L’ULTIMO UOMO-L’ULTIMA BATTAGLIA, di Gianfranco Campa

L’ULTIMO UOMO-L’ULTIMA BATTAGLIA

 

E così un’altra presidenza scivola via nella fogna della storia americana. Storia composta da guerre di annientamento, indipendenza, fratricide, mondiali, regionali. Come quelli che lo avevano preceduto, Trump ha completato la sua mutazione da presidente antisistema a parte integrante del sistema guerrafondaio, imperialista dei neocon e neoliberali. Non per giustificare Trump, ma d’altronde avere una pistola puntata costantemente alla testa, non è la condizione ideale.  All’ultimo presidente che ha cercato di opporsi al complesso industriale militare americano  hanno fatto esplodere il cervello a Dallas in Texas, in un pomeriggio di tanti anni fa…

Come prevedibile, dopo l’attacco alla Siria, gli esperti americani di politica estera si sono uniti nell’elogiare Trump. Per l’élite americana quello che fino a dieci minuti prima era un mentecatto arancione è ora diventato un brillante genio. Gli apprezzamenti verso Trump di questa gentaglia sono ingannevoli, finti; dureranno il tempo di una estate come fra i ghiacci del Polo Nord. Niente salverà Trump dal destino che gli è stato tracciato da questi esseri beceri; l’oblio politico e personale, soprattutto nel momento in cui riprenderanno completamente in mano il potere nelle stanze di Washington. Trump non sopravviverà mai alla controffensiva dell’establishment, una volta che l’establishement stesso avrà domato la rivolta in atto nelle stanze del potere americano. Lo odiano visceralmente solo per aver messo in pericolo la loro egemonia in questi ultimi due anni e costretto molti di loro ad esporsi più del dovuto. Quelli che gli potranno salvare il culo saranno quegli stessi a cui Trump oggi ha sputato in faccia, tradendoli  con la decisione di attaccare la Siria.

Dobbiamo comunque ringraziare soprattutto il movimento anti-trump, quello composto dai democratici liberali che ci hanno martellato la testa ed altro per due anni con la storia di Trump pupazzo di Putin. Trump ha prima provato a difendersi, poi ha infine ceduto vistosi circondato ormai da tutte le posizioni. La costante opera di logoramento ai fianchi, costante quanto dolorosa ha finito per erodere la volontà di resistenza di Donald Trump. Attaccando la Siria probabilmente Trump innescherà una serie di conflagrazioni che potrebbero determinare degli eventi capaci di trascinarci sull’orlo della apocalisse. Nel frattempo per chi crede che gli americani limiteranno gli attacchi alla Siria solo dal cielo, avverto che si sbaglia di grosso: ci sono più di 2000 soldati americani già presenti in Siria ed è proprio di queste ora la notizia che un contingente di 3600 marines sta arrivando in Siria attraverso la Giordania.

Questa notizia arriva direttamente dalla bocca del Pentagono:

https://www.marinecorpstimes.com/news/your-marine-corps/2018/04/13/thousands-of-us-troops-and-marines-arrive-in-jordan/?utm_source=Facebook&utm_medium=Socialflow

L’attacco alla Siria vede anche per la prima volta l’uso in combattimento dei missili JASSMs lanciati dai B-1B; questi sono i missili con cui Trump minacciava i Russi nel suo delirante tweet di 3 giorni fa.

Sotto una foto dei missili in questione.

 

In quest’ottica ora si capisce il perché delle lettere di allerta mandate a migliaia di riservisti americani l’anno scorso. All’epoca si credeva possibile un conflitto nella penisola coreana; in realtà potrebbe essere stata pianificata da tempo una guerra su scala mondiale da attuare nei prossimi mesi e anni.

Nelle ore che hanno preceduto l’attacco di Trump alla Siria si è sentito di tutto e il contrario di tutto. Alla fine ha prevalso il partito della guerra e Trump (Bolton) con la May e Macron ( Israele, Arabia Saudita nell’ombra) sono diventati  i principali  responsabili di questo intervento militare in Siria  L’attacco arriva poco prima che il OPCW (https://www.opcw.org/)  avesse avuto la possibilità di procedere con la sua inchiesta, ormai pronta a partire. Ma la pazienza non è la virtù dei criminali poiché è necessario agire in fretta per cancellare le tracce dei loro crimini e delle loro falsità.

C’è molta costernazione e molta delusione tra quelli che hanno sostenuto Trump contro tutto e tutti. La base anti-interventista, anti-globalista, che ha sostenuto, direi anzi creato il fenomeno Trump e permesso a Trump di arrivare alla presidenza ha perso la sua battaglia finale per il controllo della presidenza americana, anche se la guerra contro l’establishment era ormai compromessa sin dall’anno scorso, dopo l’uscita di scena cioè del compianto Michael Flynn seguito dopo alcuni mesi da Stephen Bannon. Su molti dei siti, canali radio, personaggi anti-establishment, da Infowars a Breitbart, da Michael Savage a Roger Stone, da Pat Buchanan a Wikileaks, da Tucker Carlson a Laura Ingraham elevano un coro di rabbia espresso in commenti e video. Personalmente ho passato le ultime ore a comunicare con le persone che insieme a me hanno reso possibile l’ascesa di Trump e con le quali ho condiviso appassionatamente le battaglie politiche che hanno coinvolto molti di questi ultimi 10 anni della mia vita. Tanti sacrifici, impegni, viaggi, programmi, riunioni a scapito personale, a volte anche a costo di compromettere l’incolumità personale per ritrovarsi qui punto e a capo.

La guerra, lo scontro politico fra una parte della società americana e l’establishment politico elitario al potere continua; è una guerra che trascende l’esistenza, le trasformazioni politiche e umorali di Donald Trump.

Vi lascio con i twitter di Trump pubblicati qui sotto. Scritti da lui stesso nell’ormai lontano 2013, giusto per non dimenticare chi fosse Trump prima di questa mutazione compiutasi in una notte Siriana sotto le bombe umanitarie trumpiane:

Cosa otterremo bombardando la Siria oltre a più debito e un possibile conflitto a lungo termine? Obama ha bisogno dell’approvazione del Congresso.

…Rimani fuori dalla Siria (Obama), non abbiamo la leadership per vincere guerre o strategie.”

“La debolezza e l’indecisione del presidente Obama ci hanno forse risparmiare un attacco orribile e molto costoso in Siria!”

“Se gli Stati Uniti attaccano la Siria e colpiscono bersagli sbagliati, uccidendo civili, ci sarà un inferno in tutto il mondo da pagare. Stai (Obama) lontano e curati degli Stati Uniti”

“L’unico motivo per cui il presidente Obama vuole attaccare la Siria è quello di salvare la faccia sulla sua stupida dichiarazione della RED LINE. NON attaccare la Siria, curati degli U.S.A.”

“Quello che sto dicendo è stare fuori dalla Siria.”

“Dovremmo smettere di far chiacchiere, stare fuori dalla Siria e da altri paesi che ci odiano, ricostruire il nostro paese e renderlo forte e grande di nuovo, USA!”

 

PARASSITARIO O PREDATORIO?, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARASSITARIO O PREDATORIO?

  1. Come è noto gli studiosi (italiani) di Scienza delle finanze sono soliti distinguere gli assetti di potere (sotto il profilo economico-finanziario) coercitivi in: tutoriali, quando le scelte dei governanti sono orientate alla salvaguardia dell’interesse di tutti; parassitari (i più sono sottomessi e sfruttati al fine di trovare durevole vantaggio a favore di ceti ed interessi preferiti dalla élite dirigente); predatori (dove prevale l’interesse delle classi dominanti ad aumentare il proprio utile “a breve periodo”). Gli assetti suddetti non sono definiti in maniera univoca, né i criteri sono i medesimi per tutti gli studiosi che se ne sono occupati[1].

La distinzione, vicina (e in parte lo comprende) – al giudizio di Max Weber per la quale l’uomo politico vive, in qualche misura, anche di politica (e non solo per la politica), non è spesso agevolmente applicabile al concreto perché in diversa misura ogni organizzazione, anche la più tutoriale ed efficiente – ha dei costi (compresi quelli del vertice direttivo), come li hanno le altre. Onde spesso la distinzione si fonda su elementi quantitativi più che qualitativi.

Per cui la “soglia” tra l’uno e l’altro assetto è determinata (per lo più) dal quantum idoneo a distinguerli; ma non è solo questione – anche se è l’aspetto più importante – di percentuale di ricchezza prelevata (o estorta) ai governati, ma anche – ad esempio – dell’uso della forza, del provvedimento in luogo del contratto e così via.

  1. A quasi nove anni dall’inizio della crisi economica e delle vicende, in particolare italiane, che ne sono conseguite, è da chiedersi quanto le trasformazioni intervenute nell’assetto dei rapporti economici tra classe dirigente e cittadini siano riconducibili (nel risultato) ad una delle tre specie identificate.

All’uopo è meglio ricordare – tra i tanti dati disponibili (più o meno affidabili) che: quanto al PIL questo, tra il 2000 e il 2016 è cresciuto meno di un punto percentuale (dato ISTAT settembre 2017); invece l’aumento della pressione fiscale rispetto al PIL è stato il secondo più alto d’Europa, ossia +3,2%, più del doppio della zona euro (+ 1,5%) e più del triplo della Ue a 28 paesi (1%)[2]; nel periodo 2008-2017 l’aumento è stato dell’1,3%[3].

Peraltro i dati vanno compresi (e l’effetto spesso è peggiore): ad esempio l’IVA è aumentata (durante il periodo della crisi) di due punti percentuali (dal 20% al 22%). Il gettito in termini reali è lievemente calato, ma solo perché la crisi ha ristretto la base imponibile per cui, onde ottenere un gettito più o meno pari, il governo è stato costretto ad aumentare del 2% l’aliquota (dal 20 al 22%). E così si potrebbe andare avanti citando fonti ufficiali (credibili fino ad un certo punto) e non ufficiali (meno credibili?).

Da questi (e altri) dati possono farsi due considerazioni generali. La prima è che la crisi economica ha decurtato il reddito di tutti i cittadini; la seconda, che, invece, non ha inciso (o molto meno) sulle élite dirigenti e su coloro che vivono del bilancio pubblico: il costante aumento del prelievo fiscale – malgrado la contrazione della base imponibile – lo prova. Il reddito calante (per i governati) si è sommato al prelievo crescente.

Qualcuno potrebbe sostenere, a seguire Gaetano Mosca, che la ragione di ciò è “la naturale tendenza, che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri”. Ovviamente a beneficio proprio e dei propri protetti/seguaci (e protettori). Ma è da chiedersi, fino a quando? L’equilibrio tra costi e benefici delle organizzazioni delle comunità non è mai pari: l’importante, per mantenerlo, è che non sia troppo distante dalla parità.

Quando nell’impero romano si ruppe – Settimio Severo lo predicò sul letto di morte – quell’equilibrio (progressivamente peggiorando), avvenne che i sudditi dell’impero scappavano dalle zone ancora amministrate dai funzionari imperiali verso quelle occupate dai barbari, le cui pretese erano assai più “miti” di quelle degli esattori romani[4].

Anche nell’Italia contemporanea abbiamo almeno due “classi” di cittadini italiani che scappano (in massa, come i romani): coloro che cercano (e trovano) lavoro all’estero (nel 2016 oltre centomila) prevalentemente giovani; e i pensionati che si trasferiscono in paesi (anche europei come il Portogallo) dove la vita è meno costosa e il fisco meno rapace (per i quali, a leggere i giornali, il fisco sta studiando come tosarli meglio).

  1. Ciò stante cerchiamo di dare una risposta all’interrogativo iniziale: a quale dei tre assetti corrisponde la situazione concreta dell’Italia?

Quello sicuramente da escludere è che si tratti di un assetto tutorio (il preferibile per i governati). La classe dirigente – e i suoi manutengoli mediatici – si affannano a sostenere che tra costi e benefici c’è equilibrio, anzi che i secondi (per i governati) fanno aggio sui primi, ma, a prescindere che un simile giudizio suscita generalmente un misto di rabbia e ilarità, resta il fatto che al calare dei secondi (v. pensioni, sanità, ecc. ecc.) corrisponde l’aumento dei primi (imposte, corrispettivi vari, svendite del debito pubblico). Per cui è insostenibile nei (e dai) fatti.

Meno agevole è ricondurre il tutto a uno degli altri due assetti.

Il cui discrimine è, secondo alcuni, la prospettiva di durata (lunga in quello parassitario, perciò meno oppressivo), e breve nel predatorio (consistente in vantaggi immediati a favore esclusivo dei governanti); secondo altri la regolamentazione/difesa giuridica, presente nel parassitario e assente o del tutto inconsistente nel predatorio (il cui caso-limite è il saccheggio di una città espugnata dal nemico), che richiama in certo modo la visione/concezione hobbesiana del bellum omnium cantra omnes. Altri criteri possono essere l’aumento e la prevalenza di strumenti d’amministrazione negoziali o autoritativi (contratto o provvedimento); paritari o non paritari e così via.

  1. Come cennato i criteri distintivi dell’assetto predatorio da quello parassitario sono prevalentemente ritenuti due: la prospettiva a “breve periodo” e l’assenza di difesa giuridica. Il “tipo ideale” di assetto predatorio è, come prima scritto, quello di una città o un territorio occupato e saccheggiato da un esercito nemico. Il quale non si aspetta né che il saccheggio continui indefinitamente ma neppure che vi sia alcuna pretesa giuridica che possa farsi valere contro il diritto del vincitore/occupatore a disporre senza limiti dei beni e delle vite dei vinti (che comprendeva nell’antichità sia lo jus vitae et necis, sia quello sulle persone, riducibili in schiavitù).

Ma questo è un tipo ideale, cui le situazioni concrete si possono accostare e (parzialmente) essere ricomprese, senza esservi incluse totalmente. Né l’un criterio né l’altro coincidono con i connotati peculiari dell’assetto parassitario in cui gli sfruttatori (per interesse proprio) non hanno alcun intento che lo sfruttamento s’esaurisca in breve durata. Come scriveva Pareto, il loro interesse è spennare l’oca senza troppo farla gridare. Se l’oca muore o perde tutte le penne diventa inutile: lo sfruttamento si esaurisce per carenza di sfruttabile. La stessa difesa giuridica è compatibile con l’assetto parassitario, non foss’altro perché consente una utilizzazione regolata, quindi (entro certi limiti) prevedibile e calcolabile, anche da parte degli sfruttati (che ne siano consapevoli o meno). Pertanto possono distinguere l’assetto parassitario dal predatorio.

Il dominio, di converso, di una banda di briganti non si distingue da quello di un potere legittimo soltanto perché non è ispirato alla giustizia, come scriveva S. Agostino, ma, ancor più, perché non è finalizzato alla durata (e alle condizioni e limiti che la permettono).

Non costituisce invece criterio distintivo il monopolio (o almeno l’impiego) della violenza (più o meno) “legittima” perché questo connota ogni tipo di Stato (Weber) e relativo assetto, compreso il preferibile assetto “tutorio”, in quanto ogni sintesi politica presuppone comunque la (possibilità di) trasgressione e quindi la necessità di reprimerla. Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete). Piuttosto ciò che appare un’antinomia è che l’assetto predatorio (a parte il caso-limite dell’occupatio militare, soprattutto quando esercitata con mezzi barbarici), proprio perché riferito ad un assetto statale, si svolge in un contesto istituzionale (come gli altri due). Il quale, come scriveva Hauriou è per sua natura ispirato alla durata, essendo questo carattere (e funzione) peculiare dell’istituzione.

Ma, anche in un’istituzione politica la sospensione del diritto è ricorrente e prevista dall’ordinamento. Il Gouvernement de fait del giurista francese, il Massnamezustand di Schmitt[5], lo justitium romano[6] sono tutte situazioni concrete in cui la sospensione del diritto può consentire l’assetto predatorio e ancor più, l’esercizio di pratiche predatorie.

  1. Sotto il profilo quantitativo ciò che connota l’assetto predatorio rispetto al parassitario è il risultato complessivo. Anche qui nel secondo l’esigenza di durata dello sfruttamento ne presuppone una certa tollerabilità. E nessun fatto la rende tollerabile quanto il successo, in particolare sotto il profilo economico. Lo sfruttamento in un assetto parassitario può essere notevole, nel senso che le risorse della comunità destinate al sostentamento della classe dirigente, del di essa aiutantato[7] e delle clientele preferite costituiscano una percentuale rilevante e perfino maggioritaria di quelle prelevate, ma comunque essere tollerato se la comunità è in crescita economica. Ma non lo è se questa non c’è, o si riduce di guisa da far arretrare, in un mondo dove altri Stati crescono in misura superiore, le chances di vita e d’esistenza comunitaria e individuale. Proprio questo è quello che è accaduto all’Italia della c.d. “seconda Repubblica”. Se è vero che la c.d. “prima Repubblica” aveva, in particolare dagli anni ’60 in poi, accentuato il “modello distributivo” della ricchezza, rispetto al “modello produttivo” prevalente dal primo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60, ciò avveniva in un contesto in cui vi era sempre accrescimento della ricchezza, in misura – per lo più – superiore (nella peggiore delle ipotesi pari) a quello degli Stati più simili per caratteri politici, economici e culturali (e geografici).

Se invece andiamo a vedere le statistiche del PIL a partire da metà degli anni ’90 ad oggi l’andamento è il contrario. Limitando l’esame ad alcuni grandi Stati europei occidentali (i più simili, secondo il criterio appena ricordato) il risultato è il seguente (periodo 1995-2014)

Incremento PIL

Svezia 41,7%

Francia 20,7%

Germania 28,7%

Spagna 23,9%

Grecia 13,5%

Portogallo 19,1%

Italia 1,9%[8]

Anche altri dati concordano al medesimo (sconfortante) andamento: la pressione fiscale nel 1990 era pari al 38,2% del reddito nazionale, nel 2014 al 44,2%. In tutti gli anni dal 1992 al 2014 (e dopo) si è mantenuta al di sopra del 40%.

Tanto per fare un confronto con la prima Repubblica, nel 1980 la pressione fiscale era pari al 31,8% del reddito nazionale. In tutti gli anni fino al 1991 è stata inferiore al 40%, mediamente si aggirava intorno al 30% o poco più. Quindi tra “prima” e “seconda” repubblica l’aumento medio della pressione fiscale è cresciuto di circa il 40% (dal 30-32% al 42-44%). Negli anni ’51-63 (il boom economico) il PIL italiano crebbe da circa 14.000 miliardi di lire a 31.261 con incremento annuale medio del 5,9% (quello della Francia era il 4,4%); i consumi italiani quasi raddoppiati; gli investimenti triplicati[9]. È penoso confrontarli con i dati corrispondenti della seconda repubblica.

Anche se la “prima repubblica” è stata liquidata come se fosse stata l’agostiniano governo di una banda di briganti (latrocinium), bisogna prendere atto che ha prodotto molti più benefici e molti meno danni della seconda.

Risultati così deludenti, protratti per un lungo lasso di tempo (oltre vent’anni) possono costituire criterio di distinzione tra assetto predatorio e parassitario. In effetti mentre in quest’ultimo l’aumento dello sfruttamento si accompagna ad un aumento della ricchezza a disposizione dei governati, nel primo si riduce: prendendo come base i dati citati per l’Italia ad un aumento del reddito nazionale di 1,9% in vent’anni corrisponde un incremento della pressione fiscale di circa 6 punti percentuali[10].

Dato che l’aumento della ricchezza è stato dell’1,9% e la pressione fiscale del 6%, ne consegue che la ricchezza dei governati è diminuita di circa 4 punti di PIL. Se poi si considera che l’aumento medio dei paesi simili è stato di circa il 25%, si ha dimensione di un arretramento relativo (rispetto al resto dell’Europa e ancor più del mondo) assai peggiore con un pesante effetto sia sulle aspettative dei cittadini che sulle pretese della comunità nazionale, come confermato da vicende non solo nazionali, né esclusivamente economiche.

Nella realtà attuale è dubbio se in cuor loro, i governanti non si interroghino sulla durata di un sistema che ha tenuto l’Italia in recessione (o stasi) economica, ferma per un periodo ventennale, ma con un carico fiscale crescente.

A continuare così la fine – nel lungo periodo – è sicura. Per cui a seguire tale criterio saremmo transitati (da vent’anni) dal “parassitario” al “predatorio”.

  1. Ma del pari anche la difesa giuridica, sulla carta garantita dalla Costituzione e dalla legislazione meno recente si è ridotta e va riducendosi ancora di più. Certo una difesa giuridica c’è, ma sempre più difficile, inefficace e costosa. Norme sostanziali e processuali sono state emanate per attenuarla; quelle a favore dei governati sono disapplicate o poco applicate da una burocrazia che, come scriveva Marx, tende a confondere l’interesse pubblico col proprio interesse di casta; le prestazioni dello Stato (i pagamenti ai creditori soprattutto) sono sottoposti a intralci, sospensioni, rinvii ex lege di ogni tipo, mentre quelli degli apparati pubblici se non facilitati, almeno sono esonerati dai vincoli imposti ai privati[11].
  2. Alla configurazione dell’assetto predatorio hanno concorso e concorrono altre circostanze. In primo luogo l’estensione dei poteri pubblici. È inutile ripetere tutte le argomentazioni portate in tal senso, perché è evidente l’aumento dei compiti, del personale e delle funzioni pubbliche nel c.d. Welfare State. Ciò sposta il limite tra pubblico e privato (a favore del primo e a detrimento del secondo). Come scriveva Gaetano Mosca, l’efficacia della difesa giuridica dei governati è legata a condizioni fattuali – prima che normative – tra le quali la diffusione della ricchezza e soprattutto la non concentrazione della “direzione della produzione economica, la distribuzione di essa ed il potere politico” nelle stesse persone[12]

Anche se la concentrazione di potere economico e politico ha come caso estremo il comunismo del XX secolo (e i precedenti storici, anche se non così conseguenziali, nelle “società idrauliche” studiate da Wittfogel), uno Stato che preleva il 50% del reddito nazionale ha un potere e una capacità di clientelizzazione della società superiore a un altro che ne preleva il 20%. Ancor più se, con mezzi diretti o indiretti cerca di rendere più difficoltoso e al limite inutile l’esercizio di pretese giuridiche contro gli apparati pubblici, riducendo gli ambiti di libertà, già quantitativamente ridimensionati dall’incremento dei compiti pubblici.

Il secondo elemento qualitativo che aumenta il potere pubblico è che questo è indissolubilmente legato all’esercizio di potestà coercitive. Ad adottare la terminologia di Miglio, se si estende l’ambito dell’obbligazione politica, in pari misura si contrae quella dell’obbligazione-contratto. Malgrado la diffusione in Italia di “contrattualizzazioni” di funzioni e servizi pubblici, con l’adozione di strumenti privatistici in settori della pubblica amministrazione, resta il fatto che la decisione su cosa debba essere pubblico e, soprattutto, su come approvvigionare le risorse per compiti “contrattualizzati” (a tacer d’altro) sono decisioni pubbliche, imposte autoritativamente e così riconducibili al rapporto di comando/obbedienza (presupposto del politico). Per ridurre un’obbligazione politica ad obbligazione-contratto occorre rimetterne costituzione, modificazione, estinzione alla volontà paritaria dei “contraenti”; quando le funzioni contrattualizzate, “privatizzate” (e così via) saranno finanziate con collette, (o con rendite patrimoniali pubbliche) e non con le tasse, solo allora non vi sarà più obbligazione politica (e relativamente a queste).

Il che a ben vedere, è estremamente difficile, in uno Stato moderno in cui comunque l’aumento di compiti e funzioni rispetto alle meno voraci sintesi politiche del medioevo è enorme, anche senza arrivare allo Stato “totale” del XX secolo.

  1. Piuttosto, al fine di ridurre l’appropriazione politica – e con ciò la possibilità di predazione – occorre riflettere su un dato ovvio.

Quasi tutti i manuali di diritto pubblico iniziano indicando come criterio distintivo di quello dal diritto privato, la posizione di non eguaglianza tra le parti, diversamente dal diritto privato dove sono in posizione di parità.

Un acuto giurista come Hauriou riconduceva i due diritti (e le due giustizie che ne derivano, almeno nel diritto continentale) a due aspetti dell’esistenza e della natura umana: il primo, al diritto dell’istituzione, ovvero alla regolarità per cui l’uomo è zoon politikon e “appartiene” ad un gruppo politico e sociale (droit disciplinaire)[13].

Tale diritto e la relativa giustizia (Themis) è connotato dall’ineguaglianza tra i soggetti governanti e governati. L’altro, fondato sulla naturale socievolezza umana, è basato sull’eguaglianza tra soggetti e genera una giustizia paritaria (dike)[14].

A conferma del carattere decisivo dell’eguaglianza o meno, se si va ad analizzare le modificazioni normative (alcune prima citate in nota 10) che portano alla “provvedimentalizzazione” ed alla “gerarchizzazione” dell’ordinamento, queste sono tutte volte ad accentuare il carattere non egualitario delle parti nelle obbligazioni relative.

La non-eguaglianza (tra parti pubbliche e private) nel diritto pubblico non si limita al carattere principale del costituire precetti validi in base a decisioni unilaterali – mentre nel diritto comune sono di norma, contrattate e bilaterali – ma, perfino in rapporti teoricamente egualitari, nell’assicurare privilegi o deroghe a favore della parte pubblica e a detrimento di quelle private. Il caso più diffuso e ricorrente sono le sanzioni tributarie: il contribuente che ritarda od omette il pagamento delle imposte è soggetto a sanzioni, sovrattasse, indennità di mora: l’ufficio che non rimborsa o ritarda il rimborso d’imposte indebitamente o erroneamente percette, no (al massimo rischia – ma è azione giudiziaria difficile) di pagare dei danni. Danni che, a differenza delle sanzioni tributarie, il cui presupposto è il mancato o ritardato adempimento, vanno provati (non basta cioè aver commesso il fatto illecito, occorre dimostrare che abbia depauperato il patrimonio del creditore). In altri settori leggi, come la c.d. Legge-Pinto (con le modificazioni apportatevi nel 2012) sanzionano il cittadino che abbia proposto un’azione giudiziaria infondata contro lo Stato: ma nessuna norma sanziona specificamente gli uffici statali se perdono la relativa vertenza. Altre leggi prescrivono sanzioni spropositate: ad esempio nelle imposte di bollo e registro la sanzione va fino al triplo dell’imposta di registro e fino al decuplo per quella di bollo (v. D.P.R. 634/72 e 642/72). Ma se succede il contrario i pubblici poteri possono contare sulla sollecitudine amorevole del legislatore: se questi commettono illeciti, l’esborso dell’erario non è pari al danno provocato, ma ad una frazione del medesimo[15].

Quindi se non del tutto predatorio, l’attuale situazione vi s’incammina ed è a buon tratto.

Quali rimedi? Ve ne sono tanti. Ma due vogliamo ricordarne. Il primo del tutto economicistico, che indicava Maffeo Pantaleoni “Quando si dimostra che l’impiego della forza nella spogliazione predatoria o parassitaria può essere così costoso da rendere più utile il contratto … che rimarrà della superiorità di forze, quando il suo esercizio sarà sottoposto alla condizione di comportare un tale costo da rendere ogni altro sistema più remunerativo? Il costo, che è connesso con l’esercizio di mezzi violenti di aggressione o di dominazione, va, evidentemente, messo tra i mezzi di difesa del gruppo più debole, e può renderlo altrettanto forte quanto il gruppo che sarebbe più potente, nell’ipotesi in cui l’impiego della sua forza costasse meno, o nulla”.

Similmente ragionava Puviani (all’inverso, per il rapporto tributario) parlando di spinta e controspinta contributiva a seconda che la soddisfazione data dal pagamento dell’imposta fosse superiore o meno al vantaggio atteso dal contribuente[16].

In modo analogo occorre che la spinta appropriativa dei poteri pubblici venga compensata da una controspinta ottenuta con sistemi sia giuridici che politici. L’altro è ridurre l’ambito delle disuguaglianze nel diritto, facendo operare, per quanto possibile, le parti su un piede di parità. Incrementare così l’ambito del droit commun (dike) a spese del droit disciplinaire (thémis). Il che non significa “contrattualizzare”, costituire “agenzie” e altri espedienti con cui si cerca spesso solo di mettere in maschera la non parità tra soggetti pubblici e privati.

Ad essere più precisi le distinzioni tra diritto pubblico e privato sono varie, come sa qualsiasi studente di giurisprudenza, e spesso complementari. Quella relativa alla non parità delle parti è tra le più frequentate: va da Hegel ai siti presenti su internet. Spesso è definitita (dal lato attivo) potestà d’impero (Balladore Palieri, Ranelletti), attributo necessario dello Stato[17].

Il che significa di far costare di più l’esercizio del potere (impositivo, in particolare) eliminandone o riducendone i privilegi. E rammentando che il costo per i governanti non è solo economico: mandarli a casa e sostituirli con un’altra classe dirigente, significa sottrargli le pecore che mungono.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] Le definizioni e criteri indicati nel testo li sintetizzano, scontando una “percentuale” d’approssimazione. S’indicano comunque alcuni degli autori che se ne sono occupati: M. Pantaleoni Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia, Firenze 1904; C. Cosciani Istituzioni di Scienza delle Finanze, 1953, p. I, cap. I; F. Forte Manuale di scienza delle finanze, Milano 2007, p. 32 ss., in internet v. G. Dallera La scuola italiana di scienza delle finanze; P. Vagliasindi Questioni generali di finanza pubblica.

[2] Fonte Adnkronos “rapporto Taxation Trends in the European Union 21017 della Commissione europea”.

[3] Fonte Sole 24 Ore.

[4] V. Salviano di Marsiglia De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[5] E ancor più la “Dittatura sovrana”, v. Carl Schmitt Die Diktatur trad. it. di A. Caracciolo p. 165 ss, Roma 2006.

[6] V. Giorgio Agamben Stato d’eccezione, Torino, 2003.

[7] Si impiega il termine usato da Miglio per definire l’apparato di collaborazione all’esercizio del comando del vertice politico v. G. Miglio Lezioni di politica, Vol. II, Bologna 2011, pp. 362 ss.

[8] Fonte: Termometro politico

[9] Fonte Treccani: Il miracolo economico italiano di A. Villa.

[10] Occorre precisare che per gli anni ’92-’94 il considerevole aumento della pressione fiscale è stato dovuto, in larga parte, alle misure del governo Amato, di “transizione” tra repubbliche, per cui a voler attribuire alla fase precedente l’aumento relativo, la pressione fiscale è aumentata di soli 2 punti. Ma una simile interpretazione, a parte il dubbio, toglie poco al giudizio complessivo.

[11] Ricordiamo alcuni degli interventi legislativi e delle prassi benevole verso gli apparati pubblici e proprio per questo lesive della parità tra cittadini e apparati pubblici, ricordando che sono solo una parte di quanto disposto nello stesso senso. Con l’art. 11 della legge 19 marzo 1993, n. 68 concernente “disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica”, si integrava l’art. 24 della L. 720/84 del comma 4 bis. In particolare si precisava che non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso soggetti diversi dal Tesoriere dell’Ente. Con una norma siffatta il sistema per non pagare il creditore è semplice: basta far andare in “rosso” il conto presso il Tesoriere e dirottare su altre disponibilità le liquidità dell’Ente. La limitazione del soggetto “terzo pignorato”, ha, di fatto, come conseguenza di rendere impignorabili le somme liquide e disponibili. Ma i trucchi non finiscono qui. L’art. 1 del D.L. 8/1/93 n. 9, convertito con L. 18/3/93 n. 67, dispone: “le somme dovute a qualsiasi titolo dalle unità sanitarie locali e dagli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico non sono sottoposte ad esecuzione forzata  nei limiti degli importi corrispondenti agli stipendi e alle competenze comunque spettanti al personale dipendente o convenzionato, nonché nella misura dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini dell’irrogazione dei servizi sanitari”; ma anche tale norma pareva non bastare. Con l’art. 113 del D.L. 25/2/95 n. 77, si disponeva nuovamente: “1) Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali di cui all’art. 1, comma 2, presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa …” Ciò che accomuna tutti questi espedienti, che hanno contribuito ad “abbattere i flussi di cassa”, è di aver agito sui diritti (processuali) dei creditori e sui poteri (processuali) del Giudice vanificando con limitazioni varie i diritti (sostanziali) delle parti. La Corte costituzionale con sprazzi di tutela ha annullato ogni tanto norme come quelle citate (v. sent. 29/6/95 n. 285; Corte Cost., 26-03-2010 n. 123; Corte cost., 29-06-1995, n. 285;); ma altri precetti simili alle disposizioni annullate sono state emanate prontamente. Il tutto era (ed è) aggravato da atti amministrativi (anche a contenuto normativo) quindi emanati dal complesso governo/amministrazione (come il D.M. 1/9/98 n. 352, annullato dal Consiglio di Stato), che limitano ulteriormente i diritti di categorie di creditori. Oltretutto negli ultimi dieci anni è invalsa la prassi che, nelle liti tra Pubbliche amministrazioni e parti private, se soccombono le prime, molto raramente si vedono accollate le spese di giudizio, dovute per legge (possono essere motivatamente ed eccezionalmente compensate, ma nei fatti, lo sono quasi sempre, sicchè l’eccezione è divenuta regola); mentre se a soccombere sono i cittadini quasi sempre sono condannati al pagamento delle stesse. Inoltre in una situazione in cui il principale debitore è lo Stato italiano (il debito pubblico è pari ad oltre il 130% del prodotto interno lordo) non solo s’intralcia con leggi ad hoc il pagamento dei debiti ma si agevola lo Stato debitore fissando (con decreto ministeriale) tassi d’interesse praticamente inesistenti (attualmente è lo 0,10%), incentivando così il mantenimento dell’ (abnorme) debito pubblico a costo (praticamente) zero relativamente a certe classi di creditori (cui è imposto il tasso), ma praticando tassi più vantaggiosi per altre classi che prestano a condizioni di mercato (soprattutto banche, fondi d’investimento, assicurazioni). Combinando saggi d’interesse inesistenti con la moltiplicazione d’intralci alla realizzazione dei crediti (e con l’abituale lentezza della giustizia italiana) dei crediti si ha una moratoria (a tempo indeterminato) dei debiti pubblici verso alcune classi di creditori (quasi tutte). Il tutto presuppone l’esercizio del potere coercitivo: al creditore sgradito che non si vuole soddisfare si applicano disposizioni di legge, regolamentari, atti amministrativi, circolari. A quello  favorito si paga subito e con interessi di mercato.

È ricorrente poi il divieto di compensazione tra crediti e debiti della P.P.A.A. verso i privati. Qualche anno orsono un Presidente del consiglio si proclamava sdegnato verso le proposte di estendere la compensazione tra debiti e crediti verso lo Stato.

Tanto sdegno, invece che verso qualche uomo o partito politico, avrebbe dovuto essere indirizzato verso Giustiniano, il quale con una propria costituzione del 531 d.C., l’aveva resa di portata generale “compensatio ex omnibus actionibus ipso jure fieri sancimus …” (C, IIII,31,14) per cui (al più tardi) da quasi quindici secoli è diritto comune.

Un principio elementare, ispirato a razionalità e giustizia, fondato sulla parità delle parti ed assai ostico a sopportare da un apparato pubblico che si mantiene grazie ai denari dei governati.

Dato lo squilibrio tra creditori e debitore realizzato normalmente (per lo più) con eccezione, deroghe al diritto e il vantaggio che procura alla classe dirigente questa non ha alcun interesse a contenere il debito pubblico, perché mentre con i creditori sfavoriti ci si muove con poteri pubblicistici, cioè non paritari (comandi) con gli altri, preferiti, si negozia nell’ambito del diritto privato (contratti).

[12] V. Elementi di Scienza politica, lib. I°, cap. V, Torino 1923, p.131

[13] Si noti che Hauriou dall’ appartenenza ad un’istituzione notava che esiste anche un droit statutaire, concernente posizioni, facoltà e pretese degli appartenenti al gruppo.

[14] Come scriveva il giurista francese il primo era diritto interno all’istituzione (infraistituzionale), il secondo era tra gruppi sociali (e relative istituzioni) quindi intergroupale, V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929 pp. 88 e 98

[15] Ad esempio l’art. 3 L. 662/93 dispone che nel caso di occupazioni illegittime di terreni, l’importo del risarcimento è aumentato del 10% (del valore del bene sottratto). Il quale, essendo l’indennizzo pari al 50% del valore, significa che anche a commettere l’illecito i poteri pubblici ci guadagnano, pagando sempre una frazione anche se lievemente maggiorata, del valore del bene incentivo a violare la legge col minimo rischio. Ovviamente – secondo i principi generali – il cittadino per tutelare i propri diritti deve agire in giudizio, sobbarcandosi le spese dell’avvocato e quelle imposte dallo Stato (enormemente aumentate dalla fine del secolo scorso) e, ancor più, attendendo i tempi lunghissimi della giustizia italiana, mentre i pubblici uffici, fabbricano in ufficio i provvedimenti d’accertamento delle violazioni e di innovazione delle sanzioni senza l’incomodo di dover cambiare scrivania. Provvedimenti peraltro esecutori anche se impugnati nel (breve) termine previsto della legislazione, mentre gli “analoghi” chiesti dai privati lo sono solo se il Giudice li dichiari tali. Tutto è orientato a rapidità e prontezza, se i poteri pubblici sono parte attiva; a complessità e lentezza, nelle situazioni inverse.

[16] V. L’illusione finanziaria, Milano, rist. 1976, pp. 7-8.

[17] Si riportano alcuni passi di Balladore Palieri sul punto “ quando si parla della potestà d’impero come di uno degli elementi essenziali dello Stato, si intende dire che l’ordinamento giuridico, affinchè gli spetti la qualifica di statale, deve prevedere e porre delle autorità che esercitino un imperium. Se non possiede anche questo carattere, oltre a quelli innanzi ricordati, l’ordinamento in questione, qualunque altra cosa sia, non è un ordinamento statale … L’ordinamento giuridico cioè deve istituire un apposito apparato onde realizzare le finalità per le quali è stato creato, e questo apparato deve essere provvisto di autorità, di impero sui consociati. È questa una conseguenza della stessa struttura dell’ordinamento” V. Dottrina dello Stato, Padova 1958, p. 250-251

 

LA TARDA ORA DELLA REPUBBLICA DEGLI STATI UNITI d’AMERICA, di Gianfranco Campa

L’ORA TARDA-L’ULTIMA DELLA REPUBBLICA

Non voglio apparire eccessivamente pessimista. Quelle che stiamo vivendo però sono ore e giorni infidi e drammatici: Alle 20:00 di oggi, 9 Aprile 2018, ora della costa del pacifico, le notizie che arrivano dagli Stati Uniti sono preoccupanti. Probabilmente nel momento in cui questo articolo sarà messo sul sito sapremo già se il Pentagono ha attaccato la Siria oppure no. Fonti militari suggeriscono che un’operazione in larga scala contro Assad è entrata ormai nella fase finale. Si aspetta solo l’ok del Presidente Americano. Speriamo nel buon senso di Donald Trump.

La trappola dello stato ombra orchestrata contro Donald Trump è ormai pianificata e operativa.

I dirigenti politici, sia essi Repubblicani o Democratici, tutte le agenzie di intelligence, tutte le agenzie di stampa, tutte le organizzazioni di Think Tanks si levano all’unisono nel grido di guerra contro la Siria e il demonio Assad. Il presunto attacco chimico perpetrato dal Presidente Siriano arriva ad una settimana esatta dall’annuncio di Trump di voler ritirare il suo esercito dalla Siria, ritenendo il pericolo ISIS ormai neutralizzato. Il nuovo attacco chimico arriva ad un anno esatto dall’ultimo presunto attacco di Assad che portò Trump a lanciare i missili Tomahawk contro la Siria. La guerra delle fogne di Washington, dello stato ombra, contro Trump ha improvvisamente acquisito un rinnovato senso di urgenza e drammaticità. La settimana scorsa, tutti i sondaggi delle maggiori agenzie attribuivano per la prima volta a Trump oltre il 50% di approvazione contro il 48% di Obama nel periodo equivalente. In altre parole, il 45% di approvazione per un presidente comporta la certezza matematica di essere rieletto in un secondo mandato. Questo ha scatenato lo stato ombra.

Non sono nato ieri. La trappola piazzata sull’impervio sentiero di Trump è per me decifrabile e chiara; un attacco chimico in Siria forzerà la sua mano mettendolo in rotta di collisione con la Russia. Se Trump dovesse intervenire militarmente, perderebbe il sostegno dello zoccolo più duro del suo elettorato; lo accuseranno di essere diventato un neocon. Se non dovesse intervenire sarà considerato debole e incapace dal resto del popolo. Gli Americani, come del resto tutti i popoli occidentali, hanno la memoria corta e gli orrori della guerra in Iraq sono solo un pallido ricordo. Bolton già sbava dall’eccitazione di ritrovarsi a sussurrare all’orecchio di Donald: “missili-missili, attacca-attacca, guerra-guerra..”. Se Trump dovesse attaccare senza approvazione del Senato sarà certamente impeachment per the Donald. Se non dovesse farlo, diventerebbe un incompetente e quindi meritorio sempre di impeachment.

Il caso Skripal è stato solo il preambolo: E’ notizia fresca di oggi che il procuratore speciale Robert Muller e il deputato procuratore generale Rod Rosenstein, hanno autorizzato l’FBI a fare irruzione nell’ufficio di uno degli avvocati del presidente, Michael Cohen, a New York, con un mandato di perquisizione firmato da un giudice per impossessarsi di tutta la documentazione sui rapporti tra il Presidente e il suo avvocato; la perquisizione e il sequestro dei documenti sono avvenuti poche ore prima di scrivere questo articolo e a tre giorni dallo strano incendio in uno degli appartamenti della Trump Tower. La motivazione non risalirebbe al Russiagate, bensì alla violazione delle regole elettorali. Nel momento in cui Cohen ha versato soldi alla porno attrice Stormy Daniels per assicurarsi il silenzio mediatico, Trump avrebbe infranto la legge sui finanziamenti delle campagne elettorali. Poco importa se le vicende fra Trump e Daniels risalgono al 2007; poco conta se questo presunto contratto, accordo, firmato da Daniels risale al 2015, cioè prima ancora che Trump annunciasse il lancio della sua campagna presidenziale. Il nostro cacciatore fasullo Muller è passato inopinatamente dalle indagini sul Russiagate alle quelle sul Pornogate. Inoltre ciò che Muller e l’FBI hanno fatto oggi con l’irruzione nell’ufficio dell’avvocato di Trump è stato rimuovere il diritto di tutti i cittadini americani di consultare privatamente un avvocato. D’ora in poi tutto ciò che racconti al tuo avvocato non è più considerato privato. La sacrosanta privacy del rapporto avvocato-cliente, tutelata dalla costituzione americana e stata calpestata dal nostro eroico cacciatore fasullo Robert Muller. 

Complimenti davvero allo stato ombra! Non c’è che dire, la fantasia non manca loro senza alcun dubbio. Dovesse Donald Trump decidere di licenziare Mueller la sua Presidenza potrà considerarsi finita; non dovesse farlo la sua Presidenza può considerarsi finita lo stesso.

A Trump sono rimaste solo pochissime carte da giocarsi.

Potessi, gli consiglierei due mosse importanti che potrebbero ribaltare la situazione a suo favore. Preferisco per istinto di sopravvivenza tenerle per me. Speriamo che qualcun altro abbia la possibilità di suggerire a Trump le giuste mosse. Ci spero, ma ne dubito…

Nel frattempo ormai si è capito che Trump è letteralmente circondato su tutti i fronti e non ha le capacità gestionali nè tattiche di resistere alla pressione dello stato ombra.

Saremo noi a pagarne il prezzo con una nuova guerra che si sta affacciando all’orizzonte.

Come diceva Grima Vermilinguo, nel signore degli Anelli: : “Tarda è l’ora in cui questo stregone decide di apparire” Anche se, in questo caso, sono molti gli Stregoni che sono apparsi nell’ora tarda di questa morente repubblica americana.

podcast 22_Realtà oltre la fantasia. L’intreccio dei destini personali e delle strategie politiche. Il caso Skripal, di Gianfranco Campa

Clamoroso! Dopo fiumi di inchiostro e ore di immagini sul caso di spionaggio russo ai danni della spia russa al servizio dell’intelligence inglese, Gianfranco Campa ci offre un punto di vista fuori dal coro dalle implicazioni esplosive. Il caso Skripal, il suo tentativo di assassinio, ha da subito rivelato tali lati oscuri da rendere poco credibile, ad occhi appena vigili, la versione inglese di una scorribanda omicida dei servizi russi. Le interpretazioni più critiche arrivavano tutt’al più ad attribuire alla volontà inglese di creare un diversivo alle difficoltà legate alla gestione della Brexit. Campa, componendo diversamente gli elementi di un puzzle conosciuto dagli ambienti politici più avveduti, ma debitamente occultato dall’attenzione di massa, ci porta più in là. Ci offre, in particolare, ulteriori importantissimi elementi della battaglia mortale che si sta conducendo intorno e dentro la Casa Bianca. E’ sconvolgente il fatto che i fautori delle dinamiche interne dello scontro non si preoccupino minimamente dei rischi che comportano il coinvolgimento delle relazioni estere in queste faide. Non è una novità. Da che mondo e mondo le periferie e gli avversari hanno dovuto subire le implicazioni delle lotte di potere interne al centro dell’Impero. La Russia, per una parte importante e prevalente dell’establishment americano, è ancora e comunque l’avversario da battere. Sia per rivalità dirette, sia per impedire possibili sue convergenze strategiche con la Cina. Trump, privo ormai dei suoi consiglieri più fidati, rischia di essere trascinato, più o meno inconsapevolmente, in giochi più grandi di lui. I governi europei, con isolate eccezioni, sono relegati ad un ruolo meschino di servile accondiscendenza ad una delle fazioni. Gli interessi dei popoli europei vengono dopo, molto dopo. Buon ascolto. Si confida in una buona diffusione_Giuseppe Germinario

DA MASSIMO MORIGI A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE_A PROPOSITO DEL REALISMO POLITICO, di Massimo Morigi

RECENSIONE CUMULATIVA A “SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA” (http://italiaeilmondo.com/?s=sovranismo+e+libert%C3%A0+politica  E http://www.webcitation.org/6yPG6YC86), “STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO” (http://italiaeilmondo.com/?s=STATO+RAPPRESENTATIVO+E+VINCOLO+DI+MANDATO E http://www.webcitation.org/6yPGTH6Wo), “NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE” (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI E http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) E “SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO” ( http://italiaeilmondo.com/?s=sentimento+ostile E http://www.webcitation.org/6yPGwg0i6 O https://www.rivoluzione-liberale.it/wp-content/uploads/2017/03/SENTIMENTO-OSTILE-ZENTRALGEBIET-E-CRITERIO-DEL-POLITICO.pdf E http://www.webcitation.org/6yPIFo21y) DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’appena passato mese di marzo sulle pagine elettroniche dell’ “Italia e il mondo” sono stati ospitati quattro interventi di Teodoro Klitsche de la Grange, sui cui relativi titoli, URL di riferimento e “congelamenti” su WebCite si è già data indicazione bibliografica nel titolo del presente commento. Esaurita questa premessa diciamo tecnica (ma che in sè contiene già una valutazione estremamente positiva di questi interventi, visto che si è ritenuto doveroso preservarli a futura memoria dal rischio della decadenza degli URL originari), veniamo ora di sviluppare una valutazione complessiva in merito agli stessi, valutazione globale non solo estremamente positiva (e questo s’è appena detto ma repetita anche se stufant iuvant) ma anche di facilissima formulazione perché in questi interventi Teodoro Klitsche de la Grange – come del resto in tutti i suoi precedenti lavori – si è dimostrato come uno dei più interessanti interpreti e rinnovatori presenti sull’italica – e, purtroppo, assai derelitta da questo punto di vista –  piazza del pensiero politico realista. Quindi, i suoi punti di riferimento sono quegli autori, Tucidide, Niccolò Machiavelli, Carl von Clausewitz, e per giungere ai contemporanei  Julien Freund, che costituiscono le fonti basilari del pensiero realista e naturalmente – e, applicandola al Nostro mai come in questo caso l’icastica formuletta inglese è stata appropriata – last but not the least Carl Schmitt. Del quale grande giuspubblicista Teodoro Klitsche de la Grange si dimostra non solo profondo conoscitore – e “sviluppatore” del suo pensiero – dal punto di vista strettamente politologico e filosofico-politico ma anche dal punto di vista della teoresi giuridica, caratteristica questa di La Grange non solo estremamente preziosa in sede di trattazione dello Schmitt (preziosa, ovviamente, qualora questa maestria nelle scienze giuridiche molto importante nell’affrontare lo Schmitt sia accompagnata da altrettanta conoscenza politologica come nel suo caso) ma anche per l’affermazione di una autentica cultura realista, il cui costante rischio, specialmente ma non solo a livello di vulgata popolare, è quello di sprofondare in una sorta di nascosto naturalismo e/o criptopositivismo, in ultima analisi, quindi, in una negazione del vero realismo, il cui nucleo generatore è mettere sempre al primo posto le teleologie dei vari attori singoli od associati che siano;  teleologie in cui il primo stadio di manifestazione e cristallizzazione consiste appunto nella dimensione giuridica. Che del resto la riflessione sulla dimensione teleologica del diritto sia centrale in La Grange, e lo sia lungo la fecondissima direttrice già a suo tempo tracciata da Schmitt, ben risalta dalla seguente citazione dalla nota n. 9 di Sovranismo e libertà politica, dove sulla scorta della schmittiana Politische Theologie viene smontata la concezione Kelseniana del diritto e del ‘politico’ puramente procedurale, concezione che a livello di teoria giuridica non è altro che l’espressione della contraddizione dell’ attuale ideologia democratica, formalmente basata sulla decisione del popolo ma che questa dimensione decisionistica della politica alla fine nullifica perché, in ultima istanza, questa decisione deve essere sempre e comunque conforme ad astratti principi universalistici e che trovano questi principi garanzia della loro realizzazione non tanto attraverso un rispetto sostanziale  della decisione ma attraverso un procedimento formale di creazione giuridica in cui alla fine poco importa se questo realizzi o meno l’autentica teleologia della decisione stessa: «riportiamo [scrive La Grange] i passi salienti delle critiche di Schmitt: “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fatto si tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto”  in Poltische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.» Comunque, se quanto appena citato ci permette di definire il La Grange come un ortodosso – ed anche assai attrezzato dal punto dell’acribia sulle fonti – esponente del pensiero realista nonché conoscitore del pensiero di Schmitt, la cui caratteristica è seguire l’autentico sviluppo, di natura tutta teleologica, del momento giuridico nella dimensione del ‘politico”, e La Grange coglie in pieno questa evoluzione che si sviluppa senza soluzione di continuità, è giunto a questo punto il momento di dare piena giustificazione alla nostra affermazione iniziale che La Grange non è solo un profondo conoscitore e cultore del pensiero realista ma ne è soprattutto un rinnovatore. Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.» Oltre alla totale demolizione del mito di una globalizzazione che si vorrebbe pacifica mentre in realtà è il suo esatto contrario perché questa vuole inesorabilmente eliminare ogni potere teleologicamente responsabile per sostituirlo con gli imperscrutabili meccanismi sociali ed economici della globalizzazione stessa (libera, o meglio anarchica, circolazione di capitali, merci ed uomini con conseguente annientamento di ogni peculiarità politica, economica e culturale degli stati nazione e delle diverse etnie), le parole appena citate rendono ampia dimostrazione di un pensiero realista veramente innovatore e che compie un’hegeliana Aufhebung del magistero schmittiano perché ha compreso «che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari». Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico questa complementarietà non è solo necessaria dal punto di vista della creazione e conduzione di una vitale e reale Res Publica ma, ancor più, costituisce un inscindibile binomio dialettico: che per comodità espositiva e di descrizione delle varie situazioni possiamo di volta in volta definire legge o forza; le quali però, nella sostanza, non sono che due espressioni e manifestazioni basilari ed originarie di quel conflitto-azione strategica da cui origina la società e tutta la dinamica storica (ed anche tutta la dinamica creatrice  del mondo fisico-naturale, ma questa non è la sede per dilungarci sull’argomento, per il quale si rimanda volentieri a quanto precedentemente già detto, in particolare nel Dialectvs Nvncivs ma anche in altri luoghi). Resta da vedere quanto Teodoro Klitsche de la Grange possa concordare dal punto di vista della teoresi a tutta questa  peculiare direzione dialettica e originata da una interpretazione in chiave di filosofia della prassi del magistero marxiano ed in particolare delle sue Glosse a  Feuerbach (e quindi quanto sia disposto ad inserire nel suo Pantheon realista autori come Antonio Gramsci e il György Lukács di Storia e coscienza di classe: intanto, dalla lettura di Sentimento ostile, Zentralgebeit e criterio del politico, l’ultimo dei quattro articoli gentilmente concessi all’attenzione dei lettori dell’  “Italia e il mondo”, abbiamo con piacere potuto notare che non esiste alcuna preclusione verso il grande disconosciuto della cultura italiana del Novecento, e cioè verso Giovanni Gentile la cui interpretazione della filosofia di Marx in chiave attualista come filosofo della prassi non solo costituisce un “rimettere coi piedi per terra” l’impostazione filosofica in chiave antipositivista del pensatore di Treviri ma costituì anche la base per il successivo sviluppo della filosofia della prassi in Antonio Gramsci, così come ci viene restituita e sviluppata nei suoi Quaderni del Carcere), ma questo costituisce non dico un problema trascurabile o da relegare solamente ad un dibattito fra specialisti (non bisogna mai peccare di falsa condiscendenza) ma certamente è un aspetto secondario nel giudicare l’importanza dell’impostazione del realismo politico fornitaci da Teodoro Klitsche de la Grange e questo perché tutto l’argomentare di questo valente studioso va veramente nella direzione della creazione e disvelamento di quell’ ‘epifania strategica’ che, a meno che il pensiero realista non si voglia chiudere in sé stesso, deve costituire il momento generatore ed obiettivo del pensare il ‘politico’. Ed è soprattutto per questa intima teleologia, unita alle sue non comuni capacità critiche,  che  dobbiamo ringraziare Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 5 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE, di Pier Luigi Fagan

Una visione realistica del carattere multipolare delle odierne dinamiche geopolitiche. Una chiave di interpretazione che mette in guardia da analogismi troppo scontati con fasi precedenti e da una visione troppo edulcorata delle dinamiche conflittuali. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Testo tratto da https://pierluigifagan.wordpress.com/

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE.

Le scienze sociali che usano come unità metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione delle teorie, si accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La “Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che: a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua volta, un riduzione della narrazione storica.

Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata,  il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”.  Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.

Il che ci porta a dover trattare daccapo il concetto di “multipolare”, prima  in astratto, poi in concreto e nel concreto distinguendo i casi in cui applicarlo al passato o allo stato presente/futuro. Il fine è quello di trarne una interpretazione contemporanea ed una luce che tenta di fendere le nebbiosità dell’immediato futuro.

In astratto, il concetto di “multipolare” dice che in un dato spazio-tempo, si presenta una configurazione d’ordine con più di due attori statali potenti (poli), legati  tra loro da molteplici relazioni di potenziale offesa-difesa o equilibrio, equilibrio che va inteso sempre in modo dinamico. Il concetto s’inscrive nelle premesse del tipico contesto realista ovvero un mondo ritenuto anarchico (non “disordinato”, ma privo di legge superiore ed entità in grado di applicarla, anche con la forza, a tutti), competizione a somma zero (se un polo assume più potenza, qualche altro la perde), gli stati si comportano in maniera razionale, le potenze tendono a massimizzare il loro potere (fino ad oggi non si son presentate potenze che s’accontentano), nessuno stato può esser certo delle intenzioni di un concorrente, la potenza -in ultima istanza- s’intende in senso militare ed infine, il fondo “tragico” cioè la constatazione che la guerra è un modo della politica ed è storicamente una costante.

La teoria realista in Relazioni Internazionali (la dottrina liberale non la pendiamo neanche in considerazione poiché a nostro giudizio infondata e con una componente eccessivamente ideologico-normativa) ha opinioni di giudizio diverse sul sistema multipolare astratto. Per Hans Morghentau (realismo della natura umana) i sistemi multipolari tendono ad auto-stabilizzarsi e sono l’ideale per raggiungere l’equilibrio di potenza. In più, la dinamica di compensazione per la quale se un polo tende ad emergere un po’ troppo o manifesta comportamenti non equilibrati tutti gli altri si alleano per compensarlo, renderebbe questo ordine complesso ma sostanzialmente stabile o forse stabile proprio perché complesso e dinamico. Questo bilanciamento è detto “equilibrio di potenza” e se manca, porta disordine in via automatica, cioè date le premesse realiste. Kenneth Waltz (realismo difensivo) contestava decisamente questa fiducia di Morghentau, sostenendo che l’unico ordine stabile e stabilizzante è il bipolare e quello multipolare è prima o poi soggetto a rottura di simmetria, quindi catastrofe. Infine, John Mearshemeir (realismo offensivo), concorda in pratica con Waltz e poi fa una classificazione con il bipolare più stabile del multipolare ma questo poi distinto in equilibrato che è migliore della peggiore configurazione possibile ovvero il multipolare con uno o più poli superiori a gli altri, il multipolare sbilanciato. L’intera classificazione andrebbe poi dinamicizzata tra ascendenti e discendenti perché se un ordine sembra multipolare in statica ma uno dei poli era l’egemone e uno degli sfidanti sta crescendo velocemente in potenza, le cose certo cambiano. Così cambiano se si dà un occhio alle future prospettive di medio periodo. L’ordine più stabile tipo “pace perpetua” è quello unipolare dove c’è un solo polo detto “egemone”, ma è del tutto teorico in quanto non si è mai presentato nella storia del mondo con tassi demografici inferiori, figuriamoci oggi o domani con 7,5 o 10 miliardi di individui e più di 200 stati con tendenza ad aumentare. L’impero-mondo è più un fantasma metafisico, cosa che la nostra mente può pensare ma che non per questo può essere davvero.

I dolori più intensi e seri per il concetto di multipolare, arrivano però quando si passa dall’analitico al sintetico, quando si va ad applicare la teoria alla realtà empirica. Tra i casi di multipolare rinvenuti più spesso nel registro storico, compaiono l’Italia rinascimentale del centro-nord e l’Europa del XIX secolo a 5 – 7 poli (Russia, Austro-Ungheria, Francia, Inghilterra, Impero ottomano e poi Prussia/Germania ed Italia) ma si sarebbe potuto anche considerare il periodo degli Stati combattenti nella Cina del V-III secolo a.C.  o la Grecia Antica da cui invece alcuni traggono il concetto bipolare della “trappola di Tucidide” per dar lustro con tono colto ai commenti sulla competizione odierna USA (potenza di acqua quindi Atene)  vs Cina (potenza di terra quindi Sparta). Il riferimento all’Antica Grecia è oltretutto doppiamente sbagliato perché per altri versi Atene e Sparta non erano sole e quindi non era un semplice ordine bipolare ma tanto quando si prende di così gran carriera la strada dell’analogia a tutti ci costi, i costi di semplificazione si pagano in imprecisione.

Cosa c’è di così scandalosamente impreciso in questo ricorso al registro storico? La mancanza delle variabili co-essenziali per ogni ricostruzione di fase storica, il contesto e la eterogeneità degli attori.

Quanto all’eterogeneità, l’ordine multipolare diventa una costruzione strutturalista nella scuola realista americana che (si tenga conto  che tutti i pensatori e le idee che animano la disciplina delle RI, sono sempre e solo americani), come dice Mearsheimer, tratta gli stati o potenze come palle da biliardo, al limite più o meno grosse a seconda della potenza. Mearsheimer e tutti i realisti hanno buone ragioni per far diventare gli stati scatole nere di cui c’importa solo l’imput e l’output, ed è il rifiuto di seguire i liberali nelle loro assurde perorazioni sul fatto che le forme di governo interne a gli stati (democrazie vs varie configurazioni di autoritarismo) farebbero la differenza. Ma se i liberali rendono un po’ assurde le considerazioni sulla struttura a grana fine che distingue gli stati tra loro (struttura che si dovrebbe invece dettagliare per: grandi o piccoli? di terra o di mare? con che tipo di demografia, economia, mentalità e tradizioni, collocazione geografica, tradizione filosofico-religiosa e scientifica? a quale punto del loro ciclo storico? etc.), nondimeno queste strutture a grana fine vanno analizzate per capire la natura degli attori prima di portarli dentro le analogie. Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti.

La mancanza decisiva è però il non considerare il contesto. Tanto per dire una sola, unica e principale, questione che differenzia l’ordine multipolare del mondo di oggi rispetto a qualsivoglia porzione del mondo di ieri, è che quelle di ieri erano appunto “porzioni”, quello di oggi è un “tutto” che non ha un fuori. Non c’è un altro mondo in cui far sfogare le contraddizioni dell’attuale mondo multipolare mentre l’Italia rinascimentale era solo un ritaglio di un frame più grande in cui c’erano la Francia, la Spagna, lo Stato Pontificio, il Sacro Romano Impero ed il Mediterraneo, mentre nell’Europa del XIX secolo c’era la corsa alle colonie ed a gli imperi fuori d’Europa. Entrambe erano situazioni occorse in ambiente omogeneo (italiano o europeo) mentre oggi abbiamo attori molto più eterogenei e distanti nello spazio (tra Cina ed USA c’è un oceano, ad esempio, nonché più di due secoli e mezzo di differente longevità). Entrambe le situazioni erano a bassa interdipendenza tra gli attori mentre oggi l’interdipendenza è alta. Entrambe le situazioni erano a bassa o media demografia mentre oggi il mondo è al sua massimo storico di densità, così l’economia che con la demografia fornisce le coordinate del potere potenziale ma non ancora effettivo, ha oggi peso e dinamiche non parametrabili a ieri. E sul potere effettivo, quello delle armi, che differenza fa un multipolare atomico che ha almeno due poli legati tra loro dalla fatidica Mutual Assured Distruction (MAD) ma con un generico “rischio atomico” anche più ampio e diffuso? O anche solo la potenza annichilente dell’armamento “convenzionale” attuale rispetto a gli esempi pregressi? O come agisce il fattore reputazionale in epoca di opinioni pubbliche che fan da spettatori, prima che attori, dei giochi politici inter-nazionali ma i cui giudizi condizionano l’azione dei governi?

Insomma, siamo come detto in terra incognita, lì dove il ricorso all’esperienza precedente non è vietata ma va usata con un molto ampio beneficio d’inventario perché nell’inventario ci sono variabili che rendono falsa l’analogia.

Dirigiamoci quindi con prudenza ad esaminare la nuova versione di sistema multipolare mondiale a cui stiamo tendendo. C’è un’unica super potenza, gli USA e due potenze asimmetriche, una militare -la Russia-, l’altra economica -la Cina-. Chi usa i meccanismi tipici delle tradizioni di pensiero di RI o GP, a questo punto prevede che i poteri potenziali della demografia e della economia cinese, questione di tempo, verranno presto trasformati in potenza militare. Ma c’è qualcosa che potrebbe ostacolare questa predizione, almeno nella sua forma lineare.

Primo, memore della lezioni data dalla guerra fredda, la Cina starà ben attenta a non farsi trascinare nell’over-spending militare a scapito del reinvestimento nello sviluppo e nella ridistribuzione. Solo un analista da think tank americano può sottovalutare il problema delle eccessive diseguaglianze in un sistema di 1,4 mld di persone, errore che nessun cinese che conosca la storia cinese, farà mai.

Secondariamente, la Cina starà ben attenta a non eccitare l’altrui “dilemma della sicurezza”, ovvero quella situazione di incertezza per la quale ogni stato sa che se eccede nella crescita delle dotazioni militari, fossero anche per difesa, non essendo escludibile in alcun modo che ciò che oggi si crea per difesa domani possa esser usato per offesa, altro non fa che sollecitare pari riarmo nei vicini. Oltretutto, la Cina ha bisogno a prescindere di pace ed armonia nel suo quadrante strategico perché la sua principale linea strategica è sviluppare  reti commerciali. Inoltre è suo fine specifico proporsi come “potenza amica” in modalità “cooperazione e reciprocità” ad esempio nei confronti dell’Africa, evitando rozze intenzioni coloniali, aggressive o eccessivamente egoiste. Preoccupazione che poi andrebbe anche allargata poiché la Cina tende ad attrarre “clienti” prima nella sfera occidentale e quindi deve dare qualcosa in più o di meglio. Le dichiarazioni pubbliche di come la Cina vede le interrelazioni estere sono oggi -più o meno-  le stesse dalla Conferenza di Bandung del 1955 e per molti versi sembrano credibili, non per superiorità etica ma per intelligenza strategica di cui i cinesi sono dotati da un paio di millenni prima di von Clausewitz.

Infine, stante che la Cina non è attaccabile via mare dagli USA (potere frenante del mare) e dal Giappone, ha stretto un sostanziale accordo di cooperazione a largo raggio con la Russia (nel passato l’unico vero nemico potenziale dal punto di vista geografico e qualche volta storico) e sembra intenzionata ad avere relazioni amicali-sospettose ma in sostanziale equilibrio con l’India, la sua dotazione di potenza effettiva può limitarsi a rinforzare la marina, la presenza nello spazio, l’elettronica ed il digitale, porre qualche avamposto discreto in giro per il mondo, senza mettersi a sfornare carri armati e missili a nastro. Si tenga poi conto che la Cina è molto grande e popolosa e credo che l’ultimo desiderio dei suoi governanti sia quello di annettere altri territori e popolazioni, ingigantendo un problema già difficile di gestione della sua propria massa. Se la terra manca, meglio comprarla come stanno facendo in Africa o favorire una discreta diaspora come in Siberia orientale.

Gli altri due attori in che traiettoria stanno? La Russia, potenza di mezzo dell’Eurasia, posizione al contempo comoda e  scomoda strategicamente, è da ormai settanta anni oggetto di pressione da parte USA per rimanere avviluppata nella escalation di potenza militare che per lei si trasforma in un “a scapito” del progresso economico. Salvata dalla dotazione di energie e molte materie prime e sovrana alimentarmente, la Russia segue questa escalation per via dell’ovvio riflesso di sicurezza. Ma anche per via dell’interesse ad approfittare degli eventuali cedimenti delle vicine ex repubbliche già interne all’URSS che ha interesse a riportare sotto la sua sfera di influenza, per via del far virtù della necessità di produrre armi poiché sono anche beni per l’export (export che poi lega a sé eventuali partner), per via dell’importanza che storicamente ha all’interno del suo sistema di potere la burocrazia militare ed infine, per via della necessità di supportare alla bisogna alleati periferici a loro volta messi sotto pressione dagli americani. Fintanto che gli europei rimangono dentro il sistema occidental-atlantico, la Russia difficilmente si svincolerà da questa traiettoria. In prospettiva, in Russia si libererà molta terra (per via del riscaldamento globale), il che, in un mondo sempre più denso ed affollato e stante che la Russia è uno dei paesi a più bassa densità abitativa del mondo (nonché in assoluto il più grande), non è una cattiva prospettiva fatti salvi gli ovvi problemi di gestione, logistica ed integrazione di eventuali migrazioni. Per la stessa ragione, la regione polare prospiciente la costa settentrionale, diventa nuovo quadrante “caldo”.

Gli USA sono in una posizione di potenza effettiva, cioè militare, molto lontana dal poter esser insidiata da alcuno. Di contro, la loro pur ragguardevole demografia, è ben superata sia dalla Cina che dall’India, ma in prospettiva, insidiata  anche dalle crescite dei più periferici ovvero l’Indonesia, il Brasile, la Nigeria. Una volta che questi paesi, come sta succedendo con Cina ed India, si metteranno a convertire demografia in crescita economica, anche questo secondo aspetto che l’ha vista a lungo leader senza competitor, diventerà relativo. Si tenga poi conto di alcune altre variabili.

Una è la “rendita di cittadinanza” ovvero il contributo del più ampio sistema di cui si è polo, del sistema occidentale complessivo nella storia pregressa, del sistema asiatico e del sistema africano oggi ed in prospettiva. Il “centro del mondo” si sta già velocemente spostando verso oriente e questo tenderà a limitare le condizioni di possibilità per gli USA, a prescindere da quanto questi saranno in grado di puntellare i loro punti di forza e minimizzare quelli di debolezza.

Un’altra variabile da tener d’occhio sono  le soglie critiche, invisibili punti nei quali i sistemi che si stanno espandendo o contraendo, subiscono una accelerazione non lineare del moto tendenziale. Gli USA possono senz’altro assorbire una riduzione del loro peso di Pil sul totale mondiale ma ci sono appunto soglie oltre le quali gli effetti di contrazione non sono lineari, si pensi, ad esempio, al ruolo mondiale del dollaro ed a gli effetti a cascata che avrebbe anche solo una sua relativa limitazione.  Su questa resilienza nella contrazione, agisce poi in forma problematica, la strana configurazione della scala sociale statunitense che ha una élite assolutamente fuori norma e quindi idiosincratica ad ogni decrescita.

Poi c’è il disordine in cui chi è abituato a competere entro quadri legali e normativi, di norme visibili o invisibili ed in ambienti che per quanto anarchici hanno comunque infrastrutture ed istituzioni multilaterali, potrebbe faticare ad orizzontarsi in un ambiente molto meno regolato e supportato. Poiché -in macro- stiamo transitando da un mondo relativamente più semplice ad uno relativamente più complesso, la complessità diventa essa stessa un problema per chi intende garantirsi un potere così sproporzionato come quello a cui sono abituati gli americani. Di contro, si può anche ipotizzare un interesse ad accompagnare ed anzi, alimentare un certo disordine globale per alzare la domanda di “protezione”. Ma in questo caso, è molto dubbio il poter riuscire a prevedere e quindi governare tutte le dinamiche disordinanti che intenzionalmente si vorrebbero promuovere.

Infine, la vera palla al piede della potenza americana ovvero l’Europa, una Europa testardamente frazionata, bizantina, anziana,  viziata, sospesa in una bolla che riflette la sua eccezionale storia specifica ma la isola da un mondo del tutto nuovo che gli europei sembrano non comprendere realisticamente del tutto. A partire dall’ovvia constatazione che in un ordine multipolare così dinamico, l’Europa non è una potenza e non è neanche un soggetto in termini di politica estera oltreché essere economicamente e demograficamente frazionata, non esser cioè un “totale più della somma delle parti”. Condizione quest’ultima a cui si ritiene di poter far fronte con il vuoto slogan degli “Stati Uniti d’Europa” che non ha la minima condizione di possibilità di veder mai luce e sopratutto funzionare. Questo far fronte al grande problema adattivo di questa parte di mondo usando slogan che non vanno da nessuna parte, rinforza la diagnosi di disadattamento degli europei ai tempi che vengono.

Il mondo multipolare che si sta affermando, ha anche molte medie potenze, potenze regionali e qualche significativa piccola potenza locale in grado di ostacolare giochi che una volta i geografi imperiali britannici progettavano al calduccio dei protetti salotti londinesi sorseggiando il loro tè rituale. Per segnare le cartine del mondo, oggi servono cose un po’ più complesse che non le matite. Più in generale, questo mondo tende alla convergenza degli indici economici (veniamo dalla grande divergenza ma andiamo verso la grande convergenza tra grandi aree), crea reti regionali più dense delle reti genericamente globali, tende al pluralismo dei grandi enti internazionali (banche, investimenti, culture, tradizioni, ambiti di cooperazione, piazze finanziarie, forum diplomatici), offre alternative a quello che prima era un monopolio, pone le economie che si emancipano da posizioni primitive in grande vantaggio dinamico rispetto alle economie mature, oltre a tutte le varie e preoccupanti articolazioni del problema ambientale, semplice da citare ma molto complesso da descrivere. Infine, le grandi cornici ideologiche che legavano élite e popoli nazionali intenti nell’opera di “civilizzazione” del colonialismo e dell’ imperialismo europei, l’afflato repubblicano dei napoleonici, il fascismo, il nazismo, il comunismo ed il liberalismo con i loro antagonisti simmetrici che animarono il ‘900, sono assai depotenziate e non si vede chi altro potrebbe prenderne il posto a parte qualche gruppo di islamisti suicidi finanziati dall’Arabia Saudita. Si può come senz’altro si sta facendo con la Russia, nazificare il nemico dirigendo le fila del concerto mediatico, ma da qui a poterci far perno per convincere le opinioni pubbliche dell’inevitabilità di una guerra diretta ce ne corre.

A quale tipo di ordine multipolare ci avviamo, quindi? E come si comporterà, almeno all’inizio, il sistema multipolare in un mondo denso ed intrecciato, un sistema che per la prima volta è multi-atomico e quindi soggetto a più vincoli di “reciproca, distruzione assicurata” (sempre che si voglia continuare a sottostimare il potenziale bellico convenzionale che per molti aspetti non gli è secondo)? Il quadro prima disegnato ha sintesi nella definizione di “multipolare sbilanciato” in cui la superpotenza americana non può certo sperare di aumentare raggio ed intensità del proprio potere, non può accontentarsi di uno status quo perché comunque trascinata in basso dalla dinamica tra le parti del sistema mondiale e deve quindi resistere il più possibile nel mantenere i propri ancora significativi vantaggi, nel mentre tenta di rallentare l’ascesa degli sfidanti. Deve farlo nel quadro problematico dello stato del mondo prima accennato e con una gran proliferare di attori medi e piccoli che seguono ognuno una propria traiettoria. Ancora con una leadership solida nel potere effettivo (militare), il problema americano risiede nel potere potenziale, nel rapporto tra il suo essere meno del 5% della popolazione mondiale con un potere economico che ancora domina il 25% dell’economia mondiale anche sulla scorta di un ancor più ampio potere finanziario.

Il vincolo della reciproca distruzione assicurata, per gli USA, vale non solo verso i russi ma anche i cinesi poiché è chiaro che questi due, al di là della loro reciproca competizione per altri versi naturale essendo vicini, avendo punti di forza complementari, hanno ben chiaro il comune interesse, loro e di molti altri, a che si stabilisca un vero quadro multipolare bilanciato. La crescita della loro attuale cooperazione è di fatto un’alleanza difensiva non detta. Cina, India, Sud Est asiatico, Pakistan, le due Coree, l’Africa e il Sud America hanno tutti interesse a non imbracciare le armi nel mentre crescono economicamente e socialmente. Anche la Russia, se potesse,  avrebbe urgenza di dedicarsi di più al suo sviluppo piuttosto che dissanguarsi nella rincorsa di potenza col gigante americano. Da questo corso, non sarebbero in teoria distanti, se fossero liberi da condizionamenti di altro tipo, neanche i giapponesi e gli europei. Gli unici che davvero hanno interesse a far pesare nel quadro la super potenza di cui sono ancora proprietari sono gli Stati Uniti d’America e qualche potenza locale in Medio Oriente.  Si potrebbe leggere l’intero quadro come un film della transizione tra un assetto sbilanciato ad uno più bilanciato e quindi segnato dalla sfida economica degli ascendenti verso il discendente americano che resisterà in tutti modi. Ma come, se in ultima istanza il conflitto diretto è sconsigliato dal vincolo atomico?

Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.

Il fattore demografico, la stazza, la massa di un attore, fattore sempre importante, oggi può diventare decisivo e non solo più per alimentare la propria potenza effettiva cioè armata, ma anche per il corrispettivo di crescita economica. Diventa anche un’arma nel caso di procurate migrazioni da paesi terzi verso coloro che si vogliono mettere in difficoltà. Queste migrazioni indotte si creano facilmente con le guerre per procura che oltretutto sono un vivace mercato per la sovrapproduzione dell’industria militare di cui è dotata ogni potenza. Ogni produzione ha un mercato e se la prima è maggiore del secondo, il secondo va sollecitato ad ampliarsi e/o intensificarsi. Questo gioco periferico che non riguarda il confronto diretto tra potenze, ha poi il vantaggio di tenere occupato il nemico dietro gli alleati che combattono i nostri amici in quel specifico teatro e quindi rinforza i legami di amicizia e dipendenza interni al polo. Il mondo è pieno di minoranze, popoli senza stati, confini precari disegnati dai francesi o dagli inglesi nel periodo coloniale, il catalogo delle occasioni di conflitto potenziale è molto ampio. I popoli sono molti di più degli stati e quindi il gioco delle nazioni in cerca di sovranità è facile da attivare.  L’ideologia islamista è un potente alleato di questa strategia per chi ha lo stomaco di usarla mentre sbraita nel simularne il contenimento. Incidenti in acqua o in aria possono sempre accendere l’attenzione su qualche quadrante di mondo e mandare messaggi che sfruttano la naturale paranoia da sicurezza di qualsiasi stato, specie se potenza emergente o alleato debole del polo nemico. Gli incidenti procurati possono essere ottime scuse per elevare sdegno morale propedeutico a più prosaiche sanzioni, dazi commerciali, blocchi navali, interdizioni dello spazio aereo. Molto conflitto non è pubblico ma si avvale delle consuete reti spionistiche e contro-spionistiche ed oggi c’è tutto un campo nuovo in cui giocare a rubarsi segreti e dati, la rete di tutte le reti. C’è poi lo spazio, nuova frontiera per novelli capitani Kirk, satelliti che scrutano, lanciano raggi accecanti o distruttori, coordinano l’ingegneria e l’elettronica dei nuovi sistemi militari soprattutto missilistici e navali. Conflitto è anche mostrare nuove armi che solleticano i generali della parte avversa che chiedono fondi ulteriori per pareggiare i conti disegnando sciagure e tragedie certe ed altrimenti inevitabili, anche perché potranno far leva politica sull’opinione pubblica in stato perenne di sovreccitata paura. Anche solo nell’accezione puramente armata del “conflitto”, evitando il confronto diretto, ci sono molte occasioni in modalità indiretta. Se la linea strategica obbligata è frenare il ribilanciamento tra potenze, cosa meglio di un attrito distribuito ovunque?

Poiché però il conflitto è “multidimensionale” ecco anche la sua versione  economica e produttiva ma anche politica e di opinione. I tentativi di monopolio energetico o di materie prime tutte essenziali, anche e soprattutto quelle per lo sviluppo del digitale che ha il fronte commerciale ma anche quello militare ed aerospaziale. Seppellita la globalizzazione semplice 1.0, si va ad una rete di contrattazioni, aperture-chiusure, formazione di blocchi in un sistema dotato di vari sottosistemi, quindi più complesso. Poi c’è il conflitto finanziario, società di rating, grandi fondi in grado di scuotere il mercato a bacchetta, l’altalena dei cambi valutari, i ricatti su i debiti sovrani.

Poi c’è l’egemonia culturale, mostrarsi i migliori, i più attraenti, i più benevoli quindi far di tutto per mostrare che il nemico è tra i peggiori, fa moralmente ribrezzo, è repellente e malevolo, infingardo, non ha legittimità. Ci sono i boicottaggi, il rinserrare le fila delle proprie istituzioni multilateriali,  i propri fondi monetari, le banche per lo sviluppo, i progetti di cooperazione da cui ostracizzare il nemico ed i suoi amici. Poi c’è da far uscire scandali a ripetizione, fondi neri, paradisi fiscali improvvisamente sotto i riflettori per una settimana, uso di armi proibite, leader nemici dai dubbi gusti sessuali, storie di droghe, perversioni, bugie dette, inaffidabilità degli altrui standard, sgarbi diplomatici, fake newsper avvelenare la credibilità generale di tutti indistintamente in modo da paralizzare il discorso pubblico. C’è il controllo digitale e il ricatto (quello pubblico ma molti altri di cui neanche abbiamo notizia), il divide et impera, il bait and bleed (falli scannare tra loro), il dissanguamento economico del nemico stressato in decine di micro-conflitti, il più composto bilanciamento di potenza e lo scaricabarile in cui si lascia la nemico l’ònere e l’onore di districare matasse che si sono ben aggrovigliate con le proprie mani e che si disordinano mentre l’altro tenta di metterle in ordine. Poi c’è l’arte di mettere zizzania dentro gli equilibri del nemico, militari contro politici, imprenditori contro militari, società civile contro élite, varie élite contro altre élite, eccitare i nazionalismi dormienti e poi far chiasso per ogni ingiusta repressione delle minoranze, far confliggere le diverse osservanze religiose. Sovreccitare i vicini del nemico, mettere in dubbio i legami di alleanza dentro un polo, isolarlo, stringergli le condizioni di possibilità, acuirne le contraddizioni.

Infine, per palati forti,  c’è l’angolo si dice ma non ci si crede del Dark Word, innesti uomo-macchina, psicobiologia, manipolazione del clima, agenti tossici selettivi, avvelenamenti alimentari ed epidemie progettate in laboratorio, piani segreti, oscure congreghe, centri di interesse invaginati in centri di interesse, bio-chimica aggressiva e molto molto altro che noi, pur mediamente informati, neanche immaginiamo. Prima di dubitare a priori all’entrata di questo Dark World come se il mondo fosse proprio quello proiettato sullo schermo del cinematografo che scambiamo per realtà,  collegatevi a quella vostra porzione di cervello che è inorridita a leggere il sadismo medioevale o la scientifica atrocità dei nazisti o dei khmer cambogiani, i vari stermini dei nativi, storie di schiavi, stupri, impalamenti, sqartamenti, profanazioni, eccidi, massacri, olocausti e tutta la scienza e tecnica che si è spremuta per giungere a quel risultato. L’uomo è sublime e malvagio da sempre, non c’è motivo di escludere a priori l’esistenza di una costante preparazione al conflitto anche nei dungeon del mondo degli inferi. Oltretutto, questa ricerca silenziosa del primato che darebbe qualche vantaggio non calcolato dal nemico, dà poi una cascata di benefici secondi di invenzioni sfruttabili civilmente.

lnsomma il conflitto è da intendere in forma multidimensionale e diventa permanente poiché non si apre-chiude con una guerra tradizionale, diventa la cifra stessa di un sistema multipolare che alcuni vorranno riportare a bipolare o quantomeno mantenere sbilanciato mentre altri vorranno portarlo a bilanciato per poi farsi venire l’appetito di esser loro la nuova super-potenza che lo sbilancia dandosi un vantaggio di potenza. Il vincolo atomico non porta la pace perpetua ma il conflitto permanente e diffuso a medio-alta intensità. Questa è la condizione di un pianeta a prossimi 10 miliardi di abitanti in lotta, chi per la sopravvivenza e chi per il primato gerarchico, chi per l’essere e chi per l’avere.

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Questo è il mondo multipolare a cui dovremmo adattarci, in cui ci piaccia o meno, tutte le nostre preoccupazioni ed interessi, personali e collettivi, politici ed economici, ideali e pragmatici, i nostri sogni e le paure, le speranze e le delusioni, saranno tutte per vie che molti non vedono con chiarezza e molti non vedono per niente, determinate da questo che è il gioco di tutti i giochi. Noi tutti, dentro i nostri stati, siamo le pedine. Siamo più in modalità, lunga e continua sofferenza e crescente disordine dall’esito imperscrutabile, che morte rapida e violenta da “terza guerra mondiale”. Questo è il conflitto permanente che segnerà il gioco di tutti i giochi di questa prima fase del nuovo mondo multipolare e con questo dovremmo fare realisticamente i conti scegliendo il nostro modo di stare al mondo prima che sia il mondo strattonato dai giochi di potenza, a deciderlo per noi.

Bibliografia minima:

H. Morghentau, Politica tra le nazioni, Il Mulino 1997 (introvabile)

K. Waltz, Teoria della politica internazionale, il Mulino 1987

J. Mearsheimer, La logica di potenza, UBE 2003-8

B. Milanovic, Ingiustizia globale, Luiss 2017

G. Arrighi, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori 2006

C. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, il Saggiatore 2013

H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori 2015

LA STRADA SMARRITA DELLE èlites globaliste, di Giuseppe Germinario

Ormai si può affermare con ragionevole certezza che la modalità multipolare attraverso la quale si stanno delineando le relazioni tra i vari stati e i vari centri strategici all’opera si stia affermando definitivamente. Siamo ancora ad un confronto nel corso del quale i punti di attrito tra le forze principali emergono in maniera più o meno casuale, legati come sono al manifestarsi di ambizioni variamente vellicate di potenze locali e regionali.

La strada per arrivare alla definizione di più aree di influenza stabilizzate attorno alle potenze emerse è ancora lunga e non è detto che alla fine ci si arrivi. La questione è tutt’altro che definita sia all’interno degli USA che tra i vari centri in competizione.

Un sistema policentrico è quindi ancora lungi da affermarsi; una incertezza ed una laboriosità che lascerà spazi sempre più ampi ad una conflittualità endemica e asimmetrica ancora per diverso tempo.

Non sono i pur numerosi focolai di tensione a rendere palpabile questo cambiamento, quanto piuttosto l’atteggiamento psicologico, impensabile sino a pochi anni fa, di quelle élites globaliste solo un attimo fa sicure di essere prossime alla meta di un Nuovo Ordine Mondiale.

L’articolo del CFR (Conseil on Foreign Relations), l’ultimo di una serie apparsa sul sito e sulla rivista di emanazione “Foreign Affairs”, pubblicato nel post precedente di Italia e il mondo, da questo punto di vista è illuminante. http://italiaeilmondo.com/2018/04/02/lordine-mondiale-liberale_r-i-p-a-cura-di-gianfranco-campa/

LA RECRIMINAZIONE

L’impulso che informa il testo è la recriminazione, un sentimento assolutamente incompatibile con la dichiarata volontà di dominio e di potenza di una élite e di una classe dirigente.

Di primo acchito colpiscono la rozzezza e la strumentalità degli esempi addotti a sostenere le proprie tesi, in gran parte smentiti fragorosamente dalle stesse fonti ufficiali di riferimento dell’organizzazione.

Il florilegio inizia con la constatazione della mancata reazione all’utilizzo dei gas nella guerra civile in Siria ad opera delle forze leali ad Assad, episodio formalmente smentito dai rapporti dell’ONU; prosegue con la denuncia della violazione da parte russa del principio di intangibilità dei confini, riferito all’intervento in Georgia e soprattutto in Ucraina, glissando elegantemente sul precedente del Kossovo, apertamente sostenuto da Stati Uniti e NATO. Glissa con disinvoltura sull’impegno disatteso a non estendere l’ombrello atlantico sino a qualche decina di chilometri da Pietroburgo e centinaio da Mosca nonché sulla discriminazione sempre più scoperta delle popolazioni russe rimaste intrappolate all’esterno dei nuovi confini post-guerra fredda; insiste a coprire la sistematica opera di destabilizzazione delle primavere arabe e delle rivoluzioni colorate, anche esse ormai ampiamente documentate, con la difesa e l’imposizione discrezionale del rispetto dei diritti umani; si ostina penosamente a condannare l’azione di infiltrazione russa negli States, ancora tutta da dimostrare, sorvolando sulle analoghe attenzioni, queste sì documentate, riservate in egual misura ad amici e nemici del costruendo Nuovo Ordine Mondiale.

Un campionario di affermazioni che fa giustizia delle pretese di serietà e di autorevolezza odierne di tale associazione.

Il CFR americano, al pari del suo omologo simbiotico gemello britannico RIIA (Royal Institute of International Affairs) ormai declinante, è un gruppo di influenza sorto nel primo dopoguerra con lo scopo di assumere un ruolo chiave nella determinazione della politica estera e nella selezione della classe dirigente. Un compito assolto egregiamente soprattutto nel secondo dopoguerra e che sembrava aver raggiunto l’apoteosi e la consacrazione definitiva con l’implosione del blocco sovietico. Non che all’azione e alle analisi fossero estranee forzature, macchinazioni e trame prosaiche; tutt’altro.

Erano tuttavia rese credibili ed accettabili dalla incontrastata, almeno all’interno dell’area di influenza, forza militare di supporto, dalla forza persuasiva del softpower e del modello di vita proposto, dal successo complessivo delle strategie e dall’esistenza di un valente avversario sufficientemente definito e perimetrato da inibire le altrui conflittualità interne più perniciose.

L’estensore dell’articolo in effetti riconosce la funzione della formazione dominante, in particolare della sua forza militare, nell’assicurare “un mondo globalizzato di pace”, salvo poi confessarne inconsapevolmente l’attuale impotenza.

L’implosione del blocco sovietico, dietro la parvenza di acquisizione del dominio assoluto ha sconvolto in realtà rapidamente gli equilibri interni di questo assetto, in particolare nella casa madre e ha rivelato l’impossibilità e incapacità di gestire o quantomeno orientare l’insieme delle dinamiche politiche del pianeta.

L’ILLUSIONE

In quegli anni, a partire da metà anni ’80, ripresero piede particolari teorie, tuttora largamente influenti le quali vedevano il mondo governato da una infinitesima minoranza, espressione per lo più di élites finanziarie (il famoso 1%), raccolte in associazioni potentissime (appunto Bilderberg, CFR e poche altre) alle quali contrapporre nelle interpretazioni più semplicistiche l’azione del 99% delle masse restanti, in quelle un po’ più articolate anche quella degli stati nazionali, anch’essi minacciati dai malintesi processi di globalizzazione.

A differenza dei tribuni e dei demagoghi che si sono avvicendati ad alimentare e gestire le orde magmatiche ed erranti di protestatari, gli appartenenti a questi gruppi, per lo meno gli elementi più influenti, hanno tenuto sempre presente la funzione politica indispensabile degli strumenti coercitivi, l’attualità e comunque il mantenimento delle proprie radici originarie nella formazione egemone.

Nell’illusione di poter gestire la complessità delle relazioni nell’agone mondiale sono però in buona parte e in qualche maniera caduti, a loro modo, nella trappola di quelle teorie, forse ingannati dalla parvenza di onnipotenza e dalla estrema mobilità di alcune loro funzioni, in particolare finanziarie. Hanno, in particolare, ribaltato i pesi e gli equilibri tra le varie funzioni e strutture di potere.

Dando per scontato il successo del multilateralismo, il funzionamento reticolare quindi delle relazioni politico-economiche sotto la supervisione di una potenza egemone, hanno sottovalutato l’importanza della forza militare, specie di terra e sopravvalutato la capacità di governo e di coesione delle varie forze sparse nei paesi, interessate alla mondializzazione dei flussi.

Se in Europa tali forze hanno mantenuto ancora il predominio, in Russia sono state messe sotto stretto controllo politico. La Cina ha saputo addirittura fare di meglio e ha sfruttato l’altrui apertura dei mercati e l’ingresso controllato nel proprio territorio di imprese straniere per acquisire tecnologie, capacità imprenditoriali e risorse necessarie ad edificare una formazione ed uno stato sempre più potenti ed autorevoli.

Il softpower, la capacità di persuasione e di controllo degli strumenti di informazione, la capacità di costrizione, orientamento e controllo degli stessi strumenti economici e soprattutto finanziari sembravano assumere, secondo gli influenti teorici americani di quel momento, una importanza assoluta e una capacità di autoregolazione sufficiente rispetto al resto dell’armamentario imperiale. In sovrappiù hanno sottovalutato l’entità dei processi di destabilizzazione interna delle proprie formazioni sociali, innescati dalla digitalizzazione e robotizzazione dei processi industriali e resi ingestibili dal trasferimento massiccio di interi comparti produttivi e di servizi all’estero. Un processo in gran parte compensato dai flussi finanziari i quali hanno consentito i massicci investimenti in tecnologie e le crescenti spese militari ed assistenziali, compromettendo seriamente l’equilibrio socioeconomico e il patrimonio di infrastrutture costruito in decenni.

La crisi dei ceti medi è tutta segnata in questi squilibri e in questi processi e con essa la solidità della formazione sociale americana e l’estensione del potere interno delle sue élites. Una precarietà accentuata dalla fragilità strategica di un paese che ha perso il pieno controllo delle filiere industriali con l’importante eccezione del settore energetico.

LA CECITA’ E LA VENDETTA

Al riguardo la cecità dell’estensore dell’articolo, probabilmente espressione della cecità e dello smarrimento, forse dell’arroccamento disperato, delle stesse élites a capo del CFR, è impressionante. Finisce così per attribuire la responsabilità del processo caotico in corso alla volontà di reazione delle élites dominanti dei paesi emergenti, in particolare la Cina e la Russia senza voler vedere la famelica volontà predatoria dei centri strategici americani protagonisti della destabilizzazione in Russia e in interi continenti, compresi il loro “cortile di casa”. Una famelicità che ha costretto alcune élites e centri locali ad una vera e propria reazione di sopravvivenza, accentuando vorticosamente un naturale processo competitivo all’esterno e riducendo se stesse ad una cittadella assediata all’interno.

Qualche incertezza deve aver incrinato la sicumera di alcune di esse. Tant’è che Obama ha dovuto rinunciare, volente o nolente, ad un intervento massiccio diretto in Siria; con discrezione ha avviato la costruzione di quel muro ai confini del Messico che Trump ha solo deciso di completare e rafforzare; nel silenzio ha organizzato più rientri di immigrati clandestini del chiassoso Trump; ha promosso la stesura di trattati commerciali collettivi, sostitutivi di impraticabili accordi generalisti, ma con l’esclusione certosina della Cina e della Russia, a dispetto della sua conclamata vocazione universalistica.

Non solo. La sconfitta della Clinton, a dispetto del totale controllo mediatico e della sfacciata partigianeria delle testate, deve in parte aver risvegliato dal delirio di onnipotenza. Tant’è che il politicamente corretto è disposto a sacrificare i propri figli prediletti, Weinstein, gran mecenate di Hollywood e del Partito Democratico e Zuckerberg, gestore di Facebook, per conto dei servizi e del Washington Post, pur di chiudere i possibili canali abilmente sfruttati dallo staff di Trump. Del resto Soros lo aveva apertamente preannunciato. La soddisfazione di Trump nel vedere in difficoltà tre dei suoi più acerrimi nemici rischia di essere magra e di breve durata.

Le crociate, si sa, accecano, però e soprattutto, gli adepti alla causa e i loro profeti.

Non solo! Hanno bisogno di additare al ludibrio il reo infedele. Individuano così in Trump il nemico interno responsabile in ultima istanza di aver interrotto il processo di globalizzazione a guida unipolare americana. Lo accusano di collusione col nemico principale, la Russia e di compromettere i rapporti con la Cina, partner trattabile a loro detta.

Quello che doveva essere un confronto aspro tra centri guidati da punti di vista diversi si è trasformata in una caccia all’uomo e ai “traditori” di inaudita violenza; il rischio di spaccare una seconda volta il paese in maniera distruttiva e senza essere in grado di offrire ad esso una qualsiasi prospettiva agibile in un contesto ormai multipolare è concreto. Un contesto nel quale i colpi di mano e l’avventurismo possono trovare ampi spazi e far correre pericoli estremi, ben maggiori di quelli attuali.

Un conflitto, per altro, che impedisce l’individuazione dell’avversario principale e l’adozione di una strategia coerente, ma che sta costringendo paradossalmente al sodalizio i due principali competitori, Cina e Russia.

Piuttosto che un realistico dibattito sulle reali possibilità di tentare il rapido ripristino di una condizione unipolare o sulla necessità di accettare la pari dignità di altri concorrenti, ci si affida alle crociate. Segno che la posta in palio, in territorio americano, non è solo una redistribuzione di poteri e benefit tra le varie élites e centri strategici, ma la stessa sopravvivenza di alcuni di essi.

Piuttosto che discutere della valenza geopolitica dell’uso delle leve economiche, in particolare i dazi, nel ricollocare le alleanze, nel ripristinare il controllo sui flussi di tecnologie, nel riequilibrare l’economia e la coesione sociale interna, si trascina ancora una volta il paese nella solita crociata sul libero mercato propedeutico alla pace, a dispetto delle guerre e dei sommovimenti degli ultimi trent’anni di globalizzazione.

IL SODALIZIO

L’eventuale significativa incrinatura del sodalizio sancito in queste associazioni tra centri legati allo hard-power e quelli finanziari e mediatici saranno la cartina di tornasole e il punto di svolta in grado di innescare un rovesciamento degli equilibri. Qualche segnale è visibile, ma certamente insufficiente. È la prova, comunque, che le élites dominanti e i centri strategici decisionali non possono ridursi a risicate élites cosmopolite. Queste ultime, sebbene a malincuore, devono appoggiarsi comunque alle altre, ben radicate nei confini dei propri territori.

Una totale restaurazione in un contesto multipolare pressoché innescato potrà altrimenti dare spazio a processi ancora più incontrollabili e tragici.

Di questo l’estensore non pare minimamente preoccupato, salvo recriminare e addossare ad altri le proprie responsabilità.

Siamo noi a doverci preoccupare e ad agire di conseguenza al loro posto.

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE_R.I.P., a cura di Gianfranco Campa

Pubblichiamo qui sotto, tradotto in italiano, un articolo apparso sul sito del CFR (Council on Foreign Relations) il 21 marzo scorso. Il testo, accompagnato da alcune note di Gianfranco Campa, è particolarmente importante più che per i contenuti, per la banalità e la rozzezza degli argomenti, soprattutto per l’atteggiamento psicologico, rivelatore di uno stato d’animo. Seguirà un articolo più ampio sull’argomento. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

 

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE-R.I.P.

Dopo una parabola di quasi mille anni, il filosofo e scrittore francese Voltaire scherzando afferma che il Sacro Romano Impero in declino non era né santo, né romano, né un impero. Oggi, a distanza di due secoli e mezzo, il problema, parafrasando Voltaire, è che l’ordine mondiale liberale, non è né liberale, né mondiale, né ordinato.

Gli Stati Uniti, lavorando a stretto contatto con il Regno Unito e altri paesi, istituirono l’ordine mondiale liberale sulla scia della seconda guerra mondiale. L’obiettivo era quello di garantire che le condizioni che avevano portato a due guerre mondiali in 30 anni non si sarebbero mai più verificate.

A tal fine i paesi democratici si sono impegnati a creare un sistema internazionale che fosse liberale, nel senso che doveva essere basato sullo stato di diritto e sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei paesi. I diritti umani dovevano essere tutelati. Tutto questo avrebbe dovuto essere applicato su scala planetaria e contestualmente la partecipazione sarebbe fondata su base volontaria e aperta a tutti. Molte istituzioni furono costruite per promuovere la pace (le Nazioni Unite), lo sviluppo economico (la Banca mondiale) e il commercio e gli investimenti (il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio).

Tutto questo era sostenuto dalla potenza economica e militare degli Stati Uniti, da una rete di alleanze tra Europa e Asia e dalle armi nucleari necessarie a scoraggiare l’aggressione. L’ordine mondiale liberale si basava quindi non solo su ideali democratici, ma anche sulla minaccia dell’uso di forza bruta. Tutto ciò sopravvisse ad una Unione Sovietica decisamente illiberale, dalla nozione fondamentalmente diversa da ciò che costituiva l’ordine in Europa e nel mondo.

L’ordine mondiale liberale sembrava essere più robusto che mai con la fine della Guerra Fredda e il crollo dell’Unione Sovietica. Ma oggi, un quarto di secolo dopo, il suo futuro è in dubbio. Le sue tre componenti – il liberalismo, l’universalità e la preservazione dell’ordine stesso – vengono messe a dura prova come non era mai successo prima nel corso dei suoi 70 anni di storia.

Il liberalismo è in ritirata. Le democrazie sentono gli effetti del crescente populismo. I partiti dalle estreme ideologie hanno guadagnato terreno in Europa. Il voto nel Regno Unito a favore dell’uscita dall’UE ha attestato la perdita di influenza da parte dell’élite dominante. Persino gli Stati Uniti stanno subendo attacchi senza precedenti ad opera del proprio stesso Presidente, impegnato a colpire direttamente le istituzioni dei mass-media, della giustizia, delle forze dell’ordine e di intelligence; i capisaldi del paese. I governi autoritari, tra i quali Cina, Russia e Turchia, sono diventati ancora più chiusi su se stessi. Paesi come l’Ungheria e la Polonia sembrano non interessarsi al destino delle loro giovani democrazie.

È sempre più difficile parlare del mondo come se fosse un tutt’uno . Stiamo assistendo all’emergere di ordini regionali,  ognuno con le proprie caratteristiche. I tentativi di costruire una intelaiatura globale sta fallendo. Il protezionismo è in aumento; l’ultimo turno di negoziati sul commercio globale non è stato completato. Ci sono ancora poche regole che governano l’uso del cyberspace.

Allo stesso tempo, sta tornando la tensione e la rivalità fra varie potenze. La Russia ha violato la norma più basilare delle relazioni internazionali quando ha usato la forza armata per cambiare i confini in Europa e ha violato la sovranità degli Stati Uniti attraverso i suoi sforzi per influenzare le elezioni del 2016. La Corea del Nord ha ignorato il forte consenso internazionale contrario alla proliferazione delle armi nucleari. Il mondo è rimasto a guardare mentre gli abusi umanitari erano incorso in Siria e nello Yemen, senza nessuna iniziativa né dell’ONU, né di altre entità in risposta all’utilizzo di armi chimiche da parte del governo siriano. Il Venezuela è uno paese ormai fallito. Oggi una persona su cento al mondo è rifugiata o sfollata.

Ci sono diversi motivi per cui tutto questo sta accadendo e perché proprio ora. L’ascesa del populismo è in parte una risposta ai redditi stagnanti e alla perdita di posti di lavoro, dovuta principalmente alle nuove tecnologie, ma ampiamente attribuita alle importazioni e agli immigrati. Il nazionalismo è uno strumento sempre più utilizzato dai leader per rafforzare la propria autorità, specialmente in condizioni economiche e politiche difficili. Le istituzioni globali non sono riuscite ad adeguarsi ai nuovi equilibri di potere e alle tecnologie.

Ma l’indebolimento dell’ordine mondiale liberale è dovuto, più di ogni altra cosa, al mutato atteggiamento degli Stati Uniti. Sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno deciso di non aderire al partenariato transpacifico e di ritirarsi dall’accordo sul clima di Parigi. Trump ha anche minacciato di abbandonare l’accordo di libero scambio nordamericano e l’accordo sul nucleare iraniano. Ha introdotto unilateralmente tariffe sull’ acciaio e l’alluminio, basandosi su una giustificazione (sicurezza nazionale) che anche altri paesi potrebbero usare; un processo che potrebbe innescare una guerra commerciale. Ha posto dubbi sul suo impegno nei confronti della NATO e di altre forme di alleanza. E parla raramente di democrazia o diritti umani. L’America Prima sembrano incompatibili con l’ordine mondiale liberale.

Il mio punto non è quello di concentrare sugli Stati Uniti tutte le critiche. Altre importanti potenze, tra cui l’UE, la Russia, la Cina, l’India e il Giappone, potrebbero essere criticate per quello che stanno facendo o non facendo. Ma gli Stati Uniti non sono come altri paesi. Gli Stati Uniti erano non solo il principale artefice dell’ordine mondiale liberale ma anche il suo principale sostenitore e beneficiario. La decisione dell’America di abbandonare il ruolo che ha svolto per più di sette decenni segna così un punto di svolta. L’ordine mondiale liberale non può sopravvivere da solo, perché gli altri non hanno né l’interesse né i mezzi per sostenerlo. Il risultato sarà un mondo meno libero, meno prospero e meno pacifico, sia per gli americani che per gli altri.

https://www.cfr.org/article/liberal-world-order-rip?utm_medium=social_share&utm_source=fb

 

IL COMMENTO DI GIANFRANCO CAMPA

Questo senso di scoramento da parte delle élites è iniziato e precipitato dopo le elezioni di Trump. Il pessimismo li rende diabolicamente esposti e totalmente spogliati delle loro certezze. E’ ormai da tempo che circolano analisi sul tramonto dello stato globale; questa non è una notizia nuova. Quello che piuttosto colpisce non è solo la pubblicazione dell’articolo da parte del CFR (Council on Foreign Relations), uno dei maggiori e più importanti think tanks che supportano il cosiddetto globalismo e il nuovo ordine mondiale. Non è nemmeno l’unico articolo che il CFR ha dedicato al tramonto del nuovo ordine mondiale. Colpisce soprattutto la banalità dell’articolo, la leggerezza della analisi, piena di frasi fatte quasi a denotare il senso di disperazione e impotenza di questi potenti individui. Segno che la situazione sta realmente sfuggendo loro di mano. Tra l’altro l’articolo parla di un ordine mondiale in cui le sovranità nazionali sono rispettate. L’autore a questo punto può solo essere tacciato di disonestà oppure di ignoranza. Chi di spada ferisce di spada perisce.

Quando parla di sovranità non menziona che, soprattutto in Europa, la perdita di sovranità nazionale, giuridica, legale, militare, monetaria in paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna, ha influenzato negativamente l’opinione pubblica sulla necessità di un mondo globale. Le politiche di austerità hanno fatto il resto. L’autore denuncia il fatto che una persona su cento oggi come oggi sono rifugiati o sfollati ma si dimentica di analizzare l’impatto negativo che l’immigrazione di massa incontrollabile ha avuto sull’opinione pubblica. Parla di un mondo di pace globale che ha scongiurato una nuova guerra mondiale, ma si dimentica di ricordare i danni e il caos che guerre e bombardamenti negli ultimi anni hanno creato, destabilizzando intere aree geografiche; tutto nel nome di questo nuovo ordine mondiale. Come dimenticare il bombardamento della Serbia, la Guerra in Afghanistan, in Iraq (due volte), in Libia, in Siria, ect. Il peggior nemico di questi signori globalisti elitisti sono loro stessi, non Trump. Trump è il sintomo di una malattia più grande e profonda che loro hanno contribuito a creare.  La vera novità è che ormai queste organizzazioni globaliste non solo hanno paura e quindi denunciano apertamente l’erosione evidente nel loro piano di ordine mondiale, ma sono ormai entrati nella fase successiva; la disperazione di chi sa di aver perso per sempre il controllo della situazione. Questo spiega ora anche l’approssimazione delle loro analisi.

Per chi non lo sapesse il CFR è stato storicamente uno dei maggiori architetti di questo nuovo ordine mondiale.

Qualche nota, giusto per fare un veloce riassunto di cosa sia il Council On Foreign Relations. Uno dei fondatori del CFR è stato David Rockefeller. L’obiettivo del CFR era la formazione di un governo mondiale incrementalmente più forte. L’Ammiraglio Chester Ward, ex Giudice Avvocato della Marina degli Stati Uniti, è stato membro del CFR per 16 anni prima di dimettersi disgustato. Ha dichiarato: “Lo scopo principale del Council on Foreign Relations è promuovere il disarmo della sovranità degli Stati Uniti e l’indipendenza nazionale, la sommersione in un governo monopolistico onnipotente“.

Dopo la seconda guerra mondiale, nacquero le Nazioni Unite, il successore della Lega delle Nazioni. Contrariamente a ciò che viene comunemente detto al pubblico, l’ONU non è stata fondata da nazioni esauste della guerra. L’ONU è stata concepita da un gruppo di membri del CFR nel Dipartimento di Stato che si autodefinirono il Gruppo di Agenda informale. Hanno redatto la proposta originale per le Nazioni Unite e ottenuto l’approvazione del presidente Roosevelt il quale ha poi fatto stabilire all’ONU la sua più alta priorità politica postbellica. Quando l’ONU tenne la sua riunione di fondazione a San Francisco nel 1945, 47 delegati americani erano membri del CFR. Sebbene inizialmente l’ONU non fosse stata istituita come un governo mondiale, l’intento era che si sarebbe trasformata nel tempo in governo mondiale. John Foster Dulles (CFR), un delegato americano alla riunione di fondazione delle Nazioni Unite che in seguito divenne Segretario di Stato sotto Eisenhower, lo ha riconosciuto nel suo libro Guerra o Pace: “Le Nazioni Unite non rappresentano una fase finale nello sviluppo dell’ordine mondiale, ma solo uno stadio primitivo. Pertanto il suo compito principale è creare le condizioni che renderanno possibile un’organizzazione più altamente sviluppata.

Altre due istituzioni postbelliche, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, sono state create tecnicamente alla Conferenza di Bretton Woods del 1944. Ma la pianificazione iniziale è stata fatta dal gruppo economico e finanziario del CFR, parte del loro programma bellico di guerra e di studi sulla guerra. La Banca Mondiale e il FMI agiscono come un sistema di garanzia dei prestiti per le banche multinazionali. Quando un prestito in un paese straniero va male, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale entrano in azione con il denaro dei contribuenti, garantendo che le banche private continuino a ricevere i pagamenti di interessi. Inoltre, la Banca Mondiale e il FMI dettano le condizioni ai paesi che ricevono salvataggi, dando così ai banchieri una misura di controllo politico sulle nazioni indebitate.

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI. (a cura di) Luigi Longo

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI.

(a cura di) Luigi Longo

 

E’ opportuno amplificare la pubblicazione del breve articolo di Ulson Gunnar (L’ingerenza politica USA: una tradizione consolidata, apparso sul blog www.controinformazione.info il 31 marzo 2018) perché evidenzia con chiarezza il fatto che parlare di ingerenza delle potenze mondiali è un non sense in quanto le relazioni ( chiamate superficialmente ingerenze) tra nazioni e tra nazioni e potenze mondiali, che è bene ricordarlo sono relazioni di potere e di dominio, sono parti fondanti del conflitto per l’egemonia mondiale; tutti gli strumenti del conflitto, come per esempio le comunicazioni a partire dal 1844 ( anno in cui fu inaugurata la prima linea telegrafica al mondo che univa, per dirla con il geografo Peter J. Hugill, la semplicità d’uso alla libertà di accesso per il pubblico), sono utili per la conquista del dominio mondiale.

Gli USA, bisogna riconoscerlo, sono maestri nelle relazioni di potere e di dominio e non a caso sono la potenza mondiale egemone, sia pure in fase di pericoloso declino.

 

 

L’INGERENZA POLITICA USA :UNA TRADIZIONE CONSOLIDATA

Impero usa finanza e armi

Usa l’ingerenza politica è molto reale e globale

di Ulson Gunnar (*)

Gli Stati Uniti hanno dedicato più di un anno alle accuse contro la Federazione Russa in merito a presunte interferenze politiche durante le elezioni americane del 2016 .

Mentre le accuse spaziano da tutto, comprese le “notizie false” diffuse su Internet per dirigere i legami con l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe utilizzato per assumere il potere, nessuna prova deve ancora emergere per dimostrare che la Russia si è intromessa negli affari politici interni dell’America .

E mentre la Russia certamente possiede una presenza ampia e crescente attraverso i media internazionali, gli attacchi concertati contro questa presenza derivano maggiormente dal fatto che i decenni di controllo incontrastato sull’opinione pubblica globale da parte dei media degli Stati Uniti e dell’Europa si stanno ora spostando verso un equilibrio multipolare del potere spazio dell’informazione .

In netto contrasto con i sussurri e le ombre citati dagli Stati Uniti e dall’Europa in merito alla Russia, per iniziare a comprendere la portata delle interferenze politiche statunitensi all’estero, basta visitare il Dipartimento di Stato americano e il sito Web National Endowment for Democracy’s (NED) finanziato dalle grandi società private.

 

Ingerenza su scala industriale

 

L’intromissione degli Stati Uniti è così ampia che NED è suddiviso in più filiali (National Democratic Institute (NDI), International Republican Institute (IRI) e Freedom House) che a loro volta sono affiancate da organizzazioni parallele come l’Open Society Foundation di George Soros, USAID, il DFID del Regno Unito e molti altri.

Il sito Web NED è suddiviso in diverse regioni, tra cui:

Africa;
Asia;
Europa centrale e orientale;
Eurasia;
Globale;
America Latina e Caraibi e;
Medio Oriente e Africa settentrionale.

All’interno di ogni regione, NED elenca i suoi ampi finanziamenti per organizzazioni e fronti in oltre 100 diverse nazioni in tutto il mondo.

All’interno di ogni nazione, ci sono fondi NED destinati a un gruppo costituito da decine di organizzazioni che si presentano come società legali, piattaforme mediatiche, fondazioni, gruppi ambientalisti e ONG per la difesa dei diritti umani. Tutte queste creano collettivamente le componenti di una macchina politica usata per far pressione sui governi in carica, per prestare attenzione agli interessi degli Stati Uniti, o per il cambio di regime se questi falliscono.

 

NED ONG made in USA

 

Poiché il NED e i destinatari dei suoi finanziamenti sono sempre più esposti come una forma di sovversione politica, la NED ha deciso di elencare i suoi finanziamenti in alcune nazioni in termini molto generali, senza mai rivelare le organizzazioni o gli individui che ricevono denaro dagli Stati Uniti.

Molte organizzazioni in nazioni bersaglio rifiutano di rivelare i loro finanziamenti al pubblico. Molti hanno persino il coraggio di sollecitare donazioni pubbliche nonostante abbiano ricevuto (e nascosto) ampi finanziamenti dal governo degli Stati Uniti.

 

Medio Oriente

 

È un dato di fatto, ammesso da importanti piattaforme mediatiche statunitensi come il New York Times , che l’intera primavera araba del 2011 sia stata il risultato di vasti preparativi diretti dal NED, dai suoi partner e dalle sue filiali.

Dopo aver contribuito a creare i conflitti che attualmente consumano il Medio Oriente, la NED finanzia ora una serie di attività in nazioni come la Siria per contribuire a prolungare i conflitti. Questo viene fatto aiutando e favorendo i miliziani jihadisti che combattono il governo di Damasco con il pretesto di fornire aiuti umanitari. Include anche l’assistenza nell’amministrazione del territorio sequestrato dai miliziani dal controllo di Damasco.

La nazione iraniana, ancora da sobillare con le stesse violenze che attraversano la Siria, lo Yemen, la Libia e l’Iraq, ospita reti di gruppi finanziati dal NED e dalla CIA che vanno dai presunti attivisti, ai gruppi di miliziani (terroristi) diretti al rovesciamento violento del governo di Teheran.

 

 

 

 

 

 

 

Europa orientale

 

Fu nell’Europa dell’Est che la NED perfezionò quella che oggi viene chiamata la “rivoluzione dei colori”. È ora ammesso che il NED statunitense e altre agenzie statunitensi giocarono un ruolo fondamentale nel rovesciare i governi di Georgia, Ucraina e Serbia. È stato infatti il rovesciamento del governo serbo sostenuto dagli Stati Uniti nel 2000 che il Kem Sokha della Cambogia ha citato come modello da replicare nel sud-est asiatico con l’assistenza degli Stati Uniti.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le rivoluzioni colorate del NED spazzarono l’Europa orientale come una piaga, consumando la sovranità nazionale e piegando i territori ex sovietici a nuovi padroni a Washington, Londra e Bruxelles.

Più recentemente, mentre la Russia ha iniziato a riaffermarsi e a prendere decisioni in tribunale sia nell’Europa orientale che in quella occidentale, la NED si è nuovamente impegnata a rovesciare i leader che rifiutano di ridurre o eliminare i legami economici, militari e diplomatici con la Russia per volere di Washington.

Un primo esempio di questo include le proteste dell’Euromaiden 2013-2014 in Ucraina. Durante il periodo 2013-2014, i senatori statunitensi, incluso John McCain, avrebbero letteralmente preso parte alle fasi di protesta a Kiev per offrire un sostegno politico diretto ai disordini guidati dai circoli politici neo-nazisti.

US President Donald Trump (C-L) and Saudi Arabia’s King Salman bin Abdulaziz al-Saud

 

Russia

 

Sorprendentemente, mentre Washington accusa la Russia di ingerenza politica all’interno degli Stati Uniti, il NED elenca apertamente quasi 100 attività sovversive o organizzazioni che stanno finanziando all’interno della stessa Russia .

Oltre a ciò che è elencato sul sito Web di NED, gli Stati Uniti e l’Europa stanno fornendo figure di opposizione impopolari come Alexei Navalny, l’ormai defunto Boris Nemtsov, Yevgeniya Chirikova (Strategia 31 finanziata dal NED), Lev Ponomarev (Mosca, Helsinki, gruppo finanziato dal NED), Liliya Shibanova (GOLOS finanziato dal NED) e molti altri che sono stati ripetutamente arrestati per aver cospirato con diplomatici e finanzieri americani che sostengono le loro attività sovversive.

Se esistessero prove per dimostrare che la Russia ha fatto una delle forme di ingerenza sopra elencate, incluso il mantenimento di intere scuderie di personaggi dell’opposizione che filtrano regolarmente dentro e fuori dall’Ambasciata russa in una nazione bersaglio, questa azione sarebbe categoricamente condannata da Washington. Eppure Washington si impegna palesemente in sovversione politica palese, non solo in Russia, ma in (almeno) altre 100 nazioni in tutto il mondo, incluse le nazioni che gli Stati Uniti stanno attualmente occupando militarmente in modo aperto.

Per l’impero, ciò che è più temibile è la competizione. L’Impero anglo-USA cerca di essere l’unico potere egemone con tutto quello che ne consegue. Gli Stati Uniti non si oppongono all’intromissione politica negli affari di una nazione sovrana, si oppongono all’ostruzione della propria ingerenza mondiale e cercano di eliminare altri che offrono alternative migliori alla sottomissione coercitiva di Washington, quindi si agitano perché hanno individuato nazioni come la Russia, la Cina e altre che hanno sempre più successo nel fare proprio questo.

Per quei paesi tentati di unirsi al carrozzone nel condannare le nazioni come la Russia e la Cina per intromissione politica, in primo luogo quelle stesse nazioni devono riconoscere e rendere conto del livello industriale con cui gli Stati Uniti interferiscono con i propri partner europei.

Per coloro che stanno portando denaro ella NED in tutto il mondo nella convinzione che stiano facendo avanzare in qualche modo un’agenda progressista liberale, in particolare di “democrazia”, questi devono chiedersi come giudicare di una nazione straniera che fa interferenza negli affari politici della propria nazione e se questo sia “democratico” o se sia costruito in modo favorevole ai principi di auto-determinazione della democrazia.

Non si può onestamente concludere che il denaro del NED sia destinato a sostenere la capacità di una nazione di determinare il proprio destino quando risulta chiaramente che Washington sta investendo queste enormi quantità di denaro per determinare in base ai propri interessi l’assetto politico di quella nazione.

 

* Ulson Gunnar, analista geopolitico e scrittore di New York, in particolare per la rivista online ” New Eastern Outlook ”

Riguardo a   “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan”, di Massimo Morigi

Riflettendo in queste pagine dell’ “Italia e il mondo” sul   “ “Che fare” di Carl Schmitt. Europa, nuovi stati, Nomos del mondo” di Pierluigi Fagan (sempre pubblicato in questo blog) riassumevo nei seguenti termini il mio pensiero in merito all’odierno stato della scienza politica ritenendo che, pur nella differenza di impostazione nell’affrontare la storia del pensiero politico  fra lo scrivente e Fagan (a mio giudizio un eccesso di schematismo classificatorio in Fagan che lo porta a trascurare la presenza o meno della componente conflittuale-strategica dei singoli pensatori: «Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza», scriveva in quell’intervento Fagan riferendosi a Carl Schmitt, accusando quindi il suo pensiero di strumentalismo e trascurandone perciò la drammatica ed euristicamente fondamentale  dialettica del confronto della teoria con la prassi politica), Pierluigi Fagan fosse pienamente convergente con me  nel cogliere il terribile deficit di pensiero che caratterizza le odierne classi dirigenti politico-intellettuali delle cosiddette democrazie rappresentative: «Conclusione che non conclude ma che (dovrebbe) aprire il cantiere del rapporto fra prassi e teoria politica: c’è indubbiamente diffusa una rinnovata consapevolezza che le vecchie mitologie politiche liberali e democraticistiche non stanno più letteralmente in piedi; ma c’è in tutti noi indubbiamente il bisogno di un rinnovato ed approfondito sforzo teorico-pratico per rimpiazzare queste consunte mitologie politiche. E l’odierno contributo di Pierluigi Fagan senza dubbio si inserisce validamente in quest’alveo.» Ora riguardo a “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan” pubblicata in tre parti in questo blog (caricata anche su YouTube e sulla quale piattaforma viene pubblicata nelle sue tre parti anche sul seguente unico URL  https://www.youtube.com/watch?v=MBVEzL4hsL0), non posso che confermare – e rafforzare – il mio giudizio totalmente positivo su questo studioso, giudizio positivo ulteriormente confermato in ragione non solo del fatto che nell’intervista Fagan ribadisce e argomenta ulteriormente l’attuale crisi che attraversa la teoresi politica ma fornisce anche indizi per fornire un contesto storico alla stessa. Per Fagan questa crisi di pensiero risale principalmente al periodo fra il primo ed il secondo dopoguerra (cita come esempio e della debolezza intrinseca di questo pensiero ed anche della scarsa produttività dello stesso il progetto della Paneuropa di Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi e il Manifesto federalista di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, risibili non solo per la – dirigistica ed autoritaria –  utopicità di voler federare un’Europa che al massimo presa nel suo insieme, nell’insieme cioè delle sue immense differenze, potrebbe aspirare ad una confederazione ma anche ridicoli nel senso che sono state le uniche nuove proposte di un Vecchio continente in crisi che, invece, sul piano culturale ed artistico si era contraddistinto come l’iperproduttiva fucina della modernità); mentre, a mio giudizio, la crisi del pensiero politico moderno (e la crisi del Vecchio continente tout court, le quale due cose, come è di tutta evidenza, sono strettissimamente correlate) va piuttosto collegata col trauma della seconda guerra mondiale, conflitto che ha significato accanto alla giusta e sacrosanta damnatio memoriae del totalitarismo nazista e fascista anche la damnatio memoriae di un qualsiasi pensiero  non  di stretta osservanza universalista, liberale e/o comunista-internazionalista che fosse. Ma queste sono non dico questioni di dettaglio (non lo sono di dettaglio sia perché anche l’universalismo politico e filosofico possiede una sua dialetticità storica, e a seconda o no che si concordi sulla realtà di  questa dialetticità si è o reazionari –  absit iniuria verbis! – o appartenenti ad una tradizione realista-strategica ed intrinsecamente dialettica (Machiavelli, Mazzini, Marx, Gramsci, il György Lukács di Storia e coscienza di classe) ma certamente problemi che però non riescono ad occultare il fatto principale – e puntualmente rilevato da Fagan – che la crisi del pensiero politico occidentale – e della sua filosofia – non deriva dal fatto che la teoria ha giocato tutte le sue carte ma dal semplice dato di fatto che la crisi geopolitica dell’Europa, che ha avuto il suo acme nel Secolo breve, non poteva non produrre anche una contemporanea crisi di pensiero: non grande importanza, allora stabilire l’esatto terminus a quo, l’importante è avere ben presente il processo. Al giorno d’oggi la vera nobilitate di un pensiero e di un pensatore è sulla consapevolezza di questo inestricabile e dialettico nesso fra dato geopolitico e/o storico e dato teorico che si misura. Da questo punto di vista il pensiero di Fagan veramente molto attento, come ama concepirlo Fagan, al dato della “complessità” del mondo contro ogni ideologico tecnicismo ed invadente ed autoritaria tecnocrazia (ma noi, preferiamo dire: estremamente sensibile alla storicità e dialetticità dell’agire umano) si colloca veramente con grande autorità nell’alveo storicista di una filosofia della prassi che ha compreso che non esiste una evoluzione della teoresi politica qualora questa si consideri separata dalla “bassa” pratica del cambiamento del “politico”. E di questa non piccola consapevolezza dobbiamo continuare a ringraziare Pierluigi Fagan.

 

 

Massimo Morigi, 31 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

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