servizi governativi dovrebbero rimanere e quindi essere obiettivi) e non ci sarebbe modo di prevenire l’evacuazione spontanea di decine o centinaia di migliaia di residenti comuni. In effetti, con i moderni livelli di possesso di automobili, le autostrade sarebbero presto intasate di persone in fuga da siti che si prevede, o si dice, siano sulla lista degli obiettivi russi. Nessun governo moderno ha piani per l’evacuazione e l’alloggio di un gran numero di rifugiati, al giorno d’oggi, e nemmeno per gestire un esodo popolare spontaneo. Tutto questo, ovviamente, comincerebbe ad accadere prima che il primo missile russo venga lanciato, ammesso che ne venga lanciato uno. Il fatto che i governi occidentali debbano spiegare che non esiste una difesa efficace contro tali missili, e che non ci sono piani né strutture per proteggere la popolazione civile da essi, non aiuterebbe nemmeno a calmare il clima politico. Nessun governo occidentale ha le forze o i piani disponibili per contenere il panico e la confusione che probabilmente ne deriverebbero.

 

Ma sicuramente, direte voi, l’opinione pubblica occidentale sarà confortata dal pensiero che le proprie forze stanno eseguendo una punizione contro la Russia? Non è detto. Semplicemente, le nazioni occidentali hanno visto una scarsa necessità di missili convenzionali a lungo raggio e non si sono impegnate molto per svilupparli. I più noti sono i missili da crociera subsonici della famiglia Tomahawk, con gittate che si aggirano per lo più intorno ai 1000-1500 km e con una testata di circa 500 kg (più o meno equivalente a una singola bomba sganciata da un bombardiere tedesco nel 1940). Queste armi possono essere efficaci, ma vengono lanciate da navi e sottomarini e quindi i bersagli devono essere abbastanza vicini al mare. A questo punto è utile prendere una mappa.

 

La prima cosa che colpisce è che la Russia è un posto grande. La seconda è che Mosca è molto lontana. I missili Tomahawk lanciati dal Baltico o dal Mediterraneo orientale potrebbero avere la gittata necessaria per raggiungere Mosca, almeno in teoria. D’altra parte, come la stessa opinionista ricorda di aver detto, la Russia ha ereditato dall’Unione Sovietica il sistema di difesa aerea più completo del mondo. Quale sia la sua efficacia contro i missili da crociera subsonici ma a bassa quota, non lo sanno nemmeno gli esperti. Detto questo, la NATO non può rappresentare per la Russia la stessa minaccia che i nuovi missili russi possono rappresentare per i Paesi della NATO, e si deve presumere che i russi sarebbero in grado di individuare e colpire il sistema di lancio della NATO stessa. Gli aerei con equipaggio che tentano di sganciare bombe convenzionali su Mosca da basi in Europa, anche se ne avessero il raggio d’azione, potrebbero subire perdite tali che nessun governo ne riterrebbe utile l’uso.

 

Ma supponiamo che le città e le aree bersaglio possano essere evacuate in sicurezza e che i governi e le economie occidentali possano essere messi in condizioni di guerra. La potenza aerea e i missili saranno inefficaci, quindi l’unica vera opzione è quella di formare e dispiegare una forza multinazionale meccanizzata di qualche tipo, presumibilmente per aiutare gli ucraini a recuperare il territorio che rivendicano come proprio.

 

Ebbene, fermiamoci qui. Le nazioni occidentali non sanno più come fare queste cose. Sto parlando della dottrina militare: l’insieme dei principi che indicano ai comandanti come combattere. La NATO non ne ha per le operazioni offensive meccanizzate lontano dal territorio nazionale, e non ne ha mai avute. Durante la Guerra Fredda l’orientamento della NATO, e quindi la sua dottrina, era difensivo. Il presupposto era che le sue forze avrebbero affrontato un attacco da parte di un nemico più grande e più potente, e che avrebbero condotto una ritirata combattiva, sperando di fermare l’incursione nemica il più vicino possibile al confine con la Germania interna. In ogni momento, quindi, le forze della NATO avrebbero ripiegato sulle proprie linee di rifornimento, verso le proprie riserve e i propri depositi di manutenzione e rifornimento, mentre le forze nemiche si sarebbero progressivamente allontanate dalle loro.

 

Per quanto ne so, i comandanti della NATO non si sono mai addestrati o esercitati per una guerra meccanizzata aggressiva a lunga distanza, e non esiste una dottrina al riguardo, il che significa che nessuno sa come farla, né tanto meno come integrare le forze di terra con quelle aeree e con altri mezzi. In Bosnia, la NATO era un esercito di occupazione, che non combatteva. Dopo la campagna aerea contro la Serbia, la situazione in Kosovo era simile. In Afghanistan, la NATO in quanto tale si è schierata solo dopo la sconfitta del regime talebano e la maggior parte delle sue attività sono state di controinsurrezione su piccola scala. L’equivalente più vicino al tipo di operazione che sarebbe necessaria in Ucraina (anche se allora con forze soverchianti e completa superiorità aerea) è stato l’Iraq del 2003, ma i comandanti anziani di quell’epoca sono andati in pensione da tempo e la conoscenza istituzionale è andata perduta.

Inoltre, sebbene negli eserciti occidentali esistano ancora unità a dimensione di brigata, si tratta sempre più di formazioni amministrative, che raramente o mai si addestrano insieme. Qualsiasi forza occidentale dovrebbe passare settimane o mesi ad addestrarsi insieme, con tanto di riservisti mobilitati, prima di poter essere considerata pronta a schierarsi. Poi, naturalmente, dovrebbe addestrarsi con brigate di altre nazioni, il tutto in assenza di una dottrina militare coerente e concordata. Poiché a quel punto la NATO avrebbe inevitabilmente dovuto ammettere di essere in stato di guerra con la Russia, si può solo sperare che i russi, sportivamente, non prendano di mira le unità mentre si addestrano.

 

E soprattutto, quale sarebbe l’obiettivo? “Uccidere russi” non è un obiettivo militare. Quando il Comandante supremo delle Forze Alleate in Europa si presenta al Consiglio Nord Atlantico dopo tutti questi preparativi e dice “cosa volete che faccia?”, sarà meglio che riceva una risposta. Ma non c’è, o per essere precisi non c’è nemmeno una risposta che risponda al clamore politico. Con notevoli difficoltà (vedi sotto) alcune unità militari occidentali potrebbero essere trasportate nell’Ucraina occidentale, dove potrebbero formare un presidio improvvisato intorno ad alcune delle principali città ucraine. Questo potrebbe essere politicamente efficace nel breve termine, ma le forze stesse sarebbero completamente esposte, poiché potrebbero essere attaccate dai russi senza essere in grado di rispondere. E non è certo quanto a lungo le opinioni pubbliche occidentali accetterebbero di avere i loro interi eserciti utilizzabili legati in una posizione statica in Ucraina. Inoltre, molte unità da combattimento europee dipendono pesantemente dai riservisti: l’unica unità da combattimento seria dell’esercito olandese, ad esempio, la 43esima brigata meccanizzata con la sua manciata di carri armati, conta sui riservisti per circa un quarto della sua forza operativa: per quanto tempo è possibile tenerli lontani dal loro lavoro e dalle loro famiglie?

 

Ma ovviamente, per cominciare, bisogna portarli fino a quel punto. Nella Guerra Fredda, le truppe della NATO (e anche quelle sovietiche) si trovavano essenzialmente nelle posizioni in cui avevano combattuto nel 1945. In entrambi i casi, hanno occupato strutture esistenti della Wehrmacht. Nel corso dei decenni, nuove unità e nuove attrezzature sono state costruite a poco a poco, sono stati edificati alloggi e così via. Questo tipo di infrastruttura dovrebbe essere riprodotta in Ucraina e, anche se venissero utilizzate le strutture dell’UAF, ci sarebbe comunque un massiccio programma di dispiegamento e di costruzione di infrastrutture che richiederebbe anni.

 

E in ogni caso, i combattimenti non sono lì. Si svolgono a circa mille chilometri a est, quindi le truppe della NATO dovrebbero spostarsi di nuovo, a una distanza pari all’incirca a quella che separa Parigi da Monaco, solo per raggiungere il luogo dei combattimenti. Non credo ci siano precedenti nella storia per questo tipo di movimento di attrezzature pesanti e di uomini su una tale distanza, sotto attacco aereo e missilistico, e a contatto con forze superiori.

 

I carri armati occidentali della Guerra Fredda, come il Leopard, il Challenger e l’M1, sono stati costruiti per combattere una guerra difensiva. Sebbene alcuni modelli fossero più leggeri di altri, tutti dovevano utilizzare le eccellenti infrastrutture, i solidi ponti e i sistemi ferroviari dell’Europa occidentale e iniziare la guerra non molto lontano dal luogo in cui erano stanziati. Il solo fatto di portarli in prima linea, con i loro veicoli per il recupero e i pezzi di ricambio, ecc. sarebbe stata una sfida. Ma ovviamente c’è di più. Anche i veicoli cingolati corazzati “leggeri” non possono facilmente muoversi lungo alcune strade senza danneggiarle, o attraversare tutti i ponti. Per avere un’idea di cosa comporterebbe lo spostamento di una brigata, anche su terreni permissivi, date un’occhiata a questo diagramma di una tipica brigata di fanteria corazzata britannica. Vedrete che ha circa 500 veicoli da combattimento, di cui circa il dieci per cento sono carri armati principali, che a loro volta richiederebbero grandi e pesanti trasportatori per spostarli a qualsiasi distanza. A questi vanno aggiunti i veicoli di recupero, i veicoli per le riparazioni, i veicoli per i meccanici, i veicoli medici e tutta una serie di veicoli di trasporto e di rifornimento. Tutto questo potrebbe facilmente portare a una colonna lunga una decina di chilometri, che deve viaggiare lungo percorsi autorizzati e protetti attraverso la maggior parte dell’Europa. (Per tacere dell’attraversamento del Canale della Manica). Una volta in posizione, la Brigata dovrebbe essere rifornita, fornita di nafta, olio e lubrificanti, ricambi e materiali di consumo, officine e un piccolo ospedale. Se dovesse entrare in azione, le vittime dovrebbero essere evacuate, i rinforzi dispiegati e le attrezzature danneggiate riparate, se possibile, poiché è improbabile che possano essere sostituite. E questa è solo una Brigata di un Paese.

 

Quante brigate di questo tipo la NATO potrebbe effettivamente schierare? Nessuno lo sa, ma la stima migliore sembra essere tra le sei e le dieci, tenendo presente che, se siamo in guerra con la Russia, potrebbe essere utile avere anche qualche truppa in patria. Lascio agli esperti militari giudicare il valore di una forza meccanizzata leggera di queste dimensioni, ma onestamente dubito che Mosca sia troppo preoccupata.

 

E questo è il problema. L’Occidente è così inebriato dalla percezione della propria potenza che presume che anche gli altri lo siano. Dopo tutto, gli Stati Uniti spendono per la difesa molto più della Russia, quindi dovrebbero essere molto più potenti, no? Ebbene, in alcuni settori, come i gruppi tattici di portaerei, lo sono. Ma i russi non vogliono giocare a questo gioco: vogliono giocare alla guerra terrestre/ aerea ad alta intensità in Europa, un gioco a cui l’Occidente ha sostanzialmente rinunciato una generazione fa e che può giocare solo per una o due settimane al massimo prima di esaurire le munizioni. L’altra illusione è che l’Occidente sia intoccabile. Non oserebbero mai lanciare un missile sul quartier generale della NATO, vero? Voglio dire, se lo facessero, noi… noi… beh, cosa faremmo? Le minacce nucleari sono riconosciute come pericolose, inutili e irrilevanti. Come Re Lear nella citazione all’inizio di questo saggio, la NATO farà… qualcosa, quando capirà cosa. Ma se fossi nei russi sarei scettico: dopo tutto, ricordate cosa è successo a Lear.

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DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE, di Teodoro Klitsche de la Grange

DIRITTO DIVINO PROVVIDENZIALE

E DOTTRINA DELLO STATO BORGHESE

  1. E’ tradizionale nella dottrina del diritto francese, di uno Stato formato da otto secoli di monarchia, iniziare la trattazione dei poteri pubblici dalla giustificazione teologica del potere stesso[1]. A cui si fa seguire l’esposizione della teoria del diritto divino e la distinzione tra “doctrine du droit divin surnaturel” e “doctrine du droit divin providentiel” attribuendo l’affermazione della prima ai Re di Francia (Barthélemy – Duez) e particolarmente a Luigi XIV e Luigi XV, ovvero a Bossuet (Hauriou); mentre per la seconda l’attribuzione è concorde a de Maistre e de Bonald[2]. La distinzione tra le due concezioni è così esposta da Hauriou: “La dottrina teologica ha avuto due forme successive in Francia: 1) la dottrina del diritto divino soprannaturale (Bossuet) che consiste nel sostenere che Dio stesso sceglie i governanti e l’investe dei loro poteri: questa concezione è compatibile solo con la monarchia assoluta; 2) La dottrina del diritto divino provvidenziale (de Maistre e de Bonald) secondo cui il potere, nel suo principio fondamentale fa parte dell’ordine provvidenziale del mondo, ma è a disposizione dei governanti mediante mezzi umani; questa dottrina permette altrettanto adeguatamente sia la giustificazione del potere minoritario, esercitato da un’élite, che del potere maggioritario, esercitato dalla maggioranza del popolo (vox populi vox Dei)” e prosegue sottolineando i vantaggi di questa seconda teoria: 1) di significare che l’istinto del potere è nella natura umana, e in tal senso, pre-sociale; 2) di collocare l’origine del potere al di sopra sia della collettività sociale, sia del diritto dei governanti, sia di chiunque: ossia di non portare a nessun assolutismo; è la più propizia alla libertà; 3) provenendo da Dio il potere è per natura orientato verso la ragione, la giustizia ed il bene comune.

E soprattutto come appare dal contesto sistematico di tali considerazioni, permette di ricollegare pouvoir de fait e pouvoir de droit, di “aprire” cioè il diritto ai mutamenti della storia. In un senso più specifico, di fondare il potere costituente (umano) al di sopra della stessa costituzione. Barthélemy e Duez sostengono, del pari, che la dottrina del diritto divino provvidenziale non è necessariamente aristocratica o monarchica, perché ogni uomo o classe può essere scelto dalla Provvidenza per eseguire i propri disegni: quindi non è contraria alla democrazia[3]. Sia Barthélemy che Carré de Malberg considerano la dottrina del diritto divino provvidenziale come già formulata da S. Tommaso e seguita dalla maggior parte dei teologi cattolici[4].

Tale concezione tuttavia non è considerata da tutti i giuristi un “antecedente” della democrazia moderna. Jellinek, nello scrivere della democrazia – e delle repubbliche – moderne le ricollega alle concezioni della Riforma, in particolare a quelle calviniste[5]. Otto Von Gierke ritiene che fu “la Riforma a far rivivere con nuova energia il pensiero teocratico. Attraverso tutte le differenze delle loro concezioni, Lutero, Melantone, Zwinglio e Calvino concordano nell’insistere sulla funzione cristiana e quindi sul diritto divino dei governanti. Anzi, dato che per un verso sottomettono più o meno decisamente allo Stato il dominio della Chiesa e per l’altro legittimano l’esistenza dello Stato in base all’adempimento dei suoi doveri religiosi, essi conferiscono al principio di S. Paolo omnis potestas a Deo una portata fino allora sconosciuta”. Tuttavia non trascura la dottrina della Seconda Scolastica, e scrive che i più accaniti avversari della Riforma, “particolarmente i  Domenicani ed i Gesuiti impugnarono tutte le loro armi spirituali a favore di una costruzione puramente temporale dello Stato e del diritto di sovranità” (anche per sostenere la tesi della potestas indirecta implicante una limitata subordinazione dello Stato alla Chiesa) “Lasciando però fuori causa i rapporti con la Chiesa, essi svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici: Questo vale non soltanto per gli autentici monarcomachi di questo gruppo: Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[6]

Carl Schmitt sostiene  “Secondo la concezione medievale solo Dio ha una potestas constituens, per quanto di questa si possa parlare: La frase:” Ogni potere (o autorità) viene da Dio” (Non est enim potestas nisi a Deo, Rom. 13,1) significa  il potere costituente di Dio. Anche la letteratura politica dell’epoca della Riforma si attiene a ciò, soprattutto la teoria dei monarcomachi calvinisti” e continua che, con la dottrina del pouvoir constituant di Sieyés, è la nazione il soggetto del potere costituente, malgrado lo sviluppo dell’assolutismo  “Nel XVII secolo il principe assoluto non è ancora definito come soggetto del potere costituente, ma solo perché l’idea di una libera decisione totale, presa dagli uomini, sulla forma e la specie della propria esistenza politica assai lentamente poteva svilupparsi in azione politica: Le conseguenze delle concezioni teologiche-cristiane del potere costituente di Dio nel XVIII secolo,nonostante l’illuminismo, erano ancora troppo forti e vitali”.[7]

  1. Resta da vedere in che misura la teoria del pouvoir constituant – e di riflesso della sovranità nazionale – sia il risultato non solo dell’Illuminismo, delle concezioni di Rousseau e dei giacobini, ma della teologia politica cristiana e più specificamente, della teoria del diritto divino “provvidenziale”.

Che la concezione di Sieyés fosse la secolarizzazione della teologia politica, con la Nazione onnipotente al posto del Dio Onnipotente è chiaro; meno è se tale concezione fosse tributaria delle riflessioni dei filosofi del XVII secolo – in particolare Hobbes e Spinoza (e, poi, Rousseau) – o della teologia cattolica e riformata, in particolare del XVI e XVII secolo [8], ovvero dei giuristi   teorici   del diritto naturale. In effetti i connotati di tale concezione, che valgono a distinguerla, sono, oltre a quelli indicati da Hauriou, altri, presenti nel pensiero dell’abate rivoluzionario.

Sieyés sostiene che la “La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto: La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa: Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale” e prosegue “ In ogni sua parte la Costituzione non è opera del potere costituito, ma del potere costituente: Nessun tipo di potere delegato può cambiare alcunchè delle condizioni della propria delega. E’ in tal senso e non in altro che le leggi costituzionali sono fondamentali. Le prime, quelle costitutive del potere legislativo, vengono fondate dalla volontà nazionale prima di qualunque Costituzione, Esse ne formano il primo gradino”[9]. Insiste ripetutamente sul concetto di volontà, “che è al di fuori di ogni forma” e che “ una Nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”; per cui “ Quand’anche le fosse concesso, una Nazione non deve insabbiarsi nelle pastoie di una forma positiva: equivarrebbe a rischiare di perdere irrevocabilmente la propria libertà, perché sarebbe sufficiente una sola occasione favorevole alla tirannia, per legare i popoli, con il pretesto della Costituzione, ad una forma che impedirebbe loro di esprimere liberamente la propria volontà, e di liberarsi dunque dalle catene del dispotismo”; è chiaro che in tal modo, viene  fondato il “diritto” della comunità a darsi la forma istituzionale che preferisce senza che la volontà morfopoietica  della Nazione possa essere sottoposta ad alcun vincolo giuridico.

In effetti tale concezione di Sieyés significa che non esiste un diritto al potere di chicchessia per investitura divina, ma solo la potestas della comunità di darsi la forma che preferisce: la modellazione della forma, e quindi il diritto e la scelta di chi esercita il potere è rimesso alla volontà e all’opera umana. In qualche misura “aggiorna” il pensiero della teologia cristiana, e tomista in particolare, sulla tirannide, basato sul principio che “tota respublica superior est rege[10].

Parimenti in Sieyés è naturale la tendenza umana ad associarsi: l’uomo è un animale politico, come sempre ripetuto dalla teologia cristiana, per cui è naturalmente portato ad associarsi: l’istinto politico – dell’ordine e del potere –  è quindi naturale e, addirittura, pre-sociale, come sostiene Hauriou. E i teologi in vario modo avevano argomentato sia il carattere di legge naturale che la ragionevolezza dell’ aggregazione degli uomini in società; per lo più spiegandolo con la debolezza umana, non avendo l’uomo armi naturali come zanne, artigli e dovendo difendersi dalle fiere[11], nonchè  dagli altri uomini; da ciò la necessità  di costituire un potere comune e far rispettare la legge[12]. Non dissimile dalle rappresentazioni dei teologi è quanto scriveva Sieyés: “Esiste, a dire il vero, una grande ineguaglianza di mezzi fra gli uomini. La natura li crea forti o deboli; ad alcuni concede un’intelligenza, mentre ad altri la rifiuta. Ne consegue che vi sarà fra essi ineguaglianza di lavoro, ineguaglianza di risultati, ineguaglianza di consumo o di godimento; ma non ne consegue che possa esservi ineguaglianza di diritti”, per cui “il diritto del debole sul forte è lo stesso di quello del forte sul debole. Quando il forte riesce ad opprimere il debole, produce un effetto senza produrre un obbligo. Lungi dall’imporre un nuovo dovere al debole, rianima in esso il dovere naturale ed imperituro di resistere all’oppressore” e “Dunque una società fondata sulla reciproca utilità è in sintonia con i mezzi naturali che si offrono all’uomo per raggiungere il proprio fine; in tal senso questa unione è un bene, e non un sacrificio e l’ordine sociale diviene un’estensione, un complemento dell’ordine naturale……”[13]; la associazione in  società è ragionevole perché lo stato sociale non tende a degradare, ad avvilire gli uomini,ma, al contrario, a nobilitarli, a perfezionarli. Dunque “la società non indebolisce, non riduce i mezzi particolari che ogni individuo apporta all’associazione per sua personale  utilità; al contrario, li accresce;; li moltiplica, sviluppando le facoltà morali e fisiche; li accresce ancora attraverso il fondamentale concorso dei lavori e dei pubblici soccorsi” e “L’uomo, entrando in società, non sacrifica dunque una parte della sua libertà: anche quando non esisteva il vincolo sociale, nessuno aveva il diritto di nuocere  ad un altro” e “Lungi dal limitare la libertà individuale, lo stato sociale ne amplifica e ne assicura il godimento; esso allontana una moltitudine di ostacoli e di pericoli ai quali era esposta, quando era garantita unicamente dalla forza privata, e la affida al controllo onnipotente dell’intera associazione. Così, poiché nello stato sociale l’uomo accresce i suoi mezzi morali e fisici, sottraendosi nello stesso tempo all’inquietudine che ne accompagna l’uso, non è errato affermare che la libertà è più completa e assoluta nell’ordine sociale di quanto non possa esserlo nello stato detto di natura”. Diversamente da quanto affermava Rousseau, quindi il giudizio sullo stato sociale è positivo, come sempre sostenuto dalla teologia cristiana. Non c’è nulla dell’accorato inizio del Contrat social : “L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene”, né della spiegazione che Rousseau da dello stato sociale nel  Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes , come soluzione che favorisce i più ricchi, che assicurano  col potere pubblico le proprie posizioni.[14]

  1. D’altra parte la concezione di Sieyés si distingue da quella del diritto divino soprannaturale, comune a Bossuet, come a Lutero e Calvino.

Lutero ritiene che la ribellione ai poteri costituiti sia contraria alle Sacre Scritture e che il cristiano, anche se vessato da un potere malvagio , deve sottomettersi e rimettersi alla volontà (e diritto) divino[15], perché farsi giustizia da soli significa abusare di un diritto che appartiene solo a Dio. Calvino contesta la tesi degli anabatttisti che non sia  lecito  al cristiano essere magistrato o  sovrano[16], perché è “manifestamente contrario alla Scrittura che non ci debba essere più alcuna forma di governo”[17]; i governanti “ricevono la loro autorità da (Dio), e ne rappresentano la persona essendo in qualche  modo i suoi vicari;” condanna rivolte e sollevazioni popolari[18], poiché si deve essere sempre sottomessi alla volontà di Dio che ha    costituito dei re sui regni.[19]

Bossuet spiega il noto passo dell’Epistola ai Romani di S. Paolo così: i principi agiscono come ministri di Dio e suoi luogotenenti in terra; il loro trono non è quello di un uomo,ma quello di Dio stesso; la persona del Re è sacra, anche se non cristiano come Ciro  , perché  rappresenta sempre la maestà Divina[20]. L’autorità è ad immagine di Dio: il principe è l’immagine materiale della (di Dio) immortale autorità. Nel principe l’uomo può morire ma l’autorità non muore mai[21]; il solo principio che possa assicurare              la stabilità degli Stati è che ogni suddito deve rispettare l’esercizio dei poteri  e dei giudizi pubblici[22] . D’altra parte, secondo Bossuet solo al principe appartiene il potere di comandare legittimamente e a lui solo l’esercizio della coazione. Se così non fosse lo Stato (la comunità) ricadrebbe nell’anarchia[23]; da cui è uscita proprio perché si è costituita (è divenuta) popolo sotto un sovrano.[24]

  1. In effetti, come si può notare, la concezione del pouvoir constituant presenta una stretta affinità con la concezione del diritto divino provvidenziale con la quale condivide i principali punti di contatto: Che poi la teoria sia in se, come cennato, la secolarizzazione della teologia cristiana, con la Nazione cui vengono attribuiti i connotati di Dio è ancor più evidente: l’assenza di limiti (giuridici) – l’onnipotenza della volontà della nazione; la sua capacità di “creazione” dell’ordine, donando con la costituzione da un lato un ordinamento (una forma) che “supera” il caos, e dall’altro la stessa capacità di azione (ed esistenza) politica; la risoluzione della distinzione/antitesi tra essere e dover-essere[25]:

Ma non è men vero che, nella sua difesa della “bontà” dell’associazione degli uomini Sieyés riprendeva quanto sempre sostenuto dalla teologia cristiana: in effetti già S.Agostino legava ordine, pace, e civitas[26], sottolineando la concordia, che, nelle cose “temporali” vi era tra la città terrena e quella celeste[27]. D’altra parte la concezione del diritto divino provvidenziale è stata esposta sotto altri profili, più articolati di quelli fin qui ricordati, da S. Roberto Bellarmino. Questi, nel confutare anch’egli le tesi degli anabattisti, adduce cinque prove, tre delle quali “logiche” (deduttivo-razionali) e due “storiche”. Di particolare interesse è la distinzione tra autorità (voluta da Dio è quindi buona in se, facendo parte dell’ordine della creazione) e chi la esercita, cioè il governante (che, quale essere umano è sempre soggetto al peccato ed all’errore): “A quanto dicono in contrario gli Anabattisti affermo innanzi tutto non essere vero che i re e i principi siano generalmente malvagi: non si tratta infatti qui di uno Stato particolare, ma del potere politico in generale, e in questo senso fu re e principe anche Abramo.” E prosegue: “gli esempi dei re malvagi non provano che il potere politico sia malvagio in se stesso; spesso infatti i cattivi si servono di cose buone; gli esempi invece dei re buoni provano che il potere politico è buono, perché i buoni non si servono di cose cattive. Di più: i principi cattivi sono spesso più di giovamento che di danno, come fu di Saul, Salomone e altri. Del resto è ancora più utile per uno Stato avere un principe cattivo che non averne nessuno; dove infatti non ce n’è alcuno, lo Stato non può conservarsi a lungo: Salomone stesso lo disse, Prov., c. 11: Dove non c’è un principe, il popolo va in rovina; invece dove c’è, anche se cattivo, viene almeno conservata l’unità del popolo[28]. Meglio un cattivo governante che l’anarchia del non-governo.

Sul potere politico “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo”; ed in origine risiede nella moltitudine “Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine.” E “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico dalla moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi.”; tuttavia “le forme particolari di regime politico sono “de jure gentium” e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma”. La conclusione è “da quanto è stato detto segue che il potere politico, considerato in particolare, viene certamente da Dio, mediante però una deliberazione e un’elezione umana, come tutto ciò che è “de jure gentium”. Questo “jus gentium” è come una conseguenza dedotta dal diritto naturale mediante un intervento umano. In tali tesi di Bellarmino sono chiari i presupposti di altrettanti capisaldi del pensiero politico e costituzionalistico moderno; la distinzione tra l’autorità (buona e necessaria perché ordinata da Dio) e chi la esercita (uomo e quindi peccatore, come coloro che sono governati)[29]. Questo è il fondamento della concezione sviluppata nello Stato borghese per cui, proprio perché i governanti non sono degli angeli, occorrono dei controlli su di essi, come scritto nel Federalista[30]. Il che ha portato all’incremento eccezionale nell’organizzazione delle democrazie liberali, del sistema giuridico (e politico) dei “freni e contrappesi”; e, parimenti, alla impossibilità di controlli giuridici sul sovrano (soggetto solo a limitazioni di carattere etico, religioso ed ontologico cioè di “diritto naturale” non di diritto positivo, comunque non suscettibili di coazione). Conferma ad un tempo la necessità del potere politico (di diritto divino) e l’accidentalità delle forme in cui è ordinato e dei soggetti scelti ad esercitarlo. Ribadisce la distinzione tra “titolarità” del potere politico a tutta la moltitudine, obbligata a trasferirla a uno o più, per “diritto naturale” (cioè per necessità oggettiva) e così afferma il carattere necessario della rappresentanza; mentre le forme in cui si organizza, che non sono di diritto naturale (v. sopra) dipendono dalla libera volontà della moltitudine che può sempre cambiarle proprio perché non di diritto naturale ma de jure gentium. E il tutto può avvenire per decisione (con un “atto”) il che anticipa anche la concezione del moderno costituzionalismo che vede la costituzione (per lo più) come deliberazione del potere costituente.

  1. Anche tali ultime tesi sono transitate nel diritto e, ancor più, nella dottrina (politica e) giuridica dello Stato democratico liberale. A volerne ricordare una, la più importante: nella Dichiarazione dei diritti dell’uno e del cittadino, all’art. 3 così si proclama “Le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la nation. Nul corps, nul individu, ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément». Questa dichiarazione in cui alla “moltitudine” si sostituisce la Nazione, sempre contrapposta ai pouvoirs constituées, fu ripetuta in forme simili in tutte le successive  costituzioni francesi (tranne, ovviamente in quella del  1814)[31].

Hauriou sostiene che il diritto non sfugge alla regola che, dietro ogni fisica,        c’è una metafisica. La quale normalmente,non si manifesta, anzi è occultata accuratamente da uno strato di diritto, e così rimane, se ci si ferma all’apparenza (come è normale in una situazione normale, cioè quasi sempre). Ma “ quando il rivestimento giuridico viene a mancare, come nel potere di fatto, si ricade sul fondo metafisico o teologico”[32].  Il che succede quando si produce un cambiamento rivoluzionario radicale. Per la Francia moderna questo si è ripetuto – scrive Hauriou nel 1929 – almeno quattro volte dopo la rivoluzione del 1789. Il potere di fatto tende a diventare – e per lo più vi riesce – un potere di diritto: ma per far questo una legge è completamente inutile “Un gouvernement provisoire n’a jamais fait voter une loi pour déclarer qu’il devenait légitime”.[33] In tali vicende la régle de droit non trova impiego, anzi spesso è convalidata dalla giurisprudenza gran parte del diritto creato da tali governi, anche se non ratificato: questo perché, scrive Hauriou, il  governo è necessario, un governo di fatto è meglio che nessun governo, e il potere è una cosa naturale e d’origine divina. E conclude “Tel est l’enseignement de la morale théologique; tel est celui de la sagesse et telle est la pratique”.[34]

C’è da chiedersi per quale ragione la concezione del diritto divino provvidenziale sia presente così vistosamente nella teoria del diritto e nello Stato borghese. Le risposte potrebbero essere diverse e concorrenti: che in effetti la filosofia moderna, specie quella del XVII e XVIII secolo è largamente tributaria del diritto naturale e della teologia della Seconda Scolastica e che attraverso questa “secolarizzazione” sia arrivata ai costituenti francesi e di qui al costituzionalismo europeo; o perché a far la rivoluzione è stata una nazione cattolica come la Francia, e in essa vi avuto grande importanza un sacerdote come l’abbé Sieyès[35], educato dai Gesuiti; ma l’argomento che pare più importante – e preferibile- è che tale concezione, come ben visto da Hauriou permette di spiegare in modo a un tempo realistico e razionale il rapporto tra fatto e diritto, essere e dover essere, potere ed ordine, trasformazione e conservazione, libertà e necessità. In effetti la diversa concezione del diritto divino soprannaturale porta in se difetti analoghi a quelli che Hauriou individuava nelle teorie del diritto, ad esso contemporanee, di Duguit e di Kelsen, che accomunava come sistemi statici. Tali sistemi “si presentano volentieri come oggettivi, e lo sono effettivamente perché eliminano l’opera dell’uomo che è la sorgente del soggettivo; ma sono soprattutto statici per la loro concezione erronea dell’ordine sociale, e sotto questo aspetto statico li esamineremo perché rende manifesta la loro incompatibilità con la vita”[36]. Nel sistema di Kelsen l’ordine giuridico e statale è considerato l’espressione di un imperativo categorico della ragion pratica; peraltro è un “monismo idealistico”, dove Stato e diritto si confondono[37]. E in effetti è il profilo statico che prevale su quello dinamico[38]. Per cui se tale teoria riesce ad evitare la concezione del potere di dominio, non evita il dominio di un imperativo categorico che comporta un ordine sociale necessitante[39]. Ma il giogo di una filosofia del genere “serait pour le droit pire que celui de la théologie. La théologie catholique pose le primat de la liberté humaine: l’ordre divin se propose à l’homme par la grace ». Invece nel sistema di Kelsen l’ ordine del “panteismo idealista” s’impone come necessità costrittiva. Per cui conclude che in Francia non avrà fortuna “parce que ses tendances sont inconciliables avec celles du droit. Seule une philosophie de la liberté créatrice est compatible avec lui. ». Quanto al sistema di Duguit, questo prende come punto di partenza « la notion positiviste d’un ordre des choses sociales conçu comme le prolongement de l’ordre des choses physiques. De cet ordre des choses découlent des normes. » ; la sua grande preoccupazione è sopprimere il potere come fonte del diritto. Ma questo comporta la staticità del sistema, per la negazione « du pouvoir subjectif de création du droit, le mouvement juridique, qui résulte surtout des forces subjectives, est arreté ». E, tranne i casi di eccezioni nel sistema « le droit ne peut se développer que dans la mesure des normes établies ou par l’établissement de nouvelles normes, mais c’est là une formation coutumière d’une extreme lenteur. Le système tend donc vers l’immobilité coutumière ». E ne conclude che il sistema di Duguit è, come quello di Kelsen “impropre à la vie”.

In effetti, ad analizzare le conseguenze della dottrina del diritto divino soprannaturale, si vede che, ovviamente per ragioni diverse, presenta gli stessi inconvenienti di quelle di Kelsen e di Duguit. In primo luogo d’essere statica, poiché cristallizza i rapporti di potere e le regole per accedervi: chi ha il potere, ha diritto al comando e a pretendere l’obbedienza che gli si deve; ogni innovazione è, non provenendo da chi detiene il potere, contro il diritto divino. In secondo luogo di mettere il diritto davanti al fatto, che è proprio il contrario di quanto succede, ad esempio in diritto internazionale, dove è il fatto del controllo di uno Stato (della popolazione e del territorio), e non la legalità dell’insediamento, a fare d’un governo rivoluzionario un interlocutore internazionale. Se così non fosse, se ci si dovesse basare sul criterio di “diritto divino soprannaturale” (o di una pura valutazione “normativa”), l’Italia  dovrebbe essere rappresentata da un Savoia[40], la Germania da un Hohenzollern e la Russia da un Romanov. Con l’effetto di porre in contrapposizione il diritto con la realtà (e la vita); e di rendere (anche) inidoneo quello a indirizzare questa. C’è inoltre un’antitesi radicale tra la distinzione di Bellarmino tra autorità e governante (peccatore) e quel “vous étes des dieux” rivolto da Bossuet ai monarchi: che giustamente Hauriou ritiene compatibile solo con la monarchia assoluta.

Ma la fortuna della concezione del diritto divino provvidenziale non è solo di essere “dinamica”, e cioè realistica, ma anche di spiegare il rapporto tra forza e diritto, sempre in termini realistici. Ritenendo necessario il vivere in società e sotto un governo ma non le relative forme, è aperta all’innovazione e al carattere nomogenetico della forza, finalizzata a garantire l’esistenza comunitaria Il tasso d’innovazione che questo introduce serve a garantirne l’adattamento alle mutevoli condizioni della storia, cioè la vitalità. Il realismo della concezione in esame è dato  essenzialmente dal rapporto delineato tra legge naturale e jus gentium; in altri termini tra necessità e libertà umana.

Riconoscendo che tra le leggi di natura v’è quella di associarsi sotto un governo politico, la teologia cristiana aveva individuato una delle “costanti”, definite da Miglio come le regolarità della politica[41]; in quanto tali immodificabili dalla volontà umana. Che, di converso, le utopie “assolute”[42], ritengono di poter modificare, credendo di aver trovato “la soluzione dell’enigma della Storia”, come scriveva il giovane Marx[43]; dalla storia puntualmente smentita, col crollo pressochè contemporaneo di quasi tutti i regimi del socialismo reale, che di quella visione utopistica erano le realizzazioni.

Ma la credenza di poter modificare le “regolarità”, che si rivela particolarmente chiara nel caso, come il comunismo, di utopie realizzate – e confinate sollecitamente nell’archivio della storia – non è esclusiva di quelle, essendo presente sia pure in misura più limitata in altre concezioni ideologiche, da certi tipi di pacifismo a frange liberali (non al liberalismo, che mantiene un’impostazione realistica, com’è evidente dalla concezione “problematica” dell’uomo, derivata sia dalla teologia cristiana che dal pensiero politico).

A questa immutabilità delle “costanti” si contrappone- e la integra – la mutevolezza delle forme politiche, rimesse al potere-e quindi alla libertà- delle comunità umane: tale concezione fonda la libertà politica nel senso primario della libera “conformazione” dell’ordinamento sociale e politico: in ciò è la specificazione, all’interno della comunità della definizione di S. Tommaso “Liber est qui sui causa est”: non esser limitati se non dalla legge divina (e naturale), della quale nessuno è dispensato[44]. Di tal guisa questa concezione riconosce alle comunità umane tutta la libertà possibile, senza alcun vincolo giuridico se non auto-impostosi dalle stesse.

Inoltre ritornando sul carattere della dinamicità, è il caso di ricordare che Hauriou, come altri grandi giuristi, non ricollega il concetto di ordine sociale alla “conformità” tra norme e comportamenti, cioè a qualcosa di statico, ma a tutt’altro ovvero al movimento “lento e uniforme” della comunità umana. Su questo concetto ritorna più volte specificando che è il movimento “d’un insieme ordinato, è il risultato di una organizzazione e risulta da ciò che l’ordine è essenzialmente organizzazione”; e per chiarire il concetto ricorre a un paragone biologico. Come gli organismi viventi conservano la forma (che cambia, ma lentamente), pur soggetti a un ricambio di cellule e tessuti estremamente rapido, così i gruppi sociali si comportano come organismi viventi, a condizione d’essere organizzati, e durano secoli conservando una forma simile, pur essendo del tutto mutate le “cellule”, cioè gli uomini[45]. E per tali ragioni, cioè (anche) per la capacità di adattarsi alla vita politica e sociale, giudicava che la dottrina del diritto divino provvidenziale, ponendo l’origine del potere al di sopra della collettività sociale e di chiunque altro, non conduce ad alcun assolutismo, ed è quindi la più propizia alla libertà. Non solo alle individuali, ma anche a quella della comunità di darsi la forma che preferisce.

  1. Avevamo iniziato col chiederci il perché nella dottrina francese a cavallo tra XIX e XX secolo sono considerate attentamente le dottrine del diritto divino, e in particolare quella “provvidenziale”. Nei limiti del presente scritto ne abbiamo individuata qualche ragione, per lo più tra quelle già indicate dallo stesso Hauriou, relative all’essenza dell’ordinamento e del rapporto) sociale e politico.

C’è anche un’altra ragione, implicita nel pensiero del doyen: è che Hauriou era un convinto sostenitore della civiltà (e del pensiero) occidentale, cui dedica alcune delle pagine più interessanti, anche per chi le legge oggigiorno. La civiltà occidentale – scrive – per la sua forza, la sua attività e per le sue idee, domina il mondo, ma non lo ha completamente assimilato. Nello stesso tempo sta subendo una delle sue crisi interne[46]; molti dubitano del valore dei suoi caposaldi. Anche se la civiltà sedentaria probabilmente sopravvivrà in forme parzialmente diverse, i popoli europei rischiano di sparire in una tormenta, dopo molte sofferenze. In questo frangente non è il nemico esterno, ma quello interno il più pericoloso[47]; perciò – continua Hauriou – non si deve dubitare della civiltà occidentale, poiché quanto da essa realizzato “en fait d’oeuvres de beauté et de vérité intellectuelle, est devenu classique, c’est-à-dire a réalisé l’idéal humain[48]. Lo stesso comunismo, allora da poco realizzato in Russia, gli appare incompatibile con la società sedentaria ed individualista, e, piuttosto che una fase “estrema” della modernità, gli pare un ritorno alle forme giuridiche tipiche delle società nomadi[49]. Di questa civiltà occidentale fanno parte tanto la libertà che la proprietà; il diritto romano e la teologia cristiana; la scienza come l’arte. La dottrina del diritto divino provvidenziale esprime alcune delle idee base su cui si può modellare l’organizzazione sociale dell’ “ordre individualiste”.

Contrariamente all’attenzione che la dottrina francese rivolge alla concezione in esame è raro leggere analoghe considerazioni altrove, soprattutto in Italia. Ad esempio a consultare la voce “Democrazia” del classico “Dizionario di politica” si può leggere di tutto, da Erodoto a Rousseau, dalle democrazie degli antichi a quelle socialiste (ed oltre): manca tuttavia qualsiasi cenno a questa, che probabilmente ha influenzato la forma dello Stato contemporaneo non meno delle altre[50] e le cui tracce sono (largamente) presenti nella nostra Carta Costituzionale; e, il che è parimenti rilevante, le conseguenze di questa sono, oggi più che ieri, e malgrado tutti gli sforzi contrari, common sense.

[1] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929 p. 29 ss. ; J. Barthélemy e Paul Duez Traité de droit constitutionnel Paris 1929 p. 67 ss. ; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie generale de l’État Paris 1929, Tome 2° p. 149 ss.., v. Anche (meno diffusamente) A. Esmein Eléments de droit constitutionnel français et comparé. Paris 1914 p. 281 e 283 ; L. Duguit L’État, le droit objectif et la loi positive, Paris 1901

[2] Ovviamente sintetizziamo, perché in effetti deriva da S. Tommaso, come Barthélemy , Duez  (e Carrè de Malberg ricordano).

[3] « La doctrine du droit divin providentiel ne répugne donc pas nécessairement à la démocratie par la volonté de Dieu, donc divine », Op. cit. p. 68

[4] Barthélemy-Duez op. cit. « Si enfin Saint Paul a dit : « Omnis potestas a Deo », les théologiens ont indiqué le sens de cette parole en ajoutant : « per popolum ». Le pouvoir, qui est de droit divin, appartient au peuple : c’est la thèse de Sain Thomas, de Bellarmin, de Suarez; Carré de Malberg scrive : La parole de saint Paul «omnis potestas a Deo » ne signifie que les Gouvernements ou leurs chefs soient directement créés désignés par Dieu (doctrine du droit divin surnaturel) ; elle ne signifie pas davantage qu’ils soient indirectement  par la façon dont la Providence divine dirige le coirs des éveneméts (droit divin providentiel). Mais, le principe de l’origine divine du pouvoir doit  etre entendu seulement en ce sens, précisé par saint Thomas d’Aquin (Somme théologique, 2° partie,I, question 96, art. 4), que Dieu, ayant créé l’homme sociable, a aussi voulu le pouvoir social, attendu qu’il n’est pas de société qui puisse subsister sans une autorité supérieure douée de la puissance de commander  à chacun en vue du bien de tous. Ainsi, le pouvoir, envisagé en soi, procéde de Dieu ;  il est, en son essence, d’origine divine, en ce que sa nécessité découle des lois memes qui conditionnent l’ordre social, lois dont Dieu est l’auter ;  mais il n’e demeure  pas moins certain que, dans les domaine des réalités positives, le pouvoir ne peut etre organise que par des moyens humains. En d’autres termes, c’est aux hommes qu’il appartit de régler ses formes et ses conditions d’exercice, comme aussi de déterminer ses titulaires ». Op. cit. p. 151

[5] “Questa esigenza si afferma per la prima volta in conseguenza delle dottrine politiche, che si vennero maturando nelle lotte della Riforma. Già altrove fu spiegato come la dottrina calvinistica, che della comunità fa il titolare del reggimento della Chiesa, si sia sviluppata nella Scozia, nell’Olanda ed in Inghilterra in una teoria, la quale rappresenta anche l’ordinamento laico come un prodotto della volontà comune ed eleva la pretesa che al popolo, unificato nello Stato mediante un contratto, debba competere durevolmente il potere supremo nello Stato e che da esso debba anche essere esercitato” G. Jellinek La dottrina generale del diritto dello Stato, trad. it. di M. Petrozziello, Milano 1949, p. 254

[6] v. Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien (i corsivi sono nostri) , trad. it. Torino 1974 pp. 69-71; e così prosegue “ Questa dottrina si presenta nella sua completezza soprattutto presso il geniale e profondo Suarez: Questi fa derivare direttamente e necessariamente il potere sovrano dal “corpo politico e mistico” che gli uomini singoli costituiscono per un atto di unione assolutamente libero, sebbene corrispondente alla ragione naturale e quindi alla volontà divina. Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri : essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di “primus auctor”, la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa “ex vi rationis naturalis”, e Dio lo concede come “ proprietas consequens naturam” , “ medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse hunano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenienter gubernationem necessariam”.

[7]  Verfassungslehore, trad. it. di A. Caracciolo,   Milano 1984 p. 112

[8]  Si tenga presente che appare evidente l’ influsso del pensiero teologico su Hobbes, ed ancora più su Spinoza e sui  giusnaturalisti  “giuristi”  come Grozio e Vattel

[9] Qu’est-ce-que le Tièrs état, trad. it. in Opere, tomo I°, Milano 1993, p. 255.

[10] V. F. Suarez De charitate  Disp. 13 De bello sectio VIII° ; v. Anche Juan De Mariana De rege et regis institutione, trad. it., Napoli 1996, Lib. I, cap. VI°, p. 54. S. Tommaso d’Aquino, De regimine principum, Lib. I°, cap. VI°; v. anche F. Suarez Defensio fidei catholicae et apostolicae…, Lib. III, 3 (sulla attribuzione solo alla comunità perfetta del supremo potere civile).

[11]“ Quello che è stato detto è sufficiente a dimostrare che l’uomo ha bisogno delle forze e dell’aiuto altrui, dal momento che da solo non è capace di procurarsi tutti gli aiuti per vivere, nemmeno la più piccola parte di quelli. Si aggiunga a tutto questo la debolezza del suo corpo per respingere le forze esterne ed evitare gli attentati alla sua persona: La vita degli uomini, infatti, non era sicura dalle numerose bestie feroci, quando ancora la terra non era stata coltivata e le erbacce estirpate e distrutte.” v. Juan de Mariana op. cit. p. 18, S. Tommaso op. cit. Cap. I°, “Naturale autem est homini ut sit animal sociale et politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat. Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum defensionem, ut dentes, cornua, unguens, vel saltem velocitament ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a  natura praeparato, sed loco omnium data est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non sufficit. Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset”; v. anche il Compendio di dottrina sociale della Chiesa dove la tesi è ribadita “ La Chiesa si è confrontata con diverse concezioni dell’autorità, avendo sempre cura di difenderne e di proporne un modello fondato sulla natura sociale delle persone:”Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura” e poiché non vi può essere “società che si sostenga, se non c’è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che la regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio”” L’autorità politica  è pertanto necessaria a motivo dei compiti che le sono attribuiti e deve essere una componente positiva ed insostituibile della convivenza civile”” (prgf. 393) (Roma, 2004)

[12] E gli stessi uomini, confidando ciascuno sommamente nelle proprie forze, alla stregua di una bestia feroce e solitaria, che alcuni atterrisce ed altri teme, si appropriarono, senza che nessuno potesse proibirlo, dei beni e della vita dei più deboli, specialmente quando, formata una certa società con altri, le mani di molti irrompevano nei campi, tra le greggi e le case, saccheggiando e rubando ogni cosa, con pericolo anche della vita di chi tentasse resistere loro: Aspetto miserabile della vicenda! Ovunque ladrocini, scorrerie e stragi si esercitavano impunemente senza lasciare alcun riparo all’innocenza ed alla debolezza altrui. Così, poiché la vita di ognuno era esposta ai mali esterni, e neppure i consanguinei tra loro e i congiunti si astenevano da mutue violenze, quanti erano oppressi dai più forti, cominciarono a stringersi con altri in un mutuo accordo di società e a rivolgersi ad uno solo che primeggiasse in giustizia e lealtà, con l’aiuto del quale fossero impediti i soprusi interni ed esterni; dovendo instaurare la giustizia, tutti, dai superiori agli inferiori, furono sottomessi ad una stessa legge. Da qui sorsero per la prima volta l’aggregazione urbana e la regia potestà, che a quel tempo non si ottenevano con ricchezze e intrighi, ma con moderazione, onore e provata virtù ” vJuan de Mariana op. loc. cit.

[13] Reconnaissance et exposition raisonée…..in  Sieyés Opere  cit. p 383 ss.

[14] Così Rousseau vi descrive l’origine della società civile “Questa fu e dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuova forza al ricco, distrussero irrimediabilmente la libertà naturale, stabilirono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, di un’abile usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e per il profitto di alcuni ambiziosi assoggettarono per sempre il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” in R. Parenti “Il pensiero liberale e democratico nei secoli XVII e XVIII°”, Napoli 1973 p. 117.

[15] V. ad es. Esortazione della pace… in Oevreus tomo IV Ginevra p. 157 v. anche “I soldati possono essere in stato di graziaop. cit. p. 243

[16] v. “Pertanto, noi dobbiamo considerare se essere cristiano ed essere magistrato, oppure sovrano di uno Stato,siano cose incompatibili al punto che per essere l’uno, un uomo sia costretto a rinunciare ad essere l’altro. Pongo una prima domanda: se esercitare l’ufficio di magistrato oppure di sovrano di uno Stato è una condizione che contrasta con la vocazione dei credenti, come mai se ne sono valsi i giudici dell’Antico testamento, e così pure i re giusti – come Davide, Ezechia, Iosia – e anche alcuni profeti come Daniele?” Calvino Opere scelte, tomo II, Torino 2006

[17] op. cit. p. 205

[18]Mais si ceux qui, par la volonté de Dieu, vivent sous des princes, et sont leurs sujets naturels, transférent cela a eux, pour etre tentés de faire quelque révolte ou changement, ce sera non seulement une folle et inutile spéculation, mais aussi méchante et pernicieuseL’institution chrétienne, tomoIV Lib.  IV   Cap. XX

[19] “ Car si c’est  son plasir de constituer des rois sur les royaumes, et sur les peuples libres d’autres supérieures quelconques, c’eest à nous de nous rendre sujets et obèissant aux supèrieurs quels qu’ils soient qui domineront au lieu où nous vivrons »  op. ult. cit.

[20]  Politique de Bossuet (Raccolta di brani di Bossuet) Paris, p. 80 – 81

[21] “N’importe, vous etes des dieux, encore que vous mouriez, et votre autorité ne meurt pas; cet esprit de royauté passe tout entier à vos  successeur, et imprime partout la meme crainte, le meme respect, la meme vénération; L’homme meurt, il est vrai; mais le Roi, disons-nous, ne meurt jamais: l’image de Dieu est immortelle” op. cit. P.82

[22] Op. cit. p. 91

[23] Op. cit. p. 111

[24] Op. cit. p. 84

[25] Com’è palese dalla frase (v. sopra). “La nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa”.

[26] v. De Civitate Dei, lib. XIX, cap. XII-XVIII

[27] Op. cit., lib. XIX, cap. XVIII

[28] in Scritti politici, Bologna, 1950, p. 231

[29] E’ bene precisare che anche secondo la concezione del diritto divino soprannaturale, il governante, essendo uomo, è peccatore e comunque soggetto ad errore. La differenza (essenziale) consiste nel quis judicabit?. Infatti secondo la prima è solo Dio che può giudicare il sovrano (v. sopra, in particolare Lutero, che ritiene usurpazione del potere divino da parte dell’uomo giudicare – e ribellarsi – al sovrano); mentre per i teologi – giuristi ricordati il re può essere giudicato – e detronizzato – dalla comunità. Analoghe considerazioni si trovano nelle pagine di Thomas Müntzer “i prìncipi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada (Deuteroniomio 17:18-20), ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio (Numeri 15:35). E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” (Salmo 79:10). V. Scritti politici, Torino 1972, pp. 192-193.

[30] Federalist papers n. 10, trad. It, p. 96; è noto che la tematica del potenziale conflitto d’interessi tra governati e governanti attraverso tutto il pensiero politico e giurispubblicistico, a partire dalla filosofia greca e medievale fino ai giorni nostri, con gli elitisti e la scuola di “public choice”. Per più dettagliati riferimenti ci sia consentito rimandare al nostro scritto “Interesse generale ed espropriazione”  Consiglio di Stato, p. II aprile 1982.

[31] Carré de Malberg op. cit. Tome II p. 167

[32]  Op. cit. p. 29

[33] Op. cit p. 31 In effetti una legge del genere sarebbe oltreché inutile, anche un frutto d’umorismo involontario

[34]  Op. cit. p. 33

[35] V. G. Troisi Spagnoli Vita di Sieyès in Opere, cit. p. 31 (e seguenti)

[36] op. cit. p. 8

[37]Mais notre auteur n’est pas seulement kantiste, il est aussi, il le déclare lui-meme, panthéiste idéaliste et par conséquent moniste. Son monisme va se traduire immédiatement par un second postulat, à savoir que, dans le plan statique, l’Etat et le Droit se confondent.”, op. Cit.  p. 9; e poco dopo “Dans ce système exclusivement idéaliste, les êtres réels disparaissent, n’étant tous représentés que par des ordonnancements de règles.”

[38]N’oublions pas que, pour lui, le plan dynamique reste dominé par le plan statique et que, par suite, les sources du droit positif resteront dominées et limitées par le droit transcendant.” Op. cit. p. 10

[39]Le primat de la liberté est remplacé par celui de l’ordre et de l’autorité. La maxime fondamentale n’est plus: “Tout ce qui n’est pas défendu est permis jusqu’à la limite”, elle est: “Tout ce qui n’est pas conforme à la constitution hypothétique est sans valeur juridique.”, op. cit. p. 11

[40] Almeno a voler considerare gli eventi del 1944 e 1946, e particolarmente il referendum del 2 giugno 1946 come inidoneo e/o illegittimo.

[41] V. Presentazione a «Le categorie del politico” p. 13, Bologna 1972.

[42] Intendiamo come tali quelle che si possono ricondurre all’assunto di poter modificare la natura (umana) come il marxismo o (talune eresie chialiastiche); v. sul punto Behemoth n. 40 (recensione a Gnerre) p. 68.

[43] E’ il caso di ricordare il periodo nei Manoscritti economico filosofici del 1844, di cui quella frase è la conclusione “il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione”.

[44] Sulle varie accezioni del diritto naturale e sulle forme di giusnaturalismo (per volontà divina, quale legge naturale e quale dottrina della ragione) v. G. Fassò “Giusnaturalismo” in Dizionario di politica, cit. vol. II, p. 94.

[45]On verra dès lors, des organismes sociaux traverser des siècles, alors que leur matière humaine et une grande partie des situations sociales qu’ils contiennent auront été renouvelées, parce qu’ils ont un gouvernement et parce que leurs équilibres essentiels ayant été maintenus, les formes auront survécu”, op. cit. p. 71

[46]Au XIX siècle, l’esprit critique l’avaint emporté sur l’esprit de foi créatrice. Il en est résulté que beaucoup d’Occidentaux se sont pris eux-memes à douter de la valeur de leurs directives. Cette défalillance passagère serait sans importance, si elle ne coincidait pas avec l’esprit de résistance qui se marque chez les populations moins évoluées qui nous entourent. », op. cit. P.55.

[47] Op. cit. p. 56

[48] Op. loc. cit.

[49] « Il est possible que des sociétés nomades, avec leur faible population et leurs habitudes de subsistance à base de produits spontanés, aient vécu sous des régimes communistes; il n’y avait point d’obstacle majeur, puisqu’il n’y avait pas à assurer la production”. Op. cit. p. 43. v.

[50] Fanno eccezione i cenni nella voce “Assolutismo” di  R. De Mattei in Edd, vol. III pp. 917-923, e nella voce “Democrazia” di G. Fassò in Noviss. Digesto it. vol. V p. 442 ss.

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Ucraina, il conflitto 29a puntata. Guerra e terrorismo_ con Stefano Orsi e Max Bonelli

Il regime di Kiev, per la verità i suoi mentori, si sta rivelando un vero maestro nella narrazione mediatica e nella coltivazione degli strumenti, anche i più ibridi, di guerra. Gli episodi di arbitrio verso i prigionieri, l’utilizzo di armi proibite, l’indifferenza e l’utilizzo della popolazione civile come strumento di guerra fanno ormai parte dell’armamentario utilizzato. Questa volta, però, la soglia dell’esplicito attacco terroristico è stata oltrepassata ampiamente con l’incursione in due villaggi russi al confine e la deliberata uccisione di civili. Elementi idonei a trascinare la giunta e i comandi ucraino verso quel tribunale di guerra che gli occidentali vorrebbero costruire su misura su Putin. Il regime di Kiev è ormai alle strette e solo l’incapacità e l’impossibilità statunitense di poter uscire dal vicolo cieco in cui l’amministrazione di Biden si è cacciata, se non a rischio di un confronto diretto su larga scala, sta impedendo la mala sorte per personaggi tragicomici ed aguzzini senza scrupoli. La novità è che piuttosto che scompaginare l’area dissidente o indifferente all’esorcismo russofobo, l’oltranzismo atlantista sta polarizzando sempre più le dinamiche geopolitiche in schieramenti sempre più delineati. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Potere dell’innovazione Perché la tecnologia definirà il futuro della geopolitica Di Eric Schmidt

Tralascio le ovvie considerazioni riguardanti le autonome capacità operative del regime ucraino che consentono di sostenere il confronto militare con la Russia. E’ indubbio, comunque, che la competenza tecnologica sia stato uno degli ambiti fondamentali di addestramento dell’esercito ucraino sulla base del retroterra accumulato nel periodo sovietico. L’autore omette un aspetto importante delle modalità di svolgimento della competizione tecnologica: la capacità di determinare gli standard, di regolare il mercato e di intervenire politicamente su di esso. Il predominio tecnologico statunitense è zeppo di esempi di predazioni, sabotaggi, interventi costrittivi sui mercati ai danni indifferentemente di avversari ed alleati. Anche in questo ambito la competizione tra il bene e il male non ha fondamento reale. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Quando le forze russe marciarono su Kiev nel febbraio 2022, pochi pensavano che l’Ucraina potesse sopravvivere. La Russia aveva più del doppio dei soldati dell’Ucraina. Il suo bilancio militare era più di dieci volte superiore. La comunità di intelligence statunitense stimava che Kyiv sarebbe caduta nel giro di una o due settimane al massimo.
Messa alle strette con le armi e gli equipaggiamenti, l’Ucraina si rivolse a un settore in cui aveva un vantaggio sul nemico: la tecnologia. Poco dopo l’invasione, il governo ucraino ha caricato tutti i suoi dati critici sul cloud, in modo da poter salvaguardare le informazioni e continuare a funzionare anche se i missili russi avessero ridotto in macerie gli uffici ministeriali. Il Ministero per la Trasformazione Digitale del Paese, istituito dal Presidente ucraino Volodymyr Zelensky solo due anni prima, ha riutilizzato la sua applicazione mobile di e-government, Diia, per la raccolta di informazioni open-source, in modo che i cittadini potessero caricare foto e video delle unità militari nemiche. Con l’infrastruttura di comunicazione in pericolo, gli ucraini si sono rivolti ai satelliti Starlink e alle stazioni di terra fornite da SpaceX per rimanere in contatto. Quando la Russia ha inviato droni di fabbricazione iraniana oltre il confine, l’Ucraina ha acquistato i propri droni appositamente progettati per intercettare i loro attacchi, mentre i suoi militari hanno imparato a usare armi sconosciute fornite dagli alleati occidentali. Nel gioco del gatto e del topo dell’innovazione, l’Ucraina si è semplicemente dimostrata più agile. E così quella che la Russia aveva immaginato come un’invasione facile e veloce si è rivelata tutt’altro.
Il successo dell’Ucraina può essere attribuito in parte alla determinazione del popolo ucraino, alla debolezza dell’esercito russo e alla forza del sostegno occidentale. Ma è anche merito di una nuova forza determinante della politica internazionale: il potere dell’innovazione. Il potere di innovazione è la capacità di inventare, adottare e adattare nuove tecnologie. Contribuisce sia al potere duro che a quello morbido. I sistemi d’arma ad alta tecnologia aumentano la potenza militare, le nuove piattaforme e gli standard che le regolano forniscono una leva economica e la ricerca e le tecnologie all’avanguardia aumentano il fascino globale. Esiste una lunga tradizione di Stati che sfruttano l’innovazione per proiettare potere all’estero, ma ciò che è cambiato è la natura auto-perpetuante dei progressi scientifici. Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, in particolare, non solo aprono nuove aree di scoperta scientifica, ma accelerano anche questo stesso processo. L’intelligenza artificiale potenzia la capacità di scienziati e ingegneri di scoprire tecnologie sempre più potenti, favorendo i progressi dell’intelligenza artificiale stessa e di altri campi, e rimodellando così il mondo.

La capacità di innovare più velocemente e meglio – la base su cui poggia oggi il potere militare, economico e culturale – determinerà l’esito della competizione tra grandi potenze tra Stati Uniti e Cina. Per ora, gli Stati Uniti restano in testa. Ma la Cina sta recuperando terreno in molti settori e ha già fatto passi da gigante in altri. Per uscire vittoriosi da questa competizione che segna un secolo, non basterà fare le solite cose. Il governo degli Stati Uniti dovrà invece superare i suoi impulsi burocratici ottusi, creare condizioni favorevoli all’innovazione e investire negli strumenti e nei talenti necessari a innescare il circolo virtuoso del progresso tecnologico. Deve impegnarsi a promuovere l’innovazione al servizio del Paese e della democrazia. In gioco c’è niente di meno che il futuro delle società libere, dei mercati aperti, dei governi democratici e del più ampio ordine mondiale.

LA CONOSCENZA È POTERE
Il nesso tra innovazione tecnologica e dominio globale risale a secoli fa, dai moschetti che il conquistador Francisco Pizarro brandì per sconfiggere l’Impero Inca alle navi a vapore che il commodoro Matthew Perry comandò per forzare l’apertura del Giappone. Ma la velocità con cui l’innovazione sta avvenendo non ha precedenti. Questo cambiamento è più evidente che in una delle tecnologie fondamentali del nostro tempo: l’intelligenza artificiale.

I sistemi di intelligenza artificiale di oggi possono già fornire vantaggi chiave in ambito militare, dove sono in grado di analizzare milioni di input, identificare modelli e avvisare i comandanti dell’attività nemica. L’esercito ucraino, ad esempio, ha utilizzato l’intelligenza artificiale per analizzare in modo efficiente i dati di intelligence, sorveglianza e ricognizione provenienti da diverse fonti. Sempre più spesso, tuttavia, i sistemi di IA non si limiteranno ad assistere il processo decisionale umano, ma inizieranno a prendere decisioni in prima persona. John Boyd, stratega militare e colonnello dell’aeronautica statunitense, ha coniato il termine “OODA loop” (osservare, orientare, decidere, agire) per descrivere il processo decisionale in combattimento. L’intelligenza artificiale sarà in grado di eseguire ogni parte del ciclo OODA molto più velocemente. Il conflitto può avvenire alla velocità dei computer, non a quella delle persone. Di conseguenza, i sistemi di comando e controllo che si affidano a decisori umani – o, peggio, a complesse gerarchie militari – perderanno terreno rispetto a sistemi più veloci ed efficienti che affiancano le macchine agli uomini.

Nelle epoche precedenti, le tecnologie che hanno plasmato la geopolitica – dal bronzo all’acciaio, dall’energia a vapore alla fissione nucleare – erano in gran parte singolari. Esisteva una chiara soglia di padronanza tecnologica e, una volta raggiunta, il campo di gioco era livellato. L’intelligenza artificiale, al contrario, è di natura generativa. Presentando una piattaforma per la continua innovazione scientifica e tecnologica, può portare a un’ulteriore innovazione. Questo fenomeno rende l’era dell’intelligenza artificiale fondamentalmente diversa dall’età del bronzo o dell’acciaio. Piuttosto che la ricchezza di risorse naturali o la padronanza di una determinata tecnologia, la fonte del potere di un Paese risiede ora nella sua capacità di innovare continuamente.

Questo circolo virtuoso sarà sempre più veloce. Una volta che l’informatica quantistica sarà diventata maggiorenne, i computer superveloci permetteranno di elaborare quantità sempre maggiori di dati, producendo sistemi di intelligenza artificiale sempre più intelligenti. Questi sistemi di intelligenza artificiale, a loro volta, saranno in grado di produrre innovazioni rivoluzionarie in altri campi emergenti, dalla biologia sintetica alla produzione di semiconduttori. L’intelligenza artificiale cambierà la natura stessa della ricerca scientifica. Invece di fare progressi uno studio alla volta, gli scienziati scopriranno le risposte a domande antiche analizzando serie di dati enormi, liberando le menti più intelligenti del mondo per dedicare più tempo allo sviluppo di nuove idee. In quanto tecnologia di base, l’IA sarà fondamentale nella corsa al potere dell’innovazione, essendo alla base di innumerevoli sviluppi futuri nella scoperta di farmaci, nella terapia genetica, nella scienza dei materiali, nell’energia pulita e nell’IA stessa. Gli aerei più veloci non hanno aiutato a costruire aerei più veloci, ma i computer più veloci aiuteranno a costruire computer più veloci.

Ancora più potente dell’intelligenza artificiale di oggi è una tecnologia più completa – per ora, data l’attuale potenza di calcolo, ancora ipotetica – chiamata “intelligenza artificiale generale” o AGI. Mentre l’intelligenza artificiale tradizionale è progettata per risolvere un problema specifico, l’intelligenza artificiale generale dovrebbe essere in grado di eseguire qualsiasi compito mentale che un essere umano può svolgere e anche di più. Immaginate un sistema di intelligenza artificiale in grado di rispondere a domande apparentemente intrattabili, come il modo migliore per insegnare l’inglese a un milione di bambini o per curare un caso di Alzheimer. L’avvento dell’Intelligenza Artificiale è ancora lontano anni, forse addirittura decenni, ma il Paese che svilupperà per primo questa tecnologia avrà un enorme vantaggio, in quanto potrebbe utilizzare l’Intelligenza Artificiale per sviluppare versioni sempre più avanzate dell’Intelligenza Artificiale, guadagnando così un vantaggio in tutti gli altri settori della scienza e della tecnologia. Una svolta in questo campo potrebbe inaugurare un’era di predominio non dissimile dal breve periodo di superiorità nucleare di cui godettero gli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta.

Mentre molti degli effetti più trasformativi dell’intelligenza artificiale sono ancora lontani, l’innovazione nei droni sta già sconvolgendo il campo di battaglia. Nel 2020, l’Azerbaigian ha utilizzato droni di fabbricazione turca e israeliana per ottenere un vantaggio decisivo nella sua guerra contro l’Armenia nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, ottenendo vittorie sul campo di battaglia dopo oltre due decenni di stallo militare. Allo stesso modo, la flotta di droni dell’Ucraina – molti dei quali sono modelli commerciali a basso costo riutilizzati per la ricognizione dietro le linee nemiche – ha giocato un ruolo fondamentale nei suoi successi.

I droni offrono vantaggi distinti rispetto alle armi tradizionali: sono più piccoli e più economici, offrono capacità di sorveglianza senza pari e riducono l’esposizione al rischio dei soldati. I marines in guerra urbana, ad esempio, potrebbero essere accompagnati da microdroni che fungono da occhi e orecchie. Col tempo, i Paesi miglioreranno l’hardware e il software dei droni per superare i loro rivali. Alla fine, i droni autonomi armati – non solo i veicoli aerei senza equipaggio, ma anche quelli a terra – sostituiranno del tutto i soldati e l’artiglieria con equipaggio. Immaginate un sottomarino autonomo in grado di spostare rapidamente i rifornimenti in acque contese o un camion autonomo in grado di trovare il percorso ottimale per trasportare piccoli lanciamissili su terreni accidentati. Sciami di droni, collegati in rete e coordinati dall’intelligenza artificiale, potrebbero sopraffare le formazioni di carri armati e fanteria sul campo. Nel Mar Nero, l’Ucraina ha usato i droni per attaccare le navi e i rifornimenti russi, aiutando un Paese con una marina minuscola a contrastare la potente flotta russa del Mar Nero. L’Ucraina offre un’anteprima dei conflitti futuri: guerre che saranno combattute e vinte da uomini e macchine che lavorano insieme.

Come dimostrano gli sviluppi dei droni, il potere dell’innovazione è alla base del potere militare. Innanzitutto, il dominio tecnologico in settori cruciali rafforza la capacità di un Paese di fare la guerra e quindi la sua capacità di deterrenza. Ma l’innovazione plasma anche il potere economico, dando agli Stati un’influenza sulle catene di approvvigionamento e la capacità di stabilire le regole per gli altri. I Paesi che dipendono dalle risorse naturali o dal commercio, soprattutto quelli che devono importare beni rari o fondamentali, devono affrontare vulnerabilità che altri non hanno.

Si pensi al potere che la Cina può esercitare sui Paesi a cui fornisce hardware per le comunicazioni. Non sorprende che i Paesi che dipendono dalle infrastrutture fornite dalla Cina – come molti Paesi africani, dove i componenti prodotti da Huawei costituiscono circa il 70% delle reti 4G – siano stati restii a criticare le violazioni cinesi dei diritti umani. Il primato di Taiwan nella produzione di semiconduttori, inoltre, costituisce un potente deterrente contro l’invasione, dal momento che la Cina ha poco interesse a distruggere la sua principale fonte di microchip. L’influenza è anche per i Paesi pionieri delle nuove tecnologie. Gli Stati Uniti, grazie al loro ruolo nella fondazione di Internet, hanno goduto per decenni di un posto a sedere al tavolo della definizione dei regolamenti di Internet. Durante la Primavera araba, ad esempio, il fatto che gli Stati Uniti fossero sede di aziende tecnologiche che fornivano la spina dorsale di Internet ha permesso a tali aziende di rifiutare le richieste di censura dei governi arabi.

Meno ovvio ma altrettanto cruciale, l’innovazione tecnologica rafforza il soft power di un Paese. Hollywood e aziende tecnologiche come Netflix e YouTube hanno creato una serie di contenuti per una base di consumatori sempre più globale, contribuendo nel contempo a diffondere i valori americani. Questi servizi di streaming proiettano lo stile di vita americano nei salotti di tutto il mondo. Allo stesso modo, il prestigio associato alle università statunitensi e le opportunità di creazione di ricchezza create dalle aziende americane attraggono gli aspiranti da tutto il mondo. In breve, la capacità di un Paese di proiettare potere nella sfera internazionale – militarmente, economicamente e culturalmente – dipende dalla sua capacità di innovare più velocemente e meglio dei suoi concorrenti.

CORSA AL VERTICE
Il motivo principale per cui oggi l’innovazione offre un vantaggio così massiccio è che genera altra innovazione. In parte, ciò avviene grazie alla dipendenza dal percorso che deriva dai gruppi di scienziati che attraggono, insegnano e formano altri grandi scienziati nelle università di ricerca e nelle grandi aziende tecnologiche. Ma lo fa anche perché l’innovazione si costruisce da sola. L’innovazione si basa su un ciclo di invenzione, adozione e adattamento, un ciclo di feedback che alimenta ancora più innovazione. Se un anello della catena si rompe, si rompe anche la capacità di un Paese di innovare in modo efficace.

Un vantaggio nell’invenzione si basa in genere su anni di ricerca precedente. Si pensi al modo in cui gli Stati Uniti hanno guidato il mondo nell’era delle telecomunicazioni 4G. L’introduzione delle reti 4G in tutto il Paese ha facilitato lo sviluppo di applicazioni mobili come Uber, che richiedevano connessioni dati cellulari più veloci. Grazie a questo vantaggio, Uber ha potuto perfezionare il suo prodotto negli Stati Uniti per poterlo diffondere nei Paesi in via di sviluppo. Questo ha portato ad avere molti più clienti e molti più feedback da incorporare, mentre l’azienda adattava il suo prodotto a nuovi mercati e a nuove versioni.

Ma il fossato attorno ai Paesi che godono di vantaggi strutturali nella tecnologia si sta riducendo. Grazie anche alla ricerca accademica più accessibile e all’ascesa del software open-source, le tecnologie si diffondono più rapidamente in tutto il mondo. La disponibilità di nuovi progressi ha aiutato i concorrenti a recuperare a velocità record, come ha fatto la Cina con il 4G. Sebbene alcuni dei recenti successi tecnologici della Cina derivino dallo spionaggio economico e dal mancato rispetto dei brevetti, gran parte di essi sono dovuti a sforzi innovativi, piuttosto che derivativi, per adattare e implementare le nuove tecnologie.

In effetti, le aziende cinesi hanno avuto un successo clamoroso nell’adottare e commercializzare le scoperte tecnologiche straniere. Nel 2015, il Partito Comunista Cinese ha definito la sua strategia “Made in China 2025” per raggiungere l’autosufficienza in settori ad alta tecnologia come le telecomunicazioni e l’IA. Nell’ambito di questa strategia, ha annunciato un piano economico di “doppia circolazione”, con il quale la Cina intende incrementare la domanda interna ed estera dei suoi prodotti. Attraverso partenariati pubblico-privato, sovvenzioni dirette alle aziende private e sostegno alle aziende statali, Pechino ha versato miliardi di dollari per assicurarsi di essere in vantaggio nella corsa alla supremazia tecnologica. Finora i risultati sono contrastanti. La Cina è in vantaggio rispetto agli Stati Uniti in alcune tecnologie, ma è in ritardo in altre.

È difficile dire se la Cina prenderà il comando nel campo dell’IA, ma gli alti funzionari di Pechino pensano che lo farà. Nel 2017, Pechino ha annunciato l’intenzione di diventare il leader mondiale dell’intelligenza artificiale entro il 2030 e potrebbe raggiungere questo obiettivo anche prima del previsto. La Cina ha già raggiunto il suo obiettivo di diventare leader mondiale nella tecnologia di sorveglianza basata sull’IA, che non solo utilizza per controllare i dissidenti in patria, ma vende anche ai governi autoritari all’estero. La Cina è ancora indietro rispetto agli Stati Uniti nell’attrarre le migliori menti nel campo dell’IA, con quasi il 60% dei ricercatori di alto livello che lavorano nelle università statunitensi. Ma le leggi sulla privacy poco rigorose, la raccolta obbligatoria di dati e i finanziamenti governativi mirati danno al Paese un vantaggio fondamentale. Infatti, è già leader nella produzione di veicoli autonomi.

Per ora, gli Stati Uniti sono ancora in vantaggio nel calcolo quantistico. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, la Cina ha investito almeno 10 miliardi di dollari nella tecnologia quantistica, circa dieci volte di più del governo statunitense. La Cina sta lavorando per costruire computer quantistici così potenti da poter facilmente decifrare la crittografia odierna. Il Paese sta anche investendo molto nelle reti quantistiche – un modo di trasmettere informazioni sotto forma di bit quantistici – presumibilmente nella speranza che tali reti siano impermeabili al monitoraggio di altre agenzie di intelligence. Ancora più allarmante è il fatto che il governo cinese potrebbe già archiviare le comunicazioni rubate e intercettate con l’obiettivo di decriptarle una volta in possesso della potenza di calcolo necessaria per farlo, una strategia nota come “archivia ora, decripta dopo”. Quando i computer quantistici diventeranno sufficientemente veloci, tutte le comunicazioni criptate con metodi non quantistici saranno a rischio di intercettazione, il che aumenta la posta in gioco per raggiungere per primi questa svolta.

La Cina sta anche cercando di recuperare il ritardo accumulato dagli Stati Uniti nel campo della biologia sintetica. Gli scienziati in questo campo stanno lavorando su una serie di nuovi sviluppi biologici, tra cui il cemento prodotto da microbi che assorbe l’anidride carbonica, le colture con una maggiore capacità di sequestrare il carbonio e i sostituti della carne a base vegetale. Queste tecnologie sono molto promettenti per combattere il cambiamento climatico e creare posti di lavoro, ma dal 2019 gli investimenti privati cinesi nella biologia sintetica hanno superato quelli statunitensi.

Anche per quanto riguarda i semiconduttori, la Cina ha piani ambiziosi. Il governo cinese sta finanziando sforzi senza precedenti per diventare leader nella produzione di semiconduttori entro il 2030. Attualmente le aziende cinesi creano i cosiddetti chip a “sette nanometri”, ma Pechino si è spinta oltre, annunciando l’intenzione di produrre internamente la nuova generazione di chip a “cinque nanometri”. Per ora, gli Stati Uniti continuano a superare la Cina nella progettazione di semiconduttori, così come Taiwan e la Corea del Sud. Nell’ottobre del 2022, l’amministrazione Biden ha compiuto l’importante passo di bloccare le vendite in Cina delle principali aziende statunitensi produttrici di chip per computer di intelligenza artificiale, nell’ambito di un pacchetto di restrizioni pubblicato dal Dipartimento del Commercio. Tuttavia, le aziende cinesi controllano l’85% della lavorazione dei minerali di terre rare che entrano in questi chip e in altri componenti elettronici critici, offrendo un importante punto di forza rispetto ai loro concorrenti.

UNA BATTAGLIA DI SISTEMI
La competizione tra Stati Uniti e Cina è una competizione tra sistemi, oltre che tra Stati. Nel modello cinese di fusione civile-militare, il governo promuove la competizione interna e finanzia i vincitori emergenti come “campioni nazionali”. Queste aziende svolgono un duplice ruolo, massimizzando il successo commerciale e promuovendo gli interessi della sicurezza nazionale cinese. Il modello americano, invece, si basa su un insieme più eterogeneo di attori privati. Il governo federale finanzia la scienza di base, ma lascia in gran parte l’innovazione e la commercializzazione al mercato.

Per molto tempo, la triplice collaborazione tra governo, industria e università è stata la fonte principale dell’innovazione americana. Questa collaborazione ha portato a molte scoperte tecnologiche, dallo sbarco sulla Luna a Internet. Ma con la fine della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti è diventato restio a stanziare fondi per la ricerca applicata e ha persino ridotto l’importo destinato alla ricerca fondamentale. Sebbene la spesa privata sia decollata, nell’ultimo mezzo secolo gli investimenti pubblici si sono stabilizzati. Nel 2015, la quota di finanziamenti pubblici per la ricerca di base è scesa sotto il 50% per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo essersi aggirata intorno al 70% negli anni Sessanta. Nel frattempo, la geometria dell’innovazione – il ruolo rispettivo degli attori pubblici e privati nel guidare il progresso tecnologico – è cambiata dai tempi della Guerra Fredda, in modi che non sempre hanno prodotto ciò di cui il Paese ha bisogno. L’ascesa del capitale di rischio ha contribuito ad accelerare l’adozione e la commercializzazione, ma ha fatto poco per affrontare problemi scientifici di ordine superiore.

Le ragioni della riluttanza di Washington a finanziare la scienza che è alla base del potere innovativo sono strutturali. L’innovazione richiede rischi e, a volte, fallimenti, cosa che i politici sono restii ad accettare. L’innovazione può richiedere investimenti a lungo termine, ma il governo degli Stati Uniti opera su un ciclo di bilancio di un solo anno e, al massimo, su un ciclo politico di due anni. Nonostante questi ostacoli, la Silicon Valley (insieme ad altre zone calde degli Stati Uniti) è riuscita a incoraggiare l’innovazione. La storia del successo americano si basa su un potente mix di ambizione stimolante, regimi legali e fiscali favorevoli alle startup e una cultura di apertura che consente a imprenditori e ricercatori di iterare e migliorare le nuove idee.

Il sistema di immigrazione degli Stati Uniti, ormai obsoleto, impedisce a troppe persone di talento di venire.
Tuttavia, questo potrebbe non essere sufficiente. Il sostegno del governo ha svolto a lungo un ruolo cruciale nell’avviare l’innovazione negli Stati Uniti, e la ricerca in tecnologie che oggi sembrano stravaganti potrebbe rivelarsi fondamentale in un futuro non troppo lontano. Nel 2013, ad esempio, la Defense Advanced Research Projects Agency ha investito in vaccini a RNA messaggero, collaborando con l’azienda biotecnologica Moderna, che in seguito avrebbe sviluppato e consegnato un vaccino COVID-19 in tempi record. Ma questi esempi sono più rari di quanto dovrebbero.

La competizione con la Cina richiede una rivitalizzazione dell’interazione tra governo, settore privato e università. Proprio come la Guerra Fredda portò alla creazione del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’odierna competizione tecnologica dovrebbe stimolare un ripensamento delle strutture politiche esistenti. Come ha raccomandato la Commissione per la Sicurezza Nazionale sull’Intelligenza Artificiale (da me presieduta), un nuovo “Consiglio per la competitività tecnologica”, ispirato all’NSC, potrebbe aiutare a coordinare l’azione degli attori privati e a sviluppare un piano nazionale per far progredire le tecnologie emergenti cruciali. Un segnale promettente: il Congresso sembra aver riconosciuto la necessità di un sostegno decisivo. Nel 2022, con un voto bipartisan, ha approvato il CHIPS and Science Act, che prevede un finanziamento di 200 miliardi di dollari per la R&S scientifica nei prossimi dieci anni.

INVESTIRE NEL FUTURO
Nell’ambito degli sforzi per rimanere una superpotenza dell’innovazione, gli Stati Uniti dovranno investire miliardi di dollari in settori chiave della competizione tecnologica. Per quanto riguarda i semiconduttori, forse la tecnologia più vitale oggi, il governo americano dovrebbe raddoppiare i suoi sforzi per le catene di approvvigionamento onshore e “friend shore”, trasferendole negli Stati Uniti o in Paesi amici. Per quanto riguarda le energie rinnovabili, il governo dovrebbe finanziare la ricerca e lo sviluppo nel campo della microelettronica, accumulare i minerali di terre rare (come il litio e il cobalto) necessari per le batterie e i veicoli elettrici e investire in nuove tecnologie in grado di sostituire le batterie agli ioni di litio e di compensare il dominio cinese sulle risorse. Nel frattempo, la diffusione del 5G negli Stati Uniti è stata lenta, in parte perché le agenzie governative, in particolare il Dipartimento della Difesa, controllano la maggior parte dello spettro radio ad alta frequenza utilizzato dal 5G. Per recuperare il ritardo rispetto alla Cina, il Pentagono dovrebbe aprire una parte maggiore dello spettro agli attori privati.

Gli Stati Uniti dovranno investire in tutte le fasi del ciclo dell’innovazione, finanziando non solo la ricerca di base ma anche la commercializzazione. Un’innovazione significativa richiede sia l’invenzione che l’implementazione, la capacità di eseguire e commercializzare le nuove invenzioni su scala. Questo è spesso il principale ostacolo. La ricerca sulle auto elettriche, ad esempio, ha aiutato General Motors a portare il suo primo modello sul mercato nel 1996, ma ci sono voluti altri due decenni prima che Tesla producesse in serie un modello commercialmente valido. Ogni nuova tecnologia, dall’IA all’informatica quantistica alla biologia sintetica, deve essere perseguita con il chiaro obiettivo della commercializzazione.

Oltre a investire direttamente nelle tecnologie che alimentano la forza dell’innovazione, gli Stati Uniti devono investire nel fattore che sta alla base dell’innovazione: il talento. Gli Stati Uniti vantano le migliori startup, aziende storiche e università del mondo, che attirano i migliori e i più brillanti da tutto il mondo. Tuttavia, troppe persone di talento non possono venire negli Stati Uniti a causa del sistema di immigrazione obsoleto. Invece di creare un percorso facile verso la green card per gli stranieri che conseguono lauree STEM in scuole americane, il sistema attuale rende inutilmente difficile per i migliori laureati contribuire all’economia statunitense.

Gli Stati Uniti hanno un vantaggio asimmetrico quando si tratta di assumere immigrati altamente qualificati, e il loro invidiabile tenore di vita e le abbondanti opportunità spiegano perché il Paese ha attratto la maggior parte delle menti più brillanti del mondo nel campo dell’IA. Più della metà dei ricercatori di IA che lavorano negli Stati Uniti proviene dall’estero e la domanda di talenti di IA supera ancora di gran lunga l’offerta. Se gli Stati Uniti chiudono le porte agli immigrati di talento, rischiano di perdere il loro vantaggio innovativo. Così come il Progetto Manhattan è stato guidato in gran parte da rifugiati ed emigrati dall’Europa, la prossima scoperta tecnologica americana si baserà quasi certamente sugli immigrati.

LA MIGLIORE DIFESA
Nell’ambito dei suoi sforzi per tradurre l’innovazione in hard power, gli Stati Uniti devono ripensare radicalmente alcune delle loro politiche di difesa. Durante la Guerra Fredda, il Paese ha progettato diverse strategie di “compensazione” per controbilanciare la superiorità numerica sovietica attraverso la strategia militare e le innovazioni tecnologiche. Oggi Washington ha bisogno di quella che lo Special Competitive Studies Project ha definito una strategia “Offset-X”, un approccio competitivo attraverso il quale gli Stati Uniti possono mantenere la superiorità tecnologica e militare.

Dato che i militari e le economie moderne si basano sulle infrastrutture digitali, è probabile che qualsiasi futura guerra tra grandi potenze inizi con un attacco informatico. Le difese informatiche degli Stati Uniti, quindi, hanno bisogno di un tempo di risposta più veloce del tempo di reazione degli esseri umani. Avendo affrontato continui attacchi informatici anche in tempo di pace, gli Stati Uniti dovrebbero armarsi di ridondanza, creando sistemi di backup e percorsi alternativi per i flussi di dati.

Ciò che inizia nel cyberspazio potrebbe facilmente degenerare nel regno fisico, e anche in questo caso gli Stati Uniti dovranno affrontare nuove sfide. Per contrastare eventuali attacchi di droni a sciame, devono investire in sistemi di artiglieria e missili difensivi. Per migliorare la consapevolezza del campo di battaglia, le forze armate statunitensi dovrebbero concentrarsi sul dispiegamento di una rete di sensori poco costosi alimentati dall’intelligenza artificiale per monitorare le aree contese, un approccio che spesso è più efficace di un singolo sistema squisitamente realizzato. Poiché l’intelligence umana diventa sempre più difficile da ottenere, gli Stati Uniti dovranno fare sempre più affidamento sulla più grande costellazione di sensori di qualsiasi Paese, che va dal mare allo spazio. Dovranno inoltre concentrarsi maggiormente sull’intelligence open-source, dato che oggi la maggior parte dei dati del mondo è disponibile pubblicamente. Senza questa capacità, gli Stati Uniti rischiano di essere sorpresi dai loro fallimenti di intelligence.

Nella sfida del secolo – la rivalità degli Stati Uniti con la Cina – il fattore decisivo sarà il potere dell’innovazione.
Quando si tratta di combattere davvero, le unità militari dovrebbero essere collegate in rete e decentralizzate per superare meglio gli avversari. Di fronte ad avversari con gerarchie militari rigide, gli Stati Uniti potrebbero ottenere un vantaggio utilizzando unità più piccole e connesse, i cui membri sono abili nel prendere decisioni in rete, utilizzando gli strumenti dell’intelligenza artificiale a loro vantaggio. Ad esempio, una singola unità potrebbe riunire capacità di raccolta di informazioni, attacchi missilistici a lungo raggio e guerra elettronica. Il Pentagono deve fornire ai comandanti sul campo di battaglia tutte le informazioni migliori e permettere loro di fare le scelte migliori sul campo.

L’esercito americano deve anche imparare a integrare le nuove tecnologie nel processo di approvvigionamento, nei piani di battaglia e nel combattimento. Nei quattro anni in cui ho presieduto il Defense Innovation Board, sono rimasto sbalordito da quanto fosse difficile farlo. Uno dei principali colli di bottiglia è rappresentato dall’oneroso processo di approvvigionamento del Pentagono: i principali sistemi d’arma richiedono più di dieci anni per essere progettati, sviluppati e distribuiti. Il Dipartimento della Difesa dovrebbe ispirarsi al modo in cui l’industria tecnologica progetta i prodotti. Dovrebbe costruire i missili come le aziende costruiscono le auto elettriche, utilizzando uno studio di progettazione per sviluppare e simulare il software, alla ricerca di innovazioni dieci volte più veloci ed economiche rispetto ai processi attuali. L’attuale sistema di approvvigionamento è particolarmente inadatto a un futuro in cui la supremazia del software si rivelerà decisiva sul campo di battaglia.

Gli Stati Uniti spendono quattro volte di più di qualsiasi altro Paese per l’acquisto di sistemi militari, ma il prezzo è un parametro insufficiente per giudicare la forza innovativa. Nell’aprile 2022, le forze ucraine hanno lanciato due missili Neptune contro la Moskva, una nave da guerra russa di 600 piedi, affondandola. La nave è costata 750 milioni di dollari; i missili, 500.000 dollari l’uno. Allo stesso modo, il missile ipersonico antinave all’avanguardia della Cina, l’YJ-21, potrebbe un giorno affondare una portaerei statunitense da 10 miliardi di dollari. Il governo americano dovrebbe pensarci due volte prima di impegnare altri 10 miliardi di dollari e dieci anni per una nave del genere. Spesso ha più senso acquistare molti prodotti a basso costo invece di investire in pochi progetti di prestigio ad alto costo.

GIOCARE PER VINCERE
Nella gara del secolo – la rivalità degli Stati Uniti con la Cina – il fattore decisivo sarà il potere dell’innovazione. I progressi tecnologici dei prossimi cinque-dieci anni determineranno quale Paese avrà la meglio in questa competizione mondiale. La sfida per gli Stati Uniti, tuttavia, è che i funzionari governativi sono incentivati a evitare i rischi e a concentrarsi sul breve termine, lasciando il Paese cronicamente sottoinvestito nelle tecnologie del futuro.

Se la necessità è la madre dell’invenzione, la guerra è la levatrice dell’innovazione. Parlando con gli ucraini durante una visita a Kiev nell’autunno del 2022, ho sentito dire da molti che i primi mesi di guerra sono stati i più produttivi della loro vita. L’ultima guerra veramente globale degli Stati Uniti – la Seconda Guerra Mondiale – ha portato all’adozione diffusa della penicillina, a una rivoluzione nella tecnologia nucleare e a una svolta nell’informatica. Ora gli Stati Uniti devono innovare in tempo di pace, più velocemente che mai. Non riuscendo a farlo, stanno erodendo la loro capacità di dissuadere e, se necessario, di combattere e vincere la prossima guerra.

L’alternativa potrebbe essere disastrosa. I missili ipersonici potrebbero lasciare gli Stati Uniti senza difese e i cyberattacchi potrebbero paralizzare la rete elettrica del Paese. Forse ancora più importante, la guerra del futuro prenderà di mira gli individui in modi completamente nuovi: Stati autoritari come la Cina e la Russia potrebbero essere in grado di raccogliere dati individuali sulle abitudini di acquisto degli americani, sulla loro posizione e persino sui profili del DNA, consentendo campagne di disinformazione su misura e persino attacchi biologici e assassinii mirati. Per evitare questi orrori, gli Stati Uniti devono assicurarsi di essere all’avanguardia rispetto ai loro concorrenti tecnologici.

I principi che hanno definito la vita negli Stati Uniti – libertà, capitalismo, impegno individuale – erano quelli giusti per il passato e lo saranno anche per il futuro. Questi valori fondamentali sono alla base di un ecosistema dell’innovazione che è ancora l’invidia del mondo. Hanno permesso di realizzare innovazioni che hanno trasformato la vita quotidiana in tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno iniziato la corsa all’innovazione in pole position, ma non possono essere certi di rimanervi. Il vecchio mantra della Silicon Valley vale non solo per l’industria ma anche per la geopolitica: innovare o morire.

ERIC SCHMIDT è presidente dello Special Competitive Studies Project ed ex amministratore delegato e presidente di Google. È coautore, con Henry Kissinger e Daniel Huttenlocher, di The Age of AI: And Our Human Future.

https://www.foreignaffairs.com/united-states/eric-schmidt-innovation-power-technology-geopolitics

Proposte di pace, propositi di guerra_con Antonio de Martini

Il mondo occidentale, patrocinato dagli Stati Uniti, continua a offrire la propria rappresentazione come quella del mondo intero. Il conflitto in Ucraina non fa eccezione. La novità consiste proprio nel fatto che la verità che ci viene offerta in Europa e negli Stati Uniti questa volta è radicalmente diversa da quella accettata nel resto del mondo. L’amministrazione statunitense rivendica a buon diritto la compatezza conseguita, al momento, nel blocco di alleanze costruito nei decenni pur con qualche crepa; glissa nervosamente sulla neutralità e sulla aperta opposizione di un gran numero di stati nazionali e della gran parte della popolazione nel mondo al suo avventurismo. Dopo la Turchia, iniziano ad emergere nuovi attori di primo piano pronti ad esercitare una azione di mediazione. Lo stesso conflitto ucraino da essere l’oggetto univoco delle attenzioni si sta trasformando con il tempo nella leva per ridefinire le relazioni geopolitiche. La proposta impropria di mediazione della Cina assume questo significato. Nelle more, ancora una volta, i soggetti che vedranno restringere il proprio campo di azione saranno i centri politici europei. La direzione obbligata sarà quella dell’Africa. Ma in una condizione di estrema debolezza e con un retaggio coloniale e neocoloniale pesante come un fardello. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO? – di Violetta Piccolo   

GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO?

 

– di Violetta Piccolo

Foto: di WU Hong, European Pressphoto Agency

tratta da New York Times, 26 settembre 2014.

Il nome degli Istituti viene direttamente dall’antico saggio Maestro Confucio, con una statua memoriale presso l’Università Qingdao, provincia dello Shandong

A cosa servono gli Istituti Confucio? E cos’è lo Hanban, o forse meglio dovremmo dire l’ex Hanban? Perché tra il 2013-14 e il 2022-23 si sono verificate tutte queste ansietà, molti dubbi e perfino chiusure di  centri culturali che vengono considerati “anomalie” che progressivamente hanno subìto un’accelerazione? Queste le domande con cui iniziamo, dunque, il presente articolo. Solo alcune semplici veloci domande a bruciapelo per poter sollevare fin da subito la questione degli Istituti Confucio e definire il contorno di questo scritto, nel quale si discute di come  esista una sottile e intelligente strategia da parte del governo cinese, che potremmo chiamare una sorta di Geopolitica della lingua, o se si vuole, usando un’espressione di più facile ed immediato intendimento, che si riferisce al politologo Joseph Nye (che più che coniarne una nuova la va dimostrando nei suoi lavori sul potere a partire dal suo testo del 1990 “Bound to Lead: The Changing Nature of American Power”), un soft power mirato all’uso e alla conoscenza di lingua e cultura cinesi che possano aprire a un lungo e durevole dominio, ma anche che convergono verso un conflitto a livello internazionale a causa dell’interesse più ampio che questi Istituti rivestono verso la politica e altri settori, o per il modus operandi con cui si legano i rapporti e motivi di partnership coi governi stranieri che ospitano i finanziamenti cinesi di questi stessi, inglobando in essi aspetti di influenza strategica di tipo politico-economico-commerciale, velata soprattutto da una esigenza culturale[1]. Sì, soprattutto l’aspetto culturale (come dimostra un paper di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali visitabile online, che riporta le cifre fino al 2020 delle connessioni e dei vari accordi stipulati tra la Cina e l’Italia come caso esclusivo di apertura quasi senza limitazioni, a differenza di altri paesi europei e in particolare a differenza di Stati Uniti e UK, dove alcuni progetti si sono arenati o sono stati chiusi per motivi di sicurezza nazionale, parlando di una Silk Road o Via della Seta di Connessioni – financo concessioni- Accademiche per il caso dell’Italia) è l’esempio di quello che a livello di influenza internazionale la Cina è ora capace di dimostrare e imporre: la sua versione del Beijing Consensus si basa proprio sull’internazionalizzazione della lingua cinese comune o meglio definita putonghua 普通话, ovvero la lingua standardizzata che viene insegnata come lingua ufficiale e che il Partito usa e sfrutta come simbolo nuovo di potenza acquisita sul piano internazionale e diplomatico. Per poter esercitare questo potere “soft” e quindi essere appetibile e attrarre a sé sul piano globale il consenso mondiale, nell’interesse nazionale, ha attivato sul piano della strategia di lungo termine un tipo di sponsorizzazione o marketing della sua cultura, ed attraverso l’intento educativo avvia, così, da decenni il programma dello scambio interculturale attraverso gli Istituti Confucio. Sul magazine statunitense Politico[2] del 16 gennaio 2018 viene citato per questo aspetto strategico degli Istituti proprio una frase riportata dall’ex membro del Politburo nonché responsabile della propaganda Li Changchun, durante un briefing tenutosi a Pechino nel novembre del 2011 in cui ha esplicitamente dichiarato la natura degli Istituti, dicendo “L’Istituto Confucio è un marchio accattivante per l’espansione della nostra cultura all’estero. Ha dato un importante contributo al miglioramento del nostro soft power. Il marchio “Confucio” possiede una naturale attrattiva. Usando la scusa dell’insegnamento della lingua cinese, tutto appare più ragionevole e logico”. L’articolo poi continua affermando della comprensibile esultanza dell’allora ex membro del Politburo dicendo che, come viene riportato al 2018, oltre 500 erano allora gli Istituti presenti nel mondo e oltre un centinaio quelli con base negli Stati Uniti (più corsi di lingua e cultura ad essi collegati anche nelle scuole primarie e secondarie), di fatto i più rilevanti alla George Washington University, la Michigan University e la Iowa University, fra i college più noti. Davvero un risultato notevole, e per di più con tutto rispetto dell’obiettivo centrale progressivamente realizzato: lo shift/passaggio graduale di consegne dal Washington Consensus al Beijing Consensus. Si parla di un crescente interesse fra gli studenti che vi si iscrivono, ed inoltre di problemi e questioni che questa importante crescita esponenziale di adesioni ha portato con sé, tra cui si cita quello dell’appartenenza dei presenti centri culturali all’organizzazione dei campus (di solito la condizione in cui si ritrovano gli Istituti Confucio è embedded, ovvero “incorporata” e dipendente dall’università che la accoglie, pur dovendo dipendere ed essere sostenuti dal governo cinese facendo riferimento al Ministero dell’Educazione, dovrebbero restare indipendenti ed esterni alle università a cui si appoggiano, ma in realtà si impiantano in esse), i quali sono soliti come statuto professare la libertà di ricerca e esercitare il pensiero critico. Ma qui si pone subito il problema da affrontare: gli Istituti Confucio insegnano una versione loro propria della storia e civiltà cinesi, appunto quella della cultura cinese che viene influenzata dalle direttive del governo e non è indipendente ma piuttosto di tipo strettamente collegata alla versione politica che ne dà nei programmi il governo centrale di Pechino, essendo promanazione dell’Ufficio Hanban, ovvero si tratta di una versione della cultura generale decisa e approvata in seno al Ministero dell’Educazione da cui dipende il Quartier generale dell’Istituto Confucio, anche nominato Ufficio del Consiglio Internazionale per la Lingua cinese (in cinese, Hanban[3]汉办, che è l’abbreviazione di guojia Hanyu guoji tuiguang lingdao xiaozu bangongshi 国家汉语国际推广领导小组办公室, anche se l’origine viene da guojia duiwai Hanyu jiaoxue lingdao xiaozu 国家对外汉语教学领导小组, ovvero l’Ufficio nazionale per l’insegnamento della lingua cinese, fondato nel 1987). Il fulcro principale dello Hanban è lo sviluppo dei vari Istituti Confucio, ma ad esso viene collegato anche un altro progetto, ovvero il Chinese Bridge o Hanyu qiao 汉语桥,una specie di competizione per le abilità linguistiche dei non madrelingua. Quindi, in teoria, non dovrebbero esserci conflitti di interessi tra Istituti Confucio e i governi che li ospitano all’estero, ma non è proprio così, poiché il Ministero degli Esteri e delle Finanze cinesi hanno anch’essi un ruolo di indiretto collegamento –quindi, sotto il piano delle influenze anche il governo centrale- con gli Istituti che vengono diretti dallo Hanban e il suo Board. Lo Hanban è formato da numerose suddivisioni, le 3 principali delle quali sono le divisioni degli Istituti Confucio per macroaree di regione, Asia/Africa, America/Oceania e Europa. Lo Hanban,di cui oggi non è più possibile reperire dati online data la chiusura temporanea del sito dovuta alla sua riorganizzazione, nel suo statuto diceva di occuparsi, come istituzione non-profit e organizzazione non governativa (ONG) alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione, di divulgare la cultura e la lingua cinese per contribuire col suo servizio a favorire “la formazione della cultura della diversità e dell’armonia nel mondo”, e lavora con anche le istituzioni straniere a cui si appoggia per contribuire a sviluppare corsi di lingua e cultura cinese all’estero. Dunque, queste le parole chiave che ritroviamo nei suoi intenti statutari: armonia e diversità. Teniamo bene a mente questi due concetti, perché ci serviranno per comprendere dei brevi passaggi, dal concetto millenario antico di potere secondo la tradizione cinese, fino a quello che si costituisce oggi con la creazione del soft power cinese moderno per mezzo delle realizzazioni dei piani di Xi Jinping. Sebbene, oramai, tutti i report che arrivano dal 2017-18 in avanti, soprattutto negli Stati Uniti e in buona parte delle Università europee che contano (o che hanno dipartimenti di lingua e cultura orientale interessati), abbiano chiaramente messo in evidenza una buona dose di mancanze, disorganizzazione e rigida disarmonia, per non parlare di vere e proprie forme di censura/autocensura in particolare su temi sensibili come ad esempio le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan), più che di una vera dedizione alla ricerca di pensiero critico e libertà di ricerca, gli Istituti Confucio sembrano –specialmente in Italia- godere di buona salute. Tuttavia, le ingerenze della Cina e in particolare di questo organo promanazione indiretta di governo che sono gli Istituti Confucio, hanno sollevato problemi fin dal loro iniziale insediamento, nel 2005: problemi che vanno dalle perplessità alle aspre critiche, fino alle chiusure permanenti dei centri di lingua e cultura allora come oggi. O almeno queste sono le lamentele che provengono da una parte dell’accademia europea e americana in generale, a dire il vero non meno direzionata in alcuni ambiti, che si è rivolta a queste istituzioni accogliendole nel proprio alveo. A dare un paio di esemplificazioni della spendibilità del “marchio Confucio” e della commistione di interessi tra il Ministero dell’Educazione, delle Finanze e degli Esteri cinesi per la costituzione dell’organo direttivo Hanban e della diffusione degli Istituti Confucio come dei veri e propri academic malware[4], come li ha definiti il professore emerito di antropologia Marshall Sahlins dell’Università di Chicago, Illinois, sono alcuni report che vengono pubblicati dal GAO[5] (U.S. Government Accountability Office) e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (U.S. Congressional Research Service)[6]. Nel suo lungo articolo pubblicato il 30 ottobre del 2013 per The Nation, il professor emerito di antropologia, dottor Sahlins, dice apertamente che gli IC frenano il libero scambio di idee e censurano il dibattito politico, e dunque si pone la seguente domanda: per quale motivo le università americane li adottano e sponsorizzano? I suoi punti decisivi sugli IC che sono stati installati in USA e in particolare quello dell’Università di Chicago, che mette in luce nel lungo articolo, sono i seguenti:

  • L’IC, che viene installato presso la UChicago e in un certo numero di altre scuole, fornisce finanziamenti per progetti di ricerca dei membri della facoltà afferente su temi riguardanti la Cina (ma sono le università tenute a non usare mai soggetti di tipo controverso su cui dibattere)
  • L’IC presso la UChicago così come in altre università o scuole ad esso afferenti è un’istituzione finanziata e supervisionata dal governo centrale cinese. Mentre il Goethe-Institut in Germania o il British Council in UK o Alliance Française in Francia sono organismi indipendenti e che si pongono al di fuori delle università, l’IC è un’entità embedded, cioè incorporata all’interno dell’Università che ha una sua vera e propria autonomia didattica, e unendosi coi suoi privati programmi a quelli dell’ente ospitante, ne influisce su quella che è la finale decisione delle scelte curricolari
  • Un altro punto centrale è che gli IC non sono indipendenti, ma direttamente gestiti dal governo centrale che in accordo ne decide i crismi, in particolare seguendo la sua costituzione e altre regole dello statuto, viene a dipendere direttamente dal Quartier generale di Pechino dello Hanban (il Chinese Language Council International)
  • Sebbene lo Hanban si sia dichiarato alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione cinese, in realtà è presieduto e governato da ufficiali di alto rango del governo centrale che afferiscono a vari dipartimenti oltre che essere presieduto da membri del Politburo (l’ex vice premier del Politburo, l’allora capo dello Hanban LIU Yandong, era quindi a sovrintendere un consorzio di 12 ministeri e commissioni che indirettamente influenzavano il Consiglio direttivo dello Hanban)
  • Lo Hanban è per così dire per sua natura “un’organizzazione pedagogica internazionale che si rivela strumento di operatività del Partito unico della Rep. Popolare cinese
  • Nelle università più accreditate e grandi che ospitano degli IC, lo Hanban diviene responsabile di una parte del curriculum sugli studi cinesi, e nelle realtà più piccole la maggior parte se non tutta la didattica offerta resta sotto il suo controllo. Oltre a fornire tutto il materiale necessario, spesso lo Hanban in questi casi nomina anche direttamente i condirettori della parte cinese dei locali IC
  • I progetti di ricerca sulla Cina che vengono assunti dagli specialisti con i fondi destinati dallo Hanban devono essere approvati da Pechino
  • Gli insegnanti nominati dallo Hanban, così come i programmi accademici e quelli extracurricolari degli IC, vengono periodicamente valutati per essere approvati da Pechino, e le università ospitanti sono costrette ad accettare la loro estrinseca supervisione.
  • Lo Hanban si riserva di punire con azioni legali qualsiasi attività condotta sotto il nome degli IC senza suo permesso o autorizzazione. Anche se lo Hanban ha sottoscritto accordi che ne garantiscono un’eccezione, tuttavia lo fa solo per le università che vuole avere nella lista per motivi di nomea, quelle più prestigiose come Stanford o Chicago all’interno del progetto IC nel mondo.

Poi il professore continua dicendo che lo stabilire questi criteri per una vera indagine giornalistica o etnografica su come si possano studiare dal di dentro gli IC è difficile, in quanto “(n)onostante tutta l’attenzione che gli Istituti Confucio hanno attirato negli Stati Uniti e altrove, non c’è stata praticamente nessuna seria indagine giornalistica o etnografica sui loro particolari, su come vengono formati gli insegnanti cinesi o come vengono scelti i contenuti dei corsi e dei libri di testo. Una difficoltà è stata che gli IC sono una specie di bersaglio mobile. Non solo i funzionari cinesi sono disposti a essere flessibili nei loro negoziati con le istituzioni d’élite, ma anche la strategia generale Hanban è cambiata negli ultimi anni. Nonostante la sua portata globale, il programma dell’IC apparentemente non sta raggiungendo gli obiettivi politici di dare lustro all’immagine e aumentare l’influenza della Repubblica popolare. A differenza del Libretto rosso di Mao nell’era della liberazione del Terzo mondo, l’attuale regime cinese è difficile da vendere. Avere l’apparenza di un sistema politico attraente è una condizione necessaria per il successo del “soft power”, come ha scritto Joseph Nye, che ha coniato la frase. L’iniziativa rinnovata dell’Istituto Confucio è quella di impegnarsi meno nella lingua e nella cultura e più nell’insegnamento e nella ricerca di base dell’università ospitante. Tuttavia, i principi di funzionamento del programma IC rimangono quelli della sua costituzione e regolamento, insieme agli accordi modello negoziati con le università partecipanti. Di routine e assiduamente, Hanban vuole che gli Istituti Confucio tengano eventi e offrano istruzione sotto l’egida delle università ospitanti che mettono in buona luce la RPC, confermando così l’osservazione spesso citata del membro del Politburo Li Changchun secondo cui gli Istituti Confucio sono “un importante parte del sistema di propaganda all’estero della Cina””. Quindi, dal suo scritto si evince proprio quella che lui chiama una condizione di Trojan horse accademici, i quali come unico scopo hanno quello di imbellirsi con l’associarsi e il compenetrarsi negli atenei più prestigiosi, a volte persino creando casi di intelligence e spionaggio, poiché specialmente complicata viene a delinearsi la loro funzione vera. D’altronde, come lamenta non solo lui ma hanno lamentato anche altri docenti qui in Italia – tra tutti forse l’unica voce dissonante e contraria a continuare la partnership con gli IC è stata quella dell’illustre sinologo ex direttore del Dipartimento di Lingue orientali a Ca’Foscari, Maurizio Scarpari- , è molto più che probabile che gli Istituti Confucio si servano delle loro ingenti somme di finanziamento per stuzzicare in modo allettante le università ad accettare una collaborazione (di fatto, con i finanziamenti che lo Hanban mette a disposizione per gli IC, questi ultimi possono garantire di conseguenza di finanziare vari progetti insieme all’università, andando meno ad impattare sulle finanze dirette delle accademie). Questo ovviamente viene direzionato dallo Hanban, di modo che l’università resti impigliata in un vincolo esterno a cui difficilmente può rispondere direttamente o che può  integrare, cioè le direttive del governo centrale, quelle del regime cinese, che non sono assimilabili alla direzione e al modo in cui si governa l’università di riferimento. Più o meno in linea in seguito, nel 2017-18 fino al 2020-22 saranno le indagini fatte negli Stati Uniti, e che, come abbiamo detto, coinvolgono gli IC: sono alcuni dei maggiori casi di investigazione redatti, che provengono principalmente dal GAO e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (Congressional Research Service).La domanda che sorge piuttosto spontanea, quindi, è: a chi rendono davvero servizio, infine, questi centri culturali? Spendiamo qui due parole utili per capire di cosa stiamo parlando e inquadrare gli avvenimenti che hanno portato a questo diretto conflitto. Di fatto, negli Stati Uniti la questione della diffidenza e la minaccia di chiusura degli Istituti Confucio è sempre stata presente fin dal loro concepimento, avvenuto nel 2004 con l’installazione del primo istituto presso l’Università del Maryland, e mai del tutto sopita. Ma una decina di anni dopo, nel settembre del 2014, scoppia il caso: all’Università di Chicago, Illinois, vengono fatte diverse rimostranze e si decide di chiudere e ritirare la partecipazione con l’Istituto Confucio a loro riferito, dato che l’Università era ormai entrata in conflitto aperto con la censura di temi quali la storia di Taiwan e in un caso specifico con la censura da parte della ex direttrice dello Hanban  di allora, la signora XU Lin, in occasione di una conferenza tenutasi presso un’università a Braga in Portogallo pochi mesi prima, e poi successivamente nell’aprile dello stesso anno, altre vive contestazioni per l’anniversario dei dieci anni dall’installazione in USA del primo Istituto. Tematica quella di Taiwan ritenuta dalla direttrice “troppo sensibile” anche solo per il semplice fatto di nominarla, attraverso la partecipazione al convegno della Foundation Jiang Jingguo di Taiwan, quindi, non discutibile o presentabile in alcun caso, secondo la visione specifica data dal governo di Pechino,  seguendo i dettami di governo per i suoi curriculum e programmi educativi  definiti, di fatto dando avvio ad una lunga serie di polemiche e di frustrazioni all’interno delle Università coinvolte (le quali hanno sempre sostenuto, secondo il principio della libertà accademica didattica, di esercitare il dibattito aperto secondo il pensiero critico e democratico). Questo caso ha aperto la via per una petizione da parte dell’Università di Chicago, provocando l’inizio del primo di una serie di scontri che poi si verificherà anche da noi in Europa, ed è emblematico di come viene ormai trattato il problema degli Istituti Confucio e della sua diretta influenza nelle questioni di libera proposta didattica degli atenei, che entra non poche volte in aperto conflitto con quanto la propaganda di regime vuole difendere e diffondere: ciò ha portato in definitiva alla ribalta la questione a livello internazionale, suggerendo un atteggiamento di rifiuto e totale chiusura. Un altro caso che spiega e risponde alle nostre domande iniziali in apertura del presente articolo è quello riferito all’Università di Vrije a Bruxelles: il professor SONG Xinning docente presso l’IC della stessa università e a capo dell’Istituto Confucio in essa dislocato, si ritrova coinvolto alla fine del 2019 e fino agli inizi del 2020 in un caso di accusa di spionaggio, e per lui si richiede la revoca del visto internazionale per tutti i 26 Paesi dell’UE. L’accusa è tanto forte da scomodare addirittura il diritto internazionale, e infatti il caso finisce in Tribunale, ma ai primi mesi dell’anno 2020, come riporta il South China Morning Post verrà assolto[7] per mancanza di prove fondate dal Council for Alien Law Litigation sito sempre a Bruxelles, in Belgio. Nel frattempo che l’IC dell’università veniva chiuso, però, e il professore, che ha sempre sostenuto di non avere mai avuto nulla a che fare con lo spionaggio o il reclutamento di elementi tra gli studenti per recare danno alla comunità belga, pur riuscendo a venire assolto per il dettaglio che le indagini fatte non hanno trovato abbastanza prove schiaccianti del suo coinvolgimento in questo affaire, tuttavia l’Università di Vrije (VUB) prendeva la decisione di sospenderlo dato che il Belgio non gli garantiva più il visto d’ingresso per alcuni anni. Il professore è comunque stato assolto anche da questa condanna, in quanto il ban di otto anni del suo visto per l’ingresso in Belgio non si poteva applicare secondo un cavillo della legge belga vigente. Questi spiacevoli incidenti, se così li vogliamo chiamare, sono la dimostrazione cristallina che la difficoltà di integrare gli IC nel contesto del mondo liberale è effettivo, così come effettiva è l’incapacità delle università stesse di prendere decisioni e provvedimenti prima che questi eventuali episodi si manifestino. In ogni caso, è evidente una notevole carenza di reciprocità. Non è facile in Cina poter godere degli stessi eventuali benefici di cui gode qui in Occidente la compagine degli Istituti Confucio, né come nel caso del professor SONG potersi avvalere di una legislazione equa ed equilibrata da vedere tanto agilmente ritirare un’accusa diffamatoria vincendo la causa contro lo Stato belga. Oltre  a questa considerazione, potremmo farne un’altra di molto semplice e logica, ovvero il fatto che lo Hanban, esattamente come nel caso del professor SONG, attraverso degli escamotage oppure attraverso la propria capacità di risoluzione del conflitto con l’intervento di tribunali ad hoc o leggi speciali o comunque per mezzo della sua rinomata influenza, è in grado di rigenerarsi facendo un’opera di riorganizzazione al suo interno e rinominandosi sotto altre forme. E difatti, proprio questo è quello che è accaduto ultimamente con gli IC che hanno subìto questo sciame di chiusure, costringendo lo Hanban a sospendere momentaneamente la propria pagina online e, come messo in luce da un articolo dello storico Edward Lee per l’Heritage Foundation o quello di Lin Yang per VOA News citando Rachelle Peterson come co-autrice dell’aggiornamento del rapporto del NAS del 2021, rinominandosi e nel corso del 2022 riapparendo sotto la dicitura di Ministry of Education Center for Language Exchange and Cooperation[8] (quindi tentanto un rebranding all’americana del suo marchio Hanban cinese iniziale), secondo quanto riportato dallo stesso NAS, la National Association of Scholars degli Stati Uniti. Questo è quanto viene riportato da VOA News nelle parole della ricercatrice e docente Rachelle Peterson:  “Rachelle Peterson, ricercatrice senior presso la National Association of Scholars e co-autrice del rapporto, ha affermato in una discussione del 21 giugno ospitata dalla Heritage Foundation che la chiusura degli Istituti Confucio è “una storia di successo perché gli Stati Uniti hanno riconosciuto la minaccia posta dagli Istituti Confucio e hanno affrontato quella minaccia”. Tuttavia, ha detto, “È anche una storia di avvertimento perché in questo momento il governo cinese sta cercando di eludere queste politiche. In termini militari, questa sarebbe chiamata una “manovra di aggiramento”. Il governo cinese scommette che se toglie il nome, Istituto Confucio, e modifica la struttura di un programma, nessuno si renderà conto che l’influenza del governo cinese rimane viva e vegeta nell’istruzione superiore americana”.Il 1° luglio 2021, un giorno dopo la chiusura del suo Istituto Confucio, il College of William and Mary ha istituito la W&M-BNU Collaborative Partnership con la Beijing Normal University, secondo la scuola. L’università cinese era l’ex partner dell’Istituto Confucio della scuola americana, fornendo i programmi che l’Istituto Confucio offriva. Secondo Peterson, non è cambiato nulla tranne il nome.” Nel merito della questione pertanto rimaniamo dello stesso avviso ugualmente dei professori Perry Link e Jonathan Sullivan citati nell’articolo di VOA News, rispettivamente il primo docente emerito di lingua cinese all’Università di Princeton e della California presso Riverside e il secondo politologo nonché specialista di studi cinesi all’Università di Nottingham, UK, che si distinguono tra le molte voci fuori dal coro dei pro-chiusura quanto agli Istituti Confucio, dimostrando che per quanto possibile andrebbe fatto un lavoro diverso di contrattazione con le università e non la scelta d’emblée di chiudere degli indispensabili centri che forniscono , per quanto limitatamente nelle loro clausole di tipo censorio, l’unico punto di riferimento a cui attingere per conoscere e davvero venire a contatto con la cultura e la civilizzazione cinese, altrimenti molto difficilmente reperibile quand’anche fornita nelle università. Il grado di miglioramento interno alle università non sempre consente di fare a meno di queste strutture addende che di fatto in buona parte anche le finanziano.Come nasce quindi questa storia di infinite aperture e chiusure e riaperture o camuffamenti? Da dove proviene questo bailamme e come si è giunti a tutto ciò?

Entrando per un momento nel merito del caso, si deve ricordare che il New York Times, attraverso il suo sito online e blog sulla Cina “Sinosphere. Dispatches from China”, racconta così l’accaduto iniziale incidente del 2014[9], quello che ha dato avvio a tutto questo, come lo abbiamo definito, “sciame” di chiusure, alla volta del decimo anniversario dalla apertura dell’Istituto Confucio negli Stati Uniti presso la suddetta Università del Maryland nel 2004 e la scelta di quella di Chicago di poter chiudere l’Istituto sospendendo le negoziazioni per il rinnovo del contratto presso l’università:

“L’Università di Chicago  ha sospeso le negoziazioni per il rinnovo dei suoi accordi e del contratto con L’Istituto Confucio, che è il centro di lingua e cultura  parte di un network globale affiliato al governo cinese, in una battuta d’arresto in seguito al controverso programma in vista del suo [dell’Istituzione dei primi centri Confucio in USA, nda] decimo anniversario, sabato scorso.

Secondo una dichiarazione rilasciata martedì riguardo l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago, stabilitosi nel 2010, l’università afferma che esso e i suoi partner cinesi “si sono intrattenuti per diversi mesi in uno sforzo collettivo di buona fede e fermo progresso verso un nuovo accordo per il contratto.”

“Tuttavia, i commenti pubblicati di recente sull’Università di Chicago in un articolo riguardante il direttore generale dello Hanban –l’organizzazione sotto cui il Ministero dell’Educazione cinese sorveglia l’Istituto- “sono incompatibili con una equa e continuata partnership con esso”, afferma la  stessa dichiarazione. Questo è un riferimento all’intervista con XU Lin, la direttrice dello Hanban e capo esecutivo del Quartier generale dell’Istituto Confucio. La signora XU è classificata in qualità di viceministro del governo centrale.”

E poi il NYT così continua:

“Negli ultimi anni, un crescente numero di intellettuali e studiosi negli Stati Uniti e in Europa hanno espresso viva preoccupazione per il fatto che gli Istituti Confucio dislocati in giro per il mondo riflettano troppo da vicino l’ideologia del Partito comunista cinese, dichiarando che gli istituti non devono avere parte in nessun modo al tipo di programmazione centrale educativa svolta nelle università che tengono in conto della libertà accademica”. […] “Nel 2007, la missione dello Hanban era stata definita da LI Changchun, l’allora capo della propaganda del Partito a quel tempo, come “una parte importante del modello di propaganda cinese all’estero”, una frase che include l’educazione e la cultura tanto quanto l’ideologia politica e riflette la spinta cinese in questi recenti anni a proiettare all’esterno la sua crescente potenza. L’Istituto Confucio risponde di essere meramente impegnato ad insegnare la lingua e la cultura cinese al mondo. L’intervista con la signora XU è apparsa in un articolo pubblicato il 19 Settembre [dell’anno 2014, nda] nel quotidiano cinese Jiefang Daily, che è diretto dall’Ufficio per le News del Comitato del Partito comunista di Shanghai. L’articolo a tutta pagina, intitolato “La Difficoltà della Cultura Riposa in una Carenza di Consapevolezza”, descrive un incidente che si dice occorso nel tardo mese di Aprile, dopo che oltre 100 membri della facoltà dell’università hanno chiesto attraverso una petizione che la collaborazione con l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago venisse interrotta.

L’istituto aveva troppa influenza nel determinare “quello che valeva la pena insegnare, e quello che valeva la pena ricercare” nonché “quel che conta in quanto vera conoscenza”, come nel mese iniziale di Maggio riportò al giornale dell’università, il Chicago Maroon, il professore di Storia delle Religioni presso il dipartimento Divinity School e uno degli organizzatori della petizione, Bruce Lincoln.

“Molti hanno percepito la durezza di XU Lin”, ha scritto in modo ammirato il Jiefang Daily, citando quella che si dice essere la lettera che la signora XU ha inviato al rettore dell’Università di Chicago in risposta alla petizione. “Con una sola frase ha sentenziato ‘Dovesse il vostro college decidere di ritirarsi, sarei d’accordo’”, ha dichiarato l’articolo. In cinese la frase contiene connotazioni di sfida. E così continua: “Il suo [della sig.ra XU, nda] atteggiamento ha reso nervosa la controparte. Il college ha risposto sbrigativamente che continuerà a gestire in modo appropriato l’Istituto Confucio”. L’articolo [del Jiefang Daily, nda] riporta che la signora Xu ha dichiarato le stesse cose in una conversazione telefonica con l’ufficio del presidente dell’università a Pechino. La portavoce dell’Università di Chicago, Sarah Nolan, ha declinato l’invito a commentare con una email. HU Zhiping, il vice capo dell’Istituto Confucio, ha dichiarato in una email il venerdì: “Lo Hanban esprime il suo disappunto per la decisione dell’Università di Chicago, che è stata presa prima che i veri fatti in merito alla questione venissero stabiliti. L’Istituto Confucio è un programma condiviso sino-americano, entrambe le parti hanno il diritto di fare una scelta”.

Il New York Times, infine, conclude riportando che XU Lin, l’allora direttrice dell’Istituto Confucio, aveva anche in passato già attratto delle critiche e dei nervosismi presso la UChicago. Nel luglio dello stesso 2014, infatti, aveva deciso di rimuovere da una conferenza fatta presso l’Università di Minho in Portogallo diverse pagine delle proposte al meeting della European Association of Chinese Studies, secondo il report sul sito web della stessa Associazione, in quanto la signora XU obiettava che il testo menzionasse la Fondazione Jiang Jingguo di Taiwan come co-sponsor della suddetta conferenza, e questo ha creato l’incidente che ha acceso la miccia sul caso e le seguenti rimostranze e chiusure nei confronti degli Istituti Confucio, anche nei confronti dell’UChicago. Come infatti riprende anche il NYT, la Cina ha un problema di censura su argomenti sensibili come Taiwan, in quanto isola “ribelle” mai rientrata finora come provincia alla madrepatria e di fatto non ha mai previsto di non poter usare la forza, il suo potenziale hard power militare, per forzarla a essere riconquistata. Questa mossa della signora XU è stata definita come “azione arbitraria” e “non autorizzata”, quindi un atto di censura che l’Associazione Europea riporta come atto sgradito in quanto ordinato deliberatamente dall’ex direttrice, facendo rimuovere dal suo entourage tutto il materiale usato nella conferenza e facendolo portare in un appartamento di uno degli insegnanti dell’Istituto Confucio dell’Università di Minho, in Portogallo. L’incidente è stato risolto solo allorché Roger Greatrex, dell’Università di Lund e presidente dell’Associazione, ha ordinato che le copie degli originali della conferenza venissero ristampati e redistribuiti, secondo quanto affermato dalla stessa Associazione. Quello che è più rimarcabile sono le parole usate per spiegare l’accaduto da questa ex direttrice dell’Istituto, che ha apertamente dichiarato nell’articolo del Jiefang Daily che l’Istituto Confucio ha come missione la necessità di “costruire un treno spirituale ad alta velocità, usando la cultura come percorso definito”, facendo ricorso, dunque, con una espressione idiomatica alla metafora del treno ad alta velocità fiore all’occhiello delle recenti costruzioni e infrastrutture cinesi. Usando, dunque, un linguaggio simbolico, ha apertamente dichiarato quelle che sono le reali capacità del soft power cinese o wenhua ruan shili 文化软实力, ovvero un parallelo tra cultura e altri settori collegati ad esso, come le infrastrutture. Tutto questo perché in Cina oramai oltre allo sviluppo economico enorme che da 30-40anni ha reso possibile intorno al 2014-15 con lo sforzo cinese il sorpasso del PPP (ovvero, l’indice Purchasing Power Parity) americano, la grande conquista operata dall’era di Xi Jinping e la sua dottrina è quella di aver dato vita ad una pratica concreta del soft power in salsa cinese. Ovviamente, questo comporta che siamo sempre costretti a soffermarci un istante a definire di preciso di volta in volta cosa sia, in base a come vengono letti i messaggi tra le righe, e cosa rappresenti questo soft power; ma è imprescindibile sapere due cose generali: la prima e più importante è che la cultura e la lingua sono i veicoli determinanti e preferiti per ottenere un potere di attrazione verso la Cina dall’esterno e quindi il consenso verso la sua potenza, cosa che determina fortemente dunque la strategia geopolitica cinese in base al terzo aspetto più di livello immateriale, che invera i classici primi due fondanti aspetti della teoria del soft power di tipo più direttamente concreto anche secondo la descrizione di Nye, ovvero la supremazia economico-finanziaria e quella politico-diplomatica; la seconda è che così facendo, in fondo, è logico immaginare il motivo per cui così si declina la strategia del soft power cinese, nel senso che si determina di volta in volta a seconda delle opportunità e delle occasioni, non esistendo una teoria definita precisa ad esso afferente, ma essendo comunque pur assimilabile in certi aspetti a quella generica teoria del soft power di Nye, ne viene influenzata più direttamente da una versione che ripercorre la strada della cultura millenaria cinese con il suo focus centrato nei tempi classici antichi. Studiare quindi il soft power cinese comporta il grande sforzo di conoscerne quantomeno il più possibile se non a menadito la lingua e la cultura moderne, nonché quella più elitista basata sui classici. Se volessimo usare quindi questa espressione idiomatica finale della ex direttrice dello Hanban cinese, che ha concluso l’articolo del NYT che riportava “Solo la cultura può introdurre allo spirito. Non si può usare solo l’educazione per entrare nello spirito di qualcuno”,  potremmo definire meglio attraverso la spiegazione dei classici il suo significato più preciso. Perché questa signora ha dichiarato che solo la cultura può introdurre davvero allo spirito di qualcuno o qualcosa? Ebbene, poiché le radici profonde di questo spirito cinese, e quindi l’essenza del significato e della portata delle sue strategie, riposano sulla grande cultura e conoscenza – come detto- dei classici, quantomeno ma non solo quelli delle “Cento scuole” filosofiche antiche o in cinese 百家 baijia.
Di fatto, noi che qui trattiamo l’assetto dei citati Istituti e della loro quasi scomparsa o progressivo declino, potremmo anche dare ragione ad un passo del Laozi (opera mistica ma di fatto prettamente rivolta alla conduzione del potere o potenza, al sovrano, all’uomo di governo) citato proprio in un testo del Nye, il quale tuttavia mantiene una prospettiva di ricerca sul potere insita nella tradizione dei termini differenziati tipicamente occidentale e non in quella tradizionalmente sinica, per quanto comparativamente assimilabile al concetto espresso qui, in cui il Maestro Lao Dan definisce la regola celeste e cosa comporti essere un vero sovrano ed esercitare il potere (o meglio il vero attributo del saggio) col tipico adagio poetico che nel testo si lascia così intendere: “Il governante più alto è quello della cui esistenza i sudditi si accorgono appena. Poi viene quello che amano e stimano. Poi quello che temono. Infine quello che disprezzano”. In questo senso, Laozi o Lao Dan individua al primo posto il vero saggio o sovrano, invertendo, seppur in modalità complementare, i termini A e B dialettici e contrapposti tipici della tradizione logocentrica occidentale, che è ribaltata ed assente in quella taoista cinese come insegna l’illustre Angus C. Graham, nel suo monumentale “Disputers of the Tao. Philosophycal Argument in Ancient China”: ovvero, colui che si pone al di fuori dell’esistente apparire, dell’esserci (il termine B), quello è il vero sovrano; mentre, al contrario, il più basso dei termini, ovvero A, viene attribuito al peggior sovrano, quello che non riesce veramente a servire il popolo a causa della sua presenza “forte”, entrante. Infatti, secondo la regola taoista, il pieno è vuoto, così come vuoto è ciò che è pieno; quindi il potere deve essere “soft” per potersi esercitare nella maniera che più è efficace, poiché l’efficace è il sottile, anche quando la strategia posta in essere deve ammetterne una qualificazione “diminuita” per potersi “accrescere” e verificarsi, innalzando al più alto livello, pertanto, ciò che non è visibile o apparentemente più rozzo e insignificante/debole, ma almeno al suo massimo della potenza percepibile[10]. Una tal concezione pervade quasi tutta la tradizione filosofica e il pensiero o la mentalità sinica da millenni. Tornano utili, quindi, le raccomandazioni iniziali quanto al modo sinico di esprimere consenso e potere, tanto più se i concetti chiave come vedremo a breve hanno a che fare con armonia e integrazione degli opposti/delle diversità. Non solo in Laozi, ma anche nel Xunzi, il famoso Trattato sull’Arte della guerra, possiamo rintracciare vari rimandi ai concetti di “inganno” centrali per l’esercizio di un potere pacifico e soprattutto per poter quindi vincere guerre senza troppi spargimenti di sangue, o quantomeno il meno possibile facendo ricorso all’hard power, risparmiando così le energie e le armi. Infatti, come riporta The Diplomat in un articolo risalente al 31 marzo del 2015[11], il caso classico dell’Arte della guerra è stato usato dalla Chinese Academy of Military Science per ospitare il nono simposio internazionale del 2014 sull’Arte della Guerra di Xunzi, dal titolo “L’Arte della Guerra di Xunzi e la Pace, la Cooperazione e lo Sviluppo”. Questo mostra che la tendenza che sta maturando da tempo nell’élite, poiché la descrizione della conferenza era che l’opera di Xunzi dimostrava “(che) la ricerca dello sviluppo attraverso la sicurezza, la cooperazione e la crescita a sommatoria win-win è la strada giusta per giungere alla pace nel mondo”, sta diventando in questi ultimi tempi la via realizzata dei progetti strategici messi in atto da lungo corso da Pechino. In particolare la diffusione della sua millenaria cultura e lo sviluppo di strategie e policy ad esse collegate. Infatti, oggi effettivamente il testo del Xunzi potrebbe  bene rappresentare e descrivere la politica di sviluppo pacifico perseguita dal PCC finora, tanto che la sua figura potrebbe essere assimilata quasi ad un ufficiale dell’odierna compagine governativa, come rileva lo stesso quotidiano. In effetti, come viene puntualmente riferito, lo stesso allora ambasciatore cinese in UK, LIU Xiaoming, vedeva nell’uso dell’Arte della Guerra l’opera di riferimento del pensiero strategico cinese in grado di creare una fiducia reciproca e un collegamento con lo UK Joint Services Command and Staff College, e durante un discorso rilasciato nel 2012 per un meeting con questa istituzione accademica militare britannica diceva che “la Cina detiene il potere di deterrenza e la saggezza sufficiente a vincere senza dover combattere. Ma se necessario, la Cina avrà anche il coraggio e le capacità di vincere attraverso la battaglia. Questa è l’essenza dell’Arte della Guerra e l’odierno spirito della strategia militare cinese”. Questo è un rimando importante, dato che lo stesso HU Jintao nell’incontro col Presidente George W. Bush nel 2006 gli aveva regalato una copia di seta del Trattato e dato che nel 2011, durante una visita, la Beijing Renmin Daxue 北京人民大学o Università del Popolo di Pechino ha donato una copia di questo all’Ammiraglio Michael Mullen. Di fatto, non sono solo i cinesi gli unici ad aver analizzato e visto nel Xunzi un Trattato che può essere usato in tal maniera: a proposito di soft power e descrizione della strategia politica da adottare, il Xunzi rimane un testo spesso citato anche fra gli Occidentali come prettamente strategico, infatti riportando un estratto del quotidiano possiamo comprendere bene che:

“(Nel suo libro “The Power to Lead”) Joseph Nye descrive Xunzi come un brillante guerriero che ha compreso l’importanza di attrazione del soft power. Un altro esempio proviene dall’ex Primo Ministro australiano Kevin Rudd, il quale ha tenuto un discorso durante la Conferenza su Xunzi del 2014 a Qingdao. Nel suo discorso, Rudd sollecitava la Cina e gli Stati Uniti incoraggiandoli ad evitare la trappola di Tucidide del conflitto tra potenza in ascesa e potenza dello status quo e piuttosto a formare un nuovo tipo di relazione tra grandi potenze basato su comuni interessi, cooperazione e costruzione di mutua fiducia nel lungo periodo. Per delineare questa richiesta alla mutua fiducia e cooperazione tra Stati Uniti e Cina con l’uso dell’Arte della Guerra, le conclusioni del discorso riportavano l’ammonimento di Xunzi secondo cui “L’arte della guerra è di vitale importanza per lo stato. È una questione di vita o di morte, la via della salvezza o della rovina. Pertanto è una materia di indagine che non può mai in nessun caso venire meno”, e in seguito suggeriva che in questi tempi moderni la parola stato venisse sostituita con quella di mondo”.

D’altro canto, quanto a esposizione del soft power e all’attiva adesione al servire il popolo o wei renmin fuwu 为人民服务di tradizione maoista che riprende il motto per un’arte del governo così come nel Xunzi si trova quella della guerra a difesa dello Stato, altrettanto avviene nella linea filosofica del confucianesimo nel più classico dei sensi, anche se in parte distintamente dalla visione mistico-poetica taoista, con un accento focalizzato più nettamente sull’arte del buon governo in senso morale, dell’educazione e della benevolenza all’attivo servizio del bene del popolo. Non stupisce,dunque, se per parlare degli Istituti Confucio ci accingiamo a citare un passo del Maestro che ne chiarifica aspetti essenziali. D’altronde, come poter inquadrare contestualmente il concetto del soft power cinese tanto quanto le recenti vicende accadute tra il 2019 e queste prime fasi del 2023 per la grande quantità di chiusure (soprattutto negli Stati Uniti) o decise manifestazioni di insofferenza che in Occidente (in Europa sono stati chiusi diversi centri soprattutto in Svezia, Finlandia, Belgio, Portogallo e ora se ne minaccia la chiusura in UK) hanno subìto i centri culturali dedicati dallo Hanban, contrariamente alla diffusione capillare degli Istituti Confucio che aveva inizialmente preso piede, è cosa di trattazione presente in vari giornali esteri e disvelato in base a due principali traiettorie o sommari punti di vista: il solito, tipico o pro o contro, che noi qui vorremmo cautamente evitare; eppure sta avvenendo con grande velocità nel mondo sia accademico che politico una difficile battaglia, esponendoci forse per la prima volta dopo l’inizio della guerra in Ucraina a quella versione realizzata della visione multipolare integrata che i cinesi da decenni vanno inseguendo per il loro ideale nuovo ordine mondiale. Ma a quanto pare non corrisposto da un vero dibattito in Italia, dove attualmente vige un riserbo assoluto e un silenzio quasi tombale sulla questione, in particolare quella degli IC. In Italia questi Istituti sembrano non essere stati toccati da questo fenomeno, o almeno apparentemente. Anzi, pare che ai 12 centri già presenti se ne possano aggiungere degli altri, quindi nuove aperture. Eppure, nel 2019 il caso scoppiò con una serie di pubblicazioni in forma di botta e risposta tra accademici e sinologi delle università italiane, nello specifico a prendere la parola furono per loro stessa iniziativa Stefania Stafutti, Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, rispettivamente delle Università di Torino e Ca’Foscari di Venezia. Inizialmente con una presa di posizione verso le rivolte degli studenti represse duramente ad Hong Kong a partire dal marzo-aprile del 2019 contro la decisione del governo hongkonghese di creare una nuova legge sull’estradizione dei latitanti dopo il caso dell’uccisione di Poon Hiu-ala da parte del suo fidanzato Chan Tong-kai a Taiwan, per i Paesi verso cui Hong Kong non ha questi accordi (nella fattispecie nessun accordo con la Cina continentale né con Taiwan, nda), la sinologa docente dell’Università di Torino e a capo dell’Istituto Confucio ad essa collegato Stafutti faceva appello diretto al Presidente Xi Jinping per una mediazione di pace tra le fazioni, invocando la missione culturale democratica svolta dalle istituzioni accademiche che si occupano di Cina e la studiano da vicino. Da quel momento ad intervenire nel dibattito tra accademici è sorta la preoccupazione sollevata dall’ex docente del Dipartimento di Lingue orientali di Ca’Foscari e sinologo Maurizio Scarpari per una deriva dovuta all’influenza negativa su temi sensibili da parte degli Istituti Confucio radicati nelle Università italiane che non ammettono per quanto attiene la politica estera visioni difformi da quella indirizzata dal governo centrale, ponendo seri problemi di interferenza con il corso dell’insegnamento curricolare e dello svolgimento delle tesi di laurea nelle stesse università ospitanti, tanto da far parlare per la prima volta in Italia di autocensura verso questo tipo di tematiche anche in  seno alle istituzioni accademiche italiane. Il professor Scarpari ha continuato spesso ad intervenire cercando di farsi comprendere dalle istituzioni accademiche italiane, e soprattutto avviando un serio dibattito iniziale tra docenti e studiosi della materia, ma a quanto pare le sue sollecitazioni sono state lasciate cadere nel vuoto. Particolari, per il modo sferzante, puntuale e incisivo, sono i suoi interventi al Corriere della Sera, su Formiche.net e sul blog Sinosfere[12], pur essendo un sostenitore dell’avvio verso la chiusura di questi centri, lo abbiamo voluto citare per l’ovvia ragione che la loro influenza sarebbe deleteria per la continua interferenza nell’attività di ricerca e didattica e, come unico motivo, il professore adduce la necessità di un limite del loro finanziamento nelle università, di fatto lasciate in mano a personale non abbastanza preparato per gestire le contrattazioni coi centri a loro collegati. Il professore sostiene, inoltre, che se non fosse per gli ingenti finanziamenti che gli IC portano con sé, difficilmente ci sarebbe tutta questa facile e spinta operazione di attirare a sé un IC nella propria università, e che questo avviene sulla base proprio delle competenze che il direttore di riferimento dell’IC preposto ha nei confronti della materia e di come sa o meno gestire l’Istituto. In gran parte in Italia gli IC se più o meno buoni nella loro qualità e scelta dei programmi dipende molto da chi all’interno dell’università collegata li gestisce, questo in definitiva è ciò che fa qui la differenza. Ma da noi, a quanto pare, governo e dibattito si sono arenati sul tema da tempo. In altre parti del Continente europeo, però, la musica cambia, come in UK ad esempio. Che detiene il primato insieme agli Stati Uniti di numero di Istituti sul suo suolo. In Francia sono 18, in Gran Bretagna sono 30. Il caso in specie poi si riferisce qui alle recenti prese di posizione del governo britannico[13] con la decisione (ancora da confermare) da parte del nuovo PM  Rishi Sunak di voler chiudere tutti e 30 i centri di lingua e cultura cinesi. Ma per quale motivo? E perché questo declino apparente tanto repentino? Secondo il recente (ottobre del 2022) articolo del The Telegraph, perché un report britannico ha messo in luce nelle sue investigazioni che solo 4 su 30 fra gli istituti rende davvero un servizio di tipo linguistico e culturale. Per districare la situazione della partnership con gli IC in UK si sta considerando una nuova legislazione con un emendamento alla legge sull’ Higher Education (Freedom of Speech) Bill, ma a quanto pare sembra una scelta arbitraria. Al contrario, una soluzione più sbrigativa e permanente pare sia all’ordine del giorno, ovvero la scelta fatta dal Primo Ministro Rishi Sunak di mettere ai voti un totale scioglimento dei vari IC. Dopo aver tacciato la Cina come “minaccia numero uno” per la sicurezza interna e globale, ha promesso di “cacciare fuori dalle nostre università il PCC”. Con le seguenti parole “Quando è troppo, è troppo. Per troppo tempo i politici britannici e nel mondo hanno steso il tappeto rosso e chiuso gli occhi di fronte alle ambizioni e alle nefande attività cinesi. E questo cambierà dal giorno uno a partire da quando sarò Primo Ministro”, ha promesso di mettere un freno e congelare la situazione cogli IC in Gran Bretagna, quindi la cosiddetta “cattiva influenza” di Pechino pare avere i giorni contati in UK. Questa tuttavia, ci sembra geopoliticamente parlando la tattica peggiore, proprio perché come già evidenziato gli IC verranno comunque rinominati e gli interessi verso questo Beijing Consensus difficilmente avrà termine a breve, date le ingenti poste in gioco.

Cosa di meglio, dunque, per introdurre il nostro punto sulla questione geopolitica della lingua come strumento di diffusione e veicolo della millenaria civiltà e del complesso della cultura cinese attraverso la creazione degli Istituti Confucio se non partire dalle parole medesime del “filosofo” o meglio Maestro di quel pensiero che più ha influenzato e condizionato questa parte di mondo nei successivi secoli a venire per poi ai giorni nostri giungere fino a noi? Di fatto questo scopo – ecco il motivo per cui si parla qui di geopolitica della lingua, cercando di rintracciare la complessità e le difficoltà del rapporto tra la diffusione della cultura cinese e le strategie messe in atto dal governo cinese come sforzo per la sua implementazione e influenza nel mondo dando loro spazio attraverso il finanziamento di queste istituzioni da parte del Ministero dell’Educazione e lo Hanban- sono stati chiamati a perseguire tali centri culturali, a partire dalla loro fondazione nel non troppo lontano 2004, anno in cui il primo Istituto Confucio sotto l’era di Hu Jintao fece la sua comparsa a Seoul, Corea del sud, e per primo ospite presso l’Università del Maryland negli Stati Uniti.[14] Nota è la posizione del Maestro su cosa debba appartenere all’uomo nobile o 君子 junzi e quali siano le primarie qualità che gli appartengono sia per educazione acquisita, il wen, che per naturale inclinazione, ovverosia il zhi, e come di conseguenza si debba comportare. Di fatti così si narra in un noto passo del Lunyu o Dialoghi, uno dei più noti tra i 13 Classici confuciani: 7.“Zigong domandò in che cosa consistesse l’arte del governo. Il Maestro disse: “Viveri a sufficienza, un esercito adeguato e la fiducia del popolo”. Zigong domandò: Dovendo rinunciare a una delle tre condizioni, a quale rinuncereste?” “All’esercito”.”Dovendo anche rinunciare a una delle due rimanenti, a quale rinuncereste?” “Ai viveri. Fin dai tempi antichi la morte è parte di noi, ma se non vi fosse la fiducia del popolo, mancherebbe ogni fondamento”. 8. “Ji Zicheng domandò: “L’uomo nobile di animo (君子) è tale per inclinazione naturale (), che necessità avrebbe dell’educazione ()? Zigong replicò: “Ahimè, come potete pronunciare simili parole sull’uomo nobile di animo! Nemmeno una quadriga di cavalli riuscirebbe a fermare la vostra lingua! L’educazione è importante  quanto l’inclinazione naturale! L’inclinazione naturale è importante quanto l’educazione! Proprio come la pelle di una tigre o di un leopardo sono preziosi quanto la pelle di un cane o di una capra!”[15] Per la summa del pensiero confuciano, pertanto, si può notare come siano di rilevante importanza sia l’innata predisposizione naturale che l’educazione/la cultura nel rendere l’uomo nobile d’animo, di alto valore: questo è il concetto di Principe a cui si rimanda anche in altri testi di filosofi successivi suoi discepoli (come Mencio all’interno del Mengzi) e che dimostra inevitabilmente come siano condizioni sine qua non un uomo possa essere in grado di gestire il buon governo. Saper governare, dunque, significa essere in possesso delle qualità del Principe. Non solo: di vitale importanza è per la sua stessa sopravvivenza il saper ottenere la fiducia del popolo, attraverso il 仁ren o benevolenza, pena la revoca del mandato o tianxia*geming天下革命 (*geming è un termine da cui deriva la parola moderna di “rivoluzione”). Dunque, per quale motivo abbiamo dovuto citare questo passaggio dei Lunyu e a quale scopo questa digressione sui termini confuciani più importanti nella concezione del “servire il popolo”, ovvero servirlo attraverso la conoscenza e l’educazione per ottenerne la fiducia (questo implica il conferimento o la revoca del Mandato Celeste o 天命 tianming per un sovrano o per chi svolge cariche governative, ancora oggi molto presente nella mentalità cinese), dovrebbe esserci di una qualche utilità? Presto detto: oltre ad essere nello specifico una summa che bene rappresenta il pensiero confuciano, in cui risiede la centralità dei concetti di Principe e di creazione dell’armonia cosmica che stiamo discutendo per il suo uso in seno alle nuove concezioni del soft power cinese o wenhua ruanshili 文化软实力, la formula è la metafora con cui sarebbe stato bello si fossero avverati i migliori auspici per una lunga vita degli stessi Istituti Confucio nel mondo, ma è stato davvero possibile tutto ciò? In parte di sicuro, perché lo straordinario lavoro di diffusione e finanziamento ingente da parte del governo (esperti stimano una cifra che si aggira intorno ai 10 mld di dollari all’anno di spesa complessiva) ha portato alle seguenti cifre: al 2019-20, c’erano dai 525 ai 550 Istituti Confucio e all’incirca 1.113 classi per i corsi alle scuole primarie e secondarie nel mondo, in particolare concentrate tra Europa e Stati Uniti, per un totale di oltre 150 Paesi coinvolti nel progetto con circa all’attivo 8-9 milioni stimabili di discenti in tutto il globo. Se si guarda ai soli USA (oltre 100 IC complessivamente), citando l’ultimo report del Servizio di Ricerca del Congresso americano, le cifre al 2020 salgono, per poi decrescere sensibilmente a causa delle progressive chiusure: si parla di oltre 160 Paesi coinvolti nel mondo (le stime sono diverse poiché se da una parte alcune sedi vengono chiuse, da altre se ne aprono rapidamente), e dell’impatto di queste istituzioni sul sistema educativo negli States che al 2019 includeva poco meno di 100 di questi Istituti su suolo americano. Questo fino a  una progressiva ma decisa decrescita nel periodo afferente al 2020-22. Il caso viene dibattuto dal report effettuato dal già citato GAO[16], ovvero lo United States Government Accountability Office, organo del Senato USA, attraverso testimonianze redatte per la Sottocommissione permanente alle investigazioni del Comitato sulla Sicurezza nazionale e gli Affari governativi, rilasciata a fine febbraio del 2019. Nel rapporto si sottolinea che, come in quello di Rachelle Peterson del 2017, vanno ricercate le cause della disaffezione e poca fiducia verso questi centri nei contratti stipulati dalle università con essi. In tutto, il rapporto GAO riuscirà a rintracciarne una novantina su tutte le oltre 100 sedi presenti. Nel rapporto si contestano agli Istituti di essere parte di una rete quasi “aggressiva”, di poter arrivare a minacciare o silenziare personale e studenti, di interferire nella didattica delle università e scuole ad essi collegati e di non informare su buona parte delle clausole che i contratti con essi stipulati comportano, o di tenerli perfino secretati mantenendo il totale riserbo all’esterno, di reclutare personale o metterne parte di esso a disposizione per compiere atti di spionaggio. Inoltre, questa continua pratica di sabotaggio della credibilità e fiducia, ha reso difficile il reperimento delle informazioni e della redazione del report finale che è stato presentato in audizione al Senato USA (le stesse preoccupazioni e difficoltà erano state accertate dalla stessa Rachelle Peterson nel suo rapporto del 2017, poi aggiornato al 2021, per il NAS). Tuttavia, potremmo anche azzardare l’ipotesi che in parte questi auspicati risultati non si sono verificati o non più come durante gli entusiasmi nell’iniziale fase dell’apertura delle sedi, perché a quanto pare a causa delle più recenti (ma, in realtà, le questioni risalgono a partire già dall’incidente accaduto presso l’Università di Chicago nel settembre del 2014, e di cui si è discusso sopra in questo nostro articolo, nda) manifestazioni di insofferenza verso queste istituzioni viene quasi da dire che per certo non sono più congeniali o ben viste da numerose istituzioni accademiche e dai governi che in generale hanno preso parte a questa diffusione culturale in Europa e negli Stati Uniti: eppure, sarebbe ingiustificato non ammettere, al di là delle revoche e chiusure, anche il ruolo di prestigio e di divulgazione culturale associato e promosso attraverso di essi tra le migliori realtà istituzionali  e universitarie presenti nel mondo. Questo è anche quello che viene dibattuto nel recente podcast dell’inserto al quotidiano britannico The Spectator, nel quale il ventennale responsabile diplomatico in Cina e RUSI think tank Senior fellow Charles Parton, esperto di spionaggio internazionale in UK, afferma ,quanto agli Istituti Confucio, che questi siano comunque una necessità per i paesi che vengono coinvolti dal progetto di scambio, che non ci sia bisogno di un’eccessiva critica nei confronti di queste istituzioni fino alla loro dismissione completa o alla loro rappresentazione come il “male assoluto”, ma piuttosto che rimangano importanti per conoscere meglio, quand’anche divulgassero della propaganda di regime, il senso generale della cultura da cui derivano e a cui si dedicano, che pur sempre vada compresa nella sua complessità e non debba essere per forza l’unica fonte a cui attingere informazioni sulla Cina, visto che in Cina e al suo esterno esistono ormai oggi svariate fonti diverse di cui beneficiare per l’approccio di tanti temi sulla sua stessa cultura, perfino quelli sensibili come la questione del Tibet o la storia dell’Incidente (come viene definito sbrigativamente e propagandisticamente in Cina) o Massacro (come viene etichettato più enfaticamente e altrettanto in maniera propagandistica in dissenso con la visione di Beijing qui da noi) di Tian’An Men. Possono, al contrario, essere considerati delle vere “mine vaganti” in quanto al loro vero scopo, soprattutto in seno alle Università e le Accademie di più alto livello e prestigio, il che diviene sempre più ampio e difficile da controllare, dato che svolgono un’attività connessa direttamente con l’Ufficio di Propaganda e il Ministero dell’Educazione cinese, quindi alle dirette dipendenze del governo centrale e non come tutti gli altri soggetti non-profit tra i centri culturali che popolano il resto d’Europa in qualità di “istituti culturali” per la diffusione delle lingue, anche quando in parte fornitori degli stessi interessi nazionali direttamente ad essi collegati, come ad esempio promozioni del Paese che servono ad ottenere legami anche diplomatici, ma che diversamente non sono promanazione diretta del governo. Nel caso degli Istituti Confucio, invece, si ha un intento meno esclusivamente limitato alla sola questione dell’insegnamento o della semplice sponsorizzazione nazionale, che resta piuttosto velata da un travestimento in incognito come già riportato dalle parole dell’ex membro del Politburo LI Changchun. Il loro servizio si amplia e non di poco, arrivando a scambi anche in seno alle attività accademiche connesse con le università e i college a cui si interfacciano, svolgendo attività di tipo disciplinare complesse, che possono variare dalla tecnologia alla medicina, alla scienza, e condurre quindi a spionaggio o altre forme di interferenza come quelle sulla proprietà intellettuale. Parton illustra come non siano esattamente uguali ai nostri centri culturali, per quanto per una parte ne svolgano una stessa funzione e siano comunque legati al governo di riferimento, come nel caso del British Council o di Alliance Française o dell’Istituto Cervantes o della Società Dante Alighieri. E, in base a questo principio del servizio, la Cina lo ha fin dall’inizio usato e tenuto in gran conto, spingendo verso un’intensa opera di lobby e integrazione. Forse perfino troppa integrazione, soprattutto poiché – e questa è la parte più preoccupante- gli Istituti Confucio sono parte della più ampia strategia facente capo allo United Front Strategy o in cinese lianhe chenxian zhanlue 联合陈线战略. La Strategia del Fronte Unito è una strategia politica del PCC che coinvolge reti di gruppi e di individui chiave che sono influenzati o direttamente controllati dal Partito, ed utilizzati per promuovere i propri interessi. Alcuni suoi elementi possono essere fatti infiltrare nelle università esattamente come quanto già accaduto per la CIA nelle università degli Stati Uniti. Storicamente è stato un fronte popolare a partire dalla fondazione della Repubblica popolare nel 1949 ed ha incluso anche gli altri otto partiti legalmente autorizzati dal Parlamento cinese, ovvero l’Assemblea nazionale del popolo, e organizzazioni popolari che hanno una rappresentanza nominale all’interno della stessa e nella Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC). Sotto il segretario generale del PCC Xi Jinping il Fronte Unito e i suoi obiettivi di influenza si sono espansi in dimensione e portata. La principale strategia in questo momento è segnata dall’identificazione di un principale nemico a cui mirare (ovvero gli USA, che sono attualmente il principale nemico sul fronte internazionale e diplomatico delle relazioni internazionali), e renderlo in effetti neutralizzato o diminuito formando intorno ad esso un “vuoto” diplomatico di consenso, utilizzando la leva dei satelliti o paesi più neutrali nei confronti del PCC e del governo cinese e spostando il loro asse da quello gravitante intorno gli USA a quello che aderisce o si allinea alla sfera e linea del PCC. Perché? Per i motivi adotti all’inizio di questo articolo, ovvero la sua politica interna tutta strenuamente indirizzata verso il文化软实力wenhua ruan shili, ovvero il Soft Power cinese per la conquista del primato internazionale nel centenario dalla fondazione del PCC e della Repubblica popolare. Infatti, il governo cinese sotto Xi Jinping ha come obiettivo quello di raggiungere il massimo della potenza entro il 2050 (il centenario della fondazione della Rep.Popolare sarà nel 2049) e in particolare in questo primo secolo del millennio; e per raggiungere l’obiettivo di accumulare conoscenze di tipo scientifico e tecnologico atte a mostrarne la supremazia politica interna e esterna a livello internazionale, pertanto, come già detto, attraverso il Ministero dell’Educazione, ha programmato e finanziato un metodo per infiltrarsi, in oltre 500 diverse realtà accademiche e culturali, con questi istituti integrandoli nel comparto educativo di prestigiose realtà accademiche, soprattutto di lingua inglese e dunque americane e britanniche, per cui  –all’incirca tra i 535  e i 550 al momento di massimo picco della loro diffusione nel periodo 2019-20 – poter, secondo la loro stessa definizione, svolgere alcuni punti chiave della missione di influenza culturale (o come afferma lo stesso Parton perfino per compiere dello spionaggio a livello accademico su mandato dello United Front), che secondo il seguente report, Outsourced to China (2017), di Rachelle Peterson[17] e altre fonti ad esso assimilabili, riporta attraverso lo Hanban a questi sommari punti chiave:

  • Sulla Libertà Intellettuale si deve ricordare che gli insegnanti vengono reclutati e pagati dal PCC, in quanto gli IC sono afferenti al Ministero dell’educazione attraverso lo Hanban, che li ritiene responsabili del programma svolto e del tipo di insegnamento tanto da definire fin da subito censurati i temi sensibili che toccano le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan) o la Rivoluzione Culturale e punibili o perseguibili quelli che ne trattano
  • Quanto ai contratti tra università e strutture afferenti allo Hanban, per quanto attiene alla trasparenza, raramente vengono resi pubblici e consultabili. Questo crea un grosso problema per poter raccogliere anche dati sensibili per le ricerche sul campo sugli IC e il loro finanziamento
  • Quanto alle connessioni tra strutture e all’esercizio del pensiero critico, gli IC coprono tutte le spese collegate alla fornitura del materiale didattico e offrono anche borse di studio agli studenti americani per studiare all’estero. Ma con tali incentivi finanziari, piuttosto ingenti, le università ad essi collegate spesso fanno difficoltà a potersi porre in una condizione di libero pensiero, libero dibattito e di libera critica
  • Quanto a soft power gli IC evitando di trattare argomenti sensibili, censurano la possibilità di intervenire su argomenti scomodi quali il trattamento delle minoranze uigure e le violazioni dei diritti umani. Inoltre, presentano come territori indiscussi Taiwan e la regione del Tibet , di conseguenza, trattando così gli argomenti suddetti, sviluppano una generazione di studenti americani che ha conoscenze selettive riguardo un grande paese e un maggior avversario.

 

  • Gli IC pretendono di essere assimilabili a centri culturali tipicamente in attività nel mondo, quali il British Council o l’Alliance Française, ma pur fingendo di esserlo, in realtà sono una macchina della propaganda di regime finanziata e diretta dal governo centrale cinese.  Il report del NAS raccomanda prudenza, quindi, per non aprire più su suolo americano IC affiliati alle università.

Tuttavia, al contrario, nell’ex pagina dedicata allo Hanban, si poteva leggere che la missione degli Istituti Confucio erano strettamente collegati al loro Statuto o Costituzione con queste principali finalità:

  • Fondazione del NOCFL o “China National Office for Teaching Chinese as a Foreign Language” nel 1987(Hanban Directorate), al fine di attivare la mutua conoscenza e amicizia, nonché promuovere una migliore comprensione tra il popolo cinese e i popoli nel mondo, attraverso lo studio della lingua, e per promuovere la cooperazione tra questi a livello economico-commerciale, così come per quella scientifica, tecnologica e culturale.
  • Il gruppo a capo dell’Ufficio del Direttorio  è composto dai membri di 12 ministeri di Stato più le commisisioni, incluso il Ministero dell’Educazione, il Ministero delle Finanze, il Ministero degli Esteri, ecc. Il Consigliere di Stato Chen Zhili è il presidente di questo gruppo. L’OCLCI o “Office of Chinese Language Council International” , meglio noto come Hanban, viene governato da questo gruppo.
  • Lo Hanban è il braccio esecutivo del NOCFL, ovvero un’organizzazione non-governativa e non-profit affiliata al Ministero dell’Educazione cinese.
  • Lo Hanban è impegnato a rendere disponibile nel mondo i servizi e le risorse per l’insegnamento della lingua e cultura cinese, per andare incontro alle richieste dei discenti all’estero cinesi, e a contribuire alla formazione  di un mondo fatto di diversità culturale e d’armonia. Per questo, il più visibile progetto dello Hanban sono gli Istituti Confucio.
  • Lo Hanban lavora anche al fianco di organizzazioni all’estero per sviluppare corsi di lingua cinese nei rispettivi Paesi. Nel 2004, Lo Hanban e il College Board (USA) hanno sviluppato il programma per esami “AP Chinese Language and Culture Course and Exam”. Come conseguenza di questo e altre iniziaitive, circa 160 insegnanti di lingua cinese  negli Stati Uniti hanno preso parte ai corsi dell’AP Chinese Teacher Summer Institutes.
  • A partire dal 2006, lo Hanban ha continuato a inviare negli Stati Uniti insegnanti volontari dalla Cina. 105 tra questi insegnanti hanno svolto l’insegnamento del cinese in circa 30 stati della federazione USA.

Questo come abbiamo detto è vero, però, solo in parte. Nell’articolo dell’Heritage Foundation troviamo per la prima volta nel maggio del 2021[18] una voce che prende parola e conferma quelle descritte sopra dal professor Marshall Sahlins e dal report di Rachelle Peterson, in merito al fatto, come lo stesso titolo dell’articolo introduce, che i vari Istituti Confucio siano delle specie di “virus” o dei “Trojan horse” all’interno delle università statunitensi e europee. Dobbiamo ricordare che anche il Giappone, nonostante la sua tradizione millenaria anch’essa mutuata dal confucianesimo cinese e nonostante si trovi nell’area di influenza dell’Asia orientale ormai gestita dal risveglio della potenza asiatica cinese, ha deciso di chiudere questi centri allineandosi al modello della strategia internazionale americana ed europea sul “chiusurismo” e che quindi anche questo punto di vista, del ph.D. e stimato storico del conservatorismo americano Edward Lee è piuttosto condizionato da un pervasivo ideologismo di tipo trasversale a destra quanto a sinistra dell’ala del governo americano (perché sono gli Stati Uniti quelli che vengono maggiormente presi di mira e attaccati dalla strategia del soft power cinese attraverso l’utilizzo dei centri confuciani) quanto alle soluzioni da adottare nei confronti degli Istituti Confucio: un punto di vista conservatore e molto definito per quanto riguarda la politica da adottare verso le procedure per tenere a freno ingerenze di contro intelligence cinese, ma che non hanno determinato finora una vera e propria soluzione efficiente ed efficace per quanto attiene al secondario problema della chiusura dei centri per motivi esclusivamente culturali e linguistici che sfociano in forme di tipo auto-censorio verso le informazioni. Lo riportiamo in quanto troviamo, comunque, il pezzo tuttavia moderatamente corretto negli intenti che sorreggono le motivazioni del suo scritto e che in parte condividiamo per l’obiettività con cui vengono presentati i fatti: nel presente citato articolo vengono subito messi in risalto due problemi fondamentali che in effetti sono al momento presentati come motivazione basilare per la scelta di applicare questo chiamiamolo “collettivo chiusurismo” nei confronti dei centri culturali cinesi confuciani, ovvero il fatto che se gli addetti all’insegnamento presso gli Istituti vengono trovati quasi fossero in flagranza di reato ad aver tenuto delle lezioni o aver pubblicato qualcosa di difforme da quanto impartito dal governo centrale non possono fare rientro regolare in Patria e le loro famiglie in Cina vengono minacciate; inoltre, lo citiamo per il fatto che il capo dell’FBI, Christopher Wray, sta valutando e da tempo seguendo molto attentamente con tutto il possibile impianto di intelligence americana del suo Bureau gli Istituti e, dunque l’amministrazione Biden dovrebbe affidarsi ai report dell’FBI sulla questione dell’ingerenza da parte della Cina con questi Istituti che svolgono un ruolo attivo propedeutico alla sottrazione di high-tech e intelligence americana a favore della contro intelligence e dello spionaggio cinesi. Sebbene dietro le parole che abbiamo letto di Edward Lee esista un evidente interesse per la sicurezza nazionale USA, bisogna ricordare che i centri non andrebbero chiusi, ma secondo la nostra opinione la loro partecipazione in seno a certe realtà accademiche ad alti livelli andrebbero ripensate dalle università. Di fatto, il vero problema come ben puntualizzato in precedenza dall’amministrazione Trump sono le stipule dei contratti e le ingenti somme di denaro di finanziamenti che sono stati stipulati e sono pervenuti alle stesse università, le quali ora si lamentano pur avendo ricevuto per il loro spesse volte stesso blasone delle moli di denaro di sovvenzione per i loro programmi. Detto questo, sono dei tipi di contratto, purtroppo a volte, secretati, e come evidenziato che le università stipulano tra loro e lo Hanban direttamente insieme col Ministero del’Educazione cinese che andrebbero meglio sorvegliati, ovvero necessitano di periodica revisione e di maggior informazione e formazione da parte degli aderenti e addetti degli organi interni all’università stessa, dato che decidono in modo troppo autonomo le forme di collaborazione da avviare con la Cina, dovendo poi essere costretti a rispettare anche clausole vessatorie o improbabili per il normale decorso e adempimento degli studi e della ricerca. Se con una migliore disposizione verso l’apertura alla Cina fossero adempiute stipule con maggior incentivo alla disclosure sarebbe forse possibile che non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in altre regioni del globo che decidono di installare un Istituto Confucio avessero meno problemi fin dal loro insediamento. Ciò detto, resta comunque improbabile che i centri universitari di maggior spicco e con dipartimenti particolarmente dedicati a settori di interesse per la sicurezza nazionale e la proprietà intellettuale (e quindi non solo con finalità educativo-culturale verso la sinologia in senso stretto, ma più che altro verso settori tecnologici, militari e per le analisi di difesa, economico-finanziari o perfino dedicati all’ alta medicina con utilizzo di patenti e brevetti, magari in AI, oppure dedicati alla scienza, alla fisica e chimica e allo sviluppo di energie rinnovabili) possano d’ora in poi decidere di contrarre un servizio aggiuntivo ai loro distaccamenti con gli Istituti Confucio, anche se questo dovesse significare un rallentamento sul piano internazionale degli scambi e un lento progressivo allontanamento/sganciamento dalla partnership con la Cina sul versante della strategia del soft power e della diplomazia internazionale. Infatti, come abbiamo dimostrato citando vari report e in particolare commenti su quotidiani e giornali online riguardo il caso, che considerano gli Istituti alla stregua dei “programmi spam” o dei “virus Trojan horse” nei loro intenti, giusto per mutuare un‘espressione in uso nel settore dell’informatica, siamo convinti della buona fede dei diretti dipendenti degli Istituti, gli insegnanti che in fondo rischiano di venire anche per parte loro ostracizzati in Cina, così come della grande necessità di poter accedere ai programmi di lingua e cultura svolti dagli stessi in questo arco temporale lunghissimo di co-partecipazione con le istituzioni di vari paesi nel mondo, più o meno accademiche o para-accademiche. L’aver etichettato come tali gli Istituti Confucio dà al mondo l’idea che questi si permettano immancabilmente il lusso di ostacolare in via del tutto esclusiva i programmi educativi svolti all’interno dell’università, su qualsiasi argomento si possa arrivare a dibattere, culturale e non, ma in realtà così non è, e una loro definitiva chiusura comporterebbe un’immane perdita per l’approfondimento delle conoscenze in ambito sinologico, quantomeno per il solo fatto che spesso sono le poche uniche fonti di reperimento del materiale di ricerca che ci perviene direttamente dalla Cina, quand’anche fossero evidentemente di stampo particolarmente ideologico e direzionato. Concordiamo sul fatto che, come ha dichiarato lo stesso Parton durante la sua intervista a The Spectator, nessuno si sia mai convertito pericolosamente al PCC e alla sua ideologia intrinseca solo per il fatto di aver leggiucchiato ogni tanto le news provenienti dalla Cina sul People’s Daily, quotidiano organo e voce del partito, o il Renmin ribao nella sua versione in cinese, o l’agenzia online Xinhua come pure il Global Times nella sua versione inglese; piuttosto la scelta dovrebbe ricadere su una puntuale cernita e individuazione contestualizzata degli argomenti svolti o ricercati, sapendo scremare l’ideologia da corretta e obiettiva informazione, a seconda del ruolo svolto dall’istituzione accademica afferente e del contesto in cui la ricerca viene a contatto. Di fatto, come sottolinea l’ex diplomatico e ora imprestato all’intelligence britannica Charles Parton, siamo dell’idea che questi centri culturali debbano essere messi più strettamente sotto controllo dalle università, ma non esclusi a priori definitivamente da esse, in quanto il problema di tipo censoriale che proviene dagli istituti non meno che da altre fonti di scambio e ricerca con la Cina sicuramente esiste, ma non può trascendere in forme quasi razzistiche di chiusura e ban, dato che svolgono una agevole e pregevole funzione anche di riconoscimento delle diversità di vedute che la Cina sta portando avanti nella sua logica di soft power, concetto con il quale dovremmo essere meglio capaci di dibattere e trovare mediazioni, nonché per la poca dimestichezza generale con la quale esso viene affrontato : il primo e unico colpevole di questa vogliamo pure definirla “deriva”, ammesso che lo sia, è il governo centrale a cui questi centri culturali sono imprestati e da cui vengono centralmente diretti. Questi Istituti svolgono di fatto un lavoro di tipo culturale che non è slegato dal concepimento di una ideologia e strategia del PCC, ma non hanno verso questa una diretta responsabilità decisionale. Di conseguenza, se chiuderli o no resta un grossissimo problema, ma quello che veramente andrebbe proposto è una ricollocazione degli stessi in modo meno entrante nel seno delle università e delle istituzioni scolastiche o organizzazioni culturali dei Paesi ospitanti nel mondo. Purtroppo o per fortuna, ci piaccia o meno qui in Occidente, per poter essere però al passo con la logica del soft power cinese è necessario avere stimoli e conoscenze linguistiche approfondite, perché il linguaggio limitato impedisce ulteriore ricerca nel suo ambito, confonde e crea disarmonie o inconvenienti di comprensione reciproca che proprio le migliori accademie votate alla sinologia dovrebbero poter evitare incentivando lo scambio ad alti livelli, nella speranza che anche in Italia ci si adegui a questa sollecitazione, rompendo definitivamente il silenzio tombale che pare concentrarsi ultimamente proprio intorno al livello alto della ricerca sinologica accademica, in seno in particolare all’Aisc (Associazione italiana dei sinologi), e in generale nelle recensioni o nei commenti dei quotidiani sulla questione, senza troppe riserve per il timore di ricadute di tipo finanziario o di tipo diplomatico verso le istituzioni che li ospitano, trovando il coraggio di parlare e lasciando però libera espressione alle esigenze molto più liberali e direzionate verso la ricerca indipendente delle università, cogliendo l’occasione di interessarsene sapendo fare una corretta ed obiettiva disamina e analisi del caso in specie. Difficile prendersela con la controparte cinese tagliando corto dicendo che è ideologicamente propagandistica, quando dall’altra parte noi stessi non siamo in  grado di dibattere liberamente, e con tutti i crismi della conoscenza di un certo livello, di questioni come questa o di in generale tutto quello che attiene alla sfera delle competenze sinologiche e della millenaria cultura cinese. Questo effettivamente sembra più simulare una sorta di “Maoismo censorio alla Xi Jinping” all’incontrario, nell’alveo del mondo liberale per autodefinizione. Difficile anche dire come verrà usata o se manipolata ulteriormente la discussione riguardo questi centri culturali, che effettivamente includono preoccupanti episodi di ingerenza nei programmi di studio universitari, i quali per loro stessa costituzione sono aperti al dibattito libero e indipendente, ma che nonostante la più totale buona fede anche dell’Istituto Confucio, rischiano tramite una forzosa ingerenza da parte delle autorità centrali del regime di subire un allentamento o perfino una auto-censura che causerebbe l’inficiare dello strumento par excellence della libera espressione, dibattito e ricerca, strumenti indispensabili alla parte occidentale e al Washington Consensus certamente per quanto attiene la sicurezza nazionale e la rivendicazione del suo esclusivo strategico soft power, ma non meno impregnati di altrettanta radicata e fondamentale tradizione alla “cultura direzionata” da noi, non potendo in questo i cinesi mancare di reciprocità e attenzione verso le altre culture e diversità come loro stessi vanno predicando e sbandierando. In conclusione, possiamo dunque affermare che non siamo totalmente allineati né con l’una né con l’altra parte, ma condividiamo le preoccupazioni generali addotte dallo stesso Charles Parton e dalla più compassata tradizione di intelligence britannica, che ne individua la giusta e calibrata posizione. La necessità di un buon vero pensiero critico sarebbe quello di adottare delle soluzioni, anche piuttosto serie e restrittive, senza giungere alla totale ostracizzazione o alla caccia alle streghe, fornendo un metodo risolutivo delle contese creativo e non pretendendo come infine detto fin dall’apertura di questo nostro scritto nessun tipo di flebile o immaginifico wishful thinking sulla questione, ma nemmeno una rigida impostazione dialettica estremizzata nel o tutti pro o tutti contro, tipica dell’attuale moderna incapacità critica. Un vero sollievo sarebbe per la controparte cinese poter riconoscere, e dare così definitivo scacco matto all’antagonista parte americana e britannica, ma in fondo a tutto il versante occidentale, di essere in posizione di supremazia a causa della grave carenza di pensiero creativo e critico di questa parte di mondo che possa portare a una soluzione ragionevole e brillante, fornendo idee che possano far transitare da questa impasse. Sarebbe un regalo enorme al nostro avversario diplomatico. Non per niente in gioco ci sono le migliori teste che l’Occidente tutto sta mettendo a disposizione per risolvere questo caso, sebbene finora poco sia stato detto di veramente interessante in merito in Italia, tutta concentrata in altre apparenti amenità politichesi, e mentre poco sia stato prodotto in questi ultimi 4-5 anni nei confronti di uno sviluppo di una nuova strategia nei confronti della Cina da parte del peso massimo delle potenze più influenti nel mondo fino a ora coinvolte nell’affaire: gli Stati Uniti.

Eppure bisognerebbe tenere bene in mente che sono state proprio le università le protagoniste di questo mancato pensiero critico e creativo, ma più del wishful thinking o del solito “modello pro-contro”, e a dir il vero a non essere state capaci, da voci autorevoli in merito, di risolvere da sé entro le proprie competenze questo spinoso affaire: ad esse quindi, in particolare a quelle che si interessano di ambito sinologico, non dovrebbe passare inosservato le parole che, in un famoso 成语 chengyu o frase idiomatica cinese
tratto dal classico romanzo di epoca Qing 红楼梦 Hongloumeng, meglio noto in Italia come
“Il Sogno della Camera rossa”, il Presidente Xi Jinping ha usato quasi un anno fa, all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, quando, intervistato in una delle tante concitate riunioni internazionali coi giornalisti di quel periodo, gli venne chiesto se la Cina avrebbe o meno appoggiato le scelte del presidente Putin e cosa proponesse la Cina come unico referente mediatore per l’Occidente di fare per fermare la guerra. E il Presidente serafico rispose con la seguente frase idiomatica: “解铃还须系铃人jiě líng hái
xū xì líng rén” 19 , che vuol dire “Spetta a chi ha messo al collo della tigre il sonaglio di levarlo” o “Chi ha iniziato a creare il problema, ecco chi lo deve risolvere ora”. Crediamo che lo stesso si possa dire a riguardo della crisi con gli Istituti Confucio.

[1] Si veda report di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali: https://www.iai.it/sites/default/files/iaip2144.pdf

[2] Si veda articolo online del gennaio 2018 all’indirizzo https://www.politico.com/magazine/story/2018/01/16/how-china-infiltrated-us-classrooms-216327/

[3] Si veda sulla missione dello Hanban l’archivio sul sito dell’Università del Texas: https://web.archive.org/web/20140819085145/http://confucius.tamu.edu/content/about-hanban

 

 

[4] Articolo pubblicato su The Nation, dal titolo “China U. Confucius Institutes censor political discussions and restrain the free  exchange of ideas. Why, then, do American universities sponsor them?”, il 30 0ttobre 2013, e reperibile alla pagina https://www.thenation.com/article/archive/china-u/

[5] Si veda il documento del report dello U.S. Government Accountabilty Office, col titolo “China: Observations on Confucius Institutes in the United States and U.S. Universities in China”, full report disponibile, vedi indirizzo nota 6;

e quello dal Senato e Congresso americano dello US Congressional Research Service, col titolo: “Confucius Institutes in The United States: Selected Issues”, vedi indirizzo nota 6. Per riferimenti, vedi anche sotto, nota 12 e 14

[6] Dal GAO: https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0 ; dallo US Congressional Research Service: https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF11180

[7] https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3080679/belgian-ban-chinese-confucius-institute-professor-accused

[8] https://www.voanews.com/a/controversial-confucius-institutes-returning-to-u-s-schools-under-new-name/6635906.html?fbclid=IwAR3ja9cXYrLbfOaq4tekaEUnwQAvCucHa3N0EMJHjd4MFtwpbJj0dyzc-Yc

 

[9] https://archive.nytimes.com/sinosphere.blogs.nytimes.com/2014/09/26/university-of-chicagos-relations-with-confucius-institute-sour/?fbclid=IwAR0YF6xGKjr5hfD_NBsePdrsgdr3j7__FU0tAHlnx-gs7nOlkLKSngHRo1s

[10] Angus. C. Graham, “La Ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica”, ed. Neri Pozza, 1999, pp.305-321

[11] https://thediplomat.com/2015/03/sun-tzu-and-the-art-of-soft-power/

[12] Per gli interventi dell’ex docente in ritiro professor Maurizio Scarpari si veda: https://www.corriere.it/la-lettura/19_dicembre_16/cina-noi-fuori-istituti-confucio-universita-italiane-461cd4ca-1f61-11ea-92c8-1d56c6e24126.shtml  ;  https://sinosfere.com/2021/01/13/maurizio-scarpari-allombra-dellanaconda-considerazioni-sinologiche/  ; https://formiche.net/2020/07/pechino-rifare-look-istituti-confucio/ ; https://decode39.com/4547/confucius-institute-italy/?fbclid=IwAR3NTsxZjD6xWEsz4KbRvll2j1fL0LYvW_vjoPhG1A6umZijC8-SvnmLCQU

 

[13] https://bitterwinter.org/uk-sunak-in-confucius-institutes-out/?fbclid=IwAR3qoA3h1wTR09C1D4TtpOCrXcStOxxnrpRnrbTtrZYWy8XUKqAbx5H1AcU ; https://www.outlookindia.com/international/geopolitics-of-language-how-china-s-confucius-institutes-become-extension-of-chinese-state-on-campuses-news-195212/amp?fbclid=IwAR3m53eKqBj_OzFgG-DOHj93qIUW7_4D3AQmMhHSLLGfnhqOOFuopYD2-fk  ;  https://www.telegraph.co.uk/news/2022/10/08/confucious-institutes-universities-part-partys-propaganda-system/

 

[14] Report del Congresso USA, Congressional Research Service, aggiornato al 20 maggio 2022, dal titolo: “Confucius Institutes in the United States: Selected issues”, 1-2pp., vedi in alto nota 5-6

[15] Tiziana Lippiello (a cura di), Confucio. Dialoghi, ed. Einaudi, Torino, 2003, p.137

[16] https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0

 

[17] https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report?fbclid=IwAR0qp7nQjT6IXAgDjp5yUsLbJ0mIRfHNHtaXcydGVvjv6vYjoAhlcwW13pQ#_ftnref17 ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china ;

 

[18] https://www.heritage.org/homeland-security/commentary/confucius-institutes-chinas-trojan-horse?fbclid=IwAR3uw87vKsMl3YDinUjVzjGiXiLzNaCgq2uKejNZrLf9JdZM0VB2f4oLxKQ

19 Vedi spiegazione in cinese del riferimento storico al chengyu usato dal Presidente Xi Jinping
https://zhidao.baidu.com/question/44222555/answer/151347795.html Qui si riporta la traduzione della pagina della fonte citata in particolare questo breve sunto: “Questo chengyu o frase idiomatica deriva dalla storia del monaco Fa Deng. Secondo le citazioni del Buddhismo chan nello “Yuelu – rotolo 23°” compilato da Qu Ruji durante la dinastia Ming, si registra che durante la dinastia Tang meridionale c’era un Maestro zen di
nome Tai Qin Fa Deng nel Tempio Qingliang a Jinling (ora Tempio Qingliang nel parco Qingliangshan) che era troppo severo con i precetti buddhisti e i monaci nel tempio lo disprezzavano. Tuttavia, il Maestro zen Fa Yan, suo responsabile, lo teneva in gran stima. Una volta Fa Yan chiese a tutti i monaci presenti nel tempio mentre teneva una riunione con tutti loro: “Chi può sciogliere la campana d’oro legata al collo della tigre?”
Tutti pensarono e ripensarono, ma non poterono rispondere. In quel momento Fa Deng si avvicinò e Fa Yan gli rifece la stessa domanda. Fa Deng rispose senza esitazione: “Solo la persona che ha legato la campana d’oro al collo della tigre, può slegare la campana d’oro” . Dopo aver sentito questo, Fa Yan pensò che Fa Deng potesse comprendere abbastanza bene gli insegnamenti buddhisti, quindi lo lodò in pubblico.
Successivamente, questa frase è stata tramandata come il chengyu o modo di dire di “解铃还需系铃人jiě líng hái xū xì líng rén”, cioè che bisogna che chi ha legato al collo il campanello sleghi il campanello. Durante la dinastia Qing, Cao Xueqin lo ha citato nel 90° capitolo di 红楼梦 Hongloumeng (Il Sogno della Camera rossa), come “心痛还得心药医,解铃还需系铃人”,ovvero “come un mal di cuore richiede uan medicina per il cuore, così una campana legata richiede a qualcuno di slegarla”. Questo idioma ora è una metafora che
significa che chi ha provocato un problema ora deve comunque risolverlo. Dopo questo “questione”, Fa Deng fu molto apprezzato dal Maestro zen Fa Yan. In seguito, servì come Wei Na (o persona principale responsabile del monastero, dei monaci e della Sala di Meditazione) per la sede del Maestro chan Fa Yan, ed ha assistito il Maestro Fa Yan nella creazione della sua famosa setta Fa Yan delle Cinque Scuole del Buddhismo. ( Traduzione dell’autrice del presente articolo dal brano cinese: “ 这句成语源自一个叫法灯的和
尚。据明代瞿汝稷所编佛家禅宗语录《指月录·卷二十三》记载:南唐时金陵清凉寺(既今清凉山公园清凉寺)有
一位泰钦法灯禅师,他性格豪放,平时不太拘守佛门戒规,寺内一般和尚都瞧不起他,唯独主持法眼禅师对他
颇器重。有一次,法眼在讲经说法时询问寺内众和尚:“谁能够把系在老虎脖子上的金铃解下来?”大家再三思
考,都回答不出来。这时法灯刚巧走过来,法眼又向他提出这个问题。法灯不假思索地答道:“只有那个把金
铃系到老虎脖子上面去的人,才能够把金铃解下来。”法眼听后,认为法灯颇能领悟佛教教义,便当众赞扬了
他。 后来这句话就被以解铃还需系铃人的成语流传下来。到了清朝,曹雪芹在《红楼梦》第九十回中还以“心
痛还得心药医,解铃还需系铃人”加以引用。这个成语现在比喻谁惹出来的事情,仍然由谁去解决。
   这件事之后法灯深得法眼禅师的赏识,后来在法眼禅师座下作维那(寺庙中统摄僧众统管禅堂的主要负责
人),协助法眼开创了佛教五宗中著名的法眼宗”)

LA SVOLTA STORICA DELLA FASE MULTICENTRICA di Luigi Longo

LA SVOLTA STORICA DELLA FASE MULTICENTRICA

di Luigi Longo

 

 

                                                        Quando leggo nel mio Plutarco le vite

                                                        degli uomini grandi mi viene a schifo

                                                        questo secolo parolajo.

Federico Schiller*

 

 

Ho trovato interessante la lettura dello scritto di Piero Pagliani Slittamento di paradigma, apparso in www.sinistreinrete.info del 18/2/23 e ripreso qui http://italiaeilmondo.com/2023/02/28/slittamento-di-paradigma-paradossi-nonsense-e-pericoli-di-una-svolta-storica-di-piero-pagliani/, perché stimola una serie di riflessioni da sviluppare e approfondire.

Le elenco, per comodità di sintesi, per punti, senza ordine di priorità.

 

Primo. La svolta storica rappresentata dalla decisione politica della Russia di abbandonare le relazioni, improntate soprattutto alla sfera economica, con l’Europa (a seguito di fatti irreversibili: il boicottaggio Usa-Nato al Nord Stream 1 e 2; la guerra alla Russia via Nato-Europa-Ucraina; le sanzioni alla Russia che si sono rilevate un boomerang contro la serva Europa; il ladrocinio degli attivi monetari detenuti all’estero dalla banca centrale russa; la trappola europea, tramite Francia e Germania, garanti degli accordi di Minsk; eccetera) e di lavorare in coordinamento e in cooperazione con la Cina, alla costruzione del polo asiatico allargato (con altre nazioni dell’Africa e dell’America Latina) in grado di sfidare l’egemonia assoluta degli Usa (in relativo declino) e proporre un nuovo modello di sviluppo e di relazioni sociali dentro la fase multicentrica (rimando alla letteratura ormai solida sulle forti potenzialità del polo in tutte le sfere sociali: economica, finanziaria, militare, scientifica, tecnologica, sociale, culturale, eccetera). Un polo asiatico, quello della Cina e della Russia, la cui costruzione è iniziata a partire dalla configurazione e dalla loro ascesa a potenze mondiali: una data simbolica può essere il 2011 con la distruzione della Libia e il tentativo mancato di demolire la Siria, da parte degli Usa, che ha significato la loro messa in discussione come unica potenza di coordinamento mondiale.

E’ utile ricordare, di passaggio, che la Russia, storicamente a fasi alterne, mantenendo un’autonomia dall’Occidente, ha avuto periodi di relazioni intense con l’Europa (si pensi, per esempio, al periodo di Pietro il Grande e di Caterina II, il XVIII secolo della cosiddetta europeizzazione o modernizzazione della nuova Russia).

 

Secondo. L’Europa, per ragioni storiche, non è mai esistita come soggetto politico con una propria autodeterminazione in grado di svolgere un ruolo di crocevia tra Oriente e Occidente, ricco di relazioni economiche, sociali, culturali, storiche, come sintesi di esperienze e peculiarità territoriali dei diversi popoli.

L’Unione europea, a partire dalla seconda guerra mondiale che sancisce l’egemonia statunitense nel mondo cosiddetto libero dell’Occidente, è stata un progetto Usa da utilizzare contro il cosiddetto mondo comunista egemonizzato dall’URSS. Oggi, dopo l’implosione dell’URSS, l’Unione europea non serve più ed è stata sostituita dal progetto Nato. E’ la Nato che detta l’agenda europea e tiene unite le diverse nazioni secondo le strategie statunitensi di conflitto contro le potenze in grado di sfidare il suo dominio assoluto.

Resta la domanda posta dallo storico Jacques Le Goff: quale Europa? Cioè come ri-costruire una Europa come sintesi altra delle nazioni autodeterminate senza la servitù volontaria verso gli Stati Uniti?

E’ tutto da studiare e capire bene, con senso critico, il processo di americanizzazione dei territori europei.

 

Terzo. La fase multicentrica non necessariamente deve sfociare nella terza guerra mondiale (la fase policentrica) ma può assestarsi, con un accordo di spartizione del mondo, tra le potenze mondiali così come storicamente è già avvenuto (Graham Allison). La spartizione del mondo tra le potenze egemoni (con le loro aree di influenza) è la logica conseguenza di un modello di sviluppo e dei relativi rapporti sociali basati sul potere e sul dominio e, questo, riguarda sia le potenze occidentali (alla faccia della cosiddetta democrazia!), sia le potenze orientali (alla faccia del cosiddetto comunismo!).

Pertanto si pone il problema della ricerca di un altro modello di sviluppo, di altri rapporti sociali a partire dai territori nazionali con le loro aggregazioni (aree, regioni, poli, altro) e del soggetto sessuato che si faccia carico di tale modello sociale di sensatezza della vita (individuale e sociale) a partire dalle peculiarità territoriali e storiche. Intendo il territorio come l’insieme delle relazioni dei processi di modi di produzione e riproduzione della vita umana sessuata e dei processi di produzione e riproduzione della vita della natura (animata ed inanimata). L’equilibrio/squilibrio tra i suddetti processi è dato prevalentemente dall’intervento dell’essere umano sessuato storicamente dato (ma queste sono questioni profonde da ri-costruire con autocoscienza critica sessuata, nella logica di un lavoro multidisciplinare).

 

Quarta. Le relazioni sociali sono fondate sul potere e sul dominio. Il potere si forma nelle diverse sfere della società (economica, politica, culturale, istituzionale, territoriale, eccetera) tramite l’accumulazione del denaro (inteso come rapporto sociale) con modalità diverse. Nelle fasi della società capitalistica (monocentrica, multicentrica, policentrica) le sfere sociali assumono peso e valenza specifica ed esprimono i loro agenti strategici (Gianfranco La Grassa) che vanno a costituire quelli egemonici che praticano il dominio (inteso in senso gramsciano) dell’intera società. Dominio che viene realizzato ed esercitato attraverso lo strumento dello Stato con le sue articolazioni territoriali dove i suddetti agenti strategici egemonici producono, gestiscono ed eseguono le proprie strategie.

 

Quinta. La pericolosità degli Usa è data dal fatto che, per la loro storia, non accettano una condivisione del dominio mondiale con altre potenze. Il suo dominio è assoluto, essi hanno “una missione speciale” da compiere e sono pertanto l’unica “nazione indispensabile” al mondo (Costanzo Preve) e per questo impongono un modello sociale a loro immagine e somiglianza. La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza. (Alain Badiou).

Al contrario, la Russia e la Cina, che sono per un mondo multicentrico a partire dalla affermazione della propria sovranità, hanno un diverso approccio per l’uso della guerra; per esempio, mentre per gli occidentali [gli Usa] la guerra inizia quando la politica si ferma, [al contrario, per i russi] la guerra in Ucraina segue un’ispirazione clausewitziana: la guerra è la continuità della politica e si può passare in modo fluido dall’una all’altra, anche nel corso dei combattimenti. Questo crea pressione sull’avversario e lo spinge a negoziare (Jacques Baud); e per la modalità delle relazioni tra nazioni (basti pensare al funzionamento dell’aggregato geoeconomico BRICS, BRICS+; al coordinamento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, SCO; alla cooperazione dell’Unione Economica Euroasiatica, UEE; eccetera): “trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime” (Piero Pagliani).

Per queste ragioni bisogna ritenere la potenza Usa pericolosa per il mondo intero e pertanto ogni sforzo va fatto per piegarla verso un mondo multicentrico.

 

Sesta. La crisi della potenza egemone di coordinamento mondiale, gli Usa, è una crisi di declino irreversibile che riguarda soprattutto l’Occidente per la penetrazione nei territori del loro modello di sviluppo e dei relativi rapporti sociali. Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza), ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia (Raimondo Luraghi).

Quindi non è solo la crisi degli Usa ma è una crisi di civiltà dell’Occidente che si evidenzia con maggiore decisione nella fase multicentrica (una crisi d’epoca, di passaggio verso nuovi equilibri mondiali e nuovi modelli economici e sociali). Una crisi che evidenzia il nichilismo occidentale della ricerca del post-umano (intelligenza artificiale, rivoluzione digitale, robotizzazione, recisioni delle radici umane e naturali, eccetera) e non riesce ad esprimere una nuova idea di sviluppo economico e sociale tendente al benessere individuale e sociale. La civiltà ha bisogno di ben altro progresso, di ben altra scienza (vanno ripensati sia la sua produzione sia i suoi obiettivi, tenendo presente la sua non neutralità: abbiamo raschiato il fondo facendo passare per scienza la produzione dei falsi vaccini per combattere la malattia da covid-19 scaturita da un virus Sars-Cov-2 di origine artificiale usato per una guerra batteriologica prevalentemente statunitense) che aiutino a produrre sensatezza individuale e sociale affrontando i bisogni fondamentali della produzione e riproduzione della vita, innervando e rispettando le leggi della natura (di cui non sappiamo molto!).

 

Settima. Quale strumento (Antonio Gramsci, Massimo Bontempelli e Costanzo Preve), quale forza nuova (Gianfranco La Grassa) occorre per ridare senso e slancio ad un lavoro collettivo? È chiaro che non siamo più in grado di svolgere, né tanto meno di fare, sintesi politica dei diversi saperi multidisciplinari che interpretano la realtà. Il livello dell’attuale degrado culturale è elevato in confronto ad altre crisi d’epoca, basti osservare come si fa ricerca nelle Università, diventate luoghi istituzionali di ricerca di finanziamenti, di denaro per i propri particolari poteri e non luogo di ricerca per capire, comprendere, interpretare e cambiare la realtà per migliorarla. Questo deve far riflettere sulla deriva delle relazioni umane individuali e sociali anche in termini di intelligenza collettiva; se penso alle crisi d’epoca delle due guerre mondiali (la lunga fase policentrica) dove la maggioranza della popolazione aveva una intelligenza derivata dalla pratica (che è già teoria e prassi) e dalla volontà di dare sensatezza alla vita, dove il sapere popolare era uno strumento importante nei rapporti sociali storicamente dati.

 

Ottava. Che fare? Intanto bisogna a) pensare ad una articolazione sessuata dell’intellettuale collettivo (in tutto il mondo siamo sempre in due), b) ri-prendere un processo di autocoscienza critica del partire da sé (Carla Lonzi, Luce Irigaray, Luisa Muraro) in tutte le relazioni individuali e sociali e, qui, noi uomini dobbiamo andare a lezione dal pensiero femminile (soprattutto quello di derivazione marxiana). Noi uomini (a prescindere dai rapporti di potere), con il nostro ordine simbolico della società cosiddetta capitalistica, abbiamo, parafrasando Luigi Pirandello, troppe maschere e non siamo più in grado di mostrare i volti.

 

 

* L’epigrafe è tratta da Federico Schiller, La congiura del Fiesco- I Masnadieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1924, pag. 132.

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Slittamento di paradigma Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica, di Piero Pagliani

Su questo link http://italiaeilmondo.com/2023/02/28/la-svolta-storica-della-fase-multicentrica-di-luigi-longo/ una prima considerazione sul saggio di Pagliani. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Nell’analisi che segue enuncio quelli che mi sembrano dei dati di fatto, tiro alcune somme, pongo una domanda per rispondere alla quale avanzo un’ipotesi sull’oggi e due sul domani concludendo con un’assunzione che in modo irrituale espongo alla fine e non all’inizio. In specifico:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

 

1. L’ammiraglio statunitense Robert Bauer, presidente del Comitato militare dell’alleanza Atlantica, ha dichiarato alcuni giorni fa che la Nato «è pronta per un confronto diretto con la Russia». Questa dichiarazione segue di pochi giorni la previsione del generale a 4 stellette Mike Minihan riguardo una guerra con la Cina tra due anni. Immediatamente dopo il segretario della Nato, Jens Stoltenberg ha iniziato a preparare il terreno per trascinarci piano piano nel delirio ventilando che sebbene la Cina non sia un avversario della Nato, «la sua crescente assertività e le sue politiche coercitive hanno delle conseguenze». Parole che, in un gioco di squadra, si inserivano nella scia delle accuse di Ursula von der Leyen contro Pechino, rea di voler «rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio [così che] dobbiamo rafforzare la nostra resilienza», sottraendoci in modo crescente alla dipendenza dal commercio con la più grande economia mondiale a parità di potere d’acquisto (PPP) [1].

Seppure la minaccia di confronto diretto con la Russia e l’ipotesi di guerra con la Cina sembrino due follie o addirittura due nonsense, tuttavia hanno entrambe, separatamente e congiuntamente, una logica. O meglio una doppia logica i cui due versanti non sono sempre semplici da discernere, sia per la confusione di interessi che essi rappresentano, sia per la situazione caotica della politica statunitense.

Le due dichiarazioni hanno evidentemente degli scopi, non sono state rilasciate con leggerezza.

Uno di essi è mantenere i membri della Nato in stato di soggezione tramite una sorta di mobilitazione permanente e l’evocazione continua di nemici comuni. E’ una mossa classica, prima l’Unione Sovietica, poi il terrorismo, oggi la Russia e domani la Cina. Tuttavia ripetere la stessa mossa in condizioni drasticamente mutate può portare a risultati opposti a quelli sperati.

Io sono convinto che alle varie cancellerie europee arrivino (anche) notizie veritiere su cosa sta succedendo nel mondo e in Ucraina in specifico [2]. La domanda più immediata è allora: a parte il governo polacco benedetto da Radio Maria, quanti paesi della Nato se la sentono di fare una guerra senza speranza alla Russia per difendere gli interessi di alcune élite cosmopolite che fanno capo agli Stati Uniti e distruggere definitivamente i propri di interessi?

Ce la sentiremo di difendere la traballante egemonia mondiale di un Paese disastrato, che sta perdendo la sua ciambella di salvataggio, cioè il predominio del Dollaro, e che ci sta spingendo alla rovina assieme a lui e prima di lui? [3]

Ce la sentiremo di andare a combattere a migliaia di chilometri di distanza, in Ucraina e nel Mar Cinese Meridionale, minacciando l’integrità della Russia e della Cina nei loro stessi giardini di casa se non addirittura sul loro stesso territorio e sui loro mari? Che tradotto vuole anche dire: ce la sentiremo di sfidare per l’ennesima volta le lezioni della Storia, proprio mentre la congiuntura storica stessa è tutta a nostro sfavore?

 

2. Le risposte dipendono dal concorso di ciò che succede in varie dimensioni.

Una dimensione è legata al caso (qualche incidente può sempre esserci quando si gioca con l’alta tensione, qualche disastro naturale può sempre avvenire), mentre un’altra dimensione è legata alla personalità e alla caratura dei governanti occidentali, purtroppo drammaticamente bassa in termini di rettitudine, preparazione, capacità di analisi, e consiglieri di cui si circondano. Possiamo chiamarle “gruppo di dimensioni A” (da “aleatorie”, anche se in realtà sono semi aleatorie, dato che raramente i “disastri naturali” sono esclusivamente naturali ed è il sistema che seleziona le classi dirigenti, le coopta). Un’altra dimensione riguarda i rapporti di forza militari tra la potenza delle parti in conflitto. La chiameremo “dimensione V” (da “violenza” – credo che sia il termine più onesto). Collegata ad essa abbiamo i rapporti di forza economico-finanziari che costituiscono la “dimensione D” (da “denaro”). Infine abbiamo la differenza delle loro strutture sociali e politiche, una dimensione che non è meccanicamente deducibile dalla dimensione D, ma è ovviamente ad essa collegata; la chiameremo “dimensione T” (da “territorio”). Alla base di tutto ci sono i differenti rapporti sociali (chiamati spesso, in modo inesatto, “modelli di sviluppo”).

Collettivamente possiamo allora chiamare il compito di analisi “AVDT” e consiste nello sbrogliare il groviglio esistente individuando dove agiscono, come agiscono e come evolvono le varie dimensioni sopra accennate, descrivendo al meglio tramite esse le parti che si contrappongono, i motivi della contrapposizione (le sue origini storiche e logiche) e, infine, cercare di capire cosa uscirà da questo confronto, non per divinazione ma per applicazione della razionalità all’analisi dei processi in essere.

Un compito difficile, ma per fortuna ci sono lavori che aiutano a non brancolare del tutto nel buio. Sto parlando delle classiche analisi di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Karl Polanyi, di Giovanni Arrighi e Samir Amin, della coppia Shimshon Bichler-Jonathan Nitzan, di David Harvey, di Jason Moore, di Gianfranco La Grassa e di Michael Hudson e, in Italia, delle recenti proposte interpretative di Raffaele Sciortino, Pierluigi Fagan, Gianfranco Formenti, del gruppo Brancaccio-Giammetti-Lucarelli, per fare alcuni nomi e, di nuovo, di Michael Hudson e di altri autori, spesso apparsi su Sinistra-in-rete, che coi loro contributi permettono di gettare luce su un aspetto o l’altro di questo complesso problema [4].

Purtroppo, non essendoci un organismo coordinante, questi contributi non riescono a consolidarsi in una lettura, per l’appunto, organica. E questo è un problema squisitamente politico. Se la guerra in Ucraina ha fornito la scusa per ampliare e approfondire l’emarginazione e addirittura la criminalizzazione delle voci dissenzienti, la nostra capacità di opporci a quello che ormai a tutti gli effetti è un regime totalitario, nel senso che impone una visione totale del mondo (sociale, politica, economica, scientifica e valoriale), è indebolita dalla suddivisione in una miriade di “voci” che non si coordinano nelle modalità di presentazione e rimangono scollegate [5]. Queste voci presentandosi prive di un moderatore politico che quanto meno le inquadri e le metta in correlazione le une con le altre, appaiono isolate anche quando concordano tra loro e anche quando sono offerte in un unico involucro, come ad esempio un medesimo portale (cosa in sé meritoria). Anche questo è un segno dei tempi.

Oltre che a rimandare alla bibliografia (che si trova agevolmente sul web) dei singoli autori sopra citati e a raccomandare la visita a portali come questi, l’esposizione che segue è in forma di note dove le varie dimensioni saranno implicite e non chiamate per nome.

 

3. La Nato che affronta direttamente la Russia e muove guerra alla Cina è un’idea folle. Tuttavia è veramente il sogno proibito dei crazy freaks neo-liberal-con al potere attualmente a Washington. Per gli ambienti statunitensi meno psicopatici è invece una minaccia per cercare di compattare gli alleati, far vedere al mondo che non si intende cedere il posto di comando e infine per spaventare Mosca e cercare di farle accettare un compromesso ed evitare il completo collasso dell’Ucraina (con eventuale spartizione tra Russia, Polonia, Ungheria e Romania) e quindi l’umiliazione dell’Alleanza Atlantica.

Una richiesta di compromesso che Mosca ha già rinviato al mittente perché giudicata poco seria, specialmente dopo l’ammissione occidentale (Hollande e Merkel riguardo gli accordi di Minsk) che noi tradiamo i patti in modo premeditato (da parte Russa potrebbe essere una scusa, o meglio un utilizzo ai propri fini della sbalorditiva provocazione franco-tedesca istigata dalla Nato).

Bisogna anche sottolineare che le politiche di sicurezza nazionale svolgono un ruolo di potente barriera unitaria protezionistica militare ed economica. Da questo punto di vista, per gli Stati Uniti il conflitto attuale è un mezzo per perseguire un fine economico più ampio dell’ovvio arricchimento dell’apparato industriale-militare: cercare di re-industrializzarsi ai danni principalmente dell’Europa.

Dualmente, l’innalzamento di una barriera unitaria protezionistica militare ed economica è stata per la Russia e la Cina una reazione obbligata all’aggressività statunitense, che ha creato ex novo percorsi che non erano previsti, ha accelerato tendenze latenti che avevano altre tempistiche o sbloccato processi che altrimenti difficilmente avrebbero visto la luce. E tutto questo si riversa e riverbera nella configurazione sociale, economica e politica dei due principali Paesi competitor degli Stati Uniti.

Siamo di fronte alla “larger picture”, cioè al quadro di quanto succede al di fuori dell’Ucraina, il quadro che spiega la guerra e che a sua volta è influenzato da ciò che avviene sui campi di battaglia. Per inserire il conflitto armato stesso nella larger picture occorre per prima cosa, accettare quanto segue:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Questo è uno dei monopoli fondamentali del dominio mondiale. Gli altri sono quello dell’accesso alle fonti energetiche e alle altre risorse fondamentali (come il settore chimico-agricolo-farmaceutico), quello dei sistemi finanziari e di pagamento, quello della cultura e dell’informazione/comunicazione e infine quello dell’innovazione scientifica e tecnologica. Monopoli diversi ma collegati tra loro.

Questo collegamento spiega la famosa “resilienza” (termine che detesto) della Russia:

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

E’ un’osservazione che vale in questo caso, non in generale. Un paradosso, nel senso di contraddizione reale, che non può essere né concepito né spiegato se non si ha una visione sistemica degli eventi. Infatti gli esperti occidentali di scuola canonica (economisti, politologi, geostrateghi e chiromanti d’altro tipo) si sentono spersi: “Le sanzioni non funzionano. Ma come?”. E cercano spiegazioni nelle minuzie.

Il fatto è che attorno a questa guerra tutto il sistema-mondo si muove, e velocemente, per un terzo motivo:

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Se non si capisce, o si fa finta di non capire, che per la Russia questa guerra è esistenziale sarà un disastro di ampiezza mai vista perché le guerre esistenziali la Russia le ha sempre vinte indipendentemente dal prezzo da pagare. Non solo dobbiamo ricordarci di Napoleone, di Hitler o dei Cavalieri Teutonici, ma è meglio che Varsavia e i Paesi baltici si ricordino di come sono finite le mire espansionistiche di Sigismondo III e della sua Confederazione Polacco-Lituana durante il “Periodo dei Torbidi” quando pure la Russia versava in stato di debolezza [6].

Ma Mosca è anche perfettamente consapevole che questa guerra si inserisce diritta nel cuore della crisi sistemica ed è quindi destinata a rivoluzionare il sistema-mondo. Basta rileggersi uno qualsiasi dei discorsi di Putin dell’ultimo anno. Anche gli Stati Uniti lo sanno perfettamente e ciò lascia sbalorditi, perché la potenza egemone non poteva concepire una strategia peggiore:

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ciò che è stupefacente è che questo esito era stato ampiamente previsto con molta precisione da uno dei maggiori geopolitici statunitensi, Georg Kennan, uno dei “padrini” della Nato, che già nel 1997 aveva avvertito: «L’opinione, per dirla senza mezzi termini, è che l’espansione della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intera era post-guerra fredda. Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionaliste, antioccidentali e militariste dell’opinione pubblica russa, abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa, riporti l’atmosfera della guerra fredda nei rapporti Est-Ovest, e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento» [7].

Durante la guerra esistenziale contro Napoleone la Russia si compattò attorno allo zar Alessandro I Romanov. Durante la guerra esistenziale contro Hitler la Russia si compattò attorno al segretario del Partito Comunista Josif Stalin. Oggi nella guerra esistenziale contro la Nato, la Russia si è compattata attorno al presidente Vladimir Putin. Difficilmente si può sostenere che non fosse prevedibile.

Questa strategia suicida dice pressoché tutto dello stato misto di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva della leadership occidentale. Uno stato ormai patologico dovuto a un gioco di hubris e di disperazione che avvitandosi una sull’altra rendono impossibile l’elaborazione di un percorso alternativo, di una via di fuga non distruttiva.

 

4. Se dunque la nazione russa si compatta attorno ai suoi leader per combattere una guerra esistenziale, attorno alla guerra in Ucraina in quanto guerra sistemica la larger picture si muove.

Si pensi, ed è un solo esempio, alla recente “Dichiarazione dell’Avana” dei banchieri centrali, presidenti e parlamentari di 25 Paesi riuniti a Cuba il 27 gennaio scorso. E’ un programma per la creazione di un blocco planetario «led by the South and reinforced by the solidarities of the North».

«Il Congresso riconosce l’opportunità critica offerta dalla presidenza cubana del Gruppo dei 77 più la Cina per guidare il Sud fuori dalla crisi attuale e incanalare gli insegnamenti della sua Rivoluzione verso proposte concrete e iniziative ambiziose per trasformare il più ampio sistema internazionale». «La liberazione economica non sarà concessa ma conquistata».

Quando ci entrerà in testa che non ci sopporta più nessuno e facciamo di tutto per non essere sopportati? Quando capiremo che la maggior parte del mondo, in Ucraina ci vuole vedere umiliati, anche chi all’ONU vota secondo creanza o pressione?

La ribellione al cosiddetto “ordine internazionale” ha come protagonisti Paesi che si sentono minacciati e Paesi che si sentono soffocati dall’architettura di potere occidentale. Il verbo “sentire” è però impreciso, perché le minacce occidentali sono da tempo aperte, esplicite, spudorate, così come lo è la rapina. Dietro a questo disastro c’è l’abnorme finanziarizzazione dell’economia occidentale che è stata la via d’uscita “naturale” (in senso capitalistico) dalla crisi di sovraccumulazione degli anni Settanta. Ovviamente esiste un rapporto tra la disconnessione dell’economia dai valori reali e la disconnessione del pensiero occidentale dalla realtà. Lo studio dei suoi particolari è un tema seducente ma purtroppo non ho sufficienti conoscenze per affrontarlo e lo lascio quindi ad altri [8].

Il grosso ostacolo a una “revisione” interna all’Occidente della sua politica, suicida oltre che omicida, è dunque un blocco cognitivo e culturale connesso all’esasperante livello di finanziarizzazione raggiunto dall’economia. La bolla finanziaria incombe come un mostruoso ordigno nucleare pronto a scoppiare. Nel tentativo di depotenziare lo scoppio, le élite finanziarie obbligano l’ambiente esterno al centro capitalistico occidentale ad estrarre quanto più profitto e a sequestrare quanta più ricchezza sociale sia possibile per devolverli al centro egemone in crisi in cui la rendita finanziaria ha sostituito l’estrazione di profitto alimentando la sovraccumulazione, e parimenti obbligano l’Occidente stesso a un’operazione di auto-cannibalizzazione che consiste nell’avvitarsi in politiche di austerity e deflazione salariale e nella privatizzazione selvaggia del dominio pubblico (welfare, capitale sociale fisso, servizi).

Se l’inizio della crisi sistemica fu segnalato dal decennio di stagflazione (stagnazione con inflazione, superata dall’avvio della finanziarizzazione dell’economia), oggi, dopo poco più di mezzo secolo, nello show-down della crisi concorrono stagnazione, inflazione e finanziarizzazione, un triangolo devastante esasperato dallo scardinamento della globalizzazione dovuto allo scontro sistemico stesso.

Oggi la finanziarizzazione non può più essere un rimedio perché è stata utilizzata fino all’eccesso (come già avvertiva Thomas Friedman nel 2004 sul New York Times: “gli elefanti possono volare, ma solo per poco tempo” [9]). Non solo, ma il Paese dove oggi sono concentrati i mezzi di pagamento mondiali, la Cina, è largamente al di fuori del raggio d’azione politico imperiale e quindi della possibilità di far fagocitare le sue risorse dal sistema finanziario occidentale ormai fuori controllo.

Ecco allora un disperato tentativo imperiale di re-industrializzazione che essendo ostacolato dalla neo-compartimentazione dell’economia mondiale alimentata dagli scontri geopolitici, avviene ai danni dei vassalli in Europa e in Giappone e deve fare i conti con ritardi tecnologici, con mancanza di materie prime e con perdita di know how [10].

Negli Stati Uniti si rendono conto dell’impossibilità di una strategia coerente e solida per mantenere l’egemonia mondiale. Esclusa una guerra nucleare dalla quale i generali sanno perfettamente che gli Stati Uniti uscirebbero totalmente distrutti, l’unica speranza sarebbe un collasso interno della Russia e della Cina, inverosimile per mille ragioni, storiche, geografiche, antropologiche, culturali, economiche e politiche ampiamente studiate.

L’unica regione che è ripetutamente collassata nella Storia è stata l’Europa, il continente più violento del pianeta, suddiviso in mille poteri e con la possibilità idro-orografica di fare e disfare mille confini. Gli Stati Uniti si trovano in una situazione, anche geografica, più vantaggiosa di noi, ma il suo sistema economico-sociale ha assunto da subito un andamento “estrovertito”, cioè dipendente dalla conquista diretta o indiretta di crescenti spazi esterni, nonostante spesso si parli delle tendenze “isolazioniste” statunitensi. L’espansionismo è un fenomeno che era comprensibile per la piccola Inghilterra ma è abbastanza sorprendente in una nazione che nasce e si consolida su spazi enormi (“confederazione” e “impero” erano termini intercambiabili per i fondatori degli Stati Uniti). La spiegazione più verosimile è che esso sia dipeso dalla grande capacità di accumulazione degli Stati Uniti messa definitivamente in moto a livello internazionale proprio dal periodo protezionistico che seguì quella Guerra Civile in cui furono sconfitti gli interessi legati alla preminenza dell’impero britannico e alla triangolazione atlantica (manufatti inglesi scambiati con schiavi africani, schiavi africani scambiati con prodotti tropicali americani, prodotti tropicali americani scambiati con manufatti inglesi). E’ la ragione per cui considero la fine della Guerra Civile Americana l’inizio dell’era contemporanea, o meglio ancora dell’era “attuale”.

 

5. La necessità di “estroversione” degli Stati Uniti si scontra ora con la resistenza di due enormi competitor che storicamente non sono dipesi da un’esigenza simile. Ciò che sovente viene chiamato “imperialismo russo” e “imperialismo cinese” sono in realtà relazioni economiche internazionali di natura differente. Ad esse viene dato l’appellativo di “imperialismo” per pigrizia, per comodità, per incapacità di concepire fenomeni diversi da quelli che hanno caratterizzato l’Occidente nella sua particolare traiettoria storica. Le cose stanno in modo differente e non casualmente Giovanni Arrighi intitolò la sua ultima monografia “Adam Smith a Pechino” e non “Karl Marx a Pechino”. Per quanto riguarda la Russia mancano analisi precise che comunque non dovrebbero sottostimare l’influenza di oltre 70 anni di bolscevismo. La stessa reazione di Putin alla shock therapy messa in atto da Eltsin ha risentito, sebbene in modo altalenante, di quella tradizione e dell’attaccamento della popolazione russa ad essa (innanzitutto ai servizi statali e all’assistenza sociale, ma anche ideale, a giudicare dal fatto che il Partito Comunista della Federazione Russa col 19% è il secondo partito [11]).

L’ultima grande stagione di estroversione statunitense è stata la cosiddetta “globalizzazione”, «another name for the dominant role of the United States», come affermò candidamente Henry Kissinger in una conferenza al Trinity College di Dublino il 12 ottobre del 1999. Ma la globalizzazione ha avuto come esito inintenzionale proprio la crescita dei grandi competitor strategici degli Usa e dei competitor minori che attorno ad essi si stanno aggregando. Questo ha portato a un deterioramento della globalizzazione e a una neo-compartimentazione del sistema-mondo dove le economie giovani e dinamiche stanno da una parte e quelle mature e obsolescenti dalla parte opposta.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo)[12].

Il deterioramento della globalizzazione ha provocato quello dei processi di alimentazione delle prime da parte delle seconde. Se la globalizzazione serviva a sopperire a ciò che non potevano più fare le singole società nazionali occidentali né il loro assemblaggio/coordinamento nell’economia-mondo centrata sugli Stati Uniti, ovvero “pompare energia” sufficiente dai processi di creazione del valore a quelli di accumulazione monetaria, il suo scardinamento sta obbligando il centro dominante a ricorrere alla “accumulazione per espropriazione” ai danni dei suoi stessi vassalli. Ma facendo ciò gli Stati Uniti si stanno ritraendo dalla posizione di Paese “egemone” per assumere le vesti di Paese “dominante”. Se l’egemonia è sempre “corazzata di coercizione”, oggi gli Stati Uniti devono usare un massimo di forza dato che ormai godono di un minimo di consenso, pur avendo ancora una notevole presa culturale [13]. Detto in termini generali, il problema che si è trovato di fronte l’Occidente è stato l’impossibilità di inglobare altre economie-mondo nella propria, un’impossibilità di tipo geopolitico (la sconfitta nel Vietnam è forse stato il suo segnale più precoce).

Il problema che il mondo invece si trova oggi di fronte è proprio l’impossibilità dell’economia-mondo occidentale di coesistere con altre economie-mondo, un’impossibilità che ha le sue radici nella logica dei processi di accumulazione che si sono storicamente strutturatati in Occidente.

L’Occidente è quindi in preda a un giro vizioso perfetto: i tentativi di bloccare l’ascesa dei competitor inducono un indebolimento della sua economia e un approfondimento della crisi e questo diminuisce la sua capacità di contrastare i competitor. O l’Occidente cambia strategia, ovvero accetta di negoziare la propria posizione in un mondo multipolare, pagando ovviamente un prezzo in termini di privilegi, comunque destinati a sparire con la forza, o la situazione diventerà sempre più disperata. E questo è pericolosissimo. Il cambio di strategia deve quindi essere rapido.

La disperazione che serpeggia tra le élite occidentali ha infatti già fatto evaporare le loro residue capacità diplomatiche/egemoniche, quasi che si fosse ormai consapevoli che è meglio essere espliciti e brutali dato che non c’è più possibilità di far identificare il bene degli Usa col bene dell’Occidente e il bene dell’Occidente con quello di tutti.

Se si leggono i rapporti dell’FMI e delle altre istituzioni preposte all’ordine mondiale occidentale, si vede un quadro di desolazione che grazia solo pochi Paesi [14]. La maggior parte delle nazioni del mondo sono considerate un “problema”. Problema che deve essere risolto con macellerie sociali e, in definitiva, con l’aggravamento del problema stesso, in un giro vizioso a beneficio dei soliti pochissimi noti.

Se durante la reaganomics un Paese in via di sviluppo dopo l’altro dovette ricorrere ai prestiti delle banche di New York e Londra che riciclavano i petrodollari, accettando di pagare tassi d’interesse inauditi, mentre oggi invece la coda è a Pechino e anche a Mosca, il motivo è proprio questo: in Cina e in Russia non sono considerati come dei problemi e dei polli da spennare. Il BRICS, il BRICS+, la SCO, l’Unione Economica Eurasiatica, trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime.

Cos’altro è l’architettura monetaria che da alcuni anni viene studiata da Sergej Glazyev, il responsabile per l’integrazione e la macroeconomia della Commissione Economica Eurasiatica, l’organo esecutivo dell’Unione Economica Eurasiatica, e che provvisoriamente possiamo definire “Diritti Speciali di Prelievo Multipolari”, se non una sorta di Bancor, quella moneta orientata al debito, cioè ai Paesi che devono svilupparsi, anche in deficit, e non sottoposta a una singola nazione, proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata a favore del Dollaro (il gold-dollar exchange standard), ovvero una moneta internazionale orientata al credito e al sostegno geopolitico di una parte sola, gli USA, che allora erano la più grande potenza creditrice del mondo?

Il BRICS, il BRICS+, la SCO e la UEE sono impetuosi corsi d’acqua che finiranno per confluire in un unico fiume, assieme al G77, la ridestata Organizzazione dei Paesi non Allineati. Ridestata, che lo si voglia o no, dall’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina. Un fiume rappresentabile (e non certo metaforicamente) con le Nuove Vie della Seta, la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, alla quale già aderiscono 140 Paesi in Asia, Europa e America Latina. Un’area potenzialmente allargabile a quell’80% di Paesi che non applicano nessuna sanzione alla Russia.

 

6. Gli Stati Uniti, o meglio le sue élite, o meglio ancora le sue élite neo-liberal-con legate allo strapotere della finanza e/o a una mentalità eccezionalista, le élite cresciute, spesso anche anagraficamente, e diventate potentissime con la crisi sistemica, guardano a questi processi non capendoli, considerandoli semplicemente degli insulti a un ordine “naturale” che non poteva e non doveva essere perturbato.

E li guardano sempre più impotenti e spaventate. E questo è molto pericoloso, perché può portarle ad atti disperati di cui nemmeno riuscirebbero a calcolare tutte le conseguenze, per via della loro arroganza e dalla loro inesistente, insufficiente o inadatta preparazione culturale e intellettuale.

Che ciò sia evitato dipende soprattutto da come agirà quella parte degli Stati Uniti – e quella parte dei suoi interessi – che vede meno pericoloso e più conveniente adattarsi a un mondo multipolare che cercare di lanciarsi a testa bassa contro il muro di contraddizioni politiche, economiche e militari che la crisi e la sua gestione neoliberista hanno eretto. Si farebbe per lo meno guadagnare al mondo tempo prezioso anche se una soluzione più duratura richiederà un patto che ponga la società al centro. E lo stesso vale per l’Europa.

A questo punto si passa a un altro tema d’analisi che deve rispondere alla domanda seguente:

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Innanzitutto dobbiamo domandarci se tutti questi soggetti nazionali che si stanno ribellando all’ordine globale occidentale sperano che la Russia, o la Cina se per questo, prenda il posto degli Stati Uniti come nazione egemone. La risposta molto semplice è No. Ma questo non sembra nemmeno essere nelle intenzioni. Saggiamente, perché la Storia è arrivata a un punto particolare:

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

E’ un dato storico. Si pensi all’egemonia statunitense entrata economicamente in crisi dopo meno di trent’anni, e si sta parlando di una potenza di primissimo livello che alla fine della II Guerra Mondiale concentrava quasi tutti i mezzi di pagamento mondiali e aveva una produttività che surclassava il resto del globo messo assieme.

La Russia e la Cina vedono perfettamente cosa sta succedendo agli Stati Uniti (ad esempio al suo Dollaro, una volta padrone del mondo). E non vogliono ripetere l’esperienza. Comunque per la Russia i costi sarebbero inaffrontabili se volesse sostituirsi agli USA (tra l’altro litigherebbe subito col suo principale alleato, la Cina, a cui si applica lo stesso ragionamento). Ne segue un’ipotesi:

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Se ciò è confermato, come molte cose fanno pensare, ci sarà (o dovrebbe esserci) di conseguenza un drastico cambio di paradigma sia nei rapporti internazionali sia nei rapporti economico-sociali interni alle singole nazioni, due aspetti dialetticamente collegati, perché da cinquecento anni a questa parte un’economia-mondo è proceduta sempre attorno a un centro egemone, si identificava con esso.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

In Russia la guerra stessa sta facendo rivedere il “modello” economico. È troppo presto per un giudizio, ma le cose stanno cambiando, ad esempio riguardo al ruolo dello Stato. Sono movimenti da tener d’occhio in modo critico.

Siamo di fronte a una ribellione planetaria che obbligherà i futuri studiosi a rivedere la periodizzazione storica e qualche persona non riflessiva o con scarsa capacità di raziocinio potrebbe chiedersi se io, che sono e mi considero occidentale, faccio il tifo per una parte. Di sicuro non faccio il tifo per l’ipocrisia dei bombardatori “umanitari”, per chi ritiene che mezzo milione di bambini morti in Iraq sono “un prezzo giusto”, per chi dal 1945 ad oggi ha provocato con le sue guerre 20 milioni di morti, per chi a Washington dava l’ordine di bombardare con droni matrimoni in Afghanistan, per chi ha massacrato milioni di civili in Vietnam. E non faccio il tifo per chi sventola la svastica.

Faccio allora il tifo per il compimento di un processo storico che da oltre due decenni ritengo inevitabile? Che senso avrebbe? Sarebbe come fare il tifo per il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse. Sarebbe del tutto insensato. Certo, quando torna la luce del giorno si possono fare cose impossibili durante la notte al buio. Ma, per l’appunto, tutto dipende da cosa si fa.

E’ troppo presto per prevedere che tipo di architettura multipolare nascerà dalla ribellione in corso contro il plurisecolare ordine internazionale occidentale.

Posso solo fare ipotesi in base alla Storia e alla logica, ma credo che nessuno possa onestamente dire che le cose sono chiare. Ci separano ancora anni da una bozza di progetto alternativo sufficientemente precisa, e anni per implementarlo, anni che saranno pieni di eventi difficili da prevedere. Anni in cui questo conflitto si amplierà e di conseguenza si approfondirà. Un decennio? Due decenni?

Sulla carta dovrebbe uscirne un sistema più equo. Ma quali livelli di equità sono necessari?

Una cosa per me è certa:

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

Non tifo dunque perché venga il giorno. Il Sole sorgerà da solo, non ha bisogno di incoraggiamenti. Io posso solo sperare che durante la notte si smetta di uccidere, si cessi di provocare sofferenze e che prevalgano il buon senso e la pietà.

Tifo invece perché durante il giorno, per parafrasare Karl Polanyi, si riesca a trovare il modo perché la società con mercato (cosa naturale) prenda il posto della società di mercato (cosa innaturale, dove i rapporti tra esseri umani sono sostituiti dai rapporti tra merci).

Altrimenti, come si suol dire, in poco tempo saremmo da capo a quindici e tutte queste sofferenze sarebbero servite solo a mettere alla luce un essere ancor più mostruoso.

«Superare il capitalismo è dunque non soltanto “correggere la ripartizione del valore” (ciò che produce solo un immaginario “capitalismo senza capitalisti”) ma anche liberare l’umanità dall’alienazione economica»(Samir Amin).


NOTE
[1] Qui le dichiarazioni di Bauer. Qui le dichiarazioni di Minihan. Qui le dichiarazioni di Stoltenberg. Per quelle della von der Leyen si veda qui e qui. I discorsi di Ursula von der Leyen sono casi di studio esemplari sul tema “ipocrisia”. Notevole, ad esempio, questo passaggio: «Il sabotaggio del Nord Stream ha dimostrato che dobbiamo assumerci maggiori responsabilità per la sicurezza della nostra infrastruttura di rete». Realmente fantastico: persino i sassi, anche quelli americani, sanno che questo sabotaggio (e disastro ambientale) è stato opera di Stati Uniti/Nato. Ai sassi che ancora non lo sanno consiglio l’inchiesta investigativa del Premio Pulitzer Seymour Hersch. Questa inchiesta è piena di dettagli che possono essere conosciuti solo da “insider”. Che alcune “gole profonde” abbiano permesso in questo momento a Hersh di produrre il suo “scoop”, la sua “bombshell”, è evidente sintomo di una lotta interna all’establishment statunitense. Mi è immediatamente ritornato in mente lo scandalo Watergate e la sua copertura da parte di Bob Woodward e Carl Bernstein per il “Washington Post” (da sempre legato alla CIA) e dallo stesso Hersh per il “New York Times”. In quel caso si è saputo che la “gola profonda” era niente meno che il vicedirettore della CIA, Mark Felt.
Per quanto sia incredibile, persiste ancora un mito condensato nella celeberrima frase «È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» (Ed Hutcheson-Humphrey Bogart alla fine del film di Richard Brooks L’ultima minaccia, 1952): la (libertà di) stampa può mettere in ginocchio il potere. Vedremo in un’altra nota che fine ha fatto la libertà di stampa negli USA e in Occidente, ma anche all’epoca del Watergate ci voleva ben altro che un’inchiesta-bomba, come ha ammesso la stessa editrice del “Washington Post”, Katharine Graham: «A volte la gente ci accusa di “aver abbattuto un presidente”, cosa che ovviamente non abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare. I processi che hanno causato le dimissioni [di Nixon] erano costituzionali». E persino dallo stesso Woodward: “La mitizzazione del nostro ruolo nel Watergate è arrivata al punto di assurdità, in cui i giornalisti scrivono … che io, da solo, ho abbattuto Richard Nixon. Totalmente assurdo”.
Per mettere in ginocchio il potere ci vuole una rivoluzione o un altro potere che vuole scalzarlo, eventualmente “utilizzando” ottimi giornalisti (o comprandone di spregiudicati o vili, cosa che avveniva fin dai primordi della professione come ci racconta Rossini nella sua opera lirica “La pietra di paragone”).
Il fine dell’estromissione di Nixon è ancoro dibattuto negli Stati Uniti (l’anno scorso c’è stato il cinquantenario dello scandalo). Io sono convinto che si volesse impedire il suo disimpegno dal Vietnam. Per altri non è così, ma è la stessa caoticità delle forze e dei decisori statunitensi che non permette una lettura univoca.
Tornando alla von der Leyen, nei suoi interventi si possono notare anche stupidaggini terminologico-concettuali come «la guerra brutale della Russia». La signora von der Leyen sa indicarci una guerra che non sia stata brutale? Forse quella del Vietnam col 67% di vittime civili? O quella in Iraq col 77%? Tutte le guerre sono brutali!
Si noti che il termine composto “guerra della Russia” è accompagnato da due tic, da due automatismi. Il primo è, appunto, aggiungere l’aggettivo “brutale”, il secondo è aggiungere l’aggettivo “non provocata” (unprovoked). Da linguista e scienziato cognitivista geniale qual è, Noam Chomsky ha subito commentato: «Of course, it was provoked. Otherwise, they wouldn’t refer to it all the time as an unprovoked invasion. By now, censorship in the United States has reached such a level beyond anything in my lifetime».
Per quanto riguarda invece la potenza economica dei contendenti, la Cina supera del 20% gli USA per PIL calcolato in PPP e di 8 volte gli UK (noi siamo al 12° posto). Ma nonostante il confronto sulla base del PPP sia più preciso rispetto a quello in base ai valori nominali, tuttavia è incompleto. Come la stessa RAND Corporation ammette «[Il] PIL fornisce solo un limitato quadro del potere. Dice poco sulla composizione dell’economia, come ad esempio se è guidata da settori di punta o è invece dominata da quelli vecchi e in declino». Lo stesso discorso riguarda il budget per la difesa (cfr. RAND Corporation, Measuring National Power”, 2005).
Ma se si prendono sul serio questi “caveat” notiamo un ulteriormente aggravamento della posizione statunitense dato l’altissimo grado di finanziarizzazione della sua economia che significa ridotte capacità produttive reali. Si pensi solo alla produzione statunitense legata all’industria militare comparata a quella Russa. Inoltre, la logica di produzione, guidata dai profitti privati e non dall’efficacia del risultato, spinge i produttori a sviluppare sistemi d’arma complicatissimi e costosissimi ma operabili con difficoltà nei conflitti reali contro un avversario alla pari.
[2] I dati catastrofici per le forze armate ucraine, ancor più allarmanti se confrontati con le perdite russe inferiori di un ordine di grandezza, fuoriescono ora non solo dagli ambienti del Pentagono ma anche da quelli del Mossad e non sono nascosti nemmeno dalla BBC. Per quanto riguarda l’economia, l’FMI ha dichiarato che nonostante la Russia sia la nazione più sanzionata della Storia il suo PIL è più alto di quello della Germania. In compenso il PIL dei bellicosi e revanscisti UK è in zona negativa. Inflazione, fallimenti, disoccupazione, collasso dei servizi pubblici, strette sulle pensioni, il quadro europeo è disastroso e con prospettive foschissime. Non oso nemmeno pensare a cosa succederà quando gli Stati Uniti ci obbligheranno alle sanzioni contro la Cina: dopo la perdita dell’energia a buon mercato russa andremo incontro alla perdita delle merci a buon mercato cinesi. Al di là di ogni altra conseguenza, la produzione di profitto in queste condizioni sarà impossibile a meno di far ritornare i lavoratori ai tempi di Dickens. E in un sistema capitalistico il profitto è la molla dell’economia reale.
Voglio far notare incidentalmente che un rapporto speciale dell’ONU sulla povertà negli UK già comparava la situazione del 2019 alle situazioni descritte da Dickens:
«Ad alcuni osservatori potrebbe sembrare che il Dipartimento del lavoro e delle pensioni sia stato incaricato di progettare una versione digitale e sterilizzata del laboratorio del diciannovesimo secolo, reso famigerato da Charles Dickens, piuttosto che cercare di rispondere in modo creativo e compassionevolmente ai bisogni reali di coloro che affrontano una diffusa insicurezza economica in un’epoca di profonde e rapide trasformazioni indotte dall’automazione, dai contratti a zero ore e da una disuguaglianza in rapida crescita» (UN Report of the Special Rapporteur on extreme poverty and human rights: Visit to the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, pag. 5). Ed è del tutto inutile consolarci con scuse come l’uscita degli UK dalla UE: Italia, de te fabula narratur.
La situazione degli Stati Uniti non è molto più rosea, se non dal punto della forza geopolitica relativa e quindi della loro capacità di far pagare il più possibile la crisi a noi. Ma mentire è ormai una questione di vita o di morte. E si mente in modo così spudorato ed esagerato che gli esperti si grattano scettici la testa: “ ‘Too good to be true’ jobs report draws skeptics on data quirks”, titola “The Philadelphia Inquirer” il 3 febbraio scorso, un articolo che riporta le stime di Bloomberg che parlano di un aumento di oltre mezzo milione di posti di lavoro in Gennaio, cosa che porterebbe il tasso di disoccupazione addirittura ai livelli più bassi dal 1969, cioè da inizio crisi! L’Inquirer fa notare però che si tratta di un dato “aggiustato” e che la stessa Bloomberg ammette che «Su base non rettificata, le buste paga sono in realtà diminuite di 2,5 milioni il mese scorso» (“On an unadjusted basis, payrolls actually fell by 2.5 million last month).
[3] I BRICS stanno elaborando un sistema di pagamenti alternativo al Dollaro, notizia che non si trova nei media occidentali ma che potete trovare sul media outlet indiano “Business Standard”.
Comunque il “Financial Times” ci informa che le due più grandi economie dell’America Latina, Brasile e Argentina, hanno iniziato la preparazione di una moneta comune, che si dovrebbe chiamare “Sur”, per incrementare il commercio regionale e “ridurre la dipendenza dal Dollaro”.
L’Arabia Saudita sta considerando di vendere petrolio in divise diverse dal Dollaro.
La Cina sta trattando per comprare energia dai Paesi del Golfo in Yuan.
Le banche centrali di Russia e Iran alla fine dello scorso gennaio hanno firmato un accordo per connettere le banche dei due Paesi attraverso un sistema alternativo allo SWIFT.
Intanto le riserve cinesi in bond governativi statunitensi sono diminuite in un anno di 92 miliardi di dollari.
Ovviamente l’Euro non se la passerà meglio: il vice-ministro russo delle Finanze, Vladimir Kolychev ha dichiarato che entro l’anno la quota di Euro nei Fondi Nazionali Russi sarà azzerata nell’ambito di una revisione della composizione del fondo che alla fine ammetterà solo Rubli, Yuan e oro.
Per un’analisi generale recente si veda il rapporto “The Future of the Monetary System”, pubblicato niente meno che dal Credit Swiss e redatto da un team diretto da Zoltan Pozsar, un autore che consiglio di seguire.
[4] Su un versante politico-filosofico dobbiamo aggiunge Gramsci come classico (la fondamentale nozione politica di “egemonia” è sua) e Costanzo Preve come pensatore contemporaneo.
Questi autori non dicono le stesse cose, né hanno le stesse preoccupazioni. Ad esempio, se Lenin e la Luxemburg sono dei politici, Arrighi è un economista e storico, Shimshom e Bichler sono economisti, Harvey è un geografo mentre Moore si occupa di sistemi socio-ecologici. Ma se invece di dare al loro pensiero una lettura tutta interna alla dimensione delle idee, incasellando i loro ragionamenti sui rami di un albero col tronco ben piantato sottosopra con le radici nel cielo, si cercano di capire i problemi concreti, materiali, su cui si sono concentrati, e di localizzare sia i problemi che i punti di vista, (localizzare in senso storico e geografico), allora oltre ai punti di divergenza si potranno notare anche gli elementi comuni senza necessariamente rischiare di cadere nell’eclettismo. Specie se si traguarda la loro lettura coi problemi che devono essere affrontati oggi. Per parafrasare Marx, non bisogna dividere in quattro le idee, i concetti, per collocarli in una tassonomia accademica («Prima di tutto, io non parto da “concetti”, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto», Marx, “Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner”).
[5] Riguardo lo sprofondamento in un regime da Ministero della Verità orwelliano, si pensi innanzitutto a Julian Assange. O si pensi a Seymour Hersh, il più grande giornalista investigativo statunitense, il Premio Pulitzer che svelò il massacro di My Lai e i bombardamenti segreti della Cambogia durante la guerra del Vietnam e denunciò le torture di Abu Ghraib. Autore di inchieste che comparivano in prima pagina sul “New Yorker” e sul “New York Times”, oggi è emarginato come un paria essendosi opposto alle versioni ufficiali degli attacchi chimici in Siria, del caso Skripal e del sabotaggio del Nord Stream. Si pensi ancora al giornalista britannico Graham Phillips, accusato di “crimini di guerra” per aver detto che il mercenario britannico in Ucraina Aiden Aslin era, per l’appunto, un mercenario. Gli hanno anche bloccato il conto in banca. Alla giornalista tedesca Alina Lipp oltre che congelare il conto in banca hanno sequestrato il computer e rischia la galera con l’accusa di aver “diffuso notizie false atte a turbare l’ordine pubblico” per non essersi uniformata alla copertura dei media Minculpop sulla guerra. Sorte simile per la cineasta francese Anne-Laure Bonnell, acclamata nel 2016 persino dal “New York Times” per un suo documentario sul Donbass e oggi esclusa da ogni evento cinematografico con la colpa di voler continuare a dire la verità sul Donbass. Ha anche perso il posto all’università parigina dove insegnava. Il giornalista italiano Giorgio Bianchi è entrato nella kill list dei servizi segreti ucraini che appare nel sito “Myrotvorets” (“Il pacificatore”), senza che il nostro ministero degli Esteri si sia sentito in dovere di protestare.
La cosa più inquietante è la velocità con cui siamo passati dal pluralismo all’intolleranza.
[6] «A noi non interessa un mondo senza la Russia», ha dichiarato Putin, ma questo è il sentire del 99% dei Russi e lo hanno dimostrato in 1.000 anni di storia. Che quella in Ucraina sia una guerra esistenziale, ai Russi glielo abbiamo fatto capire con abbacinante chiarezza dichiarando esplicitamente: 1. che la guerra in Ucraina è stata deliberatamente preparata per anni, tradendo ogni accordo, per indebolire la Russia; 2. che vogliamo abbattere il legittimo governo che i Russi hanno eletto; 3. che vogliamo smembrare la Russia come abbiamo fatto con la Jugoslavia; 4. che odiamo o ci è estraneo tutto ciò che è russo.
[7] George F. Kennan, “A Fateful Error”, The New York Times, 5 febbraio 1997.
[8] Riguardo questo tema posso fare solo alcune considerazioni di metodo. La classica dottrina della “verità” si basa sulla definizione aristotelica di “adaequatio rei et intellectus” dove il soggetto che parla (intellectus) è distinto dalle cose (res) di cui questo soggetto parla. In tempi moderni, questa distinzione è stata rielaborata dal logico tedesco Gottlob Frege in quella tra “Sinn”, cioè “senso”, e “Bedeutung”, cioè “riferimento”, e l’interpretazione “realistica” del concetto di “riferimento” era sottintesa anche nella semantica formale del grande logico e matematico polacco Alfred Tarski. Ma col post-strutturalismo (Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Jacques Lacan, Michel Foucault, ecc.) il “riferimento” viene relativizzato (o “intenzionalizzato”) abbandonandone l’interpretazione “realistica”. La semiotica post-strutturalista di Umberto Eco, ad esempio, riallacciandosi alla “semiosi illimitata” di Charles Sanders Peirce, sostiene che l’enunciato “La neve è nera” è rifiutato non perché si riferisce erroneamente a uno stato di cose, ma perché altrimenti dovremmo «riorganizzare le nostre regole di comprensione”, dato che questa affermazione romperebbe una “unità culturale”» (“Trattato di semiotica generale”, Bompiani, 1975 § 2.5). L’interpretazione diventa un riferimento interno in una sorta “antinomia del mentitore” metodologica. La critica post-strutturalista, che ha lati interessanti e altri cialtroni, specialmente quando mima il rigore delle scienze esatte, ha condotto a quelle posizioni relativistiche che oggi sono sfociate nei concetti di “narrazione” e di “post-verità”.
Già nel 1994 Noam Chomsky era esterrefatto da questa deriva:
«Se finisci per dirti: “è troppo difficile occuparsi dei problemi reali” ci sono un sacco di modi per non farlo. Uno di essi consiste nel disperdersi in affari di scarsa importanza. Oppure impegnarsi in culti accademici completamente avulsi dalla realtà e che costituiscono un riparo al doversi occupare delle cose come stanno. E’ pieno di comportamenti di questo genere, anche all’interno della sinistra. … Oggi nel Terzo Mondo predomina un senso di profonda disperazione e di resa. Il modo in cui si è estrinsecato questo atteggiamento, nei circoli colti che hanno contatti con l’Europa, è stato di immergersi completamente nelle ultime follie della cultura parigina e di concentrarsi totalmente su di esse. Per esempio, se dovevo parlare di attualità, anche in istituti di ricerca che si occupassero di aspetti strategici, i partecipanti volevano che li traducessi in vaneggiamenti postmoderni. Per fare un esempio, piuttosto che sentirmi parlare dei dettagli dell’azione politica statunitense in Medio Oriente, cioè a casa loro – che è una cosa sporca e priva d’interesse – preferivano sapere in che modo la linguistica moderna fornisse un nuovo paradigma argomentativo riguardo gli affari internazionali, capaci di soppiantare il testo poststrutturalista. Questo li avrebbe davvero incantati… . Tutto ciò è deprimente.» (Keeping the Rabble in Line: Interviews With David Barsamian”. Questo passaggio è citato opportunamente da Alan Sokal e Jean Bricmon nel loro “Imposture intellettuali” (Garzanti 1999) nel loro tentativo di “mettere in guardia la sinistra da se stessa” (Nota: quasi 30 anni dopo, come stiamo vedendo, il Terzo Mondo è meno disperato e vede la possibilità di sottrarsi agli artigli dell’Occidente e alle sue “follie parigine” sempre più fuori controllo).
Non era necessario che finisse così male, ma così è stato, per questioni storiche: questo modo di concettualizzare fa comodo al Potere, perché la narrazione, la post-verità, è in mano a chi controlla i media, a chi gestisce il “soft power”. Il “politicamente corretto” fa parte di questi esiti: non è corretto dire “negro” (piano linguistico), ma ciò non evita che la stragrande maggioranza relativa di condannati a morte negli USA sia composta da “neri” (piano della realtà). Il grande sforzo ideologico di politici e mass media è convincere il pubblico a lasciar perdere lo stato dei fatti e a concentrarsi solo sul linguaggio. Le contraddizioni devono essere espunte dal linguaggio non dalla realtà. Si potrebbe pensare che quanto meno è un inizio. No! E’ già la fine, pura forma senza sostanza.
Allo stesso modo la sinistra si è progressivamente concentrata sugli aspetti più superficialmente “culturali” del conflitto, privilegiando le sottoculture e la difesa dei diritti (e dei bisogni) individuali e di gruppi specifici che non creano nessun reale fastidio, sostituendo con tutto ciò la visione materialista del mondo e la difesa dei diritti e dei bisogni sociali e alienandosi le simpatie popolari a beneficio della destra. Secondo Michael Hudson il tradimento dei propri patti costitutivi è il compito e la ragion d’essere attuale dei partiti di sinistra. Questa deriva era stata ampiamente prevista da Pier Paolo Pasolini. E’ significativo che negli eventi per il centenario della sua morte si sia glissato su questo aspetto del suo pensiero o lo si sia ridotto a fatto di costume o a polemica.
Purtroppo lo scollamento economico e culturale dalla realtà ha indotto equivoci anche in parecchi compagni che assieme ad abbagli sulla globalizzazione si sono messi a teorizzare sul “capitale immateriale”, sulla “infosfera” e sul “lavoro cognitivo” in modi che troppe volte riecheggiavano i vuoti slogan accattivanti dell’avversario.
Faccio notare che a volte persino gli studi statunitensi di geostrategia erano, anche se solo parzialmente, influenzati dall’approccio, diciamo così, “finanziarizzato-poststrutturalista” (si veda ad es. Ashley J. Tellis, Christopher Layne, “Measuring National Power in the Postindustrial Age”, Foreign affairs (Council on Foreign Relations), January 2001.
Una volta messi in circolo questi guasti culturali, agendo sulla de-concettualizzazione promossa dalla “pedagogia progressista” e sull’ideologizzazione indotta da infotainment e tecniche di marketing centrata sull’identificazione di desiderio individuale e diritto, contando sull’ignoranza imposta dalla censura e da un sistema d’informazione uniformato e normalizzato e infine garantite da un meccanismo di punizione-premiazione che obbliga al conformismo ideologico e politico, le élite dominanti hanno trascinato nel loro stato di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva il corpo della società, pressoché nella sua interezza.
[9] Thomas Friedman, “The 9/11 Bubble”. The New York Times, 2 dicembre 2004.
[10] La decentralizzazione negli Usa delle industrie europee comporterà anche un’emigrazione di forza lavoro qualificata e uno avvilimento/smantellamento del ciclo istruzione-ricerca-sviluppo nel Vecchio Continente.
[11] Ovviamente occorre tener conto dei dati anagrafici. Ricordo che nel referendum del 1991 la media di chi chiese il mantenimento dell’Unione Sovietica fu di circa l’80% dei votanti. E faccio anche notare la cautela con la quale Putin ha affrontato il tema dell’aumento dell’età pensionabile (da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne).
[12] Lo sviluppo ineguale è indotto dal fatto che l’accumulazione si basa su differenziali di sviluppo (economici, finanziari, culturali, politici e geopolitici), sia all’interno delle singole società sia tra Paesi e blocchi di Paesi. Per il concetto di “differenziali di sviluppo” e il loro ruolo nei conflitti si può vedere i miei “La logica della crisi” in “Dopo il neoliberalismo”, a cura di C. Formenti, Meltemi 2021 e “Al cuore della Terra e ritorno”, 2013, in due volumi scaricabili gratuitamente qui e qui.
[13] L’espressione “pompare energia” è usata da Fernand Braudel nel suo “La dinamica del capitalismo”, Il Mulino, 1988, pag. 63: «Il capitalismo è, per natura, congiunturale, cioè si sviluppa in rapporto- alle pressioni esercitate dalle fluttuazioni economiche… .[P]enso che nella vita mercantile tendesse ad affermarsi solo un tipo di specializzazione: il commercio del denaro. Il suo successo però non è mai stato di lunga durata, come se l’edificio economico non fosse in grado di pompare energia fino a queste alte vette».
Il concetto di “accumulazione per espropriazione” è stato introdotto da David Harvey rielaborando idee di Rosa Luxemburg, Fernand Braudel e il noto capitolo del Capitale di Marx sulla cosiddetta “accumulazione originaria”, interpretata, come da altri esponenti della scuola del sistema-mondo, come un processo in realtà ricorrente. Si veda “The ‘new’ imperialism: accumulation by dispossession”. Socialist Register 40, 2004, pp. 63-87.
La fondamentale elaborazione gramsciana del concetto di “egemonia” si trova, come è noto, nei “Quaderni del carcere”.
[14] Senza contare che una nazione ricca come la Libia, la più sviluppata dell’Africa, è stata devastata deliberatamente dall’Occidente (compresa vergognosamente l’Italia di cui era la maggior alleata nel Mediterraneo).

https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/24927-piero-pagliani-slittamento-di-paradigma.html?auid=91921

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CRONACHE DEL MONDO MULTIPOLARE, di Pierluigi Fagan

CRONACHE DEL MONDO MULTIPOLARE. Negli ultimi giorni abbiamo avuto un ennesimo voto di condanna delle UN verso l’invasione russa, con l’auspicio di una pace completa, giusta e duratura ed i risultati di una ricerca di opinione condotta dall’European Council for Foreign Relation (ECFR) in Occidente più Russia, Cina, India, Turchia effettuata attraverso tre grandi istituti internazionali. Il tutto ad un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina.
In breve, il voto UN è esattamente identico a quello di un anno fa, nulla si è spostato. Quanto alla ricerca la sintesi più precisa è del Direttore dell’ECFR, Mark Leonard: “Il paradosso della guerra in Ucraina è che l’Occidente è tanto unito quanto ininfluente nel mondo”.
L’opinione di Leonard combacia con quella di altri due partner nell’indagine. Ivan Krastev (Center for Liberal Strategy) ha detto: “Lo studio rivela che mentre la maggior parte degli europei e degli americani vive nel mondo pre-Guerra Fredda, caratterizzato dal confronto tra democrazia e autoritarismo, molti al di fuori dell’Occidente vivono in un mondo postcoloniale incentrato sull’idea della sovranità nazionale”.
Timothy Garton Ash (Oxford, Hoover, Stanford) invece ha detto: “I risultati sono estremamente deludenti: l’’occidente transatlantico, incentrato su Europa e Stati Uniti, è oggi più unito, ma non è riuscito a convincere le restanti potenze principali come Cina, India e Turchia. La lezione per l’Europa e l’Occidente è chiara: abbiamo urgentemente bisogno di una nuova narrativa che risulti convincente per Paesi come l’India, la più grande democrazia del mondo”.
Forse a seguire l’idea espressa da Garton-Ash, Biden ha proposto Banga come direttore della Banca Mondiale, un indo-americano ex Mastercard ed ora Exor (Agnelli), membro associato all’élite statunitense ma anche a capo di molte istituzioni miste USA-India per lo sviluppo commerciale. Banca Mondiale fa parte dell’originario pacchetto Bretton Woods 1945 e dalla sua fondazione ad oggi, il direttore è stato sempre e solo americano. Il corteggiamento americano all’India per portarla nell’alveo occidentalista va avanti da tempo. Oltre a Banga, oggi abbiamo la capo economista del FMI ed addirittura il primo Ministro britannico di origine indiana, oltre molti CEO influenti. Curiosa anche l’espressione usata da TGA ovvero “… abbiamo urgentemente bisogno di una nuova narrativa” che denota una deriva di mentalità in corso in Occidente ormai da un po’ di tempo. TGA non crede che gli indiani siano in grado di ragionare razionalmente sul proprio interesse strategico, hanno solo bisogno noi gli si racconti la storiella giusta. La realtà non esiste, esistono solo interpretazioni, narrative appunto.
Forse è per questo che come invece fotografa Leonard, dopo un anno di guerra l’Occidente si è condensato ed estremizzato sotto la costante pressione narrativa USA-NATO mentre una buona parte del resto del mondo va da un’altra parte. Quale parte?
Il Resto del Mondo pensa che presente ed immediato futuro c’è e ci sarà un mondo condominiale, rifiuta l’idea dei due blocchi contrapposti. Astenuti, assenti, contrari alla risoluzione UN, nonostante i numeri dei voti a favore la risoluzione (141) che comprendono molti stati ininfluenti, sommano comunque più della maggioranza del mondo. Ma molti votanti a favore della risoluzione che contiene comunque auspici ecumenici, ad esempio molti soggetti centro-sudamericani (Argentina, Brasile, Messico), africani, asiatici, non per questo si possono annoverare schierati così convintamente con l’Occidente nel nuovo bipolarismo armato auspicato dagli americani. Questi voti servono solo a fare titoli sui giornali, narrative appunto.
Corretta la sintesi che viene fatta nel Rapporto ECFR: “Uno dei risultati più sorprendenti del sondaggio riguarda le idee divergenti sul futuro ordine mondiale. La maggior parte delle persone sia all’interno che all’esterno dell’Occidente crede che l’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti stia morendo”. E questo lo diamo come condiviso. Poi però “In Europa e in America, l’opinione prevalente è che il bipolarismo stia tornando. Un numero significativo di persone si aspetta un mondo dominato da due blocchi guidati da Stati Uniti e Cina.”. Nel resto del Mondo, invece: “… al di fuori dell’Occidente, i cittadini credono che la frammentazione piuttosto che la polarizzazione segnerà il prossimo ordine internazionale. La maggior parte delle persone nei principali paesi non occidentali … prevede che l’Occidente sarà presto solo un polo globale tra i tanti. L’Occidente potrebbe essere ancora il partito più forte, ma non sarà egemonico”. Differenze tra chi è soggetto a bombardamento narrativo e chi no.
Emerge così la strategia realista americana per quanto qui da noi impacchettata da narrative idealistiche. La Russia dovrà indebolirsi in modo da non esser più un pericoloso competitor militare. Mai più un’altra Siria, ci rivediamo nell’Artico. In vista del condominio planetario, all’Europa va tolta ogni autonomia strategica in modo da permettere a gli USA di sedersi al tavolo delle varie partite in cui si giocheranno i nuovi equilibri mondiali in nome e per conto dell’Occidente Unito. Un anno fa, definimmo questa una “cattura egemonica”, mi pare si sia perfettamente compiuta, obiettivo perfettamente raggiunto. Anche per evitare che l’Europa dia in toto a parte sponda a questo nuovo gioco con tanti giocatori, va imposto il format “crociata democrazie vs autocrazie”. Gli strateghi degli Stati Uniti sanno benissimo che il gioco sarà plurale e vogliono riservarsi quanta più forza per giocarlo da posizione di primato, per quanto sempre meno esclusivo.
Quindi non solo il voto UN è esattamente uguale a quello di un anno fa, anche le mie considerazioni lo sono, un anno fa circa scrivevo le stesse, identiche cose a conflitto appena iniziato.
Una ultima considerazione andrebbe fatta sulla convenienza europea. In prospettiva multipolare, l’Europa avrebbe ben potuto appartenere al fronte non allineato, quello che gli stessi ricercatori ECFR chiamano “Stati oscillanti” (ad esempio Turchia, India etc.), ma questo non era semplicemente possibile. Europa non è, né può essere, un soggetto geopolitico semplicemente perché non è uno Stato, non avrà mai una sola logica di interesse nazionale e non si può fare una strategia a più logiche. Ma neanche nei sogni più sfrenati può auspicare di diventare uno Stato per quanto federale poiché non ha alcun grado di potenziale omogeneità per esserlo. Non ne ha neanche la volontà. Al di là delle polemiche teatrali tra europeisti e sovranisti i leader europei ed i relativi popoli sono tutti cripto-nazionalisti, nessuno pensa di sciogliere il proprio Stato in un comune con altri. Infatti “europeismo” è una nuvola di sfocati pseudo-concetti ciancicati a coprire una realtà di confederazione economica con rilievi giuridici, così è e mai potrà esser altro.
Semplicemente, popoli, intellettuali, élite degli Stati europei, arrivano ad una svolta storica nel Grande Gioco del mondo, impossibilitati a giocarlo. Gli strateghi americani questo lo sapevano e lo sanno, per questo hanno forzato la mano e con successo, perché non c’era alcuna realistica alternativa viabile. Alternative c’erano ovviamente nel mondo delle chiacchiere, non in quello del crudo realismo ed è proprio la mancanza di realismo a far sì che noi si viva e si possa vivere solo nel mondo delle chiacchiere.

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La Cina sembra ricalibrare il suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia. Ecco cosa ho imparato analizzando la nuova guerra fredda per 365 giorni consecutivi, di Andrew Korybko

La Cina sembra ricalibrare il suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia.

Andrew Korybko

Se le dinamiche strategico-militari dovessero spostarsi decisamente a favore della NATO a causa dell’invio di armi più moderne a Kiev a scapito delle esigenze minime di sicurezza nazionale dei suoi membri, come ha lasciato intendere Stoltenberg, allora la pace sarebbe esclusa e la sconfitta della Russia sarebbe possibile. In questo scenario, la Cina potrebbe armare Mosca per mantenere l’equilibrio di potere con la NATO, nonostante le massime sanzioni che l’Occidente potrebbe imporre nei suoi confronti per scongiurare gli scenari peggiori di escalation nucleare o di “balcanizzazione” della Russia.

Stato degli affari

Finora la Cina ha fatto del suo meglio per rimanere completamente estranea alla guerra per procura tra la NATO e la Russia che si sta combattendo in Ucraina, ma una rapida serie di sviluppi negli ultimi giorni suggerisce in modo convincente che sta ricalibrando il suo approccio al conflitto principale della Nuova Guerra Fredda. La presente analisi inizierà evidenziando i suddetti eventi prima di spiegare il contesto più ampio in cui si stanno verificando, che dovrebbe mostrare al lettore che qualcosa di grosso sta accadendo dietro le quinte.

Sviluppi diplomatici in questa direzione

Il direttore dell’Ufficio della Commissione Affari Esteri del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC) Wang Yi ha incontrato la scorsa settimana il presidente russo Putin al Cremlino, dopo aver visitato diversi Paesi e partecipato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. Il colloquio è stato significativo perché il leader russo raramente incontra qualcuno che non sia la sua controparte e non avrebbe fatto un’eccezione alla sua regola informale solo per discutere i dettagli dell’imminente visita del presidente Xi in primavera.

La Cina ha poi presentato il suo piano di pace in 12 punti per risolvere il conflitto ucraino nel giorno del primo anniversario dell’operazione speciale della Russia. Il piano è stato prevedibilmente elogiato dalla Russia, ma pochi si aspettavano che suscitasse anche l’interesse di Zelensky, che ha dichiarato di essere ansioso di incontrare il Presidente Xi per discuterne, nonostante Biden lo abbia snobbato. Lo stesso giorno, il Wall Street Journal (WSJ) ha riferito che Francia, Germania e Regno Unito stanno considerando un patto simile a quello della NATO con Kiev per incoraggiarla a riprendere i colloqui di pace.

Meno di 24 ore dopo, sabato, è stato annunciato che il Presidente bielorusso Lukashenko si recherà in Cina dal 28 febbraio al 2 marzo, mentre il Presidente francese Macron ha dichiarato che intende recarsi anch’egli in Cina all’inizio di aprile. Questo rapido susseguirsi di sviluppi dimostra che la Cina è seriamente intenzionata a negoziare almeno un cessate il fuoco nel conflitto ucraino, per cui il Presidente Xi probabilmente condividerà le sue opinioni in merito con le due controparti sopra citate durante le loro visite.

Speculazioni sulle spedizioni di armi cinesi alla Russia

Allo stesso tempo, tuttavia, i funzionari americani hanno iniziato ad avvertire che la Cina starebbe prendendo seriamente in considerazione l’invio di aiuti letali alla Russia. Il Segretario di Stato Blinken è stato il primo a fare questa affermazione dopo aver incontrato il Direttore Wang in Europa. Biden e il capo della CIA Burns hanno poi affermato la stessa cosa venerdì, in occasione dell’anniversario dell’operazione speciale russa, anche se il primo ha detto di non prevederlo, mentre il secondo non ha scartato questo scenario.

È difficile stabilire la veridicità di queste accuse, ma l’America è fermamente intenzionata a convincere tutti che si tratta di una possibilità reale, ed è per questo che sta considerando di condividere pubblicamente l’intelligence correlata, secondo quanto riportato dal WSJ in un rapporto pubblicato giovedì. Sebbene non sia chiaro se le informazioni che potrebbero essere divulgate siano puramente fatti, falsità artificialmente costruite o una combinazione delle due, un intrigante sviluppo di sabato getta un po’ di luce sul pensiero cinese.

Lo scandalo che circonda la dichiarazione congiunta dei ministri delle Finanze del G20

La Cina si è schierata con la Russia nel respingere il terzo e il quarto paragrafo della dichiarazione congiunta dei ministri delle Finanze del G20 dopo il loro incontro a Bangaluru. Queste due parti del documento – che facevano riferimento alle risoluzioni antirusse dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, alla divergenza di opinioni sul conflitto ucraino all’interno del gruppo e al sostegno dei principi della Carta delle Nazioni Unite – sono state tratte dalla Dichiarazione dei leader del G20 di Bali, precedentemente approvata a metà novembre.

La portavoce del Ministero degli Esteri russo, Zakharova, ha dichiarato in un comunicato di condannare gli sforzi di Stati Uniti, Unione Europea e del resto del G7 nel tentativo di destabilizzare il lavoro del G20 includendo quei due paragrafi nella dichiarazione congiunta, motivo per cui è stato rilasciato solo un documento di sintesi e di risultato. La posizione di Mosca, che si oppone allo spirito dello stesso testo che aveva accettato solo un quarto d’anno fa, suggerisce che ha fatto quest’ultimo perché non poteva contare su nessun altro per sostenere il suo rifiuto in quel momento.

La “nuova distensione” e il suo inaspettato deragliamento

Per non apparire “isolata” e per non alimentare le speculazioni sul futuro della sua partnership strategica con l’Unione Europea, la Corea del Nord ha deciso di non fare nulla.

https://korybko.substack.com/p/china-compellingly-appears-to-be?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=105188555&isFreemail=true&utm_medium=email

Ecco cosa ho imparato analizzando la nuova guerra fredda per 365 giorni consecutivi

In tutta onestà, nessuno nella comunità degli Alt-Media o dei media mainstream ha pubblicato tante analisi quante ne ho pubblicate io nell’ultimo anno, che cumulativamente superano le 1.000, visto che ne pubblico in media circa tre al giorno e a volte ne pubblico anche cinque. Ho ricalibrato i miei modelli in base alle mutate circostanze per riflettere la realtà nel modo più accurato possibile, sapendo che è impossibile produrre un lavoro perfetto, ma aspirando comunque a fare del mio meglio.

Sono un analista politico americano con sede a Mosca che ha scritto sulla Nuova Guerra Fredda per gli ultimi 365 giorni consecutivi dall’inizio dell’operazione speciale della Russia in Ucraina, esattamente un anno fa. Ho iniziato condividendo i miei pensieri su OneWorld e ho continuato a farlo su Substack dopo che il primo è stato chiuso. Occasionalmente pubblico anche su CGTN, a cui ogni tanto concedo interviste radiofoniche, e su altri siti per cui lavoro come freelance. Due volte alla settimana, inoltre, realizzo brevi analisi video che condivido sui social media.

Prima di riassumere tutto ciò che ho imparato, vorrei condividere alcune delle mie cosiddette “analisi fondamentali” che sono rimaste rilevanti fino ad oggi. Esse forniranno ai lettori una visione dettagliata di alcuni dei punti che esporrò nel presente articolo. Tutti sono inoltre invitati a farmi domande su Twitter se sono interessati a saperne di più sui miei pensieri. Ecco i materiali di base che costituiscono la mia visione del mondo nella sua forma attuale:

* 25 febbraio: “Sono un orgoglioso americano con ascendenze ucraine: Ecco perché #IStandWithRussia”

* 15 marzo: “Perché gli Stati Uniti hanno dato priorità al contenimento della Russia rispetto alla Cina?”.

* 26 marzo: “La Russia sta combattendo una lotta esistenziale in difesa della sua indipendenza e sovranità”.

* 18 aprile: “Vladimir Putin: Mostro, pazzo o mente?”.

* 15 maggio: “Ciò che viene disonestamente spacciato come ‘propaganda russa’ è solo la visione del mondo multipolare”.

* 5 agosto: “Il Ministero degli Esteri russo ha spiegato in modo esauriente la transizione sistemica globale”.

* 1 settembre: “La fantasia politica di ‘decolonizzare la Russia’ è destinata a fallire a causa del patriottismo del suo popolo”.

* 5 ottobre: “La Russia vincerà strategicamente anche nello scenario di una situazione di stallo militare in Ucraina” * 29 ottobre: “La fantasia politica di ‘decolonizzare’ la Russia è destinata a fallire a causa del patriottismo del suo popolo”.

* 29 ottobre: “L’importanza di inquadrare adeguatamente la nuova guerra fredda”.

* 12 novembre: “20 critiche costruttive alle operazioni speciali della Russia”.

* 29 novembre: “L’evoluzione delle percezioni dei principali attori nel corso del conflitto ucraino”.

* 26 dicembre: “I cinque modi in cui il 2022 ha cambiato completamente la grande strategia russa”.

* 22 febbraio: “Putin ha ricordato a tutti che la Russia sta usando la forza per porre fine alla guerra iniziata dall’Occidente”.

In tutta onestà, nessuno nella comunità degli Alt-Media (AMC) o dei Mainstream Media (MSM) ha pubblicato tante analisi quante ne ho pubblicate io nell’ultimo anno, che cumulativamente superano le 1.000, visto che la mia media è di circa tre al giorno e a volte ne pubblico anche cinque. Ho ricalibrato i miei modelli in base alle mutate circostanze per riflettere la realtà nel modo più accurato possibile, sapendo che è impossibile produrre un lavoro perfetto, ma aspirando comunque a fare del mio meglio.

Per mettere a punto il mio lavoro ho applicato il processo in sette fasi che ho condiviso con i lettori quasi mezzo decennio fa, nella primavera del 2018, e che i lettori possono rivedere qui se non lo conoscono già. Spero che il mio esempio possa ispirare altri a seguire le mie orme, se lo desiderano, o almeno a saperne di più sul processo collaudato per produrre analisi di qualità. Senza ulteriori indugi, ecco cosa ho imparato analizzando la Nuova Guerra Fredda per 365 giorni consecutivi:

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* Gli Stati Uniti stanno facendo un gioco di potere senza precedenti per il dominio globale

Tutto ciò che è accaduto nell’ultimo anno dimostra che gli Stati Uniti non hanno intenzione di sedersi e lasciare che la transizione sistemica globale verso il multipolarismo proceda senza ostacoli. Stanno conducendo una guerra ibrida multidimensionale nel mondo con l’intento di ritardare indefinitamente questo processo, di cui la guerra per procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina è l’esempio più lampante. Dopo aver riaffermato con successo la propria egemonia unipolare sull’Europa, gli Stati Uniti vogliono ora espandere la propria “sfera di influenza” nel Sud del mondo.

* Né il blocco della Nuova Guerra Fredda di fatto è così unificato come potrebbe sembrare

La nuova guerra fredda può essere riassunta come la lotta tra il miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e il Sud globale guidato congiuntamente dai BRICS e dalla SCO sulla direzione della transizione sistemica globale, con i primi che vogliono mantenere l’unipolarismo e i secondi che vogliono accelerare il multipolarismo. Tuttavia, nessuno dei due è così unito come sembra, dato che i membri nominali del Miliardo d’Oro, Ungheria, Israele e Turchia, sfidano regolarmente gli Stati Uniti, mentre il Brasile, membro dei BRICS, è politicamente contro la Russia, come ho spiegato qui.

* La maggior parte di ciò che AMC e MSM producono è copione e fake news

I lettori possono essere perdonati per aver avuto l’impressione che ogni blocco de facto della Nuova Guerra Fredda sia unificato, dal momento che l’AMC e il MSM hanno falsamente spinto tali affermazioni rispettivamente sul Sud Globale e sul Miliardo d’Oro. Per promuovere la loro agenda si affidano a una combinazione di fake news e copium, che si riferisce a narrazioni artificialmente costruite per far passare sviluppi svantaggiosi come presumibilmente vantaggiosi. Entrambi sono generalmente inaffidabili e nessuno dovrebbe dare per scontate le loro affermazioni.

* La rapida ascesa dell’India alla ribalta mondiale è il principale evento del cigno nero

Tra tutti gli sviluppi inattesi emersi nell’ultimo anno, il principale evento del cigno nero è la rapida ascesa dell’India a Grande Potenza di rilevanza globale. L’India mira a costituire un terzo polo d’influenza in mezzo al duopolio sino-americano di superpotenze bi-multipolari, per accelerare la fase tripolare della transizione sistemica globale prima della sua forma finale di multipolarità complessa (“multiplexity”), motivo per cui Soros la sta prendendo di mira. I lettori più attenti possono approfondire l’argomento consultando i precedenti collegamenti ipertestuali.

* L’esito della nuova distensione sino-americana sarà decisivo

Dal vertice Xi-Biden di metà novembre, Cina e Stati Uniti stanno esplorando una serie di compromessi reciproci volti a stabilire una “nuova normalità” nelle loro relazioni allo scopo di preservare congiuntamente il suddetto ordine mondiale bimultipolare. La Nuova distensione è stata però inaspettatamente complicata dall’incidente del pallone aerostatico di inizio febbraio, che potrebbe portare Pechino ad abbandonare questi piani. L’esito di questo processo, che i precedenti collegamenti ipertestuali illustrano in dettaglio, sarà decisivo per la nuova guerra fredda.

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Spero che la visione che ho condiviso possa illuminare le persone a percepire il complesso processo che si sta svolgendo nel mondo in modi nuovi che ne migliorino la comprensione. Tutto ciò che sta accadendo è così caotico e imprevedibile, eppure ci sono alcune tendenze distinguibili, che ho identificato nel mio lavoro dell’anno scorso. Sono convinto che la transizione sistemica globale verso il multipolarismo sia irreversibile per le ragioni che ho spiegato, ma non mi aspetto nemmeno che si concluda presto.

https://korybko.substack.com/p/heres-what-i-learned-from-analyzing

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