Italia e il mondo

la sovranità non è sostituzione di servitù, a cura di Luigi Longo

LA SOVRANITA’ NON E’ SOSTITUZIONE DI SERVITU’

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco, ad integrazione dell’interessante scritto di Pino Germinario su Sovranità, sovranismo e sovranismi https://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario/ apparso su questo blog in data 23 settembre 2018, la lettura dell’articolo di Manlio Dinucci su La strategia di demonizzazione della Russia pubblicato sul sito www.voltairenet.org il 25 settembre 2018.

Qui mi interessa evidenziare che il concetto di sovranità, di autonomia, di autodeterminazione, insomma la libertà di scegliere un modello sociale espressione della storia di un determinato popolo, per l’Italia sta nel proporre un progetto di sviluppo capace di fare uscire il Paese dalla servitù volontaria verso gli Stati Uniti che è la potenza mondiale in relativo declino che, incapace di rilanciare una nuova idea di sviluppo e di società egemonica a livello mondiale, si affida alla violenza con la forza delle armi, alla egemonia coercitiva nelle istituzioni internazionali e soprattutto al comando della NATO (uno strumento fondamentale del conflitto strategico).

Il problema, quindi, per l’Italia non è quello di sostituire la servitù politica (ad Obama) alla servitù (a Trump) più funzionale alle nuove contraddittorie (per il conflitto violento tra gli agenti strategici incapaci di una nuova sintesi nazionale sintomo ulteriore di declino) strategie dei predominanti statunitensi, quanto piuttosto quello di avere un ruolo autonomo per aiutare, in questa fase storica, l’avanzamento del multicentrismo e di allearsi con quelle potenze mondiali (per ora Russia e Cina) che mettono in discussione il dominio unipolare USA.

Una piccola digressione: il garante della servitù volontaria italiana è la Presidenza della repubblica italiana. Per dirla con Marco Della Luna, << […] La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale –, è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive. Affinché possa svolgere cotale ruolo, il presidente, nella struttura costituzionale, è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve. Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero […] >> (Il sovrano e il presidente in www.marcodellaluna.info, 13/5/2018).

E’ evidente che l’Italia, una nazione in crisi profonda a cui hanno tolto anche i settori economici del cosiddetto made in Italy (per non parlare delle industrie strategiche), deve eliminare la sua servitù volontaria verso gli Stati Uniti (occorrono ben altri decisori) costruendo alleanze con altre nazioni che mettano in discussione questa Europa espressione dell’egemonia statunitense e guardino ad Oriente per agevolare lo sviluppo della fase multicentrica, scongiurando la fase policentrica che avrebbe come esito inevitabile la guerra (forse l’ultima).

Occorrono un’Italia e un’Europa libere da servitù volontarie statunitensi (chiudendo le basi militari USA e USA-NATO ponendo all’ordine del giorno l’uscita dalla NATO) e un’Europa ri-costruita come soggetto politico (una federazione – o altra forma – espressione di nazioni autonome) per svolgere un ruolo di confronto e di scambio, rispettosi e democratici, tra Occidente e Oriente.

Per fare questo manca un Principe che si aggiri come uno spettro per l’Europa a turbare i sonni di questi sub-dominanti europei e predominanti statunitensi reazionari, manca lo spettro del cambiamento e della sovranità dei popoli.

LA STRATEGIA DI DEMONIZZAZIONE DELLA RUSSIA

di Manlio Dinucci

 

 

Il contratto di governo, stipulato lo scorso maggio dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, ribadisce che l’Italia considera gli Stati uniti suo «alleato privilegiato». Legame rafforzato dal premier Conte che, nell’incontro col presidente Trump in luglio, ha stabilito con gli Usa «una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa interlocutore privilegiato degli Stati uniti per le principali sfide da affrontare». Allo stesso tempo però il nuovo governo si è impegnato nel contratto a «una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico» e addirittura quale «potenziale partner per la Nato».

È come conciliare il diavolo con l’acqua santa. Viene infatti ignorata, sia dal governo che dall’opposizione, la strategia Usa di demonizzazione della Russia, mirante a creare l’immagine del minaccioso nemico contro cui dobbiamo prepararci a combattere. Tale strategia è stata esposta, in una audizione al Senato, da Wess Mitchell, vice-segretario del Dipartimento di stato per gli Affari europei e eurasiatici: «Per fronteggiare la minaccia proveniente dalla Russia, la diplomazia Usa deve essere sostenuta da una potenza militare che non sia seconda a nessuna e pienamente integrata con i nostri alleati e tutti i nostri strumenti di potenza» [1].

Accrescendo il bilancio militare, gli Stati uniti hanno cominciato a «ricapitalizzare l’arsenale nucleare», comprese le nuove bombe nucleari B61-12 che dal 2020 verranno schierate contro la Russia in Italia e altri paesi europei. Gli Stati uniti – specifica il vice-segretario – hanno speso dal 2015 11 miliardi di dollari (che saliranno a oltre 16 nel 2019) per la «Iniziativa di deterrenza europea», ossia per potenziare la loro presenza militare in Europa contro la Russia. All’interno della Nato, sono riusciti a far aumentare di oltre 40 miliardi di dollari la spesa militare degli alleati europei e a stabilire due nuovi comandi, di cui quello per l’Atlantico contro «la minaccia dei sottomarini russi» situato negli Usa.

In Europa, gli Stati uniti sostengono in particolare «gli Stati sulla linea del fronte», come la Polonia e i paesi baltici, e hanno tolto le restrizioni per fornire armi a Georgia e Ucraina (ossia agli Stati che, con l’aggressione all’Ossezia del Sud e il putsch di Piazza Maidan, hanno innescato la escalation Usa/Nato contro la Russia). L’esponente del Dipartimento di stato accusa la Russia non solo di aggressione militare, ma di attuare negli Stati uniti e negli Stati europei «campagne psicologiche di massa contro la popolazione per destabilizzare la società e il governo». Per condurre tali operazioni, che rientrano nel «continuo sforzo del sistema putiniano per il dominio internazionale», il Cremlino usa «l’armamentario di politiche sovversive impiegato in passato dai Bolscevichi e dallo Stato sovietico, aggiornato all’era digitale».

Wess Mitchell accusa la Russia di ciò in cui gli Usa sono maestri: hanno 17 agenzie federali di spionaggio e sovversione, tra cui quella del Dipartimento di stato. Lo stesso che ha appena creato una nuova figura: «il Consigliere senior per le attività maligne della Russia», incaricato di sviluppare strategie inter-regionali.

Su tale base, tutte le 49 missioni diplomatiche Usa in Europa e Eurasia devono mettere in atto, nei rispettivi paesi, specifici piani d’azione contro l’influenza russa. Non sappiamo qual è il piano d’azione dell’ambasciata Usa in Italia. Lo saprà però, quale «interlocutore privilegiato degli Stati uniti», il premier Conte. Lo comunichi al parlamento e al paese, prima che le «attività maligne» della Russia destabilizzino l’Italia.

 

 

Politica e metapolitica, di Piero Visani

Politica e metapolitica

https://derteufel50.blogspot.com/2018/09/politica-e-metapolitica.html?spref=fb

       L’ascesa di Marcello Foa alla presidenza della Rai rappresenterà un momento fondamentale per chiarire i rapporti tra metapolitica e politica in una fase storica che potrebbe risultare radicalmente nuova, se solo la si vorrà sfruttare.
       Foa è sicuramente un professionista di alto livello e sa molto bene che cosa occorrerebbe fare per affrancarsi dalle tematiche del “pensiero unico”, in genere tradotte molto liberamente – in Rai – con le geremiadi sul “pluralismo dell’informazione” (sic). Bisognerà vedere quale supporto riceverà dai suoi sponsor politici. In ogni caso, il terreno in cui è stato inviato ad operare è fondamentale per il futuro di qualsiasi forma di pensiero alternativo nel nostro Paese. Foa se ne rende perfettamente conto, i suoi sponsor politici sicuramente un po’ meno, mentre alcuni di quelli che l’hanno votato da tempo notoriamente agiscono – con la potenza delle loro televisioni – per “il re di Prussia”…
       Vedremo.

sulla rappresentanza politica, di Teodoro Klitsche de la Grange

SULLA RAPPRESENTANZA POLITICA

 

  1. – Sul tema della rappresentanza politica occorre fare una precisazione preliminare: che di un termine o di un oggetto, com’è noto, possono aversi diverse definizioni e concetti, a seconda dell’angolazione da cui lo si studia. Così, per un giurista l’espressione de qua avrà un certo significato, per un politologo sarà diverso, per un filosofo o un sociologo un altro ancora. Tutti magari veri o validi e correttamente ricostruiti, ma, ovviamente, nell’ambito dei rispettivi “campi” scientifici.

L’essenziale è, trattando di tale argomento, da una parte non far confusioni, pretendendo di paragonare il concetto giuridico con quello sociologico e disputare sulla validità dell’uno o dell’altro; operazione impossibile, dato che la disomogeneità dei campi e criteri d’indagine la rende simile al tentativo di sottrarre triangoli a quadrati. Dall’altra a non perder del tutto i contatti, anche al fine di chiarire il concetto giuridico di rappresentanza, con i contributi che possono derivare da altre scienze umane.

Tale premessa si rende necessaria perché la rappresentanza è uno dei temi che più si prestano a confondere il diritto con la politica, la sociologia o la filosofia, ed addirittura con modi di intendere usuali ed atecnici. Per fare un esempio, il nesso spesso ripetuto, e che tratteremo in seguito, tra rappresentanza e scelta elettiva si spiega solo con l’adagiarsi su un modo corrente di intendere la prima, mutuato da assemblee sindacali e da congressi di partito.

  1. – Fatte queste brevi precisazioni, occorre ricercare il concetto di rappresentanza politica prima di tutto escludendo ciò che non è, o che è meramente accidentale rispetto ad esso.

In primo luogo che la rappresentanza sia un rapporto tra più soggetti, rappresentanti e rappresentati, concretamente identificabili come soggetti di diritto, titolari di obblighi e rapporti reciproci. Basta guardare la costituzione vigente, come quasi tutte le carte costituzionali, per rendersi conto che non è così. L’art. 67 recita testualmente: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Quindi, se può immaginarsi un rapporto, questo e’ tra un soggetto concreto (il parlamentare) e un’entità ideale (la Nazione), ma certo non è per nulla simile al rapporto giuridico “di rappresentanza” nel senso correntemente inteso.

In secondo luogo, che il rappresentante rappresenti chi l’ha eletto, scelto, delegato. La prevalente dottrina ha coerentemente negato ciò, non solo perché è del pari contraddetto dall’art. 67 della Costituzione, come da analoghe norme in ordinamenti similari, ma anche perché spesso chi elegge, sceglie o delega è esso stesso un corpo rappresentativo di un quid cui il rappresentante deve dare capacità d’azione. Così il corpo elettorale è in sé già rappresentativo, come notato dalla dottrina francese da quasi un secolo, del “popolo” e della “Nazione” e pertanto non coincide con questi, non foss’altro perché non ne fanno parte i minori e certe, sia pur limitate, categorie di cittadini.

Del pari, non c’è alcun nesso sostanziale tra rappresentanza e procedimento elettorale, né nel senso che tutti i rappresentanti sono elettivi, né nell’altro, e reciproco, che tutti gli eletti sono rappresentanti.

Quanto al primo occorre riprendere in mano la prima costituzione moderna europea, cioè quella francese del 1791, per leggervi (titolo III, art. 2 secondo comma) che “La constitution francaise est représentative: les représentants sont le corps législatif et le roi”: e il re non era sicuramente scelto per elezione. Formulazione mantenuta in gran parte dalle costituzioni monarchiche dell’800, ivi comprese alcune di quelle italiane pre-unitarie (v. per esempio artt. 2-3 Cost. Regno di Napoli del 1815; artt. 1 e 50 Cost. Regno delle Due Sicilie del 1848), anche se talvolta i termini rappresentanza, rappresentativa e rappresentante erano riferiti genericamente alla costituzione come forma di governo e specificatamente ai soli parlamentari (o ai deputati delle camere elettive). Perciò Santi Romano riteneva che “l’elezione è un mezzo, sia pure il più idoneo, ma non l’unico possibile per attuare la rappresentanza politica, della quale, comunque, non esaurisce e rivela la natura intrinseca.” Ancor più semplice è mostrare che eleggere un organo non implica che questo rappresenti alcunchè: gli esempi, nel diritto pubblico italiano e non, sono tanti e così noti che è inutile ricordarli. Più precisamente, e restringendo il discorso agli organi costituzionali, il fatto che i componenti di quelli rappresentativi sono scelti per elezione ed abbiano il mandato temporaneo è una conseguenza dell’idea di democrazia e non di quella di rappresentanza.

Inoltre, è da valutare se la rappresentanza implichi sempre responsabilità verso qualche soggetto, in particolare, nel caso di rappresentanza elettorale, verso gli elettori o il “rappresentato”.

Anche qui la risposta è tendenzialmente negativa: lo è del tutto, almeno in termini giuridici, se si ritiene – correttamente – che il rappresentato sia un’entità ideale come la Nazione e come il Popolo, e lo è in larga misura se si pensa che siano gli elettori, o meglio il corpo elettorale. Infatti, il rappresentante non è giuridicamente responsabile verso il corpo elettorale, almeno secondo il corrente concetto di responsabilità, lo è invece politicamente.

Con ciò, però, la responsabilità, che si vorrebbe connotato della rappresentanza politica, si rivela comunque assai ridotta. Come si vedrà in prosieguo, la responsabilità politica del rappresentante, lungi dal caratterizzarlo in quanto tale, è essa stessa conseguenza della natura e dei caratteri dell’istituto. Il rappresentante, in altri termini, non è tale perché è responsabile, ma è tale perché, a differenza di altri soggetti di funzioni pubbliche, è quasi totalmente irresponsabile. Tra i due concetti, nella disciplina degli istituti rappresentativi, c’è più opposizione che correlazione.

  1. – Occorre ora connotare positivamente il concetto di rappresentanza. Ma una comprensione di questa non può prescindere dall’analisi della funzione e dalla valutazione di una teoria più volte ripetuta, identificante la funzione delle istituzioni rappresentative nell’essere lo specchio, la “carta geografica” della società come diceva Mirabeau, di guisa da dar voce ai contrastanti interessi ed opinioni.

Orbene, è chiaro che una simile tesi può essere corroborata solo se l’organo rappresentativo è collegiale, abbastanza ampio ed elettivo: caratteristiche che non sempre ha. Di conseguenza, per gli stessi motivi sopra cennati, questa teoria non spiega e non comprende tutti i casi di rappresentanza politica: identifica, cioè, un aspetto accidentale, e tutto sommato subordinato (anche se importante), della composizione ed organizzazione delle istituzioni rappresentative, ma non ne individua i caratteri e la funzione essenziale.

Funzione essenziale che va individuata nel dare capacità di azione politica e quindi di esistenza ad una comunità organizzata.

Potrebbe sembrare strano a chi pensa che rappresentare consista nel dare “una voce”, nel far “partecipare”, ma è proprio questo che può ricavarsi dalla teoria politica e costituzionale positiva del XVII secolo in poi. Un breve esame storico mi permetterà di argomentare tale tesi, d’altra parte già esplicitata da altri.

Infatti Hobbes, nel noto passo del Leviathan (cap. XVI), intuisce tale funzione della rappresentanza giudicando che “una moltitudine di uomini diventa una persona, quando è rappresentata da un uomo o una persona” e nel capitolo successivo chiarisce il concetto: dopo aver descritto gli inconvenienti dello “stato di natura” scrive “il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli… è di conferire tutto il proprio potere ad un uomo o a un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri con la pluralità dei voti, ad un volere solo: che è quanto a dire a deputare un uomo od un’assemblea di uomini a rappresentare le loro persone, ed a riconoscersi… autore di qualunque cosa colui, che così lo rappresenti, possa fare o cagionare…”. In altri termini Hobbes identifica la funzione caratteristica della rappresentanza, nel dare volontà unitaria ad una società umana e con ciò l’unità necessaria ad un’esistenza sicura ed ordinata (cioè, nella visione di Hobbes, è un principio di forma costituzionale).

Passando a Montesquieu, si può leggere che “il grande vantaggio dei rappresentanti, è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo non vi è adatto: e ciò è forse uno dei grandi inconvenienti della democrazia”. E Montesquieu insiste sul fatto che un governo rappresentativo è necessario sia per l’incapacità del popolo di gestire la cosa pubblica, mentre d’altra parte è, ovviamente, vitale che siano prese le decisioni: e non vi è altro sistema per decidere che con rappresentanti.

Arrivando a quella grande fucina del diritto pubblico moderno che è l’opera dei costituenti francesi della fine del ‘700, troviamo Sieyès che fonda la necessità della rappresentanza in gran parte adducendo gli stessi motivi di Montesquieu e, in altra, come effetto della divisione del lavoro. Ma, soprattutto, nell’affermare la sovranità nazionale, l’art. 2 primo comma del titolo III della Costituzione del 1791 afferma “La Nation, de qui seule émanent tous les pouvoirs, ne peut les exercer que par délegation”.

Con ciò la ragione della rappresentanza aveva, in un certo senso, un’espressione costituzionale. Ma del pari, dall’assemblea costituente erano fissati altri caratteri essenziali del rappresentante: l’indipendenza dagli elettori, con il rifiuto dell’imperatività del mandato; la rappresentanza della nazione e non di singole parti o frazioni, anche se organizzate; infine la distinzione tra rappresentante (politico s’intende) ed altri esercenti pubbliche funzioni. In particolare il rifiuto del mandato imperativo e l’affermazione di una rappresentanza “generale” implica una conseguenza di notevole importanza per confutare la tesi della rappresentanza, anche se elettiva, come “specchio” o “carta geografica” della società civile.

Una rappresentanza “frazionistica” comporterebbe la logica conseguenza di istituti simili a quelli medievali e cetuali, col vincolo del mandato e la consapevolezza d’esser delegato di parte: la conformazione di quella moderna invece col vietare l’imperatività del mandato, ed affermare, nel singolo parlamentare, la rappresentanza del tutto, esclude proprio perciò quella della parte. Detto in altre parole, e precisamente con quelle di Santi Romano, le istituzioni rappresentative sono istituzioni necessarie, perché il “popolo, quando non si ha un governo democratico diretto, non ha la possibilità giuridica di curare e tutelare i suoi interessi se non per mezzo di rappresentanti e, di solito, scegliendo esso stesso questi ultimi”.

Che poi vi sia una rispondenza tra corpo elettorale ed eletti, del tipo di quella criticata, è un sovrappiù; ed è errato credere che la rappresentanza politica, così come voluta dai costituenti delle prime costituzioni democratico-liberali, volesse dire dar voce ai contrasti d’opinioni e d’interessi. Tutt’altro: basta leggere il discorso di Sieyés all’Assemblea costituente contro il mandato imperativo del settembre 1789, o il decimo saggio del “Federalista”, per rendersi conto che il frazionamento pluralistico di una rappresentanza elettiva era ciò che questi più temevano; ed il senso di quel “rappresentare la Nazione” (o il popolo) e di agire senza dipendenze è in gran parte rivolto contro gli esiti paralizzanti di un eccessivo frazionamento dell’istituzione, o delle istituzioni, rappresentative.

  1. – Ma detto ciò, e chiarito che funzione della rappresentanza è dar capacità d’azione ad una collettività che “come tale non può agire”, occorre ora vedere cosa sia rappresentato dal rappresentante.

A noi sembra di poterlo riassumere in tre proposizioni: a) che      rappresenti un’entità ideale; b) come unità; c) e come totalità.

Un’entità ideale. – Ho appena ricordato che quasi tutte le costituzioni borghesi postulano che ad esser rappresentata sia la Nazione o il Popolo. Ed è chiaro che né l’una né l’altro sono soggetti concretamente esistenti. Concretamente esistente è una moltitudine di uomini. L’entità “popolo” o quella “nazione” sono pertanto astrazioni ideali, comunque non paragonabili, per intendersi, al Sig. Rossi che nomina procuratore il rag. Bianchi per acquistare una appartamento.

Certo popolo e nazione esprimono particolari legami, anche non politici, esistenti tra uomini, che valgono a costituirli in comunità; ma questo, ovviamente non basta a personificarle.

Del pari, anche là dove – come nelle costituzioni dei paesi del socialismo reale – si parlava di “rappresentanza” del “popolo lavoratore”, o dei “lavoratori”, bisogna dire che anche qui si trattava di entità ideali, che hanno bisogno di essere impersonate per avere una concreta esistenza e capacità d’azione.

Come unita’. – In effetti, il rappresentato è sempre concepito come uno (il popolo, la nazione, i lavoratori, la classe lavoratrice), ma non è solo questo tratto a costituire l’unità del rappresentato, nel (o nei) rappresentante. Anche le istituzioni rappresentative sono produttrici di unità, o per meglio dire, sono esse stesse l’unità. L’intuizione di Hobbes sopra ricordata, che il rappresentante fa di una moltitudine un’unità, è tuttora valida ad individuare uno dei caratteri, forse anzi il principale, sia strutturale che funzionale, della rappresentanza. Senza una struttura rappresentativa una collettività non può agire come unità, ma è solo disordinata espressione di volizioni individuali. D’altra parte ove il rappresentante non sia un solo uomo, ma un collegio, è costituito di guisa da raggiungere l’unità attraverso regole di decisione. Ed è indubbio che un Parlamento, anche quelli meno capaci a decidere perché frazionati e poco omogenei, raggiunge una decisione unitaria (e perciò esprime l’unità) con una facilità enormemente superiore ad un’assemblea di diecine di milioni di persone (del tutto impossibile) o di un referendum (lungo e macchinoso).

E come totalità. – Nella rappresentanza c’è anche il carattere (qualcuno direbbe la pretesa) di rappresentare la totalità implicita nell’entità ideale rappresentata, e spesso statuita esplicitamente nelle carte costituzionali. E’ chiaro comunque come una rappresentanza che non fosse quella della totalità, sarebbe contraddittoria alla propria funzione, di dar capacità d’azione ed esistenza ad una collettività, unitariamente concepita. Il che non significa che non possono coesistere due o più istituzioni rappresentative; esclude soltanto che ciascuna di esse, quando “politica”, rappresenti una parte e non il tutto.

Ciò stante occorre tirare le conseguenze di quanto detto.

In primo luogo appare superata la vexata questio se quella politica sia rappresentanza d’”interessi” o di “volontà”. Di volontà non può essere perché solo una (o più) persone sono capaci di aver una volontà. Se ad esser rappresentato è qualcosa di ideale, è escluso che possa esservi una rappresentanza di volontà come insegnava, anche per altre ragioni, Santi Romano. Non resta, a seguir questa classificazione, che ritenerla rappresentanza d’interessi. Ma con due precisazioni.

Da una parte il carattere pregnante e più rilevante della rappresentanza politica non può trovarsi in tale dicotomia e nella conseguente sussunzione.

In secondo luogo che come rappresentante d’interessi, deve intendersi quel che intendeva il Romano, e cioè la rappresentanza degli interessi nazionali o generali e, non, per intendersi, quelli della corporazione X o dell’associazione Y.

Secondariamente, appare opportuno trattare brevemente della distinzione tra rappresentanza politica (del “Popolo” o della “Nazione”) e quelle istituzioni rappresentative di realtà locali (Regioni, Provincie, Comuni) i cui componenti sono eletti su liste solitamente partitiche, a seguito di campagne elettorali fortemente caratterizzate in senso politico. Non manca chi fa di ogni erba un fascio, riconoscendo carattere di rappresentanza politica agli uni e agli altri.

In effetti tale impostazione non può essere condivisa: sopra accennavamo che la costituzione francese del’91 disponeva (cap. IV, sezione II, art. 2) che “Les administrateurs n’ont aucun caractére de répresentation”. C’era nei costituenti la piena consapevolezza e la volontà di negare ogni carattere rappresentativo (politico) agli agents incaricati delle funzioni amministrative: ciò era fatto prevalentemente risalire al carattere d’indipendenza che hanno i rappresentanti politici e che manca ad amministratori, giudici e funzionari.

Anche nella costituzione italiana vigente il carattere di rappresentanza politica è riconosciuto ai parlamentari (art.67) e al presidente della Repubblica (art.87). Tuttavia, è scritto che il Presidente della Giunta regionale “rappresenta la regione” (art.121), mentre nulla è detto sul carattere di rappresentanza, e tanto meno politica, di altri organi. Ciò non toglie che la rappresentanza, come istituto giuridico derivato dall’analogo privatistico, sia largamente impiegata nelle leggi ordinarie per designare alcune funzioni o i titolari di tali organi.

Ma è certo che non trattasi di rappresentanza politica: il perché è stato tanto spesso ripetuto e con argomentazioni svariate, che appare inutile ricordarlo. Proviamo comunque ad aggiungerne una.

Nella rappresentanza comunemente intesa si esprime una particolare relazione del rappresentante con una persona o un’istituzione, una posizione dello stesso nei confronti del rappresentato o dei terzi.

Così, che il Presidente della Giunta regionale rappresenti la Regione, che il Sindaco rappresenti il Comune in giudizio, è cosa analoga al Presidente della FIAT che rappresenta la società verso i terzi. Invece nella rappresentanza politica l’altro termine del rapporto non è un’istituzione, ma, come cennato, un’entità ideale. Si noti la differenza tra quel “rappresenta la Regione” e la rappresentanza del capo dello Stato e del Parlamento di cui la Costituzione non dice che rappresentano lo Stato ma “l’unità nazionale” e la “Nazione”: non un Ente è rappresentato, ma un quid che di per sé è considerato precedente e superiore a qualsiasi forma, giuridica o politica che sia. Tutto si può dir di concetti come “Nazione” ed “unità nazionale” tranne che si tratti di Enti, di persone fisiche o giuridiche.

E ciò è conseguente al carattere della rappresentanza politica e ne costituisce il connotato pregnante: infatti appartiene a quella categoria di concetti del diritto pubblico in cui il giuridico si salda con qualcosa che giuridico non è, e perciò rimane sempre al di là del diritto.

Sovranità, potere costituente e “diritto” di resistenza sono tra questi. La cosa più interessante è che questi sono, in un certo senso, i punti d’Archimede dell’organizzazione costituzionale, laddove la dimensione esistenziale della politica si congiunge col diritto. Pensare di poterli formalizzare con termini, concetti e relazioni esclusivamente giuridiche, vale a precludersene una comprensione esauriente ed i significati, anche giuridici, più interessanti.

In altri termini la rappresentanza è politica, proprio perché il rappresentato ha un carattere esclusivamente e genuinamente politico, ovvero perché il rappresentato non è per nulla (o è solo in parte) giuridificabile. In effetti, seguendo Carl Schmitt, si può dire con formula generale che il rappresentante rappresenti l’unità politica.

In ciò, nel dar forma ad un’entità informale, ideale e pre-giuridica, è la sua caratteristica peculiare, che lo differenzia dagli altri tipi di rappresentanti, sia di diritto pubblico che privato.

  1. – Dal rappresentare l’unità politica derivano ben precise conseguenze, che è appena il caso di ricordare. Il rappresentante politico è indipendente ed ha la garanzia di questa indipendenza: non ha (quasi) responsabilità giuridica; è sottratto, almeno relativamente, alla giurisdizione ordinaria, e, in alcuni casi, soggetto alla “giustizia politica”.
  2. – Concludendo questo breve excursus su un tema che avrebbe bisogno di trattazione ben più approfondita, devo trarne conseguenze in ordine all’incidenza che le sopra esposte considerazioni possono avere sull’attualità costituzionale.

Quando si propongono riforme volte al fine di facilitare il raggiungimento di maggioranze parlamentari attraverso una riduzione od un accorpamento dei gruppi ( o dei partiti) si sente subito parlare d’attentato al principio rappresentativo; e la “rappresentanza” viene contrapposta al governo secondo un uso risalente al XIX secolo, il cui senso, peraltro, è stato in larga parte smarrito. Le cose non stanno così: un’impostazione del genere identifica nel Parlamento l’unica possibile espressione del principio rappresentativo; e l’essenza di quest’ultimo, come cennato, nella riproduzione “in scala” della società civile.

Si dimenticano così i connotati essenziali della rappresentanza, opposti a questi, ripetuti in tante costituzioni e riconosciuti da tanti giuristi: basti ricordare con le parole di Romagnosi che “il potere governativo in qualunque stato civile, fu è e sarà sempre, rappresentativo” e che, come sopra spesso ripetuto, funzione principale della rappresentanza è dare capacità di agire alla comunità, e non voce ai contrasti sociali.

Le conclusioni che possono trarsi sono opposte a quelle tratte da altri. In primo luogo non è contrapponibile rappresentanza e governo; e tantomeno può identificarsi la prima con il Parlamento.

Rappresentante dell’unità politica può essere anche un organo monocratico, come il Capo dello Stato o un organo collegiale ristretto, come il Governo. Se una rappresentanza parlamentare non è in grado di agire politicamente, di garantire l’unità attraverso congrue decisioni, è buona regola che la rappresentanza dell’unità e della totalità sia assunta da un altro organo costituzionale, in concorrenza con il Parlamento o in esclusiva.

In secondo luogo se al Parlamento vuol conservarsi la funzione rappresentativa occorre che le regole per la formazione ed il funzionamento di questo siano tali da assicurarne la capacità di decidere. E’ certo che, con un Parlamento frammentato in gruppi o gruppetti, largamente condizionato  dagli interessi organizzati, tormentato dai tattici del voto segreto, la decisione politica è merce rara. Con un Parlamento del genere non si ha il “massimo di rappresentanza, ma il minimo di governo”.

 

TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

 

 

sovranità, sovranismo e sovranismi, di Giuseppe Germinario

L’esito clamoroso delle elezioni politiche dello scorso marzo e l’avvento repentino ed inatteso del Governo Conte hanno contribuito a rinnovare il vocabolario politico ormai stantìo come lo erano del resto i portatori  della cultura politica corrispondente ad esso. Uno dei termini assurti ad improvvisa notorietà è “sovranismo”. Un termine che in Italia ha fatto capolino da meno di un decennio, ma che in paesi come gli Stati Uniti e la Francia è utilizzato senza scandalo da lungo tempo.

Ad ascoltare le vecchie trombe, sempre onnipresenti sui giornali e nei rotocalchi, nelle rubriche e nei servizi di cosiddetta informazione televisiva non ostante il netto ridimensionamento e la sonora sconfitta, si tratterebbe di un mero insulto associabile tranquillamente a quelli da sempre in auge di fascismo, di nazionalismo, di populismo e via dicendo. Un repertorio ultradecennale di etichette ormai ritrito e dal significato sempre più vacuo riproposto da personaggi sempre meno credibili; una rimozione di concetti che impedisce ogni parvenza di confronto.

Non c’è da attendersi, per altro, da una vecchia classe dirigente decadente e smarrita, addomesticata da decenni a delegare a terzi le scelte fondamentali, ormai nessuno sforzo di comprensione della nuova fase di competizione e conflitto nell’agone internazionale.

Eppure la radice e l’etimologia e il significato del termine originario, sovranità, dovrebbe indurre a maggior curiosità e rispetto proprio perché sottende uno dei principi fondanti dell’impegno politico; di qualsiasi impegno politico di qualsivoglia orientamento.

LA SOVRANITA’

Il concetto di sovranità sottende senz’altro la decisione sulla base di propri orientamenti generali, senza la quale ogni attività politica sarebbe priva di senso; sottende quindi un discrimine. La decisione, a sua volta, per avere senso deve quantomeno cercare di essere messa all’opera e in qualche maniera essere riconosciuta anche dagli oppositori, se presenti in maniera significativa. La normazione e l’istituzionalizzazione forniscono le modalità e i luoghi operativi del complesso delle decisioni e diventano quindi l’oggetto, i regolatori e i condizionatori del conflitto politico tra centri tra loro cooperanti e/o conflittuali, almeno sino a quando quelle modalità sono accettate dalla comunità in maniera prevalente. Il presupposto basico di questa abilità operativa è la disponibilità di forza e la capacità di potenza. Lo stato nazionale è la forma istituzionale che a partire dall’età moderna regola e conduce in maniera sempre più diffusa e pervasiva le dinamiche politiche all’interno e tra le varie formazioni sociali nel mondo nei vari ambiti dell’attività umana.

IL SOVRANISMO

Il termine sovranismo viene coniato e utilizzato, più nella polemica politica che, purtroppo, nel confronto teorico, per affermare la necessità di salvaguardare e potenziare appunto le prerogative dello stato.

Rispetto, però, a chi e cosa?

Pare poco contestabile che esso assuma la maggiore nitidezza e potenza di significato nel confronto e nella contrapposizione con il processo di globalizzazione. Una dinamica quest’ultima di uniformizzazione e di progressivo abbattimento di frontiere per certuni innescata e gestita da un ristretto cartello di potentati organizzato in gruppi elitari (Bilderberg, ect) ed espressione diretta dell’alta finanza. In esso lo Stato viene visto come mero strumento a condizione che sia ridotto di dimensione e svuotato di funzioni oppure come una entità destinata a liquefarsi a vantaggio di organismi sovranazionali sempre più determinanti sotto il ferreo controllo del cartello. Per altri il processo di globalizzazione viene visto come un processo naturale che porterebbe alla costruzione di un governo unico mondiale, fondato per lo più su principi morali minimi e sul diritto universale. In esso gli attuali stati verrebbero a fondersi in unità continentali e quindi a sciogliersi o subordinarsi sotto una unica entità. La conduzione delle società al di là di quei principi minimi comuni sarebbe affidata a comunità particolari autogovernate o attraverso una regolazione spontanea tra individui.

È un successo e nitore di significato poggiati su basi fragili e su una rappresentazione inadeguata delle dinamiche politiche. Il nemico è tanto rappresentato nitidamente quanto inafferrabile e sfuggente all’atto pratico.

La finanza è nient’affatto un cartello unico, tantomeno la detentrice del potere assoluto mondiale e il burattinaio delle infinite trame nello scacchiere geopolitico; nemmeno l’artefice unico delle disuguaglianze tra un pugno di satrapi ed una massa di diseredati così come rappresentate con pressapochismo preoccupante.

Naufragata miseramente l’illusione della contrapposizione tra masse peripatetiche all’inseguimento dei notabili riuniti periodicamente nelle località più amene e il POTENTATO le cui prerogative sono realizzate soprattutto attraverso gli organismi sovranazionali (FMI, BM, WTO, ect), rimarrebbe quindi la contrapposizione tra gli stati e il cartello suddetto. Da qui la rivendicazione delle prerogative sovrane dello Stato ai danni di questo e degli organismi sovranazionali usurpatori.

I LIMITI POLITICI DI CERTO SOVRANISMO

Una chiave di lettura che induce a indirizzi e obbiettivi politici sterili se non controproducenti

I potenti della finanza, in realtà, non costituiscono un cartello compatto, tantomeno sono i decisori ultimi dei destini del mondo. Sono parte integrante dei vari centri strategici decisionali in cooperazione e conflitto tra loro i quali devono disporre e far parte in via prioritaria delle leve istituzionali, quindi degli apparati statali, per il perseguimento delle loro strategie in conflitto. Non si tratta di un uso meramente strumentale. Sono centri che hanno bisogno di leve e di radicamento, quindi di istituzioni, di un territorio dei quali fanno parte; sono espressione e guida di una comunità e di una formazione sociale originaria. In questa dinamica i decisori della finanza sono quindi condizionabili al pari di altri.

Quella rappresentazione infatti induce ad una contrapposizione sterile e meramente declamatoria nei riguardi di figure praticamente inafferrabili.

La contrapposizione Stati/cartello della finanza spinge alla proposta e creazione di un cartello degli stati, pressoché tutti indistintamente sminuiti e svuotati dall’avversario ed interessati, in alcuni casi con il necessario ricambio di classe dirigente, quindi alla Santa Alleanza. Nell’attuale e futuro contesto geopolitico verrebbero a formarsi alleanze politiche paradossali ed improbabili del tutto irrealistiche, le quali riproporrebbero sotto mentite spoglie il consueto conflitto tra centri decisionali e tra stati nazionali, con le loro gerarchie, le loro subordinazioni e i loro dualismi.

Agli organismi sovranazionali si tende ad attribuire una potestà propria che non hanno oppure possiedono di riflesso per conto di questi centri e degli stati nazionali dominanti. Sono il frutto di trattati e il luogo entro i quali e attraverso i quali si esercita l’egemonia e nei momenti transitori la rivalità dei centri e degli stati dominanti. La loro giurisdizione, nei pochi casi di affermazione, non è equiparabile a quella esercitata dagli stati nazionali al proprio interno ed è nel migliore dei casi di tipo riflesso; devono appoggiarsi, quindi, alla forza degli stati. Quelli che sono dei semplici strumenti e servitori assumono, secondo la chiave offerta dal dualismo sovranismo/globalismo, il ruolo di attori dominanti con tutte le incongruenze del caso. In alcuni casi tendono a conquistarsi alcuni margini di autonomia operativa come succede ad esempio in alcune fasi alla Commissione Europea. Tali margini sono però il frutto della prevalenza dello spirito comunitaristico che tende ad attribuire pari peso a tutti i numerosi paesi della Unione Europea, un filo conduttore tipico, ad esempio, della diplomazia comunitaria italiana notoriamente pesantemente subordinata ad indirizzi esterni; soprattutto, tali margini sono possibili grazie alla subordinazione diretta, in una fase di frammentazione politica, e non mediata al deus ex machina dell’Unione Europea, gli Stati Uniti.

Il dualismo sucitato nasconde inoltre un altro grande dilemma irrisovibile secondo lo schema proposto.

Il dualismo sovranismo/cartello finanziario vorrebbe rappresentare efficacemente una dinamica universale alla quale vengono sussunti i vari eventi politici. Il duro confronto con la realtà geopolitica spinge però a ridurre surrettiziamente il dominio del cartello in realtà al solo mondo occidentale. Diventa difficile, allora, spiegare e collocare correttamente il ruolo degli agenti finanziari operanti nei paesi emergenti e rivali del polo statunitense ancora prevalente. Un dominio universale diventerebbe, quindi, relativo e soprattutto localizzato. Gli avversari di questo presunto dominio tendono ad assumere l’aura dei paladini dell’emancipazione e dei fautori di un nuovo ordine sociale più giusto ed egualitario perché capaci di riaffermare “la priorità del politico sull’economico” e di regolare meglio il potere degli agenti finanziari. Si tende quindi a nascondere il fatto che anche gli avversari del polo occidentale, per altro tutto da ricostruire, sono altrettanti agenti di influenza tesi a creare proprie aree geopolitiche di controllo e di dominio di dimensione regionale o globale a seconda delle capacità delle rispettive classi dirigenti. Fautori di nuove formazioni sociali dove comunque si esercita il dominio di élites e centri decisionali con le proprie gerarchie di comando, i propri conflitti, le proprie modalità di sopraffazione e di costruzione delle gerarchie sociali, pur rappresentando alternative positive rispetto ad una prospettiva di dominio unipolare, vengono esibiti come paladini di un modello e di un riscatto sociale a dir poco mitizzato.

In realtà quella rappresentazione attribuisce all’economico, addirittura ad un particolare aspetto di esso, la finanza, una funzione malposta e sopravvalutata. Non è l’economico che predomina; prevale in alcuni contesti e in alcune fasi l’esercizio delle strategie politiche nell’economico rispetto agli altri ambiti. Strategie che hanno comunque bisogno del supporto della forza e normativo proprio degli Stati. Prevale in particolare nei momenti di predominio unipolare quando l’uso della forza e dell’influenza politica diretta può essere più discreto e velato. Assume una appariscenza abbagliante per il carattere ancora particolarmente sofisticato del sistema di dominio ed influenza dell’area occidentale rispetto a quello dei poli emergenti alternativi e sempre più contrapposti, siano essi regionali che globali. L’apparenza del dominio della finanza, così come la rappresentazione liberista dei legami economici, del tutto misitficante rispetto alla realtà delle barriere e dei vincoli che la stessa potenza prevalente, analogamente ai competitori tende a frapporre, tende a nascondere l’ambizione di dominio unipolare di una potenza, dei suoi centri decisionali dominanti, del suo Stato rispetto ai concorrenti. La stessa finanza, i suoi agenti, sono compartecipi di queste dinamiche ed oltre ad assumere la veste scontata di predatori sono i coartefici di un traghettamento di risorse economiche teso a garantire la coesione minima delle formazioni sociali e le risorse che consentano l’esercizio e la realizzazione delle strategie politiche.

I SOVRANISMI

La dura realtà delle dinamiche geopolitiche e delle trasformazioni sociali sempre più convulse sta facendo scivolare di fatto la rappresentazione sempre più inadeguata del dualismo sovranismo(Stato)/cartello della finanza verso un confronto tra “sovranismi”. Tra centri decisionali i quali, attraverso l’affermazione delle prerogative dello Stato, riescono a prevalere e predominare ed altri che tendono prevalentemente a subire da alcuni e influenzare in maniera subordinata altri di rango inferiore. In questo contesto il termine “sovranismo” è destinato ad affermarsi, ma a sfumare di significato e valenza simbolica, giacché tende a rappresentare sia gli aspetti di emancipazione che quelli di predominio dell’esercizio delle prerogative statuali. In ogni caso l’azione politica e la strategia politica, nei suoi vari ambiti di azione, è destinata a riprendersi il suo ruolo nel dibattito teorico e nella rappresentazione degli eventi. Con essa tornerà ad assumere una più corretta collocazione il ruolo della forza, della potenza, dell’egemonia e più prosaicamente il ruolo e la funzione dello Stato e delle sue istituzioni sia nel sistema di relazioni internazionali, sia nelle dinamiche interne proprie di funzionamento attraverso il confronto tra centri decisionali, sia nella funzione di plasmare le formazioni sociali.

Alcuni studiosi più avveduti hanno stigmatizzano l’uso del termine da parte di forze politiche approssimative le quali ipotizzano la necessità di un’azione solitaria, solipsistica, atomistica degli stati nazionali, in particolare dell’Italia, nel contesto geopolitico. Una condizione irrealistica anche rispetto a quelle di alleanze instabili e mutevoli tipiche di paesi in grado di esercitare una significativa sovranità e propria di fasi politiche di transizione. Non si tratta solo di primitivismo; spesso si tratta di una particolare forma di sovranismo che tende ad attribuire ancora una volta alle relazioni economiche la prevalenza se non l’esclusività. Una posizione, ad esempio, espressa sino a poco tempo fa da un personaggio politico lucido come Claudio Borghi nella Lega. Una espressione tipica, ad esempio, di ceti imprenditoriali medi e piccoli i quali vedono in uno stato nazionale del tutto sganciato da alleanze e vincoli la possibilità di costruire relazioni economiche ed affari con qualsivoglia soggetto. Ancora una volta un modo di riproporre l’irrealistica superiorità e l’universalismo mitizzato dell’economico rispetto alla limitatezza dell’azione politica. Certamente la dura realtà sta costringendo Borghi a modificare nei fatti tali convinzioni. La mancata razionalizzazione di tali cambiamenti può però spingere a situazioni nefaste ed imprevedibili, almeno rispetto alle intenzioni dell’attuale nuova classe dirigente in via di formazione.

IL FUTURO DEL SOVRANISMO

Tutto ciò sembra spingere i più accorti ad accantonare il termine, piuttosto che salvaguardarlo e potenziarlo di significato rispetto a queste rappresentazioni riduttive. Una rinuncia che somiglia ad un rinvio e ad una resa in una fase di battaglia politica aperta da risolvere sul campo del confronto teorico e dell’analisi politica. Così come appare pericoloso il tentativo di attribuire un attributo, sia esso popolare, costituzionale o altro, al termine sovranità in modo tale da contrapporre in termini antagonistici, nel classico schema destra-sinistra, i vari sovranismi, patriottismi e nazionalismi che dir si voglia in una fase in cui gli antagonisti da sconfiggere sarebbero altri. Una tentazione ricorrente che sente il bisogno di associare il termine sovranità ad entità astratte o reali, come quella di popolo, le quali non esercitano per costituzione o fattualmente il loro potere decisionale se non attraverso l’influenza e la azione di élites e centri decisionali. Un discorso che meriterebbe e meriterà attente considerazioni a parte.

Sono limiti ed incomprensioni che non riguardano fortunatamente solo questo campo politico.

LE FAGLIE

George Soros, presentato come l’essenza del protagonismo e l’onnipotenza del predominio globalista, lo ha implicitamente disvelato nella insolita sequela di interventi ed interviste di questo, in particolare nel suo intervento, ben coadiuvato dai suoi adepti e serventi ossequiosi, al festival dell’economia di Trento.

Ha semplicitamente incluso in un “annus horribilis”, giustificato da imprecisati errori la sequela di sconfitte politiche iniziate con l’elezione di Trump e proseguite con l’affermazione di Orban in Ungheria, Kurtz in Austria, la triade Conte-Salvini-Di Maio in Italia e la mancata elezione di procuratori legali di fiducia (avete letto bene) negli Stati Uniti; ha risolto il dilemma politico, confortato dalla sola elezione di Macron in Francia, rivelatasi progressivamente effimera, suggerendo semplicemente pragmatismo.

Soros, non ostante la vulgata, non è il deus ex machina della globalizzazione. È una pedina importante ed influente di un centro strategico e finanziario colossale, i Rotschild, a loro volta parti di centri decisionali ben più importanti e dal raggio di azione ben più ampio dell’ambito finanziario.

Dispongono di un armamentario ideologico, di apparati e di forza ancora impressionanti, superiori ma non più esclusivi; non dispongono di una strategia vincente e soprattutto ancora in grado di prendere atto della incipiente formazione di nuovi poli di potenza autonomi.

Un logoramento evidente, reso con ogni evidenza trasparente negli Stati Uniti, laddove nuove élites stanno riuscendo a cristallizzare in centri di potere e negli apparati le loro azioni politiche e le loro strategie sia pure al prezzo di pesanti compromessi. Meno determinante in Europa laddove la loro crisi si manifesta in una condizione di stasi nei paesi egemoni (Francia e Germania) e nella prevalenza di forze “sovraniste” in Europa Orientale imbrigliate dalla russofobia e suscettibili quindi di prestarsi a nuove e più stringenti subordinazioni di stampo atlantista. Nel mezzo la situazione italiana ormai oscillante verso questa seconda opzione.

Come chiarito da Piero Visani nella recente intervista su questo blog, si tratta di una di quelle rare faglie che periodicamente si aprono nel contesto geopolitico e nella coesione delle formazioni sociali le quali, però, non durano indefinitamente. Il miracolo raro nelle contingenze politiche deve essere la concomitanza tra contingenza politica favorevole e la formazione di un ceto politico adeguato a coglierla. I tempi di formazione dell’una il più delle volte non coincidono con quelli dell’altra.

Esiste una prima traccia della formazione di due internazionali. Quella globalista, consolidata e strutturata, forte della sapienza maturata negli ultimi quaranta anni, prosegue pervicacemente anche se annaspa nella visione generale. Quella cosiddetta “sovranista”, rappresentata dall’avvento in Europa di Bannon, un personaggio politico come minimo ormai ai margini della battaglia politica negli USA, portatore della ipotesi sovranista criticata da questo articolo. Potrebbe essere, purtroppo, il prodromo di una deriva di questi movimenti ancora nascenti. Il fatto che le redini siano in mano a due esponenti politici militanti americani dovrebbe indurre a qualche cautela maggiore nelle scelte. Altra cosa è il dibattito politico e teorico sul quale gli studiosi e strateghi americani sono più avanti di parecchie spanne. Su questo il confronto dovrebbe essere molto più serrato.

 

TRAME E CULTURA, a cura di Antonio de Martini

A tre giorni dalla morte di Inge Feltrinelli_Giuseppe Germinario

BORIS PASTERNAK E INGE SCHOENTHAL: DUE STORIE DI MILIARDI DI EREDITA’ CONTESE, DOVE APPAIONO LA MORTE DI CHE GUEVARA E QUELLA DI FELTRINELLI, IL KGB, LA CIA. UNA INTERVISTA ESCLUSIVA A SERGIO D’ANGELO.

Sergio d’Angelo ha compiuto ottantotto anni e ne dimostra venticinque di meno anche fisicamente, oltre che di memoria. E’ a lui che il mondo deve il romanzo capolavoro di Boris Pasternak ” Il dottor Zivago” che fruttò all’autore il Nobel per la letteratura e una vita di persecuzioni, anche se la maggior parte degli italiani di tutto questo ricorda forse solo il film e Julie Christie.

Il Corriere della Collera pubblica oggi una lunga intervista a Sergio d’Angelo, di Kontinent USA e del presidente della associazione per l’amicizia Russia Stati Uniti Edward Lozansky, uno scienziato nucleare sovietico che fece il cammino inverso rispetto a Bruno Pontecorvo che scelse di andare a lavorare in Unione Sovietica. Due ebrei inquieti, su opposte sponde della guerra fredda.

IL Corriere della Collera, oggi 5 gennaio 2012, è lieto di offrire questa esclusiva ai propri lettori e promette a breve , oltre a questa verità sulla morte di Feltrinelli, anche uno studio comparativo della due inchieste della magistratura sulla morte di Enrico Mattei, curato dall’ ex A. D. dell’Agip, uno dei suoi discepoli.

L’intervista è preceduta da una nota redazionale che pubblico integralmente.

“Kontinent USA, su richiesta di alcuni suoi lettori, torna oggi sul caso Pasternak per discuterne un importante aspetto rimasto finora nell’ombra.

Per introduzione, soprattutto ad uso del pubblico più giovane, conviene qui ricordare che il geniale poeta e scrittore russo Boris Pasternak (1890-1960) subì negli ultimi anni di vita durissime persecuzioni dal regime sovietico. Ciò per aver fatto pubblicare in Occidente il suo romanzo “Dottor Zhivago”, un capolavoro proibito in patria ma presto coronato da uno strepitoso successo mondiale e dal conferimento del Premio Nobel all’autore.

La prima edizione al mondo del “Zhivago” ebbe luogo in Italia, a Milano, nel novembre 1957, presso la casa editrice fondata dal giovane Giangiacomo Feltrinelli appena due anni prima. Feltrinelli, benché avesse ereditato uno dei massimi patrimoni industrali e finanziari esistenti in Italia, era stato militante del Partito comunista italiano (PCI) e lautamente lo aveva sovvenzionato. Dal PCI si era però staccato nella primavera 1957, ribellandosi alle forti pressioni cui l’avevano sottoposto i dirigenti di quel partito nel tentativo di non fargli pubblicare il romanzo sconfessato da Mosca. E in quella circostanza professò di volersi battere, da editore di sinistra, per l’assoluta libertà del pensiero e della cultura.

Ma di fatto, negli anni successivi, smise a poco a poco di occuparsi di faccende editoriali per mobilitarsi prima come generoso finanziatore di guerriglie nel Terzo Mondo, poi come improbabile guerrigliero in Italia e dintorni. Perse la vita in un fallito attentato nella periferia di Milano (marzo 1972).

L’aspetto del caso Pasternak cui si riferisce l’inizio di questa nota è il ruolo esercitato per quasi quindici anni (1958-1972)

dalla Signora Inge Schoental nella vita di Giangiacomo Feltrinelli. Nel 1962 Inge ebbe da Giangiacomo il figlio Carlo, erede universale del patrimonio miliardario paterno: quello sul quale lei regna da vari decenni.

Per approfondire questo argomento Kontinent USA ha intervistato Sergio d’Angelo, il giornalista italiano che nella primavera del 1956 ottenne da Pasternak il dattiloscritto del “Zhivago”, con l’intesa di passarlo a Feltrinelli, ed ebbe una parte rilevante, in Russia e fuori, nelle complesse vicende originate dalla sua iniziativa. Di tutto ciò d’Angelo ha dato ampia testimonianza in un suo libro pubblicato in Italia nel 2006. Nel settembre dell’anno successivo, pochi giorni dopo l’edizione russa dello stesso libro (“Delo Pasternaka: Vospominanija Ochevidtsa”, Novoe Literaturnoe Obozrenie, Moskva 2007), d’Angelo è stato insignito del Premio Liberty (Sezione Finestra sull’Europa), fondato nel 1999 e presieduto da una giuria di illustri membri della comunità russo-americana.

Il Premio Liberty, che ogni anno viene assegnato a persone distintesi per i loro contributi alla cultura, è sponsorizzato dalla Casa Russia di Washington, dalla Università Americana di *Mosca e da Kontinent USA.

Un personaggio del “caso Pasternak”

INGE SCHOENTAL FRA LEGGENDA E REALTA’

Intervista a Sergio d’Angelo

Edward Lozansky – Premetto che solo negli ultimi giorni ho potuto vedere il DVD con cui parecchi mesi fa la Signora Inge Schoental si è raccontata al suo pubblico italiano. Si tratta, direi, di una lunga autocelebrazione con qualche diplomatico tocco di modestia: per esempio l’ammissione di non aver imparato bene l’italiano. Comunque sia, quel DVD ha riacceso in me e in altri colleghi, tutti cultori di Pasternak, tutti appassionati al “romanzo del romanzo”, il desiderio di sapere molto di più sulla influenza che Inge, con la sua indubbia personalità, ha avuto sulla sorte di Giangiacomo Feltrinelli. Per prima cosa, dunque, potresti riferirci chi era e che ha fatto Inge prima del suo incontro con l’editore milanese?

D’Angelo – A questo riguardo parecchi giornali, periodici e libri, per lo più italiani, hanno riportato le sue dichiarazioni. In sintesi ecco quanto se ne ricava. Inge nasce in Germania, a Essen (Ruhr), nel 1930. E’ ancora nella primissima infanzia quando il padre, ebreo, emigra in America per scampare al potere nazista. Lei cresce a Gottinga, nella Bassa Sassonia, accanto alla madre e a due fratelli più piccoli, fra seri pericoli e ristrettezze economiche. Durante la guerra frequenta il liceo con l’idea di proseguire gli studi, ma i soldi per farlo non ci sono.

E.L. – E alla fine della guerra?

D’A – Inge trascorre ancora a Gottinga, con la famiglia, pochi altri anni che preferisce dimenticare. Poi decide di andarsene per suo conto e, grazie al passaggio che le danno su un camion, arriva ad Amburgo. Ha pressoché vent’anni, è una bella ragazza che non passa inosservata, Molto intraprendente. Comincia a girare in bicicletta la grande città portuale che dista solo poche decine di chilometri dal confine della Germania orientale. Cerca lavoro, cerca di fare conoscenze, e infine riesce ad essere assunta come apprendista fotoreporter dalla rivista “Constanze”. Presto viene incaricata di servizi fotografici su persone di spicco della Germania occidentale e, dalla seconda metà degli anni cinquanta, può ampliare il raggio delle sue trasferte per raggiungere alcune celebrità residenti in altri paesi. La trasferta più lontana, esotica e gratificante (1957) avrà luogo nella Cuba precastrista, dove Ernest Hemingway la ospiterà per una quindicina di giorni nella propria Finca Vigia, vicino all’Avana.

E.L. – Insomma fa una fulminea carriera, anche se il nome di lei non figura fra i miti della fotografia Ma come ha avuto modo di incontrare Feltrinelli?

D’A – All’inizio del luglio 1958 Feltrinelli, separatosi poco prima dalla seconda moglie, decide di fare un viaggio in Svezia per acquistarvi

un nuovo panfilo. Nello stesso tempo comunica all’editore amburghese Heinrich Rowohlt, col quale ha già un rapporto di amicizia ed affari, che il 14 dello stesso mese, durante un’apposita tappa, vorrebbe fargli visita. Rowohlt è d’accordo e la sera del giorno stabilito, per onorare l’ospite italiano, dà una festa. Inge è lì. Sgargiantemente abbigliata. Lei partecipa alla festa, chiarisce, in quanto svolge incarichi di fotoreporter anche per Rowohlt . Cena al tavolo con i due editori e ce la mette tutta per far colpo su Feltrinelli. Riportando un successone. Lo stesso editore amburghese testimonierà molti anni dopo in un’intervista alla rivista “Panorama” (29 settembre 1985) che Inge e Feltrinelli “simpatizzarono subito e, quando lasciarono la festa, credo non avessero più bisogno di nessun altro”.

E.L. – Dopo di che mi aspetto che presto i due vadano a Milano e poi, felici e contenti, convolino a nozze. Non è così?

D’A – Parliamo di una cosa per volta. Vanno a Milano, verissimo, ma non possono sposarsi, perché lui ha un’altra moglie, sia pure separata, e in Italia il divorzio non c’è ancora. Corre voce che per aggirare l’ostacolo Feltrinelli ricorra alla “Sacra Rota”, tribunale ecclesiastico cui è consentito sciogliere i matrimoni non consumati, e si dichiari affetto da “impotentia erigendi et coeundi” [incapacità di erezione ed eiaculazione], così come ha fatto per mettere fine al suo primo matrimonio. Ma ciò non è rilevante. Infatti Feltrinelli, per la ragione di cui diremo, finisce di convivere con Inge prima del previsto e si lega sentimentalmente alla giovanissima Sibilla Melega, destinata a diventare l’ultima delle sue mogli.

E.L. – Comunque immagino che in un primo tempo Inge sia stata molto contrariata per non poter consolidare con nozze italiane la sua relazione con Feltrinelli.

D’A – Penso di sì. Ad ogni modo Inge, stabilitasi nella casa avita di Feltrinelli, inaugura con disinvoltura la sua nuova vita da miliardaria. Che però non è una vita oziosa. Chiede e ottiene infatti di essere presto inserita nella casa editrice quale incaricata dei rapporti con editori e autori stranieri e, proprio in questa veste, all’inizio del 1959 accompagna Feltrinelli in un viaggio di circa quattro mesi nel continente nord-americano. A dire il vero, i due prima si sposano in Messico (per lei anche questo è meglio niente) e festeggiano l’evento con una vacanza itinerante che include la Bassa California e Cuba. Poi si fermano a lungo negli Stati Uniti per discutere progetti e scambi di diritti con diversi illustri editori. Ma sono sicuro che incontrano pure alcuni militanti di estrema sinistra.

E.L. – Perché ne sei sicuro?

D’A – Perché proprio al ritorno da quel viaggio Feltrinelli mi dice per la prima volta di avere scoperto, parlandone con gente ben informata, che i massimi poteri degli Stati Uniti si stanno preparando alacremente a fascistizzare tutto l’Occidente e a scatenare la terza guerra mondiale. Io ci scherzo su. Ma di questa presunta scoperta lui continua a vantarsi in giro.

E.L. – E Inge è d’accordo con lui?

D’A – Di certo non in pubblico. Anzi, lei si atteggerà sempre a illuminata intellettuale che, favorita dalla sua importante posizione nell’editoria, vuole contribuire al progresso pacifico, democratico e culturale della società. Tanto che arriverà ad ammettere, quando capita il discorso, che Feltrinelli sia politicamente un po’ troppo radicale e impulsivo…

E.L. – Scusami se ti interrompo. Nel tuo libro sul caso Pasternak tu hai sostenuto che Mosca, dopo l’uscita del “Zhivago” in Italia, non poteva arrendersi all’idea di far mancare i soldi di Feltrinelli alla causa del comunismo…

D’A – Vero. E ho aggiunto che a un certo punto progettò di indurre Feltrinelli (sapendolo affetto da seri complessi, specie da megalomania infantile, e pertanto molto influenzabile) a finanziare quei focolai di guerriglia che si accendevano soprattutto nel Terzo Mondo ed erano appoggiati da Mosca nel quadro della sua strategia planetaria.

E.L. – A questo scopo, però, Mosca doveva individuare chi potesse e volesse manipolare Feltrinelli. In altre parole chi sapesse inculcargli il concetto che soltanto le sinistre rivoluzionarie, quelle già ricorse alle armi o pronte a ricorrervi, fossero veramente in grado di scongiurare il dilagare del fascismo e l’olocausto nucleare. E tu non supponi …

D’A – Al riguardo lasciamo parlare una serie di fatti. Dopo la lunga sosta negli Stati Uniti Inge convince Fertrinelli ad accreditare presso Pasternak e Olga Ivinskaia, compagna e ispiratrice dello scrittore, un proprio amico di Amburgo, il giornalista Heinz Schewe, che sta per trasferirsi a Mosca come corrispondente del quotidiano “Die Welt”. Questi assicurerà alla casa editrice, spiega lei , un canale più che sicuro per concordare con l’autore del “Zhivago” il modo di risolvere i problemi legali e giudiziari che si moltiplicano in parallelo con le nuove edizioni occidentali del “Zhivago”: in concreto per far firmare a Pasternak un contratto più favorevole all’editore, sotto il profilo dei diritti, rispetto a quello stilato inizialmente. Ma Pasternak non firmerà mai il nuovo contratto.

E.L. – Perché?

D’A – Per tre motivi. Primo: firmare il nuovo contratto gli avrebbe attirato nuove persecuzioni da parte del potere sovietico. Secondo: il testo predisposto a Milano implicava la sconfessione di una sua procuratrice parigina che fra l’altro avrebbe dovuto amministrare gli onorari spettanti all’autore per tutte le edizioni del “Zhivago”. Terzo: Il nuovo contratto avrebbe incluso, fra le clausole che lui non gradiva affatto, anche il suo consenso all’utilizzazione cinematografica del Zhivago”.

E.L. – Davvero Pasternak era contrario a un film tratto dal suo romanzo?

D’A – Sì, disse molte volte di temere una banalizzazione. Ma torniamo a Schewe. Il giornalista di Amburgo viene accolto con assoluta fiducia da Psternak e Olga, diventa ospite molto assiduo della casa di lei e dei suoi figli. Comunque il suo comportamento sembra inspiegabile dal momento in cui, poco dopo la morte dello scrittore (30 maggio 1960), Olga e la figlia Irina Emelianova vengono arrestate, processate e condannate a lunghe pene detentive. Il potere sovietico ha preso queste misure per “riabilitare” l’autore del “Zhivago” (un gigante da non regalare per sempre ai nemici dell’URSS) mediante una campagna per demonizzare Olga come una donna avida e intrigante che, complice la figlia, avrebbe tradito e fuorviato Pasternak, “ingenuo ma leale cittadino sovietico”. La campagna diffamatoria, per essere più efficace, doveva però scattare solo dopo che le condanne fossero passate in giudicato.

E.L. – Ci fu dunque un lungo segreto di Stato. Quando cessò?

D’A – Qualcosa cominciò a trapelare, in URSS e in Gran Bretagna, fin dall’inizio di gennaio, ma fu il quotidiano londinese “Daily Telegraph” a rilevare per primo, il 18 dello stesso mese, diversi particolari sul dramma delle due donne. Ebbene, Schewe era l’unico giornalista occidentale che, per aver frequentato la casa di Olga fino alla vigilia dell’arresto, sapeva quel che era successo. Avrebbe potuto fare un scoop giornalistico, soprattutto avrebbe dovuto ricordare che molte volte Pasternak aveva raccomandato a tutti i suoi amici stranieri di suonare le campane a martello se, dopo la sua morte, come presentiva, Olga fosse stata arrestata. E invece non diffuse la notizia, La dette riservatamente solo a Feltrinelli, il quale me la gridò in faccia un mese dopo per accusarmi di essere la causa dell’arresto e quindi per licenziarmi.

E.L. – A quel punto anche tu potevi rivelare la notizia. Che cosa ti trattenne?

D’A – Il sospetto che si trattasse di una balla.

E.L. – Era stato lo stesso Schewe a mettergli in testa che la colpa dell’arresto fosse tua?

D’A – Non lo so. Comunque il 17 gennaio 1961 Schewe mi rivolse la medesima accusa in un’intervista sul “Corriere della Sera”, il più importante giornale italiano. In breve, secondo la sua versione, io avevo irresponsabilmente fatto consegnare ad Olga un grosso pacco di rubli e la polizia l’aveva scoperto: donde l’arresto e poi la condanna per contrabbando di valuta. Le cose però non stavano affatto in questo modo. A cominciare dal 1959 io avevo inviato a Olga, per Pasternak, un paio di somme già convertite in rubli, quelle che potevo permettermi, utilizzando come “corriere” qualche amico molto fidato. Sapevo che Pasternak aveva estremo bisogno di aiuto perché, in seguito allo scandalo sollevato dalle autorità sovietiche quando nell’ottobre 1958 lui era stato insignito del Premio Nobel, l’Unione degli scrittori lo aveva privato delle sue uniche fonti di guadagno.

E.L. – Mi ricordo. Non gli era più permesso di pubblicare o ristampare le proprie opere, nemmeno le magistrali traduzioni dei grandi classici come Shakespeare e Goethe.

D’A – Esatto. Però nel marzo 1960 Feltrinelli (dopo aver ottenuto che la summenzionata procuratrice parigina declinasse il mandato per evitare a Pasternak le conseguenze di un rumoroso procedimento giudiziario minacciato da Milano) mi versò finalmente la somma in dollari che lo scrittore gli aveva chiesto di mettere a mia disposizione quasi un anno prima per consentirmi di gestirla come fondo per rimesse periodiche all’indirizzo di Olga. Il fondo era consistente. Proveniva dagli onorari, senza dubbio molte volte più consistenti, che spettavano allo scrittore per tutte le edizioni del “Zhivago” uscite fino a quel momento in Occidente. Pasternak aveva stabilito l’entità del fondo e me ne aveva affidato la gestione esentandomi dal renderne conto a chicchessia e raccomandandomi di iniziare le rimesse quanto prima possibile. Tutto questo sta scritto nelle sue dichiarazioni autografe, poi pubblicate integralmente.

E.L. – E subito tu cominciasti a organizzare la rimessa di cui parla Schewe…

D’A – Quasi subito. Si trattava di un’operazione complessa e purtroppo potei completarla soltanto dopo la morte di Pasternak, comunque nella certezza di eseguire la sua volontà. Riassumo la fase finale della rimessa. Verso la fine di luglio due giovani coniugi molto legati alla mia famiglia (un medico toscano e una slovena capace di cavarsela col russo) giungono a Mosca en touriste a bordo di un maggiolino Volkswagen dove sono accuratamente nascoste numerose mazzette di rubli. I due prendono posto in un grande albergo pieno di turisti stranieri e si riposano dalle fatiche del lungo viaggio automobilistico.

E.L. – Iniziato dove?

D’A – In Italia, a Roma. Poi i due coniugi hanno attraversato l’Austria, Berlino, Varsavia. All’indomani dell’arrivo a Mosca cominciano a visitare la città, usando esclusivamente mezzi pubblici e guardandosi bene dal servirsi di telefoni. Fra l’altro, avendo ricevuto da me una mappa del centro cittadino e precise istruzioni di comportamento, si fanno portare con un taxi nelle vicinanze della strada (che poi raggiungono a piedi) dove sorge l’edificio in cui abita Olga e lo osservano dall’esterno, senza fermarsi. Nello stesso modo, un paio di giorni dopo, tornano di pomeriggio davanti a quell’edificio e salgono senza preavviso all’appartamento giusto. Apre Olga. Essi, riconoscendola dal modo in cui l’avevo descritta, le porgono un generico biglietto di presentazione (lei ben conosce la mia scrittura) e si informano a gesti se possono parlare liberamente. Possono. Allora concordano che la sera del giorno successivo. per l’esattezza il primo agosto, torneranno con le mazzette di rubli prelevate all’ultimo minuto dal maggiolino e sistemate in due normali borse da viaggio. E ciò avviene puntualmente. Col seguito di una cena che Olga vuole offrire in casa.

E.L. – I “corrieri” ripartono, hanno fatto un lavoro perfetto. Quando e come poi qualcosa va storto?

D’A – Olga ci descrive minutamente in un libro di memorie, “A Captive of Time” (Doubleday, Garden City, New York 1978), le vicende dei quindici giorni che intercorrono dalla visita dei “corrieri” al suo arresto (16 agosto). Ne traggo l’essenziale. Olga confida quasi subito a Schewe, sempre suo assiduo visitatore, l’arrivo dei rubli e lui si mostra costernato. Esclama: “Adesso noi [sic!] siamo spacciati”. Olga nasconde i rubli o parte di essi in una valigia che chiude a chiave e consegna a un’ignara sarta abitante al piano di sotto, dicendole che ripasserà, appena ne avrà il tempo, per decidere le modifiche da apportare agli indumenti che stanno lì dentro. Olga non fa assolutamente menzione di sue grosse spese che possano aver dato nell’occhio.

E.L. – Esiste, di quei giorni, anche una versione di Schewe?

D’A – Nella citata intervista sul “Corriere”, quella in cui mi addita come il colpevole dell’arresto, Schewe sosterrà che Olga aveva attinto al denaro appena ricevuto per comprare una motocicletta al figlio e in quel modo (tanto più che allora pochissime motociclette giravano per Mosca) era incappata incautamente nel mirino della polizia.

E.L. – Se fosse vera la storia della motocicletta cadrebbe il sospetto di una spiata …

D’A – No, la spiata è molto più di un sospetto. Infatti la mattina del 16 agosto, come Olga racconta in “Captive of Time”, diversi agenti fanno direttamente irruzione nell’appartamento della sarta di Olga, forzano la valigia e sequestrano i rubli. In quel momento Olga non è nemmeno a Mosca. Si trova in una casetta di campagna, non molto distante dalla capitale, dove altri agenti, quella stessa mattina, l’arrestano con l’imputazione di aver contrabbandato valuta: imputazione ridicola, ovviamente, perché Olga (al pari della figlia che sarà arrestata una ventina di giorni dopo) mai ha messo piede fuori dell’URSS e mai ha ricevuto banconote estere.

E.L. – E Schewe commenta questo fatto?

D’A – In modo incredibile. Mi riferisco ancora alla sua intervista al “Corriere”. Non che lui parli dell’ incursione nell’appartamento della sarta… Però sostiene testualmente che, date le circostanze, “il tribunale sovietico non poteva far altro che condannare lei [Olga] e la figlia Irina”. In sostanza, finge di ignorare che il processo è stato preceduto da qualche mese di interrogatori nella Lubianka (dove si portano solo gli oppositori politici) e sbrigato in un solo giorno nella più assoluta segretezza, senza testimoni a discarico e senza possibilità di ricorrere in appello. E così sconfessa a priori la sentenza con cui il 2 novembre 1988, al tempo di Gorbaciov, la Corte suprema della Repubblica sovietica russa annullerà quel processo e assolverà pienamente madre e figlia per “insussistenza di reato”.

E.L – Allora si può concludere che Schewe…

D’A – La conclusione su Schewe emergerà fra poco. Nel marzo 1961, cercando di riparare allo scandalo internazionale per la sorte di Olga e figlia, Aleksei Adzhubei, direttore del giornale “Izvestia” (e genero di Krusciov), compie un giro di conferenze in Gran Bretagna. E con l’occasione tira fuori un presunto asso dalla manica. Una lettera in tedesco sequestrata dalla polizia sovietica (poi pubblicata e ripubblicata in Occidente) che Feltrinelli ha inviato ad Olga, nel tentativo di forzarne la volontà, all’indomani della morte di Pasternak. L’editore chiede ad Olga di mandargli al più presto il nuovo contratto per i diritti del “Zhivago” e qualsiasi documento riservato dello scrittore; le spiega che tutto ciò non deve mai capitare “nelle mani delle autorità o della famiglia Pasternak”; e le promette che farà del suo meglio “per evitare pagamenti a terze persone” o, se non dovesse riuscirci, per far sì che “una parte sostanziale del profitto resti per lei e per Irina”.

E.L. – Mi ricordo benissimo. In quella lettera Feltrinelli cita anche Schewe.

D’A – Lo cita eccome. Feltrinelli raccomanda ad Olga di non fidarsi di “nessuno ad eccezione di Schewe”, e poi, se un giorno questo “nostro comune amico” non fosse più a Mosca, di fidarsi soltanto di coloro che le mostreranno “una delle parti mancanti” e ai quali lei mostrerà “l’altra parte” [allegati alla lettera sono due mezzi biglietti italiani da mille lire].

E.L. – Un tocco cospiratorio in cui la propaganda sovietica ha inzuppato il pane. Ma quella lettera non provava affatto che fosse stata Olga, una donna resa molto cauta da tante tragiche esperienze di perseguitata, ad ispirare tante sciocchezze, compresa la superflua raccomandazione di non far cadere le carte riservate nelle mani delle autorità.

D’A – Su questo non può esserci il minimo dubbio. Ma il punto che ora mi preme chiarire è un altro. Sulla base di ciò che sta scritto in quella lettera Schewe dovrebbe essere giudicato dal regime sovietico come un complice di prim’ordine in attività criminose; e in quanto tale, sarebbe a dir poco espulso immediatamente dall’URSS, come accade di regola a qualsiasi corrispondente “borghese” (ossia non comunista) che abbia commesso un’ infrazione sia pure infinitamente più lieve. Invece Schewe può restare tranquillo nell’URSS fino a 1967 (e vi trova anche moglie), fruendo di una”grazia” che è anche la prova definitiva dei suoi servigi al KGB.

E.L. – Prova definitiva come una “pistola fumante” in mano al killer. Ma Inge ha mantenuto anche in seguito rapporti amichevoli con Schewe?

D’A – Che Schewe sia rimasto nel suo ambito familiare è un dato di fatto. Carlo, figlio di Feltrinelli ed Inge, riferisce nel suo libro “Senior Service” (Milano 1999) che nel mezzo degli anni sessanta suo padre e Schewe si tenevano in contatto: se non altro per capire se io avessi una “sponda” americana o sovietica [insomma se fossi al soldo della CIA o del KGB]. Ovviamente la fonte di questa notizia è sua madre, perché all’epoca lui aveva non più di quattro o cinque anni. Di prima mano (anche se forse non all’insaputa di Inge) Carlo racconta poi nello stesso libro di aver fatto una visita a Schewe, in Germania, quando questi era ormai pensionato.

E.L. – Risposta esauriente. Adesso torniamo all’impegno di Inge nella casa editrice, ai suoi viaggi con Feltrinelli…

D’A – Allo scorcio degli anni cinquanta la casa editrice presenta diverse novità significative. Licenziamenti (incluso il mio) e nuove assunzioni, cancellazione di libri tradotti o già in bozze… Più rilevante, tuttavia, è il “maggiore respiro internazionale” che Inge si vanta esplicitamente di promuovere: soprattutto affiancando Feltrinelli, dai primi anni sessanta, in moltissimi viaggi di lavoro nei paesi del Terzo Mondo.

E.L. – I due cercano libri da tradurre?

D’A – In teoria sì. In pratica, invece, quei viaggi hanno per effetto soprattutto l’iniziazione rivoluzionaria dell’editore milanese.

E.L. – Per esempio?

D’A – In Africa, dove per qualche anno si concentra il loro interesse, i due visitano ripetutamente Algeria, Marocco, Guinea, Nigeria, Ghana. Feltrinelli, coadiuvato da Inge, riesce a stabilire rapporti personali con i leader saliti di recente alla ribalta della storia anticoloniale, da Ben Barka a Sékou Touré. In particolare si infervora per la causa dell’indipendenza algerina, dandone la dimostrazione più concreta con l’offrire asilo a Milano, nei locali di un suo istituto, ad alcuni disertori francesi. E nell’estate 1962, grazie alla compiacenza del presidente ghanese Kwame Nkrumah, si infila addirittura fra i delegati dei paesi non allineati all’assemblea di Accra sul disarmo nucleare. Quanto alle scoperte editoriali i giri africani fruttano solo un manoscritto sull’Algeria (magari trovato a Parigi) che lui pubblica anche in lingua originale col proposito di contrabbandarlo in Francia.

E.L. – Effettivamente non è molto…

D’A – In compenso, durante una pausa dei viaggi in Africa, Inge dà alla luce Carlo (marzo 1972). Il neonato è senza dubbio figlio di Feltrinelli, la somiglianza con lui è fuori discussione, e poco importa se nella cerchia dell’editore corre voce che ci sia stato un ricorso all’inseminazione artificiale. Sia come sia, si deve rilevare un fatto. Questo figlio (che il padre subito riconosce e nomina per testamento suo erede universale) sarà determinante nel consentire ad Inge di mantenere la sua presa su Feltrinelli quando fra non molto finirà la loro convivenza sotto lo stesso tetto e soprattutto dopo che lui, alcuni anni più tardi, passerà alla clandestinità.

E.L. – E la passione per Cuba? Quando esattamente comincia?

D’A – Nel gennaio 1964. Inge e Feltrinelli sbarcano a Cuba, dove entrambi sono già stati. Adesso qui tutto è cambiato. C’è Fidel Castro, il socialismo caraibico, il miraggio dell’esplosione rivoluzionaria nell’intera America Latina. Feltrinelli, che di tutto ciò si entusiasma, viene ricevuto varie volte dal lider màximo, ne conquista la benevolenza, può perfino misurarsi con lui in qualche tiro di basket (ripreso dalle istantanee di Inge, l’ex fotoreporter). Anche questo viaggio, va detto, non manca di un contenuto editoriale: ottenere i diritti in esclusiva mondiale sulle memorie di Fidel Castro. Peccato che le memorie non sono state ancora scritte e che l’autore in pectore, pur avendo incassato un generoso acconto, non le scriverà mai.

E.L. – Ma i due torneranno a Cuba anche in seguito?

D’A – Ci tornerà molto spesso Feltrinelli. Ma senza Inge. La ragione è che una svolta significativa interviene di lì a poco nella vita della coppia. Durante una festa affollata lei viene scoperta in estrema intimità con un noto giornalista del PCI, suscitando a dire il vero più perplessità che scandalo. Possibile che una donna come lei, generalmente considerata molto padrona di sé, abbia agito con tanta leggerezza? Ad ogni modo il risultato è che Feltrinelli va ad abitare per conto proprio, lasciando a lei la disponibilità della dimora patrizia, la cura del figlio, l’usufrutto su una cospicua parte del patrimonio familiare e l’incarico di dirigente nella casa editrice.

E.L. – Un po’ troppo. Segno che lui resta succubo della personalità di Inge.

D’A – E’ così e sarà sempre così. Intanto il nuovo assetto non impedisce ad Inge, che conserva intatte tutte le sue funzioni materne e professionali, di incontrare e condizionare Feltrinelli tutte le volte che vuole. E le dà in più la possibilità di dissociarsi in modo naturale da quei viaggi nel Terzo mondo che finirebbero col rendere poco credibile la sua coltivata immagine pubblica di intellettuale progressista ma non rivoluzionaria. Del resto Feltrinelli è ormai caricato e prosegue sulla rotta prefissatagli. Tanto che all’inizio del 1967, visitando Cuba per l’ennesima volta, proclamerà in un discorso al College Habana Libre di aver esaurito il suo compito di editore europeo e di considerarsi soltanto “un combattente contro l’imperialismo”.

E.L. – E come combatte?

D’A – Assume l’incarico di pubblicare l’edizione italiana del bimestrale “Tricontinental”, redatto a Cuba quale organo dell’Organizzazione della solidarietà fra i popoli di Asia, Africa e America Latina; e di quel bimestrale diventa ufficialmente fiduciario e inviato, occupandosi per conseguenza di ulteriori guerre e guerriglie, dal Medio Oriente al Vietnam, dall’Angola all’Uruguay, in breve in una buona parte del terzo Mondo. Non che prenda parte personalmente ad azioni di carattere militare, ma si spinge verso molte delle aree in fermento (mentre le mete di lavoro preferite di Inge sono adesso Parigi, Londra, New York) per incontrare i giusti protagonisti e contribuire alle loro cause con elargizioni di denaro e/o forniture di materiale bellico. Per esempio, subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, incontra, non per ossequiarli solo a parole, Yasser Arafat e altri dirigenti di al Fatah.

E.L. – Per gli affari editoriali, d’ora in poi, lui avrà poco tempo…

D’A – In realtà , prima ancora della sua solenne dichiarazione al College Havana Libre, Feltrinelli ha cominciato a mollare ad Inge, gradualmente, le redini della casa editrice. Anzi, a questo proposito vorrei fare una digressione rispetto al tema dei finanziamenti alle guerriglie. Si tratta di una mia diretta esperienza e testimonianza…

E.L. – Ti ascolto.

D’A – Dopo la scarcerazione di Olga (novembre 1964) prendo un’iniziativa che ormai non può cancellare il “gesto di clemenza” con cui è stata ridotta la sua pena detentiva (e prima ancora quella della figlia). Cioè propongo a Feltrinelli, attraverso il suo principale avvocato, di istituire e presiedere un Premio Pasternak. Per finanziarlo suggerisco di utilizzare legalmente una lettera autografa che Pasternak, alla fine del mio lavoro giornalistico in URSS, aveva inviato per mio tramite a Feltrinelli: una lettera in cui, fra l’altro, gli dava disposizione di versarmi a titolo di compenso la metà di tutti gli onorari del “Zhivago” spettanti all’autore.

E.L. – Una gran bella somma!

D’A – Equivalente oggi a molti milioni di dollari. Perciò su quella lettera, che Pasternak volle farmi leggere in sua presenza, avevo scritto un grosso NO stampatello accanto alle righe che mi riguardavano, spiegando allo scrittore che mai avrei accettato di sottrarre ai suoi onorari una cifra tanto spropositata e augurandogli di venire in possesso prima o poi di tutto ciò cui aveva diritto. Feltrinelli mostrò la lettera, appena l’ebbe ricevuta, a parecchi suoi collaboratori, lodandomi per la rinuncia al denaro…

E.L – Ma la tua rinuncia non impedisce legalmente l’operazione che proponi a Feltrinelli?

D’A – Non l’impedisce perché gli eredi di Pasternak, “per ragioni politiche e morali”, non potranno mai reclamare “quell’oro di Giuda”. Lo ha stabilito nell’ottobre 1961 il vertice del Partito comunista sovietico (PCUS), primo firmatario Mikhail Suslov. Comunque Feltrinelli rigetta la mia proposta senza una parola di spiegazione.

E.L. – Sicché tu inizi una vertenza giudiziaria contro la società editrice.

D’A – Per l’appunto. Motivi di spazio non mi permettono di ricapitolare qui tutte le fasi della vertenza giudiziaria (1965-1972) ch’io finanzio nei primi anni con il residuo del fondo rimesse. Del resto ho già assolto questo compito, con profusione di documenti, nel mio libro sul caso Pasternak; e poi chi volesse accedere direttamente agli atti processuali può rivolgersi all’Archivio di Stato in Roma. Qui, invece, ricorderò per sommi capi gli episodi che provano in modo schiacciante la stretta intesa fra la società editrice (sempre più dominata da Inge) e le competenti autorità sovietiche in tutto il corso della vertenza.

E.L. – Va’ avanti.

D’A – Dopo una lunga e debole contestazione della validità giuridica della citata lettera di Pasternak la società editrice, convintasi ch’io non ne ho fatto una copia (il che è vero), presenta in giudizio una precedente e generica lettera dello scrittore, manomessa con un NO apocrifo, sostenendo che mi sono confuso. Ma, rendendosi conto che questo falso non potrà reggere a lungo, rivela a Mosca ch’io voglio istituire un Premio Pasternak. Mosca si allarma seriamente. Si mobilita. Infatti subito dopo, nel maggio 1966, il vertice del PCUS capovolge la decisione di cinque anni prima stabilendo che i figli di Pasternak potranno ereditare i proventi del “Zhivago” (e quindi intervenire nella mia vertenza), con ciò impedendo che “determinati circoli utilizzino per fini antisovietici le rilevanti somme dello scrittore scomparso”.

E.L. – Qui sembra smentita la proverbiale inefficienza della burocrazia sovietica.

D’A – Non generalizziamo. Ascolta adesso l’esempio di un pasticcio spionistico. Nell’agosto 1967, mentre sto raccogliendo importantitestimonianze a mio favore, una signora russa, Galina Oborina, che mi ha conosciuto a Mosca e poi si è trasferita definitivamente a Roma in seguito al suo matrimonio con un italiano, mi consegna la copia di una lettera dattiloscritta che Pasternak, di cui sarebbe stata da tempo buona amica, le avrebbe dettata e firmata una quindicina di giorni prima di morire, quando già era allettato. Nella copia, si legge fra l’altro, lo scrittore insiste affinché io accetti finalmente la ricompensa che mi aveva proposto nel nostro ultimo incontro.

E.L. – E’ passato molto tempo dalla data della copia. Tu non dubiti…

D’A – L’Oborina mi racconta molte sue vicende che sembrano spiegare il ritardo della consegna. Comunque io chiedo alla signora di andare da un notaio per autenticare la copia. Ciò che lei fa senza battere ciglio. Io allora deposito in giudizio la copia autenticata. E la società editrice propone quasi subito una querela di falso corredata dalle dichiarazioni giurate di due medici sovietici in cui si afferma che Pasternak, alla data indicata nella copia, stava troppo male per dettare e firmare una lettera. L’Oborina si mostra spaventata e rifiuta di testimoniare in giudizio. Io smentirò i due medici sovietici con testimonianze molto qualificate. Una è di Valeri Tarsis, noto scrittore sovietico dissidente costretto all’esilio dopo aver subito un periodo di manicomio sulla base di diagnosi imposte dal potere. E infine, sia pure tanto tempo dopo, arriva il chiarimento: dal cosiddetto Archivio Mitrokhin spunta il nome dell’Oborina quale agente del Secondo direttorato del KGB. Insomma falsa la lettera e falsa la smentita.

E.L. – Ma come finisce la causa di falso?

D’A – Non finirà mai. Intanto per aprirla è necessario che si chiuda formalmente il giudizio in corso, ciò che richiede, senza che io ne capisca il perché, quasi un anno e mezzo. Infatti il procedimento di falso comincia nel gennaio 1969. Da quel momento la società editrice, ormai chiaramente interessata a perdere tempo, non fa altro che chiedere la comparizione degli eredi di Pasternak, ma per essi, ovviamente ignari di quanto succede a Milano, c’è sempre qualcuno che con vari pretesti chiede e ottiene il rinvio delle udienze.

E.L. – Chi sono gli eredi di Pasternak?

D’A – In questo periodo i due figli Evgheni e Leonid. A loro, però, viene presto aggiunta Olga.

E.L. – Inspiegabile.

D’A – E invece no, sta’ a sentire. Verso la fine del 1969 il console generale sovietico a Roma, Ivan Iutkin, mi invita a un colloquio riservato. Ci vado. Faccio una brevissima anticamera, durante la quale una mia vecchia conoscenza di Mosca, Lolli Zamoiski (che poi figurerà come colonnello del KGB nel citato Archivio Mitrokhin), accerta la mia identità con una furtiva occhiata dallo spiraglio di una porta. Iutkin è gentilissimo. Si dice molto dispiaciuto che gli eredi di Pasternak, in particolare la mia carissima Olga, debbano testimoniare contro di me e mi propone di parlarne, per trovare una soluzione, con due alti dirigenti del Collegio giuridico sovietico per l’estero. Mi scappa di dirgli, sorridendo, che da noi i testimoni a proprio favore non sono presi troppo su serio. Comunque, qualche giorno dopo. io e due miei avvocati incontriamo al Consolato generale, in presenza di Iutkin, il vicepresidente del Collegio giuridico Andrei Korobov e un suo assistente con l’aria di autorevole sorvegliante.

E.L. – In altre termini un occhio del KGB?

D’A – Probabile. Ad ogni modo Korobov mi consiglia con lunghi giri di parole pacate e quasi amichevoli di rinunciare alla mio genere di pretesa sugli onorari di Pasternak e a un certo punto io gli domando, per la verità retoricamente, se in questo caso tutte quelle cospicue somme finirebbero davvero nelle tasche degli eredi. Risposta: certamente sì. Una mia espressione di incredulità fa allora scattare il suo assistente. Con voce arrogante costui mi intima di non divagare. Afferma che io sto dimostrando di non nutrire alcun affetto per Olga (inclusa fra gli eredi, ormai è chiaro, con l’intenzione di condizionarmi psicologicamente). E infine mi grida che “oggi si deve decidere se ci lasciamo da amici o da nemici.” Con grande calma gli spiego che l’alternativa è molto seria e perciò mi serve altro tempo per rifletterci. Fine della seduta.

E.L. – Che è anche l’ultima, immagino.

D’A – Naturalmente. Tuttavia devo convincermi che le manovre congiunte di Milano e Mosca non mi permetteranno di arrivare in tempi men che biblici (quindi anche entro i limiti della mia resistenza finanziaria) alla conclusione dell’intera vertenza e al traguardo del Premio Pasternak. Di conseguenza i miei avvocati, in pieno accordo con me, comunicano alla società editrice che io potrei prendere in considerazione la proposta di chiudere la nostra controversia purché ciò avvenga con una transazione che la impegni a rimborsarmi tutte le spese giudiziarie e non giudiziarie che ho sostenuto di tasca mia per arrivare al punto in cui ci troviamo.

E.L. – E la risposta?

D’A – La risposta non arriva e la causa di falso continua a languire fra le convocazioni mancate dei testimoni russi. Però qualcosa di strano avviene fuori dalle aule di giudizio. Il primo marzo 1970 la Società editrice annuncia sui principali quotidiani del mondo di aver stipulato un accordo con gli eredi di Pasternak (ancora i due figli Evgheni e Leonid più Olga) rappresentati da Korobov, il vicepresidente del Collegio giuridico per l’estero. In sostanza la Società editrice avvierà subito le pratiche valutarie per versare quanto dovuto agli eredi di Pasternak e otterrà da questi ultimi il “secondo contratto” perseguito invano per anni. Questo contratto riconoscerà alla Società diritti molto più ampi sulle utilizzazioni del “Zhivago”, comprese quelle diverse dalla stampa, evitandole in questo modo il grosso delle contestazioni legali sollevate finora, soprattutto all’estero, da editori ed altri soggetti coinvolti nel giro d’affari del romanzo.

E.L. – Bel colpo, su questo non c’è che dire.

D’A – C’è da dire tuttavia che i due contraenti, come ad esempio rileva il londinese “Sunday Times”, hanno ignorato il fatto che io ho promosso un’azione legale, tuttora in corso, per rivendicare parte di quel denaro. Il loro accordo è insomma un mostro giuridico. Ma il peggio deve ancora venire.

E.L. – Un altro accordo?

D’A – No, tutt’altra cosa. Il 20 gennaio 1972 diversi grandi quotidiani del pianeta, dal “New York Times” al “Corriere della Sera”, riferiscono che il giorno prima gli eredi di Pasternak avrebbero dovuto presentarsi come testimoni al tribunale dove si celebra (si fa per dire) la causa di falso e invece hanno chiesto per telegramma di rinviare l’udienza, ora fissata al 24 marzo. La lista degli eredi, si legge ancora, ha subito una variazione. Olga è stata cancellata e al suo posto figura Katia, indicata come figlia dello scrittore. Non si tratterebbe di una notizia sensazionale se non per un dato di fatto: lo scrittore non ha mai avuto una figlia e perciò Katia Pasternak è stata inventata dal KGB.

E.L. – Con quale scopo?

D’A – Si può supporre che questa Katia, munita di tutti i necessari documenti falsi, potrebbe dichiarare di aver rinunciato all’eredità per potersi qualificare come testimone. Di sicuro, comunque, non potremo mai saperlo. La morte di Feltrinelli (14 marzo) ha per conseguenza l’annullamento dell’udienza che avrebbe dovuto tenersi dieci giorni dopo. E non solo. A questo punto comincia anche la fine dell’intera vertenza giudiziaria in quanto i miei avversari di Milano devono occuparsi di problemi societari e personali molto più pressanti (fra cui il regolamento finanziario con cui Inge, sborsando molti milioni di dollari, taciterà Sibilla Melega, ultima moglie dell’editore). In concreto la Società editrice ora accetta la transazione che io ho proposto alla fine del 1969 e che sarà eseguita, causa i tempi tecnici, alla fine del 1972.

E.L. – Toglimi una curiosità. Ti tenta mai l’idea di riaprire quel caso?

D’A – Vuoi scherzare? Solo per la verità storica, niente altro, sto citando l’insieme dei fatti che fanno luce sul ruolo di Inge nella vita di Feltrinelli. Anzi, colgo qui l’occasione per dichiarare, a scanso di equivoci, che dalla Società editrice io non pretenderò mai neanche un centesimo. A nessun titolo.

E.L. – Bene, torniamo allora all’impegno di Feltrinelli nel Terzo Mondo. Eravamo rimasti al suo incontro con Arafat.

D’A – Poco dopo quell’incontro l’editore milanese intraprende una missione anomala. Vola in Bolivia, portandosi molto denaro ritirato da un suo conto a New York, nel tentativo di aiutare in qualche modo il Che Guevara braccato nella giungla e l’intellettuale Régis Debrais rinchiuso in carcere. Si sistema in un albergo di la Paz, dove si fa raggiungere dalla moglie Sibilla Melega, ma qualcosa in cui sperava, forse un contatto con qualcuno, non funziona. Le faccenda si potrebbe mettere molto male e invece, buon per lui e Sibilla, si conclude con qualche interrogatorio e l’imbarco forzato su un aereo in partenza dal paese. A questa avventura, comunque, fa seguito un’improvvisa svolta nella visione strategica di Feltrinelli.

E.L. – In che senso?

D’A – Nel senso che Feltrinelli, appena rimpatria dalla Bolivia, concentra la sua attenzione sui prodromi del Sessantotto italiano: manifestazioni studentesche con qualsiasi possibile motivazione, occupazioni di parecchie università, violente proteste antiamericane sullo spunto della guerra del Vietnam e del colpo di Stato in Grecia, scontri fra militanti di sinistra e di destra. Quanto a lui basta per illudersi che anche qui possano funzionare i modelli insurrezionali delle aree sottosviluppate.

E.L. – E quando passa all’applicazione di questa teoria?

D’A – Quasi subito. Per cominciare sceglie la Sardegna, con l’esplicito obiettivo di trasformarla nella “Cuba del Mediterraneo”, facendo levasoprattutto su separatismo e banditismo, due fenomeni locali che spesso si integrano. Ad essi dà manforte sia con finanziamenti generosi sia con forniture di armi, apparecchi per telecomunicazioni e altri materiali utilizzabili per la guerriglia. Con il risultato di contribuire per qualche anno (promovendo anche la costituzione di un “Fronte rivoluzionario sardo per il comunismo”) a scatenare una fitta successione di gravi e gravissimi disordini, incluso perfino il sabotaggio di manovre militari. Inoltre, fin dai primi mesi del 1968, quando le agitazioni degli studenti e degli infiltrati di vario colore si inaspriscono e dilagano in tutto il territorio nazionale, Feltrinelli si convince che in Italia sia imminente un colpo di Stato ordito da CIA, NATO, grande industria e alta finanza.

E.L. – Una ragione di più, immagino, per spingerlo a stringere i tempi dell’azione rivoluzionaria.

D’A – Infatti dal 1968 e soprattutto nel 1969 (l’ anno delle bombe “rosse” e “nere” che in molte parti del paese prendono di mira sedi e simboli istituzionali, banche, borse, esposizioni industriali, stazioni ferroviarie, treni e tralicci elettrici) Feltrinelli avvia e intensifica la frequentazione e il finanziamento di vari gruppi della sinistra combattente, mette in vendita nelle sue grandi librerie apologetici opuscoli sulle guerriglie in corso nel mondo, perfino manuali per costruire bombe molotov e lanciarle con fucili a canne mozze. Per conseguenza i servizi di intelligence lo tengono d’occhio, la magistratura lo interroga e gli infligge qualche lieve condanna, la polizia compie diversi sequestri nella sue librerie, le cronache nazionali si occupano di lui sempre più spesso. Il fatto politicamente più serio, tuttavia, consiste negli attacchi che ora gli sferra la stampa del PCI.

E.L. – Perché dici che è il fatto politicamente più serio?

D’A – Da un quarto abbondante di secolo il PCI ha perseguito l’avvicinamento morbido al potere ed ha quindi avversato risolutamente qualsiasi iniziativa, fosse anche soltanto di carattere giornalistico, che intralciasse la sua marcia da una posizione “più a sinistra”. Figurarsi dunque se può tollerare che “un avventuriero dilettante” tipo Feltrinelli finanzi adesso la nascente ultrasinistra eversiva. Ma la linea morbida del PCI non nasce dal nulla. E’ in piena sintonia con una scelta strategica della politica estera sovietica. E quindi la recente svolta di Feltrinelli è vista da Mosca come uno spinoso problema.

E.L. – E lui se ne rende conto? Reagisce?

D’A – Lui ostenta disprezzo ideologico per il PCI. Accusa i dirigenti di questo partito di “ciarlatanismo ammantato di fraseologia di sinistra”. E non è tenero nemmeno con il regime sovietico che spesso identifica col capitalismo di Stato. Nello stesso tempo Inge si mostra molto costernata per tutti i rischi cui lui si espone, gli dice di essere certa che i sicari del terrorismo neofascista e di vari servizi segreti sono ormai alle sue calcagna; e lo scongiura di defilarsi, di lasciare almeno per un po’ di tempo l’Italia. Nell’autunno 1969 lui alla fine si convince, le dà ragione. Al punto da ripetere più volte agli amici fidati che presto, a Milano o nei dintorni, potrebbe essere rinvenuto il suo cadavere crivellato di colpi. Pertanto prepara il suo definitivo sganciamento dalla casa editrice (di cui conserverà solo formalmente la presidenza) con una ristrutturazione che permette ad Inge di entrare nel consiglio di amministrazione e di assumere la carica di vicepresidente.

E.L. – In pratica, insomma, lei diventa il capo dell’azienda.

D’A – Proprio così. Ad accelerare e modificare le ulteriori mosse di Feltrinelli intervengono d’altronde i fatti che si susseguono a Milano nell’ultimo bimestre del 1969: una manifestazione di operai e studenti che degenera in guerriglia con molti feriti; uno sciopero che culmina con la morte di un giovane agente di polizia colpito alla testa con un tubo di ferro; e infine la bomba che esplode – il 12 dicembre – in una grande banca del centro cittadino provocando diciotto morti e ottantotto feriti. A torto o ragione si diffonde il sospetto che dietro questi fatti possa anche esserci la mano di Feltrinelli. Un giudice ordina a titolo cautelativo il ritiro del suo passaporto e lui nello stesso giorno, con l’aiuto di un contrabbandiere, oltrepassa la frontiera svizzera, deciso a vivere in clandestinità.

E.L. – Clandestinità, se non sbaglio, con molti aspetti donchisciotteschi. Non è questo il momento in cui Feltrinelli vuole tramutarsi da sostenitore di guerriglie in guerrigliero sul campo?

D’A – Certo. Infatti comincia subito a reclutare una sua milizia con il vecchio nome di Gruppi di azione partigiana (GAP) che deve essere pronta nella prossima primavera quale componente dell’Esercito internazionale proletario. Stabilisce che almeno all’inizio, poi si vedrà, il suo principale campo d’azione sarà l’Italia, dove ogni tanto rientrerà, sempre da clandestino, nonostante che il ritiro del suo passaporto venga revocato in febbraio. Vede tutto facile, si monta ancor di più la testa, scrive e pubblica addirittura un opuscolo sull’ordinamento della società postcapitalistica: quella di cui, anche se non lo dice apertamente, si sente il capo futuro. Il 12 marzo Inge, che spesso va a trovarlo, spiega all’ad e al direttore generale della casa editrice, entrambi sinceramente affezionati a Feltrinelli e angosciati per le sue gesta spericolate, che ormai non c’è nulla da fare. “Nessuno può più capirlo… he’s lost [è perduto]” scriverà nel proprio diario. E l’ad lancia l’idea che per salvarlo conviene farlo arrestare.

E.L. – Lei si oppone?

D’A – Credo che semplicemente lasci cadere il discorso. Feltrinelli intanto si aggira vorticosamente in Austria, Svizzera e Francia. Abbastanza spesso, solo per motivi di militanza, mette piede in Italia (munito di documenti falsi, camuffato nei modi più fantasiosi, privo dei suoi tipici baffoni), tenendosi ovviamente alla larga dalla casa editrice e dintorni. Con Inge, che di solito gli porta il figlio ancora bambino, si vede assiduamente in vari luoghi del suo esilio fino a poco prima della fine. E con Sibilla, che per stargli più vicina si è scelta come base un panfilo ormeggiato in Costa Azzurra, trascorre qualche periodo di riposo in una sua villa fra i boschi della Carinzia o fissa improvvisati appuntamenti qua e là: ma non oltre la primavera del 1971, quando lei, non sopportando più le scelte esistenziali del marito, troverà a Roma un nuovo interesse sentimentale.

E.L. – Ma in concreto, a parte i finanziamenti ai gruppi della sinistra armata in Italia e magari in altri paesi europei, quante e quali sono le azioni compiute da Feltrinelli in questa fase finale delle sue avventure? Parlo di azioni eversive.

D’A – Poche e di pochissima rilevanza: messaggi “Radio GAP” che utilizzano apparecchiature tedesche ottenute per vie traverse e talvolta interferiscono con qualche trasmissione televisiva in aree dell’Italia settentrionale; attentati dinamitardi senza serie conseguenze a Milano e dintorni contro cantieri edili dove si sono verificati infortuni sul lavoro e contro imprese appartenenti a sostenitori di formazioni neofasciste. Una delle ultime azioni, una rapina al casino di Saint Vincent, resta allo stato di progetto in considerazione delle scarse probabilità di riuscita. In sostanza Feltrinelli, sempre più dominato dall’ambizione di emergere come grande teorico e capo rivoluzionario, è schiavo di un tragico gioco. Scrive scombinate risoluzioni strategiche, acquista in Svizzera e a Milano appartamenti da usare come covi per i militanti dei GAP; organizza esercitazioni con pistole, fucili e bombe a mano, sottoponendo se stesso e uno sparuto gruppetto di seguaci a esercizi faticosi, a digiuni, perfino all’ingestione di cibi avariati; e infine, per darsi l’aspetto del guerrigliero sul campo, si lava sempre di meno. Una volta Inge, tornando da uno degli incontri con lui, di dice impressionata per averlo trovato molto magro e coi denti ingialliti.

E.L. – Finché nel marzo 1972 il suo tragico gioco finisce all’improvviso…

D’A – All’improvviso e in modo imprevedibile. Il 13 di quel mese, come viene annunciato con largo anticipo, il PCI aprirà a Milano il suo XIII Congresso, destinato a concludersi al quinto giorno con l’elezione di Berlinguer alla carica di segretario generale del partito. Feltrinelli decide subito di intralciare l’evento provocando un massiccio black out della città. A questo scopo ripartisce i suoi Gap in otto piccoli commandos, uno dei quali guidato da lui, con il compito di far saltare simultaneamente altrettanti tralicci dell’alta tensione situati, a molta distanza l’uno dall’altro, nella campagna milanese. Per l’attuazione del piano sceglie la tarda sera del 14. Ma salta l’appuntamento e non salta nessun traliccio. Tutti i commandos, escluso quello formato da lui e altri due uomini, disertano.

E.L. – Quindi Feltrinelli è caduto in una trappola ben predisposta. E’ stato vittima di un vero e proprio complotto, non di un semplice incidente.

D’A – Questo e certo, ma lui non farà in tempo a saperlo. In qualche modo è ferito dall’esplosione di una carica e muore dissanguato ai piedi del traliccio mentre i suoi accompagnatori fuggono con il furgone usato per arrivare sul posto. Il suo cadavere viene scoperto da alcuni contadini nel pomeriggio del 15 e, siccome ha indosso documenti falsi, gli inquirenti non riescono a identificarlo prima della mattina del 16. La successiva inchiesta giudiziaria finisce con l’archiviazione per insufficienza di prove e in giro restano tutte le possibili voci sull’identità dei responsabili: neofascisti, comunisti, servizi segreti italiani, KGB, CIA.

E.L. – Sai se Inge ha fatto qualche ipotesi?

D’A – Francamente no. So soltanto che la mattina del 15 marzo, ossia all’indomani dell’esplosione sotto il traliccio, lei parte per Lugano insieme con il figlio e un notaio, spiegando all’ad della società editrice che Feltrinelli le ha dato appuntamento in quella città alle ore tredici dello stesso giorno per la stesura di un atto riguardante una sua villa in Italia. Poche ore dopo, nel tardo pomeriggio del 15, lei rientra a Milano. Con aria sconvolta informa l’ad, presenti altre persone, che Feltrinelli non si è presentato all’appuntamento; ed aggiunge che lui non si sarebbe mai comportato così, tanto meno potendo incontrare il figlio, se non gli fosse successo qualcosa di terribile.

E.L. – Tutto ciò è strano…

D’A – Stranissimo. Possibile che Feltrinelli abbia nascosto ad Inge, pur considerandola fino all’ultimo la sua compagna rivoluzionaria, quell’attentato dinamitardo che progettava da un po’ di tempo? Possibile che Feltrinelli le abbia dato appuntamento a Lugano, per una pratica notarile, solo poche ore dopo l’attentato? O che non abbia avuto modo di disdire l’appuntamento se per qualche imprevista evenienza fosse stato spostato il giorno dell’operazione? Io penso che in realtà Inge abbia messo in scena l’appuntamento di Lugano per far testimoniare, se mai fosse stata sfiorata da qualche sospetto nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria, che lei non sapesse nulla dell’attentato in preparazione e quindi non potesse essere accusata di omessa denuncia o di complicità.

E.L. – Bene, siamo arrivati alla fine di questa storia. Ora ti chiedo di concludere l’intervista con una valutazione sintetica della vera misura in cui Inge ha inciso sulla vita di Feltrinelli e quindi sul caso Pasternak.

D’A – Fin qui io ho riferito esclusivamente fatti incontrovertibili. Sono quelli descritti in note pubblicazioni non prevenute verso i protagonisti di cui ho trattato e da loro mai contestate (ma delle quali mi impegno a precisare in questo stesso foglio, su eventuali richieste dei lettori, i titoli e le pagine). Sono i fatti provati dagli atti della mia vertenza giudiziaria, da alcuni documenti degli archivi sovietici, da numerosi articoli e commenti di grandi giornali. Ciò detto, posso dichiarare che questi fatti, ove se ne considerino coincidenze temporali e connessioni logiche, sollevano immancabilmente pesanti interrogativi.

E.L. – Precisiamoli.

D’A – Primo: E’ stata Inge, per via diretta o indiretta, per convinzione ideologica o voglia di ricchezza, ad accettare l’incarico di manipolare psicologicamente Feltrinelli con l’intento di farne un finanziatore di guerriglie? Ossia è stata lei a rendersi corresponsabile, sia pure moralmente, della fine dell’editore milanese?

E.L. – E il secondo interrogativo?

D’A – E’ stata Inge, nel corso della mia vicenda giudiziaria con la società editrice, a governare il coordinamento di Milano con Mosca in un carosello di spie sovietiche, documenti truccati, false testimonianze e tentativi di intimidazione nei miei confronti? Ossia è stata lei ad impedire l’istituzione di un premio Pasternak e ad assicurarsi per giunta quel nuovo e più vantaggioso contratto editoriale che l’autore non avrebbe mai firmato?

E.L. – Chiaro, anzi chiarissimo. Grazie a te anche a nome dei miei amici.

D’A – Grazie a te

SUI TORTI. SUBIRE O RICAMBIARE. SOCRATE O CALLICLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Una contesa millenaria, ma sempre attuale, sui fondamenti e sulle ragioni del politico. Buona lettura_Giuseppe Germinario

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Crisi della sinistra. Botta e risposta tra T. K. de la Grange e Carlo Gambescia

Qui sotto un interessante e puntuale confronto tra due rappresentanti eminenti del pensiero liberale italiano sulla crisi della sinistra. Il segno di come l’affermazione progressiva delle categorie del realismo politico stia divaricando sempre più le posizioni all’interno delle grandi correnti del pensiero politico affermatesi nei due secoli precedenti aprendo finalmente, anche in Italia nuove strade e nuove e più adeguate chiavi di interpretazione del contesto politico. Buona lettura, Giuseppe Germinario

qui il link originario https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/

La crisi della sinistra

Botta e risposta tra Teodoro Klitsche de la Grange e Carlo Gambescia

Caro Carlo,

a distanza di cinque mesi dal 4 marzo e di parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento della storia stava cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al deperire della dicotomia destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come scriminante (prevalente) dell’amico/nemico.

A fronte di qualcuno che avverte la necessità di un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), il che significa aver maturato la convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai obsoleto, ve ne sono altri, più incardinati nell’establishment, i quali ritengono: a) che quella distinzione non sia obsoleta; b) che potrà riemergere; c) che il di essa deperimento di questa sia il frutto della (più abile) propaganda populista; d) e comunque è radicata e pertanto non tarderà a manifestarsi di nuovo.

Il tutto spesso confondendo tra distinzione del secolo breve (borghese/proletario) con altre scriminanti (e lotte) di classe. Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx ed Engels sostengono che “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur vero che scrivono anche che “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta”; ossia identificano come costante la lotta di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista  o meno tra “oppressi e oppressori” – domande la cui risposta è “scontata” – ma se sopravviva quella tra borghesi e proletari e, ancor più se abbia ancora il carattere di scriminante politica prevalente, o piuttosto non sia ormai neutralizzata e depoliticizzata come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e protestanti, rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien régime, e così via.

È un tratto comune a tali ragionamenti della sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni (o poco più), cioè da quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della Brexit dimostrava che la “ribellione della masse” alle politiche delle élite era così intensa da prevalere prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati particolarmente importanti.

Qualche giorno fa ha suscitato un certo dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il quale al PD occorre impedire che si consolidi il “blocco sociale” corrispondente alla maggioranza populista di governo (dividere e quindi ridurre i nemici è la migliore tattica per conseguire la vittoria, come già espresso dal detto romano divide et impera). Resta da vedere se una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile essendosi già costituito il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie, sostenute (più) energicamente dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento delle imposte e riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di governo” prevede diminuzione di quelle e aumento di queste).

Più ancora la separazione delle élite (PD e non solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”) era stata prevista già da decenni da commentatori e intellettuali marginalizzati dall’establishment, non solo italiano. E non era, di converso, affatto capita dalla cultura “ufficiale”.

All’uopo, caro Carlo,  credo sia  interessante rileggere – tra i non tanti – un libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e coraggioso editore, deceduto da oltre quindici anni, Antonio Pellicani, “Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni al riguardo di pensatori italiani e non, i quali declinavano in vario modo il deperimento della distinzione destra/sinistra e il progressivo distacco dalla classe dirigente dei governati (in particolare gli elettori dei partiti di sinistra).

Il volume, proprio perché collettaneo, dimostra come, oltre vent’anni orsono, la distinzione suddetta fosse in via di neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli autori del libro erano marginali rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e neppure granché amati all’estero; tuttavia, a leggerlo ora, si può, in larga misura, constatare che le valutazioni lì fatte mostrano una preveggenza di larga parte di quanto sarebbe successo, in Italia e all’estero, nei successivi vent’anni.

In particolare l’attenzione dei suddetti autori si era soffermata sui seguenti punti:

1) il progressivo distacco tra classi dirigenti e popolo, peraltro analizzato sotto diversi profili (politico, di costumi, di convinzioni, di modi di vita, di redditi).

2) In conseguenza la scarsa considerazione dei governanti verso i governati, sulla scorta del noto lavoro di Cristopher  Lasch “La ribellione delle élite”.

3) E sempre di conseguenza la mera e calante rappresentatività del popolo da parte delle élite, per cui partiti asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei meno abbienti (come quelli progressisti), perdevano consensi malgrado che, in taluni casi, le condizioni dei loro (ex) elettori fossero peggiorate.

4) La difesa delle “particolarità” nazionali rispetto alla globalizzazione.

5) La perdita di senso della distinzione destra/sinistra o meglio Borghese/proletario

Di tutte, questa era la previsione più facile:  una volta imploso il comunismo e L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata per…K.O. tecnico. È vano cercare contributi altrettanto  preveggenti  nei politici e intellettuali della sinistra (o del centro sinistra) italiano. Per vent’anni la loro liturgia ha oscillato tra anatemi all’arcinemico Berlusconi ( che poi tanto nemico, oggettivamente, non è mai stato ma, piuttosto un concorrente al potere) paragonato a Hitler a Videla, e Te deum alla Costituzione più bella del mondo, che, nel frattempo era spesso disapplicata allegramente – e da coloro che salmodiano.

Di analisi come quelle testè ricordate, e che tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano; se non, e alla  lontana, l’Impero  di Negri – Hardt (peraltro anch’essi pensatori non proprio ortodossi).

A questo punto occorre prendere atto della scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi dirigenti, in particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e nell’industria culturale – di regime. Spazio completamente negato agli altri. Ancora qualche mese fa, uno degli autori di quel libro – e di tanti altri sul tema – Alain de  Benoist, è stato attaccato – e con esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti di università, perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della Fondazione, in quanto ideologicamente di destra. Ma dato che De Benoist da trent’anni va ripetendo proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai fatti,, sarebbe il caso, per i suoi contestatori, che lo andassero ad ascoltare, dato che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto, e sicuramente non hanno capito.

Discriminare ideologicamente, quando le analisi eretiche, confortate dai fatti, provano il contrario, è solo imitare donna Prassede che, come scrive  Manzoni, aveva poche idee ma a quelle era – come agli amici – incrollabilmente affezionata.

E più ancora, che se politici ed intellos  non hanno previsto nulla di quello che stava accadendo – non fosse altro che per attutire la loro caduta prevedibile e da altri prevista – le spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche ma concorrenti. La prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in massima parte, il marxismo e un certo illuminismo in parte distorto, in altre depotenziato, non è il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e la storia. L’altra, che quella cassetta non la maneggino bene. Ovvero che i risultati negativi non sono dovuti allo strumento ma all’operatore. Il che conforta la necessità di cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran parte di essa.

Perché, caro Carlo,  al contrario del criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia da tanti decenni si applica il contrario: di scegliere il gatto in base al colore, invece che alla capacità di cacciare i topi.

E i risultati, purtroppo per la nazione, si vedono.

Un caro saluto,

Teodoro Klitsche de la Grange

***

 Caro Teodoro,

lungi da me l’idea di voler difendere la sinistra, ma questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi.

Eppure tu sei, come me  buon lettore,  di Pareto.  Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici  da lui individuati? L’istinto delle combinazioni  e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica  progressiste, il secondo a quelle conservatrici.  E Pareto, fornisce esempi storici di un destra-sinistra, che va al di là delle etichette, ma che  esiste, anzi pre-esiste, in  natura sociale e politica,   risalendo fino agli antichi romani.  Altro che Marx e  Schmitt…  Certo, le loro analisi sono  interessanti, ci mancherebbe altro.  Ma, ecco il punto,  limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando,  Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico.

Inoltre,  le idee dell’inutilità della sinistra e della destra  e  del  cosiddetto conflitto élite  vs popolo, non è che risalgano al convegno di Perugia,  che anch’io ricordo bene (con l’editore, Antonio Pellicani, bella e dotta persona)… Ma, per dirla con Pareto, rimandano  a una  derivazione,  o razionalizzazione ex post,  inventata e usata  dalle destre reazionarie, bonapartiste, fasciste e populiste per andare contro la legittimazione  liberale della democrazia rappresentativa post-1789.
Ovviamente, come aveva giustamente visto Ortega,  siamo davanti a una  derivazione, di volta in volta, sadicamente rimescolata come un  mazzo di vecchie carte, con le grandi questioni sollevate  dalla società di massa, ma sempre nei  termini di pesanti offensive  contro le  élite liberali. A prescindere.
Ciò spiega, perché  il  populismo, continuazione del fascismo con altri mezzi (per ora), insista sulla fine delle dicotomia destra-sinistra e, quando si dice il caso, sul superamento del Parlamento.

Non capisco, come un liberale del tuo valore,   rilanci, contro la   sinistra,  le stesse  critiche dei populisti e ancora prima dei fascisti. In Italia, il Centrosinistra (senza trattino…),  sta  pagando  il   prezzo per  aver governato  sette anni, portando fuori il paese dalla crisi: i dati economici, fino a giugno, sono a lì a confermarlo.  Opera non indolore, ma necessaria. E dunque meritoria. Facendo per giunta fronte, non sempre linearmente (lo ammetto), contro il populismo.   A differenza, caro Teodoro,  di quella  plutocrazia demagogica, per dirla sempre con Pareto,  che invece nel Primo Dopoguerra, pur di restare al comando, si alleò con Mussolini. Va detto che anche allora molti liberali non capirono la gravità del momento. E il prezzo da pagare  fu molto salato.

Pertanto,  se ora,  c’è una critica da fare alla  sinistra è proprio quella di strizzare l’occhio ai populisti. Scelta  che implica, l’accettazione della  tesi reazionaria, anche a sinistra,  del  superamento della dicotomia destra-sinistra. Certo,  non nego che il PD –  o una parte del PD –   sostenga di voler aprire un dialogo con le forze di sinistra  interne a Cinque Stelle, puntando su una specie di populismo al quadrato, appena temperato da un  antifascismo di maniera contro Salvini, l’altro azionista di maggioranza.

In realtà, facendo  così, la sinistra spiana la strada al populismo (come se già non bastasse il notevole lavorio della destra post-berlusconiana, perfino liberale…). Non  la si apre di certo  a una sinistra riformista, democratica, rispettosa delle istituzioni rappresentative,  dell’economia di mercato  e, cosa più importante dell’esistenza stessa del principio  di  alternanza (che secondo Sartori, e non solo, definisce la democrazia dei moderni).   Si spiana la strada invece  a quello che tu, incautamente, chiami “nuovo armamentario”,  che invece, come insegna Pareto, nuovo non è.  E poi,  perché gli italiani dovrebbero preferire la copia all’originale?   Questo –  scusami –  dovevi scrivere nel tuo articolo.

Quanto al colore del gatto, caro Teodoro, non tutti i gatti sono uguali. Mussolini era un gattone, nero, che  dopo aver cacciato i topolini rossi, se la prese con quelli bianchi, rosa, gialli,  e via discorrendo. Il colore conta,  eccome.

Ricambio il caro saluto.

Carlo Gambescia

La replica di Teodoro Klitsche de la Grange  e la  controreplica di Carlo Gambescia

Che c’entrano Marx, Schmitt e Pareto  con la crisi della sinistra? 

Caro Carlo, la tua stimolante e dotta risposta al mio articolo, da te titolato “La crisi della sinistra” mi dà il diritto “forense” alla replica (*)
Tu inizi col criticare “questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi” e continui poi col contrapporre la tesi di Pareto (sui residui) per cui “Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici da lui individuati? L’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica progressiste, il secondo a quelle conservatrici” mentre le analisi di Marx e Schmitt sarebbero “limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando, Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico”.

Ma non è così: le analisi di Marx e Schmitt hanno carattere universale (o almeno pretendono di averlo). La lotta di classe è secondo Marx, una costante storica; l’amico-nemico di Schmitt una regolarità (Miglio) e presupposto (Freund) del politico, come tu ben sai.

Quello che fa la differenza tra le varie opposizioni è il contenuto della distinzione: per quella borghese/proletario è la proprietà dei mezzi di produzione, mentre per le altre ricordate nel Manifesto del partito comunista la scriminante è la libertà personale (liberi e schiavi), l’appartenenza gentilizia (patrizi e plebei), il ruolo politico (baroni e servi della gleba) e così via. Ancor più vario il contenuto della distinzione schmittiana che, non essendo economicista, è aperta ad ogni dicotomia (a fondamento religioso, economico, sociale) che sia in grado di contrapporre i gruppi sociali secondo il “criterio del politico”. Per cui proprio non le vedo le tesi di Schmitt e Marx limitate alla storia europea moderna. Quanto alla distinzione destra/sinistra, notoriamente risalente alla divisione tra partiti nel Parlamento francese all’epoca della restaurazione, tra liberali e ultras – conservatori, mi pare:

  1. a) che sia generica al punto di equivocare sul dato fondamentale: quel’è il fondamentum distinctionis della contrapposizione? Per i liberali e gli ultras era il potere del Parlamento o del Re; per i borghesi e i proletari la proprietà dei mezzi di produzione.
  2. b) Riportarla ai residui paretiani da te citati, è anch’esso generico e facilmente contestabile. Oggi appartiene alla “persistenza degli aggregati” sia considerare decisiva per la distinzione suddetta la proprietà dei mezzi di produzione (lascito del “secolo breve”), sia il querulo richiamo allo Stato sociale e ancor più l’implementazione di questo con una fiscalità rapace e la compressione di prestazioni e garanzie giuridiche, ampiamente praticate nella “seconda repubblica”, sia i peana alla “Costituzione più bella del mondo” che tale non era, ma, ancor più, è stata ampiamente disapplicata (in peggio) – dalla “seconda repubblica”, ancor più che dalla prima.

Peraltro, in politica si giudica in base ai risultati più che all’intenzione. E tutti i dati – da ultimo quelli pubblicati sul numero dell’ “Espresso” ora in edicola, mostrano che la “seconda repubblica” ha avuto i peggiori risultati economici tra tutti i paesi dell’UE, che il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato negli ultimi dieci anni, e così via. Pensare che di fronte a un tale sfascio non vi sia una incapacità di comprensione (e una responsabilità) della sinistra, magna pars del potere e del governo, è un giudizio troppo benevolo.

In realtà, ma occorrerebbe molto spazio per argomentare è che, gli ultimi decenni al criterio borghese proletario se ne sia sostituito un altro. Proprio come è sotteso al successo populista. Prenderne atto, e agire di conseguenza, è urgente. Pretendere di valutare la nuova situazione con lo sviluppo concreto e lo strumentario concettuale del secolo breve, come fa l’establishment della sinistra di regime, è imitare donna Prassede, come ho scritto. O, più paretianamente, si può considerare un caso-limite di persistenza degli aggregati.

Con la concreta stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

***

Grazie Teodoro della gentile e,  come tuo stile, forbita replica.   

Vengo subito al punto, anzi ai punti.

Marx, Schmitt, Pareto (P.S. Su Freund, da te introdotto, va fatto un discorso a parte e in altra sede).  È vero che il conflitto di classe e il conflitto  amico-nemico sono considerati, rispettivamente da Marx e Schmitt, regolarità e costanti, ma d’altra parte   Marx e  Schmitt,  non le  riconducono  al concetto sociologico, realmente universale,  di conflitto, che, come vedremo non sta in piedi da solo. Mi spiego.  Marx  universalizza  la sottospecie (sociologicamente parlando)  lotta  di  classe.  Schmitt, addirittura, parla, in chiave quasi metafisica,  del conflitto amico-nemico, come di un criterio assoluto di distinzione,  alla stregua del bello, del buono, eccetera, eccetera.  Ciò significa, che di conseguenza, Marx e Schmitt, sminuiscono  il concetto sociologico  di cooperazione, che è un’altra regolarità e costante che  affianca quella di conflitto.  Per Schmitt e Marx  la cooperazione è un sottoprodotto del conflitto, non è data come esistente in sé. In realtà,  ecco la lezione di Pareto fin dai Sistemi Socialisti, la dicotomia principale  non è fra le classi e  tra l’  amico e il  nemico, ma tra conflitto e cooperazione.  Non per nulla nel Trattato (ma non solo), Pareto  sottolinea la perenne ricerca,  volontaria e involontaria da parte degli uomini,  di  un punto di  equilibrio storico tra  i due fattori della cooperazione e del conflitto.  Insomma, in Pareto, conflitto e cooperazione sussistono alla pari, pur in un quadro storico e sociale, dunque reale, di non sempre facile ricomposizione. In questo senso, rispetto alle sociologie parziali di Schmitt e Marx, Pareto parla  al mondo.  Inoltre,  l’età antica, per la maggioranza degli  storici  non ha conosciuto la lotta di classe nel senso marxiano. Quanto a Schmitt, i suoi “processi di neutralizzazione” rinviano, a grandi linee,  al mondo post-vestfaliano. Di ben altro respiro,  come tu ben sai,  risulta essere l’approccio storico e sociologico di Pareto (direttore, rispettatissimo, tra l’altro, delle celebre Biblioteca di Storia Economica della Società Editrice Libraria).  Pareto,  insisto, che  proprio per questo continua a a parlare  al mondo e  non ai soli  devoti della lotta di classe e del conflitto per il conflitto. In questa chiave, come per la filosofia di Nietzsche, la sociologia di Pareto è per tutti e per nessuno. Insomma, per chi voglia porsi in ascolto…

Quanto ai contenuti, di cui tu dibatti,  ritengo ben più profondi quelli individuati da Pareto nella sua classificazione dei residui e delle derivazioni. Vi si parla di  forme di mentalità e modelli di razionalizzazione, semplificando, di destra e sinistra,  che assumono valore trans-storico, cioè che ritroviamo in tutte le epoche.  Pareto ci spiega, e con una forza argomentativa inaudita, che la persistenza degli aggregati ( alla base del pensiero e del comportamento di tipo conservatore) e l’ istinto delle combinazioni ( alla base del pensiero progressista) praticamente, sono eterni, se preferisci, ripeto,  trans-storici. Ne consegue, che  destra e sinistra vivono e lottano tuttora insieme a noi.  Altro  che le sociologie parziali di    Schmitt e   Marx, i parlamenti  della Restaurazione, i rapporti di proprietà, eccetera, eccetera.  Sul piano sociologico, per usare un termine dell’amico Fabio Brotto, siamo davanti, caro Teodoro,  a una distinzione ontologica, non in senso metafisico, mi permetto di specificare,  ma sociologico.

I   numeri riportati  dall’ “Espresso” –  che nemesi  per un collaboratore e lettore del  “Borghese”  come tu sei… –   sulle  performance non entusiasmanti della Seconda Repubblica sono la classica scoperta dell’acqua calda.  In una situazione di semi-guerra civile (belusconiani vs antiberlusconiani ) e di crisi economica mondiale (nell’ultima parte, dal 2008),  in realtà,  ci siamo abbastanza difesi,  in particolare grazie ai governi di centrosinistra, soprattutto negli ultimi due anni (2016-2017). In argomento,  ti rinvio all’ottimo articolo  dell’economista Marco Fortis, corredato di cifre e grafici, apparso sul “Foglio” venerdì 31 agosto (**) .

Ciò  che invece dovrebbe preoccuparti, caro Teodoro, non è la sinistra,  che pure ha i suoi problemi, che però consistono, non nel rifiuto del populismo, ma nel rischio di una sua accettazione, elevata al quadrato:  una specie terzomondismo pauperista con sessant’anni di ritardo.  Dicevo, ciò che invece dovrebbe preoccuparti   sono le future performance della “Terza Repubblica” pentaleghista (per semplificare).   Parlo di  un pittoresco, ma pericoloso,  governo di asini ed energumeni, chiaramente orientato a destra,   su posizioni (per ora) di fascismo perseguito con altri mezzi: quelli del populismo. Un governo  pieno zeppo, direi saturo,  di persistenza degli aggregati, a cominciare dal  nazionalismo e dal  protezionismo economico.

Governo, che tu, liberale a tutto tondo, quindi “naturalmente” nemico del populismo,   continui invece sui Social,  se non a difendere, a giustificare,  puntando su una euristica debitrice di categorie cognitive populiste all’insegna del transeunte.  Altro che la trans-storicità della sociologia paretiana.

Con  pari  stima  e  grande amicizia.

Carlo Gambescia

LA GUERRA, UN EVENTO TANTO PRESENTE QUANTO RIMOSSO; ALMENO IN EUROPA_CONVERSAZIONE CON PIERO VISANI

Qui sotto una interessante intervista a Piero Visani; analizza la situazione politica in Europa e in Italia partendo, soprattutto dai limiti di formazione delle classi dirigenti europee. La rimozione di un concetto e di un evento presente nella storia dell’umanità, la guerra, ha contribuito pesantemente a procrastinare la condizione di subordinazione delle classi dirigenti nazionali europee, in particolare dell’Italia. Piero Visani, tra gli altri, è autore del libro “Storia della Guerra”, edito da DAKS.

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

Gli USA e il Vaticano, di Luigi Longo

Italia e il mondo riproporrà in successione tre articoli di Luigi Longo già apparsi anni fa sul sito www.conflittiestrategie.it di analisi del ruolo del Vaticano nel contesto geopolitico. Contestualizzando gli eventi citati, offrono comunque importanti punti di riflessione. Qui sotto il terzo articolo. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Il Vaticano si adegua alla nuova strategia degli USA

a cura di Luigi Longo

 

1.Il Vaticano di papa Joseph Ratzinger con la guerra di aggressione alla Libia si è adeguato alla nuova strategia americana di Bill Clinton-Barack Obama che è, per quanto riguarda le relazioni con il Vaticano, la continuazione della strategia di George W.Bush.

Il Vaticano di papa Karol Wojtyla aveva avanzato una timida opposizione alla guerra contro il terrorismo della nuova strategia di George W. Bush (2001-2002) e assunto una posizione favorevole alla guerra giuridicamente camuffata dall’intervento umanitario nella ex Yugoslavia (24 marzo1999 guerra di aggressione NATO con comando USA e ruolo servile importante del Presidente del Consiglio Massimo D’Alema. E’ una grande maestrìa americana quella di far fare il lavoro sporco ai propri scherani: l’Italia nel 1999, Francia e Inghilterra nel 2011 contro la Libia) finalizzata all’accerchiamento territoriale con basi militari della ri-nascente potenza mondiale Russa ( geopolitica). In altre occasioni lo stesso Vaticano ha assunto la posizione di opporsi alla guerra di aggressione all’Iraq (1991 e 2003), le cui ragioni sono da ricercare nella georeligione del Vaticano (1), rompendo la convergenza e l’alleanza con la strategia di Ronald Reagan ( soprattutto nella metà degli anni ottanta del secolo scorso) nel combattere l’”impero del male” rappresentato dal cosiddetto comunismo dell’ex URSS.

Nella guerra di aggressione contro la Libia il vescovo di Tripoli, monsignor Giovanni Martinelli, è stato lasciato praticamente solo (2). Il Vaticano non si è opposto alla guerra di aggressione alla Libia, ma si è preoccupato soltanto dell’aspetto umanitario della crisi senza entrare nel merito della guerra stessa.

Il cambio di politica estera vaticana è iniziato con la morte del papa Karol Wojtyla e la data simbolica del cambiamento è stata proprio quella del suo funerale. Così scrive Massimo Franco:<< Dunque, il vero significato dell’omaggio collettivo reso dalle personalità statunitense a Roma ( ai funerali del papa erano presenti tre presidenti George Bush, George W. Bush e Bill Clinton, precisazione mia) è stato quello di un investimento dell’America di Bush sull’alleanza con la Santa Sede; di più, di un salto di qualità nelle relazioni politico-diplomatiche, impensabile prima del papato wojtyliano. Forse perché l’Amministrazione repubblicana scommette su una sintonia che riguarda tutto lo spettro di questioni che << la chiesa considera sinonimo  di “santità di vita”, dalla ricerca sulle cellule staminali all’aborto e all’eutanasia >>; confida e forse un po’ si illude, che si riducano le resistenze vaticane sulle teorie unilateraliste della Casa Bianca e del Pentagono. Ma dietro si avvertiva il vago timore che la convergenza fra i due “imperi paralleli” orfani di Giovanni Paolo II potesse essere, se non rimessa in discussione, allentata >>.

Il cardinale Camillo Ruini, allora presidente della CEI e grande elettore di Benedetto XVI, così conferma << Esiste nel mondo, e in particolare negli Stati Uniti >> ha spiegato a proposito dell’alleanza tra Benedetto XVI e i neoconservatori USA << un movimento di rinascita cristiana che va al di là delle frontiere delle Chiese, e che sottolinea un afflato cristiano del quale non si può non tenere conto >>.

L’influente teologo americano Michael Novak sull’”Herald Tribune” così dichiarava << …Benedetto XVI sarà l’uomo della guerra dei valori del nuovo millennio, che indicherà “la cultura necessaria a preservare le società libere dai pericoli che le minacciavano dall’interno…”: un alleato di fatto della crociata Bush. La presenza della nomenklatura statunitense a piazza San Pietro era dunque una novità ad occhi esterni, non a quelli smaliziati della Curia >>.

Infine <<Esponenti dell’establishment vicini al Pentagono come Luttwak tendono a rimuover Giovanni Paolo II come una parentesi irripetibile e tutto sommato fuorviante; e a sottolineare preventivamente il profilo di Ratzinger come pontefice del “ritorno alla realtà” di una Santa Sede confinata in un ruolo non politico; e soprattutto innocua, non concorrenziale rispetto alle strategie di Washington ( corsivo mio) >> (3).

2.Riprendendo l’analogia storica dei cotonieri del Sud degli USA nell’800 in combutta con la potenza predominante di allora ( Gran Bretagna) avanzata da Gianfranco La Grassa per leggere, oggi, il ruolo dei nostri decisori subordinati agli interessi del paese predominante (USA), definiti da Gianfranco La Grassa come GF e ID (Grande Finanza parassitaria e Industria Decotta delle passate ondate della rivoluzione industriale) (4), riporto alcuni stralci di due libri sul ruolo del Vaticano nella guerra di secessione degli Stati Uniti d’America (1861-1865).

3.Una precisazione. La religione ha un ruolo importante nel legame sociale della produzione e riproduzione della formazione sociale data. Le sue istituzioni svolgono un ruolo significativo nelle varie strategie degli agenti strategici dominanti in tutte le sfere sociali ( soprattutto economiche-finanziarie). Gli stralci dei racconti riportati vanno letti sia nella logica gramsciana della religione e cioè il ruolo della religione e delle sue istituzioni vanno visti tenendo conto della logica dell’insieme della società:<< Nello sviluppo di una classe nazionale, accanto al processo della sua formazione nel terreno economico, occorre tener conto del parallelo sviluppo nei terreni ideologico, giuridico, religioso, intellettuale, filosofico, ecc.: si deve dire anzi che non c’è sviluppo sul terreno economico, senza questi altri sviluppi paralleli. >> (5); sia nella logica lagrassiana del tutto torna ma in maniera diversa :<< Il gioco del conflitto capitalistico ha sue regole generali, ma è condotto da giocatori “individuali” ( gruppi sociali) che le interpretano e le modificano, venendosi così a trovare in un “nuovo mondo”, di cui si ha in genere una comprensione alla fine del periodo storico di trapasso. Da qui nasce l’esigenza della memoria storica, della comprensione del nostro passato ( “il tutto torna”), servendoci però d’essa al fine di apprestare nuovi orientamenti utili nella presente epoca, in cui tutto si manifesta in forme differenti>> (6).

4.Primo libro. Massimo Franco, Imperi paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto 1788-2005, Mondadori, Milano,2005.

 

Capitolo III. QUANTE GAFFES, SANTITA’.

 

Paragrafo: Quando Pio IX sposò la causa sudista ( pp.36-37).

 

…Tutto sembrava congiurare per il fallimento dei rapporti diplomatici fra i due stati ( Stato pontificio e Stati Uniti, precisazione mia), in quel periodo. In una fase di transizione traumatica, qualunque atto assumeva caratteri che risvegliavano risentimenti, diffidenze, incomprensioni. Proprio nel 1863, con la guerra civile americana all’apice dell’incertezza, Pio IX pensò bene di scrivere ai cardinali di New York e New Orleans, uno geograficamente “nordista” e l’altro “sudista”, per rivolgere loro un appello teoricamente ecumenico affinché si adoperassero per la pace. Era la tipica impostazione vaticana, tesa a non prendere posizione rispetto ai due contendenti. Ma l’iniziativa coincideva con un atteggiamento della Chiesa cattolica americana, di prudenza estrema nella controversia sull’abolizione della schiavitù. Monsignor Spalding, che in seguito sarebbe diventato arcivescovo di Baltimora, fra l’aprile e il maggio di quell’anno aveva scritto una relazione a Propaganda Fide, proponendo la neutralità rispetto allo schiavismo dei neri del Sud. A suo avviso, gli abolizionisti avrebbero portato gli Stati sudisti alla rovina economica e gli schiavi alla rovina morale, perché secondo i vertici ecclesiastici erano impreparati alla libertà. << Spalding definiva “atroce proclama” l’atto di emancipazione del presidente Lincoln”.

Ma pesavano altre ragioni, a cominciare dall’ostilità degli immigrati irlandesi in USA

Nei confronti dei neri, visti come pericolosi concorrenti sul mercato del lavoro; e ancora, l’alleanza fra gli abrogazionisti e i protestanti, soprattutto quei nativi pronti ad attaccare qualsiasi simulacro di ingerenza vaticana. E poi, al fondo c’era la realtà di una gerarchia americana conservatrice; spaventata da qualunque sovvertimento dell’ordine costituito e dunque dalla prospettiva che la fine della schiavitù aprisse le porte a una rivoluzione. Per questo quando il presidente sudista Jefferson Davis rispose alla lettera di Pio IX, si intuì una larvata scelta di campo da parte del pontefice: soprattutto perché il papa replicò con un’altra missiva rivolta “ All’illustre e onorabile Jefferson Davis, presidente degli Stati confederati d’America”. Per i nordisti era una scelta di campo, sebbene il segretario di Stato Giacomo Antonelli si sforzasse di negare qualunque intento politico. La situazione americana era così tesa, e la posizione dei vescovi locali così ambiguamente neutrale, da offrire spazio a tutti i sospetti. E il guaio, per la Santa Sede, era che quella lettera sembrava schierare Pio IX dalla parte più retriva della società americana; e soprattutto, di quella perdente. Il risultato fu di mantenere unito il clero americano; ma al prezzo di connotarsi come chiesa conservatrice, lasciando ai protestanti la bandiera del progresso e dell’emancipazione degli ex schiavi. Non era una macchia da poco. Si sarebbe rivelata di lì a quattro anni uno dei motivi inconfessati della rottura di fatto delle relazioni diplomatiche tra Washington e la Roma papalina.

 

Paragrafo:Il killer di Lincoln è una guardia papalina! (pp.37-39).

 

In fondo, anche l’incidente successivo va inquadrato in questa cornice di ostilità contro il Vaticano, per reazione ai sospetti di aver larvatamente appoggiato la causa sudista durante la Guerra di secessione. D’altronde, Roma offrì un nuovo pretesto a dir poco ghiotto. Si scoprì infatti che nel 1865 un americano di nome John Surrat si era arruolato nell’esercito papalino. E’ vero che quell’armata era una sorta di pia “legione straniera”, nella quale affluivano soldati da un po’ tutta Europa e anche da altre parti del mondo. Ma si presumeva che ci fosse un qualche controllo sull’origine dei soldati pontifici. Si può indovinare quale fu la reazione dell’opinione pubblica d’oltre Atlantico quando filtrò la notizia che Surrat, accusato insieme con John Wilkes Booth e altri dell’assassinio del presidente Abraham Lincoln, era uno dei soldati zuavi della guardia papalina: una fotografia della Biblioteca del Congresso USA lo ritrae con la divisa, il volto affilato e un paio di baffi lunghi e sottili. In qualche misura, il suo arruolamento improvvido, del quale il Vaticano giurava di non sapere nulla, faceva quadrare il cerchio dei sospetti e dei pregiudizi. La Santa Sede prosudista veniva scoperta mentre non solo sembrava proteggere uno degli assassini di Lincoln, uomo-simbolo degli Stati Uniti democratici, antischiavisti e vincenti del Nord; ma addirittura lo arruolava nelle proprie file. Uno dei killer del “Great Emancipator”, il Grande Emancipatore, aveva trovato rifugio, protezione, salario e armi alla corte di Pio IX.

…per Pio IX si trattava di un incidente che rischiava di mandare all’aria decenni di faticosi tentativi di legittimazione; e di moltiplicare le difficoltà delle gerarchie cattoliche americane. In più, Surrat era protetto dall’assenza di un qualsiasi trattato di estradizione fra Vaticano e Stati Uniti; dunque, formalmente non poteva essere processato in America.

…Rufus King, “ministro” USA a Roma, capiva che le relazioni fra i due Stati si stavano rapidamente deteriorando…Così cercò di spiegare a Washington che la reazione del Vaticano indicava la volontà di non lasciare andare in malora i rapporti con l’Amministrazione. Il fatto che Surrat fosse stato bloccato a Roma aveva << il solo scopo di mostrare la pronta disponibilità delle autorità pontificie ad accondiscendere all’attesa richiesta del governo americano >>, scrisse King al segretario di Stato William Steward. Ma dietro rimaneva l’ipoteca pesante della politica vaticana negli anni della guerra civile americana. E i nemici della prospettiva di un Paese infettato dal gesuitismo e dalle manovre papaline, insidiato nel sacro principio della divisione fra Stato e Chiesa, ripreso una forza alla quale era difficile resistere (corsivo mio).

 

Secondo libro. Eric Frattini, L’Entità. La clamorosa scoperta del servizio segreto vaticano: intrighi, omicidi, complotti degli ultimi cinquecento anni, Fazi editore, Roma, 2008.

 

Capitolo: IL TEMPO DELLE SPIE ( 1823-1878) [ pp. 181-185].

 

A causa della situazione di smantellamento che viveva lo Stato della Chiesa, le comunicazioni tra l’Entità (7) a Roma e i suoi uomini sparsi per il mondo erano quasi inesistenti, per cui lo spionaggio pontifico fu incapace di prevedere la guerra che si avvicinava negli Stati Uniti.

Nel 1861, gli Stati Uniti d’America, che erano “uniti” da poco più di ottant’anni, furono scossi da una guerra civile. Era una nazione in cui si sviluppavano due società, ognuna con un proprio modello sociale, politico ed economico; in quattro decenni aveva visto ampliato il suo territorio in più occasioni grazie all’acquisto della Louisiana dalla Francia, della Florida dalla Spagna, all’annessione del Texas e alla guerra con il Messico, svoltasi tra il 1846 e il 1848.

La politica statunitense era condizionata da una parte dall’interesse dei sudisti per le loro piantagioni di tabacco, zucchero e cotone, e dalla loro volontà di mantenere a tutti i costi i quasi tre milioni e mezzo di schiavi; dall’altra dall’orientamento degli unionisti, inclini al commercio e alla navigazione, più interessati alle questioni finanziarie e ai dazi doganali. Da un lato stavano i capitalisti del Nord, creditori, e dall’altro gli agricoltori del Sud, debitori.

… Durante la guerra civile, dal 1861 al 1865, l’Entità contò su Louis Binsse, console papale a New York. I suoi rapporti come spia erano, in realtà, piuttosto curiosi e per niente interessanti.

…Se si studiano i rapporti di Binsse, si nota che l’agente dell’Entità si focalizzava sull’informazione politica del momento, ricavandola soprattutto dai giornali, piuttosto che dedicarsi al complesso lavoro di spia. Tuttavia la sua attitudine non gli impedì di ottenere informazioni importanti. Una di queste fu quella scoperta nel giugno del 1861, quasi per caso.

Louis Binsse era stato inviato a New York a un ricevimento di politici e militari organizzato per raccogliere fondi per la causa unionista. Durante la festa, alcune signore gli si avvicinarono ignorando che fosse in realtà un agente dello spionaggio papale, e gli chiesero cosa pensasse di Giuseppe Garibaldi. Di certo le signore non sapevano che Garibaldi era un nemico di papa Pio IX e, per tanto, anche del suo console a New York. L’agente dell’Entità, utilizzando tutto il suo charme, riuscì a sapere dalla moglie di un generale dell’Unione che il presidente Abraham Lincoln aveva invitato Giuseppe Garibaldi per istruire i suoi generali sulle tattiche di guerra.

L’agente Binsse comunicò all’Entità a Roma e al segretario di Stato Giacomo Antonelli le intenzioni del presidente unionista. La notizia scatenò presso la Santa Sede uno scandalo di grandezza tale che Lincoln fu costretto a ritirare la sua offerta a Garibaldi e a presentare scuse formali a papa Pio IX.

…Altra cosa fu la posizione del Vaticano e dell’Entità a favore di una delle due fazioni in conflitto. Le prime pressioni arrivarono al papa e al segretario di Stato arcivescovo di New York, John Hughes, dieci mesi dopo l’attacco a Fort Sumter. Hughes disse a Pio IX e al cardinale Antonelli che il suo compito era servire la Chiesa e non gli interessi particolare di una nazione, ma in realtà l’arcivescovo di New York era un agente sotto copertura e un propagandista di Washington. Il suo stipendio era pagato dal governo di Lincoln e i suoi rapporti venivano letti dal segretario di Stato William Seward.

La missione affidata all’arcivescovo John Hughes consisteva nell’andare a Roma per ottenere pubblicamente l’appoggio di papa Pio IX alla causa unionista. Perciò, Hughes si presentò a sorpresa presso la Santa Sede, affermando che durante il suo lavoro per l’Entità aveva scoperto che la Confederazione aveva pianificato di attaccare il Messico e le isole cattoliche dei Caraibi.

Ma le simpatie di Pio IX e del suo segretario di Stato per il Nord cominciarono a diminuire quando l’Entità dal maggio del 1863 iniziò a ricevere rapporti da un’altra fonte. Si trattava di Martin Spalding, arcivescovo di Louisville, nello Stato confederato del Kentuchy, favorevole alla secessione. Spalding, come Hughes dal governo Lincoln, riceveva in segreto dal governo di Jefferson Davis somme di denaro per ottenere l’appoggio del papa alla causa della Confederazione. Il principale interlocutore di Spalding era Judah Benjamin, segretario di Stato della Confederazione.

L’arcivescovo Spalding nel suo rapporto all’Entità assicurava che l’emancipazione degli schiavi neri era in realtà un movimento politico guidato da protestanti abolizionisti e che la gente del Sud rappresentava il vero cattolicesimo. Monsignor Martin Spalding affermava in un rapporto che << i neri erano per natura troppo inclini alla vita licenziosa e non erano pronti per la libertà. Inoltre, la loro emancipazione poteva provocare disordini sociali che avrebbero compromesso il lavoro missionario della Chiesa >>.

I rapporti di John Hughes e Martin Spalding per l’Entità dimostrarono che i vescovi non erano immuni alla causa politica  e che a volte la loro lealtà verso l’Unione o la Confederazione era superiore a quella verso il papa e la Santa Sede. Le cattive informazioni ricevute dagli agenti del servizio di spionaggio pontificio durante il conflitto mise in evidenza una seria debolezza delle relazioni tra Roma e Washington, sede dell’Unione, e tra Roma e Richmond, sede della Confederazione.

Pio IX manifestò prima le proprie simpatie alla causa del Nord, poi a quella del Sud e infine di nuovo a favore degli unionisti. Fu probabilmente a partire dal 1865, quando la guerra si concluse con la vittoria del Nord, che i responsabili dello spionaggio vaticano capirono che bisognava formare degli agenti professionisti, se l’Entità del futuro voleva diventare uno strumento capace di aiutare il pontefice a prendere la decisione migliore di fronte a una specifica situazione politica.

 

 

NOTE

 

  1. Lo storico Andrea Riccardi ha osservato:<< la Chiesa cattolica, per istinto profondo, non ha mai amato l’impero unico…In fondo, si considera un impero. Ma, come spiegò Pio XII in un discorso del 1946, non un impero nel senso di imperialismo ma in quello di essere a casa fra tutte le genti, di non essere assorbita da nessuna civiltà >>, citato da Massimo Franco, Imperi paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto 1788-2005, Mondadori, Milano,2005, p.199.
  2. Si rimanda fra le tante interviste al vescovo Giovanni Martinelli a Alberto Bobbio, Libia i dubbi del vescovo di Tripoli in famiglicristiana.it (20/3/2011); Bernardo Cervellera, Vescovo di Tripoli: spero ancora in una riconciliazione in www.asianew.it (23/8/2011).
  3. Massimo Franco, Imperi paralleli, op. cit., 199, 201, 203, 211.
  4. Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008, pp. 25-39.
  5. Antonio Gramsci, Il Vaticano e l’Italia, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 58.
  6. Gianfranco La Grassa, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi?, Mimesis edizioni, Milano, 2009.
  7. Nell’anno del Signore 1566, papa Pio V decise di dar vita al primo servizio di intelligence in forma ufficiale e organizzata, con la finalità di lottare contro il protestantesimo rappresentato dall’erede al trono d’Inghilterra Elisabetta I. Il nuovo servizio segreto pontificio venne battezzato col nome di Santa Alleanza.

Nei seguenti 387 anni, la Santa Alleanza visse momenti di luce e di ombra sotto il nome che gli dette Pio V. Nel 1953, durante il pontificato di Pio XII, l’allora direttore dell’appena nata CIA, Allen W. Dulles, decise di rinominare in via ufficiosa la Santa Alleanza con l’appellativo di “Entità”, nome con cui ora è conosciuto il servizio segreto di spionaggio vaticano nella comunità internazionale dei servizi segreti di intelligence in Eric Frattini, L’Entità. La clamorosa scoperta del servizio segreto vaticano: intrighi, omicidi, complotti degli ultimi cinquecento anni, Fazi editore, Roma, 2008, p. VIII ( Nota dell’editore).

 

 

Due papi, due misure_ di Luigi Longo

Italia e il mondo riproporrà in successione tre articoli di Luigi Longo già apparsi anni fa sul sito www.conflittiestrategie.it di analisi del ruolo del Vaticano nel contesto geopolitico. Contestualizzando gli eventi citati, offrono comunque importanti punti di riflessione. Qui sotto il secondo brano. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, un

 riallineamento della Chiesa nella fase multipolare?

di Luigi Longo

 

 

*Non lascio la croce, resto in modo nuovo

                                                                                                   Papa Benedetto XVI

Il potere è presente. La santità è postuma.

Thomas Stearns Eliot

 

 

1.Le dimissioni del papa Benedetto XVI hanno provocato un terremoto epocale nella Chiesa ( intesa come comunità cristiana) e nello Stato della Città del Vaticano ( inteso come governo della istituzione con le sue ramificazioni territoriali a livello nazionale e mondiale). Avanzerò, per interpretare la rinunzia del papa, due ipotesi di ragionamento che tengono in subordine le questioni storiche di grande importanza per la Chiesa: la soggettività della donna, la questione interna della pedofilia, il ruolo dello IOR e dell’Opus Dei, il suo ruolo nelle diverse sfere ( solo per astrazione ) della società, soprattutto in quella economico – finanziaria, le attività dei servizi segreti, il ruolo dei movimenti ( Comunione e Liberazione, Comunità) e delle congregazioni ( gesuiti, salesiani e francescani). Le due ipotesi, che cercano di capire la profondità delle vibrazioni rapide e più o meno potenti del sisma, sono: a) una rottura storica nella Chiesa e nello Stato della Città del Vaticano (1), b) la ricerca di un nuovo sistema di ri-equilibrio della Chiesa, nella fase multipolare che sta avendo una certa accelerazione ( sia pure imperfetta), considerando le cose che accadono nelle varie aree del mondo(2) dove tutti gli Stati- potenza, quello “egemonico”, in declino ( USA ) e, quelli emergenti in ascesa ( Cina, Russia, India ), sono in movimento [ è utile ricordare, come insegnano Giovanni Arrighi e Gianfranco La Grassa, che le transizioni egemoniche non sono processi lineari, fluidi e uniformi] (3).

 

2.La rottura storica. Il ritiro del Papa riguarda la messa in discussione della sacralità, dell’infallibilità e dell’insostituibilità del << sovrano assoluto vicario di Cristo in terra, cioè il sostituto dell’al di qua della Seconda Persona della Santissima Trinità che regna nell’aldilà >> (4). Per dirla con Massimo Franco :<< […] il Vaticano comincia ad apparire un sistema di governo come gli altri; e dunque il Papa, capo della Chiesa cattolica, a uscire dalla nicchia teocratica nella quale lo poneva la sua carica a vita, inserendolo nella lista di presidenti, primi ministri e dirigenti. E’ questo che colpisce di più. Rispecchia il dramma di un’istituzione che dovrà ricalibrare molti dei suoi principi sulla base di una novità prevista ma mai verificatasi negli ultimi seicento anni. >> (5).

La rottura storica del Papa può avviare un processo di rinnovamento del potere religioso temporale che svela il conflitto esistente, un conflitto strategico tra diversi blocchi di potere che si contendono l’egemonia, all’interno della Chiesa e dello Stato della Città del Vaticano, tra visioni diverse del ruolo della religione, della fede, degli strumenti del potere (istituzionali e non), del dialogo con la modernità (6) nella società a modo di produzione capitalistico. Una sorta di disvelamento dell’uso che il potere religioso temporale fa del potere religioso spirituale (7). Una nuova sintesi e una nuova evangelizzazione mondiale che si proietta nella nuova fase intrinseca ai mutamenti storici ( la fase multipolare) e che va oltre la storica opposizione tra conciliaristi e conservatori << il suo modo [ del papa] particolare di essere rivoluzionario ha soprattutto contribuito a superare lo schema attraverso il quale, fin dall’Ottocento, veniva letta anche storicamente la vita interna della Chiesa, e cioè la contrapposizione fra conservatori e riformisti >> (8). In questo senso non è convincente, a mio avviso, la scelta della via conciliarista auspicata da Franco Cardini e Luisa Muraro ( una delle madri del pensiero della differenza sessuale), che resta comunque all’interno della contrapposizione tra monarchia papale e governo conciliarista, quando il primo afferma :<< Un rinnovamento che, in termini ecclesiali, equivale a una parola chiara, ma complessa, costosa, rischiosa: concilio[corsivo mio]. >> (9); e la seconda, indirettamente, indica: << “Santità… Lei prenda come esempio e modello il migliore dei papi che abbiamo avuto nel secolo ventesimo, Giovanni XXIII, che si dimostrò umile, affettuoso, coraggioso e politicamente intelligente” >> (10). La Chiesa a monarchia papale e la Chiesa conciliare, che storicamente si intrecciano e si sorreggono a vicenda, condividono, con le proprie istituzioni e le proprie strutture, il legame sociale dato, l’ordine simbolico della società a modo di produzione capitalistico. Il loro potere religioso spirituale ( la santità è postuma ) alimenta e giustifica il potere religioso temporale (il potere è presente ) che è espressione di una realtà che esiste in superficie come fenomeno , ma che non ha niente a che fare con la sostanza del mondo materiale e spirituale. E’ una Chiesa che non ha niente a che fare né con l’ecumenismo popolare né con l’ecumenismo istituzionale, intendendo con essi quanto scriveva Giulio Girardi: << Per “ecumenismo istituzionale” intenderei il rapporto di rispetto, stima e collaborazione tra le diverse istituzioni religiose, promosso dalle rispettive gerarchie. Per “ecumenismo popolare” intenderei invece un rapporto promosso dal “popolo di Dio”, indipendentemente dalla gerarchia e spesso in contrasto con essa. Il contrasto si riferisce specialmente alla natura della relazione, che in questo ecumenismo è di uguaglianza e reciprocità tra  tutte le religioni, compresa la cattolica.[ corsivo mio] >> (11). E’ una Chiesa in cui il Gesù di Nazaret ( Gesù storico ) non si riconoscerebbe, farebbe una ben più profonda cacciata dalla città-tempio di Gerusalemme dei decisori strategici del potere: << Il regno di Dio, nell’accezione originaria di Gesù, porta la distruzione, non la pace, ai reggitori e ai beneficiari di un ordine ingiusto [ corsivo mio] >> (12); mentre, il Paolo di Tarso ( il vero fondatore della Chiesa cristiana) la apprezzerebbe << le distinzioni sociali fra ricchi e poveri, schiavi e padroni erano accettate, ma dovevano essere mitigate da donazioni generose e da condotte gentili >> (13).

Le dimissioni del Papa denunciano che il mondo è cambiato. Non c’è più il <<comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991) >> ( utilizzo qui la definizione di Costanzo Preve). Le potenze mondiali si stanno delineando. Una fase multipolare incalza. La Chiesa come si pone, sia all’interno che all’esterno, in questi cambiamenti epocali? Non può rimanere prigioniera della logica conservatrice o progressista: è una nuova sintesi e un nuovo ruolo che bisogna ricercare. Ricercare una nuova grammatica e un nuovo linguaggio che serva a costruire un nuovo ordine simbolico della Chiesa cristiana la cui relazione con la realtà sia sempre più corrispondente << La grammatica è “storia” o “documento storico”: essa è la “fotografia” di una fase determinata di un linguaggio nazionale (collettivo) [ formatosi storicamente in continuo sviluppo ], o i tratti fondamentali di una fotografia. La quistione pratica può essere: a che fine tale fotografia? Per fare la storia di un aspetto della civiltà o per modificare un aspetto della civiltà? >> (14).

La scelta di Papa Benedetto XVI pone all’ordine del giorno la temporalità del mandato. Temporalità legata all’equilibrio dinamico degli attori strategici sia esso espressione della nuova sintesi ( per modificare un aspetto delle civiltà ), sia esso espressione della suddetta storica opposizione ( per fare la storia di un aspetto della civiltà). E in questa fase di nuova sintesi e di un nuovo riallineamento il Papa emerito ci vuole stare con tutto il suo potere per indirizzare in << modo nuovo >>.

 

3.Il riallineamento della Chiesa. L’abdicazione del Papa può prospettare un nuovo riallineamento che tenga conto della nuova configurazione mondiale che si va delineando con la sempre più avanzata fase multipolare.

Ieri, nella fase policentrica, attraversata da ben due guerre mondiali, la Chiesa si schierò con l’occidente sotto l’egida americana, in contrapposizione al blocco rappresentato dal cosiddetto comunismo dell’ex URSS. La fase policentrica, preceduta da una lunga fase multipolare, segnò il passaggio, come centro coordinatore egemonico di un equilibrio dinamico prevalentemente occidentale, dall’impero britannico a quello americano.

Francesco Cossiga ricorda che << Negli anni cinquanta la scelta atlantica era obbligata[ dalla sfera di influenza americana, corsivo e precisazione mia]. Su di essa convergevano l’interesse nazionale italiano e l’interesse ecclesiastico vaticano: non solo non eravamo in grado di garantire la nostra indipendenza senza l’ombrello atlantico, ma esso era necessario anche a proteggere la sicurezza della Santa Sede, l’organo centrale della Chiesa cattolica incastonato nel nostro territorio >> (15).

La Chiesa fu un << baluardo >> contro l’espansione del socialismo. Non cercò un gramsciano << sistema di equilibrio >> (16) un confronto non più con i vecchi Stati capitalistici, bensì con i nuovi Stati socialisti (17 ) per il conseguimento delle intese tra i popoli e tra le loro religioni.

Oggi, nella fase multipolare, la Chiesa dovrebbe essere universale ( a partire da questo insegnamento della storia, ma superandolo, considerata l’attuale fase storica), e dovrebbe, in maniera autonoma, intrecciare relazioni con tutte le religioni ( pluralismo religioso) di tutti i popoli ( intesi come le parti maggioritarie e sfavorite delle popolazioni), di tutti i Paesi ( pluralismo culturale) per favorire il loro sviluppo nel rispetto della sovranità, dell’autodeterminazione e della maggioranza del popolo.

Il nuovo gruppo di decisori strategici che si andrà a costituire intorno al nuovo Papa [ed al Papa emerito?] dovrà intrecciare relazioni con tutte le altre religioni; dovrà, quindi, necessariamente allearsi con i decisori strategici di quei Paesi che hanno funzioni importanti per rafforzare le sovranità nazionali, le identità storiche, culturali, sociali, economiche e politiche; questo costituirà il legare tra l’ecumenismo istituzionale e la sovranità nazionale. Un primo passo importante in questa direzione sarà quello di cercare << un nuovo equilibrio >> non più guardando all’impero “egemonico” USA bensì a quei nuovi stati-potenza che si stanno delineando ( Cina, Russia, India). Da una Chiesa universale americanista a una Chiesa universale multipolare.

Non ho parlato di una collocazione della Chiesa fatta di alleanze strategiche, nella fase multipolare, per una società mondiale fatta di popoli e nazioni liberi e autodeterminati ( un ecumenismo popolare), perché l’ecumenismo popolare presuppone un processo che << porta il popolo al potere >>, un popolo ( con le sue articolazioni sociali) che progetta, che sogna e che realizza una costruzione reale di un mondo ideale. Il popolo, in questa fase storica determinata, non c’è più. Da tempo ha smesso di informarsi, di partecipare, di indagare, di conoscere, di analizzare, di pensare e di darsi gli strumenti di decisione per una prassi reale di cambiamento. E quando un popolo non si informa << è plebe, ed una plebe disinformata non ha né sovranità né potere >> (18).Ne è un esempio il popolo italiano giusto per rimanere in Italia, la nazione dove vivo.

 

4.Mentre scrivevo questa riflessione è stato nominato il nuovo Papa. Il cardinale di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, è il Papa Francesco. L’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio non si presenta bene. << La storia lo condanna >>, ha detto Fortunato Mallimacci, ex preside della Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Buenos Aires. Bergoglio << si è sempre opposto a tutte le innovazioni all’interno della Chiesa e, soprattutto, durante gli anni della dittatura, ha dimostrato di essere molto vicino al governo militare >>. Nel 2007 le mamme di plaza de Mayo scrissero in un comunicato che Bergoglio era << complice della dittatura >> (19). Non sostenne la Teologia della Liberazione che, come sostiene Gustavo Gutierrez (teologo peruviano), è fondata sulle lotte di liberazione che << sono il luogo di un nuovo modo di essere uomo e donna in America latina, e perciò stesso di un nuovo modo di vivere la fede [ corsivo mio]>> (20).

Credo che la nomina del Papa Francesco, un papa che guarderà all’America latina, sia una scelta che aiuti gli USA a rallentare la fase multipolare e a contrastare il loro declino ( la Chiesa, si sa, subisce il forte fascino degli imperi). La storia non insegna e come sosteneva Thomas Stearns Eliot << Gli uomini non imparano molto dall’esperienza degli altri >>.

Avanzo questa ipotesi, provvisoria, per le seguenti ragioni: a) una scelta geopolitica, per rompere l’intesa di quei paesi (Brasile e Argentina, due grandi paesi dell’America latina e membri dominanti del Mercosur; il primo fa parte del BRICS) che ragionano in termini di autodeterminazione e di sovranità nazionale,oltre ad allontanarsi dalla sfera di influenza americana; b) una scelta georeligiosa, il cattolicesimo nell’America del nord e nell’America latina ( dove vivono il 42% dei fedeli cattolici mondiali: mezzo miliardo su un totale di 1,2 miliardi ) perde terreno a favore delle chiese e delle sette protestanti (21); c) una scelta di nuova evangelizzazione, che riparte dal fallimento della strategia di Giovanni Paolo II (22).

Per le cose dette credo che il nome Francesco si addica, come riferimento, più a Francesco Saverio, co-fondatore della Compagnia di Gesù, uno dei primi missionari ad aver tentato di evangelizzare terre nuove (23), che a Francesco d’Assisi che non ha niente a che vedere con questa Chiesa (24).

Parafrasando Giorgio Gaber, posso dire che Papa Francesco è un uomo ricco e potente che ama i poveri. E’una cultura storica che viene dal IV e V secolo come ci ricorda lo storico Peter Brown<< […] i rapporti fra l’imperatore e i suoi sudditi, e fra le differenti classi della società, vennero a permearsi di un nuovo pathos generatosi all’interno della Chiesa cristiana. Le relazioni fra credenti e Dio, fra suddito e imperatore e fra debole e potente vennero a essere permeate di un’unica immagine elementare: l’immagine di un legame fra quanti erano poveri e quanti erano ricchi e potenti, verso i quali i poveri “levavano le loro grida” in cerca non solo di elemosine bensì di giustizia e protezione[…]. Era dovere dei potenti (e, invero, era considerato uno speciale ornamento del loro potere ) ascoltare il “grido” dei poveri >> (25).

Nell’anno 1939, annota nei suoi diari monsignor Domenico Tarditi, uno dei più acuti segretari di Stato che il Vaticano abbia mai avuto :<< A chi la guarda da fuori la Santa Sede sembra un albero frondoso, ma chi la conosce sa che le sue radici sono piene di vermi >>.

<< Né più né meno delle “radici” di qualsiasi altra organizzazione di potere >> (26).

 

 

 

 

NOTE

 

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Le epigrafi sono tratte da:Ultima udienza del Papa Benedetto XVI a San Pietro del 27 febbraio 2013 e da Thomas Stearns Eliot, Assassinio nella cattedrale, Rizzoli, Milano, 2010, pag.35.

 

  1. Nove sono stati i Papi dimissionari nella storia della Chiesa. Alcuni di essi furono barbaramente uccisi. Per una ricostruzione della storia dei Papi si veda Mario Guarino, Vaticano proibito. Duemila anni di soldi, sangue e sesso. Un potere che si sgretola sempre più, Koinè edizioni, Roma, 2011; Eric Frattini, L’entità. La clamorosa scoperta del servizio segreto vaticano: intrighi, omicidi, complotti degli ultimi cinquecento anni, Fazi editore, Rom, 2008.
  2. Guerre in corso e in preparazione, metamorfosi della Nato, confronto USA-Cina nella regione Asia- Pacifico, confronto Usa-Russia nei Balcani e nel Medio Oriente, aumento degli armamenti in USA, Cina, Russia e India, aggressione USA in Africa, conflitto per le risorse dell’Artico, costruzione di un’area di libero scambio fra Usa-Europa,
  3. Giovanni Arrighi, Capitalismo e (Dis)ordine mondiale, a cura di, Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010; Gianfranco La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi, Besa editrice, Lecce, 2011.
  4. Su questi temi si rimanda a Christian Carvalho da Cruz, Il papa emerito e il marchio della Chiesa. Intervista a Paolo Flores d’Arcais, 2013, in repubblica.it/micromega-online; Franco Cardini, Morte del papa, esposizione mediatica. Considerazioni comparative nell’orizzonte delle grandi religioni monoteiste in “Religioni e Società” n.53/2005, pp.20-25.
  5. Massimo Franco, Verso il conclave in “Corriere della Sera” del 1 marzo 2013.
  6. Riporto la definizione di modernità, da me condivisa, di Marshall Berman:<< Esiste una forma dell’esperienza vitale – esperienza di spazio e di tempo, di se stessi e degli altri, delle possibilità e dei pericoli di vita – condivisa oggigiorno dagli uomini e dalle donne di tutto il mondo. Definirò questo nucleo d’esperienza col termine di “modernità”. Essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo. Gli ambienti e le esperienze moderne superano tutti i confini etnici e geografici, di classe e nazionalità, di religione e di ideologia: in tal senso, si può davvero affermare che la modernità accomuna tutto il genere umano. Si tratta, dunque, di un’unità paradossale, di un’unità della separatezza, che ci catapulta in un vortice di disgregazione e rinnovamento perpetui, di conflitto e contraddizione, d’angoscia e ambiguità. Essere moderni vuol dire essere parte di un universo in cui, come ha affermato Marx, “ tutto ciò che è solido di dissolve nell’area” >> in L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna, 1985, pag.25.
  7. Sull’intreccio tra potere temporale e potere spirituale si rimanda a Thomas Stearns Eliot, Assassinio nella cattedrale, Rizzoli, Milano, 2010.
  8. Lucetta Scaraffia, La via della fede, in “L’osservatore romano” del 3 marzo 2013.
  9. Franco Cardini, Il concilio necessario in “Il Manifesto” del 15 febbraio 2013. Si legga anche Franco Cardini, Luisa Muraro, Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli, Lindau, Torino, 2012.
  10. Luisa Muraro, Le dimissioni del papa: bravo e avanti in questa direzione, 20 febbraio 2013, libreriadelledonne.it
  11. Giulio Girardi, La teologia della liberazione nell’epoca di Ratzinger, 2005, puntorosso.it
  12. Massimo Bontempelli, Costanzo Preve, Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero, Editrice CRT, Pistoia, 1997, pag.178.
  13. Peter Brown, Povertà e leadership nel tardo impero romano, Laterza, Roma-Bari, 2003, pag.29.
  14. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, quaderno 29, paragrafo 1, pp. 2341-2342. Francesco Aqueci, Espressività ed egemonia in Gramsci. Note sul quaderno 29, in “Critica marxista” n. 6/2012.
  15. Lucio Caracciolo, Perché contiamo poco, colloquio con Francesco Cossiga, “Limes” n.3/1995. Si veda anche Francesco Cossiga, Fotti il potere. Gli arcana della politica e della umana natura, Alberti editore, Roma, 2010, pp.191.219.
  16. Antonio Gramsci, L’Ordine nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino, 1975, pag.426.
  17. Si veda la prefazione alla prima e seconda edizione di Alberto Cecchi ad Antonio Gramsci, Il Vaticano e l’Italia, Editori Riuniti, Roma, 1972.
  18. Costanzo Preve, Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna editrice, Casalecchio (BO), 2006.
  19. Tratto da Redazione, Bergoglio, luci e ombre sul nuovo papa, “corriere della sera”, 13 marzo 2013. Si veda anche Gennaro Carotenuto, Il papa argentino. Francesco I, il conservatore popolare nei torbidi della dittatura, 14 marzo 2013, gennarocarotenuto.it ; Horacio Verbitsky, Francesco I, successore di Benedetto XVI. Un Ersatz, “il Manifesto”, 15 marzo 2013.
  20. Gustavo Gutierrez, La forza storica dei poveri, Queriniana, Brescia, 1981, pag 242; Josè Ramos Regidor, Il “popolo di Dio” soggetto della chiesa e della teologia in Giulio Girardi, a cura di, Le rose non sono borghesi…popolo e cultura del nuovo Nicaragua, Borla,Roma, 1986,pp.382-429.
  21. Stefano Velotti, a cura di, Protestanti e cattolici nelle due americhe, tavola rotonda con Bruno Cartosio, Mario Miegge, Alessandro Portelli e Mario Perniola, “ Lo straniero” n.150/151, dicembre 2012/ gennaio 2013.
  22. Sulle cause del fallimento della nuova evangelizzazione di papa Giovanni Paolo II, si rinvia a Alain de Benoist, La “nuova evangelizzazione” dell’Europa. La strategia di Giovanni paolo II, Arianna editrice, Casalecchio (BO), 2002.
  23. Giulia Belardelli, Papa Bergoglio, il primo gesuita a salire sul soglio di Pietro. Intervista a Padre Giovanni La Manna, “L’Huffington Post” del 14 marzo 2013.
  24. Per una introduzione alla vita di Francesco d’Assisi si rimanda a Jacques Le Goff, San Francesco d’Assisi, Laterza, Roma-Bari, 2006.
  25. Peter Brown, Povertà e leadership nel tardo impero romano, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 119.120.
  26. Francesco Cossiga, Fotti il potere. Gli arcana della politica e della umana natura, Alberti editore, Roma, 2010, pp.219.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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