I RIMPATRIATI, di Giuseppe Germinario

DELLA MAGNANIMITA’ DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE

 

Doveva arrivare Emma Bonino ( https://www.youtube.com/watch?v=Y4En-tVTH2E&feature=youtu.be ), ex ministro degli esteri, a svelare gli arcani che rendessero intelligibili le ragioni dell’attuale gestione dei flussi migratori provenienti dal sud del Mediterraneo. Un protocollo segreto, tutt’ora in vigore e non smentito, gestito in ambito comunitario e sottoscritto dall’allora Governo Italiano stabilisce che, non si sa se per accordo o magnanima disponibilità unilaterale del nostro Bel Paese, i porti italiani garantiscano l’esclusiva dell’accoglienza non ostante l’obbligo di soccorso preveda lo sbarco presso l’approdo più vicino, nella fattispecie Malta o la Tunisia. Non si comprendono le ragioni del vaticinio della nostra sacerdotessa dei diritti umani; verosimile ricondurle alla guerra di successione e di secessione ascrivibile alle trame piddine e al riemergere di antichi eterni rivali ai danni di Renzi, tra i tanti Enrico Letta. La data di sottoscrizione di quel protocollo contribuirebbe ad illuminare il bersaglio degli strali; vista la prossima scadenza elettorale non si dovrà, presumibilmente, attendere troppo.

A corollario di quel protocollo, si precisa con certosina accuratezza, questa volta evidentemente dagli accoglienti di risulta, che l’eventuale ripartizione tra i paesi europei, per altro disattesa, dovesse riguardare i soli profughi di guerra, in particolare siriani, eritrei e libici; la minoranza di un flusso proveniente ormai soprattutto dall’Africa Subsahariana. A condizione che gli immigrati fossero ovviamente censiti e con la possibilità, quindi, di rimpatrio nel paese europeo di primo approdo.

Colpisce certamente il contrasto evidente tra l’italico slancio emergenziale tanto compassionevole quanto refrattario ad una pianificazione degli inserimenti e la presunta chiusura ostile del resto della civiltà europea. Una rappresentazione di sentimenti degna di una sceneggiata napoletana.

La qualità della vita quotidiana di gran parte degli accolti e di quella degli accoglienti occasionali e fortuiti da adito a qualche perplessità sulla genuinità di tale pulsione specie degli accoliti della nostra classe dirigente; è sufficiente trascorrere qualche ora tra i comuni mortali sui treni regionali e nei giardini urbani, specie in prossimità delle stazioni per constatare che alla compassione non seguono adeguate “opere di bene”.

Tutto fa pensare che questo contrasto evidenzi piuttosto le motivazioni e gli aspetti più oscuri e avventati di tali scelte, se non la meschinità più banale dei loro protagonisti.

Di seguito una rassegna certamente non esaustiva:

  • l’insufficiente levatura dei quadri dirigenziali pubblici

nella gran parte dei centri decisionali, compreso il corpo diplomatico, si assiste ormai da alcuni decenni ad uno scadimento della capacità operativa dovuto ad una formazione sempre più aleatoria, ad un collocamento non corrispondente alle competenze possedute e richieste, ad una presenza poco qualificata e autorevole nei luoghi decisivi di formazione e preparazione delle decisioni politiche. Eppure questi centri costituiscono la nervatura essenziale il cui corretto funzionamento e controllo consentono le scelte consapevoli dei decisori politici di ultima istanza

  • la rappresentazione passiva e contingente dell’interesse nazionale dei nostri decisori politici

la gestione dei flussi migratori mette in luce la particolare visione delle dinamiche internazionali e della difesa dell’interesse nazionale di cui soffrono i nostri centri decisionali.

Sono viste come dinamiche ineluttabili sia nella tendenza che nelle modalità di svolgimento; sono dinamiche gestibili da organismi sovranazionali dotati di forza propria,  guidati da un presunto interesse più generale e ai quali gli stati nazionali devono delegare più o meno volontariamente e consapevolmente competenze e poteri.  Si fatica a vederli piuttosto come campi di azione di stati nazionali e tramite di essi di apparati e centri di potere.

Si tratterebbe quindi tutt’al più di rimediare un successo di immagine immediato e contingente, la rappresentazione quindi di un paese aperto ed accogliente; di raccogliere ed approfittare dei benefici finanziari immediati, nella fattispecie i finanziamenti europei; di confidare nell’afflato universalistico, nel buon cuore e nella cecità altrui per la redistribuzione delle “risorse umane”, magari assecondata da qualche furba inadempienza nei censimenti.

Un approccio ancora una volta reso repentinamente inadeguato e controproducente dall’imponenza dei movimenti, dal carattere strutturale dei flussi migratori e dagli effetti scatenanti di grandi decisioni geopolitiche del tutto estranee alla nostra classe dirigente.

 

I VIZI ATAVICI DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE

 

La gestione paradossale dei flussi migratori non è, purtroppo, un episodio estemporaneo ed isolato, come pure il mercimonio, l’oggetto di scambio citato dalla Bonino.

È solo l’ultimo ma purtroppo non definitivo atto di una serie di scelte effettuate con le stesse identiche caratteristiche e modalità operative.

Concentrandosi solo sugli ultimi due decenni, l’ingresso nell’Euro, la regolazione del mercato unico europeo, le privatizzazioni, il processo di unione bancaria, il controllo europeo dei deficit di bilancio con annesso l’obbligo di pareggio, il coordinamento delle politiche fiscali, l’adesione alle avventure militari in Jugoslavia e in Libia sono gli esempi, solo i più appariscenti, di accordi frettolosi ed emergenziali i cui termini hanno dovuto essere regolarmente e rapidamente rinegoziati con deroghe ed elusioni pagate a carissimo prezzo nel lungo periodo e nel peso strategico del paese.

A ben vedere si tratta di un vizio di origine dell’Italia repubblicana sorta da una disastrosa sconfitta militare che ha pervaso, salvo brevi momenti, e innervato sempre più l’azione politica della nostra classe dirigente, specie paradossalmente quando, con la caduta del muro di Berlino, avrebbe dovuto venir meno la ragione dei vincoli militari e politici di sudditanza.

Già agli albori della Comunità Europea, la maggiore preoccupazione di De Gasperi fu quella di garantirsi l’esodo di milioni di italiani in Europa e Sudamerica anche rispetto ai progetti di sviluppo industriale.

Da lì nasce la propensione ad acquisire pochi incarichi dalla immagine significativa ma dallo scarso  potere fattuale e di controllo. La nomina della Mogherini al Alto Rappresentante degli Affari Esteri dell’UE rappresenta solo l’ultimo colpo di scena ben riuscito ma dalle conseguenze peregrine nel prosieguo dell’azione politica. Sulla scia di questi “successi” prosegue pervicacemente altrimenti la maniacale attenzione, manifestata già negli anni ‘50, nell’occupare posti di basso rango negli organismi internazionali glissando allegramente sui posti più vicini ai centri decisionali.

Si tratta di un approccio dalle conseguenze deleterie che pregiudicano la stessa possibilità di formazione di una classe dirigente alternativa adeguatamente preparata ad affrontare le dinamiche politiche di un mondo multipolare.

Qualche dubbio deve assillare lo stesso establishment; tant’è che, a cose praticamente fatte, in Banca d’Italia, ad esempio, hanno recentemente deciso di organizzare un corso di formazione sulla conduzione di una trattativa

In un mondo nel quale le connessioni tra centri strategici nello scacchiere planetario sono sempre più strette e pervasive, tale condizione spinge interi ambiti degli apparati, in particolare i loro vertici, a sentirsi esponenti e portatori più dei centri dominanti e dei loro apparati  che del proprio Stato e della propria comunità nazionale oppure, nella maggior parte dei casi induce ad identificare gli interessi di questi ultimi con i desiderata dei primi. I fautori di “podestà stranieri” in Italia sono particolarmente numerosi e sfacciati.

Un rapido sguardo alle carriere e al mutamento dei rapporti politici della gran parte di questi funzionari, compresi quelli militari e dei servizi, concede del resto poco spazio alle illusioni.

Dall’altra  spinge la gran parte del nostro ceto politico nella condizione di ostaggio e complice dei settori più conservatori e parassitari, se non collocati nella loro corretta posizione di ambiti essenziali ma complementari di una formazione sociale che ambisce a scelte consapevoli.

Nella fattispecie della gestione dei flussi migratori, comincia ad affiorare, purtroppo con colpevole e ovvio ritardo, il ruolo pesante che il terzo settore, le ONlUS, le associazioni ormai non più collegate solo al Vaticano, ma a centri altrettanto se non più potenti, svolgono nel determinare tali condotte politiche. E quello dell’immigrazione è solo uno degli ambiti operativi di questi ambienti. Per non parlare poi della fronda  presente ad esempio nelle gerarchie militari, in particolare della Marina e dell’Aviazione Militare al sorgere di un minimo sussulto di ripensamento.

 

A PROPOSITO DI INTERESSE NAZIONALE

Ne deriva, di conseguenza, una visione per così dire alquanto ristretta, precaria, volubile di interesse nazionale.

Tacciare di tradimento questa conduzione politica e di traditori i portatori di essa serve a ben poco se non ad esorcizzare il problema nella propria condizione di impotenza e a ridurre il contenzioso  ad una mera liquidazione e sostituzione del ceto politico con qualche fugace bella figura al tribuno di turno. Le recenti esperienze di Syriza in Grecia e del Front National in Francia dovrebbero indurre a qualche riflessione.

Il termine interesse nazionale induce spesso ad una retorica esacerbata di comunanza indistinta di interessi, di punti di vista e di emozioni che tende a nascondere e perpetuare le ineguaglianze più deleterie, la fragilità di un movimento politico, la ristrettezza di un blocco sociale consenziente e la inconfessabile dipendenza dal sostegno esterno. Non è un caso che la retorica più accesa e vuota si sia affermata ad esempio in quei movimenti come quello slavo nella dominazione ottomana e quello polacco nella componente a dominazione zarista privi di esperienza di gestione del potere e largamente dipendenti dal sostegno di potenze rivali.

Lo stesso termine, però, può servire alla formazione di una comunità capace di una sintesi estesa di interessi, punti di vista, e centri di potere diversificati ed ineguali tale da garantire la coesione solida ed estesa di una formazione sociale dinamica, in grado di sostenere un confronto sempre più complesso e acuto. Una formazione capace quindi di esprimere poteri ed apparati forti, élites determinate e comprensive.

 

La prima strada, prima o poi sarà quella che dovrà imboccare l’attuale classe dirigente o i suoi epigoni, ormai privi di una significativa compiacenza esterna. L’esperimento di costruzione del Partito della Nazione è stato il primo tentativo maldestro, consumatosi rapidamente per la qualità dei promotori e per l’incapacità e l’impossibilità di associare alla riorganizzazione istituzionale un progetto di rinascita del paese. Ne seguiranno altri, dopo una fase di decomposizione, resi probabilmente più credibili dalla condizione più precaria del paese piuttosto che dalle qualità intrinseche dei programmi.

 

In mancanza di alternative, l’attuale classe dirigente nazionale appare interessata a dilaniarsi in attesa che si ridefiniscano le linee e le gerarchie esterne di comando ed indirizzo nel mondo. I barlumi di verità che squarciano la nebbia, comprese le affermazioni della Bonino, sono uno strumento estemporaneo di questo regolamento di conti con scarse probabilità di innescare un dibattito serio sull’argomento. Trascinano il paese in una condizione talmente peregrina da far rifulgere nazioni come la Francia e la Germania, anch’essi in realtà in una condizione di netta sudditanza.

Sia la Francia che soprattutto la Germania hanno rivelato doti di chiaroveggenza nell’attestarsi in condizioni più favorevoli nel contesto internazionale e, soprattutto, nella gestione del processo di integrazione comunitaria. Contrariamente all’Italia, sono state capaci, soprattutto la seconda, di riorganizzarsi a tempo prima e durante il processo di integrazione avviato negli anni ‘90.

Anche questo è un modo particolare di definire l’interesse nazionale.

Merito probabilmente della migliore qualità della loro classe dirigente e della maggiore coesione dei loro apparati istituzionali; merito, soprattutto, del riconoscimento del loro ruolo di interlocutori principali della potenza dominante nella gestione delle “quistioni” continentali che ha consentito loro una parziale pianificazione delle tattiche e delle strategie ai danni degli ultimi gironi danteschi.

Non è un caso che la Germania di Angela Merkel, a suo rischio e pericolo, non abbia esitato a decidere a quale gregge appartenere nel contenzioso americano tra una componente speranzosa di perpetuare e conseguire un dominio unipolare troppo costoso in termini economici e di coesione della propria formazione sociale ed una al contrario più pronta a prendere atto della formazione di nuove potenze e di nuove aree di influenza più marcate e diversificate. La Francia di Macron apparentemente sostiene la fedeltà teutonica al vecchio establishment, ma a costi interni più gravosi e con l’obbligo di appoggiarsi all’ombrello americano per salvaguardare parte dei propri legami africani e nel Pacifico.

L’Italia è lì che aspetta con l’evidente probabilità di continuare ad essere il luogo di attenzione e di spoliazione di più contendenti, priva delle scappatoie del servizio a più padroni di goldoniana memoria concesse sino a poco tempo fa.

Le opportunità che nell’attuale contesto internazionale si stanno aprendo, rischiano di chiudersi nel giro di pochi anni se non di mesi. Noi continuiamo a sorbirci i Calenda, i Renzi, i Gozi, i Berlusconi di turno impegnati a predicare le magnifiche sorti e progressive del mercato e del governo mondiale. Gran parte dei cosiddetti oppositori stanno contribuendo generosamente a mantenerli in auge o a sostituirli in copia conforme.

 

COSA SUCCEDERA’ COL NUOVO ASSETTO SAUDITA?DIPENDERA’ DALLA SOLUZIONE DEL PROBLEMA PALESTINESE. di Antonio de Martini

tratto dal blog www.ilcorrieredellacollera.com

una interessante mappa dei meandri della politica saudita utile ad interpretare le prossime decisive vicende della casa dei Saud e le ovvie ripercussioni su quello scacchiere. Una guida tracciata dal più esperto navigatore di questioni mediorientali e nordafricane presente in Italia. Una competenza, purtroppo, che si va dissolvendo parallelamente alla consistenza del nostro paese e alla sua credibilità in quelle terre

Tre teocrazie classiche  si interessano degli avvenimenti del Levante e tra queste, la più debole è la casa reale saudita che dispone di immense ricchezze , è la custode dei luoghi santi della religione mussulmana che esercita influenza  su un miliardo e trecento milioni di mussulmani.

Evidentemente non gode di divino afflato perché da un certo numero di anni a questa parte non ne sta azzeccando una e credo  che le fortune della giovane  ( dal 1927) dinastia siano ormai agli sgoccioli.

L’altra teocrazia è quella concorrente rappresentata dall’Iran Sciita e Persianoche è in sorprendente rimonta da quando pochi mesi fa ha mostrato solidità istituzionale cambiando, senza scosse, regime , dotandosi di un nuovo PresidenteHassan Rouhani appoggiato dall’Ayatollah Ali Khamenei che rappresenta la continuità religiosa e statuale con grande  compostezza ed è il leader morale  di 200 milioni di sciiti nel mondo: il nuovo governo ha aperto all’Occidente e ha intavolato trattative che possono allentare le tensioni internazionali in quasi tutte le aree a rischio del pianeta e sta dimostrando di non essere interessato alle armi nucleari.

Non così l’Arabia Saudita.

Re Salman ben Abdulaziz, sfiora i novanta anni, lo si dice affetto da demenza senile  e suo figlio Mohammed ben Salman ha appena rotto con il resto della famiglia, sostituendo il Crownprince  Mohammed Ben Nayef, ben Abdulaziz, suo cugino e mettendolo in pratica agli arresti domiciliari nel suo palazzo di Gedda. Con questo gesto, ha rotto con la tradizione adelfica della Monarchia, col cugino che ha diretto per anni – come suo padre- il ministero dell’interno. Ignoro la posizione reale degli USA poiché entrambi i cugini avevano buoni rapporti  con gli americani.

Sul piano religioso i sauditi con le aggressioni successive all’Algeria e poi a tutte le altre nazioni islamiche hanno esasperato le divisioni di tipo teologico tra sunniti e sciiti facendone motivo di guerre e lotte interne all’islam. La Fitna  che il profeta Maometto ha sempre considerato l’abominio principale e il peccato da non perdonare. Il rischio è quello di trasformare il mondo islamico in due tronconi e dare corpo ad un emirato sciita guidato dall’Iran e , per forza di cose, alleato con tutte le minoranze religiose asiatiche inclusi i cristiani.

Sul piano politico, stanno andando peggio.

Quella del “Crownprince” è una carica che non consente in realtà un automatico accesso al trono – questo viene assegnato da un Consiglio di famiglia finora egemonizzato dai “saudari seven” i sette figli di Hassa la moglie preferita del fondatore della dinastia Abd el Aziz –  ma fa funzione di primo ministro finché vive chi lo ha nominato.

Quindi le due principali cariche del regno – re e primo ministro – sono in mano a padre e figlio, uno demente e l’altro inesperto e la governance futura non è comunque assicurata da un meccanismo dinastico automatico.

Per un recente conflitto istituzionale tra appartenenti alla nuova generazione reale, si è anche  creato un vulnus alla effettiva autorità del “Consiglio di famiglia” che ha visto il ministro dell’interno – figlio d’arte –  ( Mohammed Bin Nayef bin Abd el Aziz) nominarsi da solo il viceministro dell’interno ( unico – altra novità pericolosa-  non appartenente alla famiglia in tutto il governo) senza passare né dal Consiglio di famiglia ( che non avrebbe gradito un estraneo) e nemmeno dal Consiglio dei  ministri. Non sappiamo se anche il vice ministro dell’interno sia stato sostituito assieme al ministro.

Dunque anche il governo regolarmente insediato non gode ormai del prestigio necessario ad assicurare un’attività di governance fluida, figuriamoci in periodo di passaggio dei poteri e durante cinque crisi internazionali che dovrebbe saper  tenere a bada.

La cessazione contemporanea, non appena avverrà, della influenza dei saudari seven che egemonizzavano il Consiglio, la messa fuori gioco del Crownprince, creeranno un  vuoto di potere che sarà colmato dall’alleanza di due delle tre  forze armate interne al regno, coalizzate contro la terza: la Guardia nazionale, il ministero della Difesa e quello dell’interno. Il vincitore si farà formalmente incoronare dal Consiglio di famiglia in cerca di un altro gruppo forte che lo domini e garantisca agli oltre cinquemila parenti la prosecuzione dell’era di prosperità senza precedenti che stanno vivendo dal 1974 e che dal 1979 vedono insidiato dall’Iran Sciita e Persiano, sia sotto il profilo petrolifero che religioso.

Tra i membri della nuova generazione, i figli di alcuni tra i saudari seven sono in pole position e tra tanti il figlio di re  Salman , che comanda la guardia nazionale e il già nominato Mohammed bin Nayaf, ( Crownprince estromesso), ma la fluidità della situazione consente le più pazze ambizioni anche a  Bandar Bin Sultan – ex  capo dell’intelligence e molto amato negli USA –  benché sia figlio di una inserviente analfabeta  e quindi non abbia i quarti di nobiltà richiesti, anche se tiene a ricordare che era il nipotino preferito di Hassa la moglie -madre dei sette fratelli egemoni  nel Consiglio durante gli ultimi trenta anni.

Un ruolo chiave potrebbe essere svolto da MITAAB, uno dei cugini che inizialmente aveva svolto un ruolo di mediazione tra i due Mohammed ed era stato messo da parte.

Ogni principe che aspiri al trono o alle sue vicinanze , si adopera per acquisire meriti di fronte alla famiglia e usa  la parte di potere a sua disposizione snobbando ove possibile  gli uffici del Crownprince, e le norme scritte e no del codice di buon governo. Un disordine pericoloso per la pace nel mondo e nel mondo arabo in specie. Il nuovo Crownprince, ha al suo passivo l’aver iniziato la guerra in Yemen che sta diventando il Vietnam della dinastia.

Siamo in presenza di una sequela di crisi internazionali ognuna delle quali ha il potenziale per far saltare il sistema. Vediamole iniziando da quelle interne:

a) Situazione sociale  ai limiti della intollerabilità per la politica razzizsta  ( privilegiano cinesi e coreani e filippini per controllare eventuali nascite spurie dal colore), mentre i maschi tollerano con piacere i loro accoppiamenti con donne provenienti dal corno d’Africa nella convinzione che accoppiarsi con una nera fortifichi la virilità.  Incidenti durante il pellegrinaggio alla Mecca con centinaia di morti. Arresti a catena tra i simpatizzanti di Ben Laden in costante crescita.

b)  Gli sciiti della zona est del regno – la più ricca di petrolio. Gli abitanti sono suscettibili di dare ascolto  a sirene persiane e il ministro dell’interno MBN ha insediato un cugino  occupando  la porzione di territorio meno abitata ma più ricca e presidiata. Vedremo se anche il cugino di Mohammed ben Nayef ben Abdulaziz  – d’ora in poi solo MBN- ( Crownprince spodestato) sarà rimosso dall’incarico.

c) Ai limiti del folclore le iniziative “democratiche” inscenate per far credere che prima o poi le donne avranno qualche forma di parità ( diritto alla guida, di voto  alle comunali, una  cicciona alle Olimpiadi in tuta ecc.)

Ben più gravi sono le situazioni alle frontiere:

YEMEN   A seguito del tentativo di primavera araba  per defenestrare il Presidente Salah  – al potere da oltre un trentennio –  la situazione si è così evoluta : Salah ha accettato di andare negli USA  a curare i postumi di un attentato ai suoi danni a condizione che  rimanesse in carica il suo vice e che un suo parente mantenesse il comando di un reparto decisivo ai fini del controllo della capitale. nel frattempo, Al kaida si è inserita nell’area in cui nacque Ben Laden ed ha impegnato l’esercito in vere e proprie battaglie campali. Al Nord – al confine  con L’Arabia saudita – le tribù Houti , tradizionalmente riottose hanno trovato conveniente accordarsi con l’Iran , farsi armare e infiltrarsi nel regno. La confusione è generale ed è incrementata da attentati e rapimenti di “diplomatici” che i vari servizi segreti mettono in scena per pompare fondi ai rispettivi centri. Lo Yemen controlla la porta sud del mar rosso nota come Bab el mandeb ( porta del lamento). Il paese è spaccato in tre tronconi e per l’esaurimento delle falde acquifere il colera ha fatto la sua apparizione.

BAHREIN  dalla parte opposta della penisola, l’isoletta di Bahrein non viene nominata volentieri dai media, perché è l’altro mini Vietnam dei sauditi che portarono un “aiuto fraterno ” di settanta  carri Armati al re  ( l’unico che nel golfo ha questo titolo, gli altri sono Sceicchi o Emiri) e mantengono un ordine precario. La causa del contendere è il fatto che il re è sunnita mentre tutta la popolazione è sciita e – presumo sobillata dall’Iran – cerca di affrancarsi.  Mission impossible  poiché è anche la base della VI flotta USA  e, dopo un breve entusiasmo per la richiesta di democrazia  mostrato dal Dipartimento di stato, vige la regola del silenzio su tutto quanto avviene.

KATAR anche col katar nascono problemi di compatibilità dopo un triennio di cordiali canagliate  a danno di terzi. Il Katar ha cambiato governo in maniera radicale e però ha mantenuto l’appoggio ai fratelli mussulmani – specie egiziani – che adesso i sauditi contrastano.  Il governo saudita ha promosso una coalizione antikatar accusandolo di finanziare il terrorismo, ma in realtà perchè vuole che rompa le relazioni con l’Iran.

Il katar ha risposto picche e la crisi ha fatto saltare il CGG ( Consiglio Generale del Golfo) che è l’alleanza che sta conducendo la guerra in Yemen…..

GIORDANIA  è il paese che assieme al Marocco ( entrambe le famiglie regnanti discendono , annacquatissime, dal profeta, ha scelto di ottenere il maggior numero di fondi e aiuti possibili . La Giordania  scatola di sabbia donata dagli inglesi alla famiglia Hashemita ( la più antica dinastia regnante al mondo) cacciata dalla Mecca a cura dei sauditi, ospita una serie di profughi: palestinesi, Irakeni, Siriani, ciascuno col suo carico di drammi e necessità peculiari.  Gli USA nel 2013 hanno pompato in Giordania un miliardo di dollari e il resto lo mette l’Arabia saudita., che però non può dimenticare  che  il legittimo erede della custodia della Mecca e Medina ( e Gerusalemme) è proprio il re di Giordania. Vicino al portafoglio, ma non al cuore.

IRAK  L’A. Saudita  ha finanziato con 30 miliardi di dollari la prima guerra del Golfo del 1991  ed anche la successiva spedizione del 2003. Adesso la conseguenza è che anche l’Irak si avvicina all’Iran per via della scelta del governatore americano – l’indimenticato Paul  Bremer–  che scelse di mettere al governo gli sciiti estromettendo i sunniti che governavano da sempre il paese, come vedremo appresso.

Gli USA si sono insediati  in quell’occasione ( 1991) in una serie di basi  militari saudite che – come aveva previsto l’attuale re all’epoca contrario alla concessione , ma non regnante allora  –  non hanno più lasciato.                                                                                                                                                                                                                                                       Per dare  credibilità democratica all’attacco all’Irak ” in cerca di armi di distruzioni di massa ”  gli USA pensarono bene di spodestare i sunniti che da sempre  dominavano la Mesopotamia e affidarono il governo alla   la maggioranza scita ( 70%).  Questa scelta  ha dato fiato alla guerriglia preorganizzata del partito Baath   che non accenna a diminuire e che adesso – essendo sunnita – viene finanziata dai sauditi in funzione anti Iran. Un caso inedito di autofinanziamento della guerriglia interna. La distruzione dell’ISIS ( che Obama prevedeva in un decennio…) dimostrerà che la guerriglia irachena è nazionalista e non religiosa e quindi destinata a continuare.

La maggior influenza acquisita dagli sciiti ha rafforzato enormemente l’influenza iraniana tra il Tigri e l’Eufrate benché gli occidentali avessero covato con cura in Inghilterra  l’Ayatollah  Al Sistani  che nei loro calcoli avrebbe dovuto sradicare il partito Baath ( laico  e  socialista) e contrastare l’influenza  del Moussa Sadr  jr. legato alla Persia.

Anche qui l’Iran è  ormai a ridosso della  frontiera saudita mentre prima ( 2003) non c’era, perché l’Irak sunnita faceva da cuscinetto.

SIRIA: è l’ultima iniziativa congiunta americano-saudita in ordine di tempo. E’ costata sei anni e un numero imprecisato di morti ( non gli oltre  centomila sbandierati da un “osservatorio”   basato a Londra)  ed è l’avventura che  ha costretto gli USA a rivedere la loro strategia interventista in tutta l’area. La guerra presumibilmente non cesserà, ma diminuirà di intensità e si troveranno altre occasioni per una tregua d’armi. scambi di prigionieri o evacuazioni di civili dalle aree non sicure dell’uno o dell’altro. Fallisce con questo, il tentativo di far cadere un altro regime Baathista  ( laico e socialista) e la situazione avrà  conseguenze anche sulla situazione libanese dove abbiamo un corpo armato  italiano a disposizione dell’ONU per presidiare il confine israeliano che è il solo silenzioso in tutta l’area.

IL LIBANO Per contrastare la deriva verso la Siria, l’Arabia saudita è stata costretta a stanziare 3 miliardi di dollari affidando alla Francia il compito di riarmare e riorganizzare l’esercito libanese ( 30.000 uomini  già armati dagli americani).  Constatato il fallimento della iniziativa, l’Arabia ha disdetto il credito con grave nocumento della Francia che si era aggiudicata molte forniture. La nomina del Presidente Aoun ha rappresentato un altro passo avanti per l’Iran-Siria che lo sosteneva.

EGITTO  assentatosi dalla scena politica internazionale per inseguire chimere occidentalistiche, l’Egitto si è visto sottrarre la leadership  politica e morale del mondo arabo con la sostituzione nella posizione egemonica tradizionale in seno alla Lega Araba e la rappresentanza del mondo arabo al G20 a vantaggio dell’Arabia Saudita. Tornato alla stabilità secolare e laica assicurata dalla classe militare, L’Egitto  adesso ottiene aiuti illimitati o quasi da coloro che lo hanno prima messo in difficoltà: Americani e Sauditi,  ora interessati a ridurre l’influenza dei Fratelli Mussulmani. La recente crisi tra sauditi e Katar è frutto anche di questa ripresa di influenza egiziana sul mondo arabo.

L’Egitto non dimentica che  un secolo e mezzo fa , sotto la guida del grandeMohammed Ali ha risolto il dilemma wahabita con una spedizione militare e l’impiccagione del re  Saudita dell’epoca. Ora l’Università di Al Ahram tornerà ad assumere la leadership morale dell’Islam che non ha mai perso ma che era attutita dalla crisi politica e istituzionale del paese.

Da nessuna di queste aree di crisi l’Arabia saudita può ragionevolmente pensare  di uscire vincente o almeno con un pareggio, anche se avesse due cose che ha ormai  perduto: la stabilità istituzionale,  e l’appoggio incondizionato americano.

Il flirt con Israele completa il quadro di isolamento in seno al mondo arabo di quelli che Bin Laden definì i principati ereditari. a meno che Israele non si decida a concludere la pace con i Palestinesi il quadro di isolamento politico e  militare di quella che fu la dinastia  per anotnomasia non potrebbe essere più completo.

TURCHIA

Non è un paese arabo, ma la sua influenza è crescente da Gaza a Mossul.   La Turchia, ha appena detto  a muso duro  alla conferenza di Crans Montana in Svizzera per bocca del suo ministro degli Esteri   Mevlut Cavusoglu  al suo omologo greco Nikos Kotsias,   che non sguarnirà le truppe di stanza a Cipro e che potrebbe addirittura ” farne uso”, mentre il rappresentante dell’ONU sulla questione , dopo un ottimismo iniziale a capodanno sta lamentando il trascinarsi dei negoziati di riunificazione. La Turchia, che come membro della NATO aspira anch’essa a un ruolo egemonico nel Levante e a riprenderesi l’impero perso nel primo dopoguerra mondiale, è il nuovo pericolo all’orizzonte per il giovane avventato nuovo Crownprince che piace agli USA, ma non piace nemmeno ai parenti.

PALESTINA

L’avvenire della dinastia – e certamente quello di MBS ( Mohammed ben Salman)  è legato alla soluzione del problema palestinese che tutti fingono di ignorare. L’Arabia Saudita – che ha ufficializzato i buoni rapporti con Israele – non può stipulare un trattato di pace se prima non regola il problema israelo-palestinese.  La soluzione di questo nodo è affidata al genero del Presidente Trump, un immobiliarista trentenne che evidentemente suscita la sua fiducia. Immensi capitali  ( arabi e USA) sono stati approntati per lanciare un piano Marshall per il medio Oriente,  ( pronto da mezzo secolo ormai)  ma tutto è legato alla soluzione  problema che per primo sorse nell’area. E da questo dipende anche la sorte di tutti i paesi citati e della Monarchia che rischia un nuovo regicidio se i due popoli più rissosi della terra non troveranno una intesa che non trovano da troppo tempo.

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA, di Massimo Morigi

Ancora una spigolatura di Massimo Morigi risalente a gennaio 2014. I fatti sono ovviamente datati, il tema attuale_Giuseppe Germinario

 

APOPTOSI DELLA DEMOCRAZIA O APTOSI DEL MITO DEMOCRATICO?

di Massimo Morigi_ COMMENTO

 

Nell’articolo “Apoptosi della democrazia” inteso a suscitare indignazione per la vicenda dell’oro della Banca d’Italia si affermava che il  furto legalizzato di quest’oro da parte del sistema bancario nazionale profilava, de facto, una morte programmata della democrazia, l’apoptosi della democrazia appunto. Ora in sede di questo auto commento all’articolo non volendo tornare sui motivi del perché la mobilitazione contro il blocco politico- finanziario nazionale non abbia avuto alcun riscontro e volendo soffermarci invece sulle affermazioni teoriche contenute in “Apoptosi della democrazia”, ci sarebbe da dire che, per coloro che abbiano seguito i ragionamenti sul “Repubblicanesimo Geopolitico” gentilmente ospitati dall ‘ “Italia e il Mondo”, dal punto di vista del “Repubblicanesimo Geopolitico” stesso sarebbe più corretto parlare, anziché  di ‘Apoptosi della democrazia’, di ‘Apoptosi del mito della democrazia’. In effetti, chi avanzerebbe questa osservazione sarebbe completamente nel giusto e sia per ulteriormente consolidare questo corretto profilo pubblico del Repubblicanesimo Geopolitico presso la platea dei suoi osservatori sia per ancora approfondirlo dal punto teorico, vedremo come alla fine anche la vicenda dell’ oro della Banca d’Italia si possa ricollegare con le considerazioni politiche e filosofiche sulla nascita e sviluppo del modello “democratico”  occidentale e sul sostegno mitologico che questo ha da subito avuto bisogno che fanno da sfondo a tutti i ragionamenti del Repubblicanesimo Geopolitico. Il mito della rivoluzione, iniziato con la rivoluzione francese –  e che stancamente si trascina fino ai giorni nostri –  sta dentro e dà forma alla modernità politica occidentale ma come ogni mito cela una realtà sotto mentite spoglie così il mito della rivoluzione è il travestimento e quindi cela e rivela al tempo stesso ciò che è stato sempre dentro e ha dato forma alla modernità politica occidentale stessa: e cioè il conflitto strategico. Questa affermazione di per sé non sarebbe particolarmente qualificante per comprendere le caratteristiche peculiari della nostra modernità politica, come abbiamo infatti più volte affermato il conflitto strategico informa ed è la natura stessa, solo per rimanere al “politico” e non trascolorare in tutte le altre  manifestazioni della realtà, della società (per chiarire per l’ennesima volta il concetto: per noi tutta la realtà è, in ultima analisi, conflitto strategico, per noi nulla è escluso dal momento pantocratore del conflitto strategico, per il quale è persino superfluo rinviare a Gianfranco La Grassa e a questo proposito ci permettiamo di segnalare, fra gli altri,  la nostra “Teoria della Distruzione del Valore” e il di prossima pubblicazione “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma nella modernità politica occidentale, a differenza che nelle forme politiche più arcaiche, dopo la soluzione di continuità della rivoluzione francese che ha comportato l’uccisione di un re consacrato non in virtù di un giudizio divino (morte in battaglia, morte naturale od anche procurata ma una uccisione che poteva essere sempre mascherata come una sorta di decreto della divinità) ma di una deliberazione tutta palesemente e manifestamente politica, c’è stata l’impellente necessità di dare una sorta di travestimento simildivino all’orrenda vicenda dell’uccisione del monarca. Da questa necessità di nascondere la natura puramente conflittual-strategica della rivoluzione, ecco allora nascere per arrivare stancamente fino ai nostri giorni il mito della rivoluzione e con questo mito nascere anche la pretesa metafisica dell’esistenza  sempre simildivina  di diritti umani e politici la cui esistenza e doverosità di applicazione andrebbe al di là di qualsiasi contingenza storica e sistema politico (e da qui l’imperialismo diritto-umanistico e democraticistico che ha sostituito il cristiano dovere di convertire le genti pagane e che è la nuova sgangherata versione del “fardello dell’uomo bianco”). Ma se il mito della rivoluzione, con tutti i suoi annessi e connessi democraticistici e dirittoumanistici (o nella versione dei defunti paesi socialisti di dittatura del proletariato) è arrivato al capolinea (mito della rivoluzione al capolinea più per i  fatti storici post caduta del muro di Berlino che per vera ed approfondita conoscenza teorica, mito dei diritti umani e politici di natura simildivina al capolinea per ora solo a livello di analisi teorica, nella quale il Repubblicanesimo Geopolitico rivendica il suo ruolo di primo piano, mentre a livello di massa si continua a praticare, anche se in forme distratte e degradate, vedi il proliferare dei diritti, specialmente quelli di genere e legati alla diversità sessuale, il culto dei diritti umani), non deve arrivare assolutamente al capolinea quello che è l’autentico lascito per il futuro di questa tradizione, vale a dire la fortissima tensione culturale, politica, filosofica e psicologica generata dalla necessità di travestire con vesti divine (lo ripetiamo: mito della rivoluzione, con complementare mito della democrazia  e dei diritti umani e politici) un conflitto strategico portato agli estremi e che ha comportato l’uccisione non giustificata da nessun intervento  divino di tipo tradizionale di un re consacrato, la decapitazione di Luigi XVI di Borbone.  Abbandonando quindi la credenza nel  mito di una rivoluzione che  permette tramite i suoi idola fori dei diritti umani e democraticistici di perpetuare  le pratiche di potere dei  sempre eterni stessi oligarchici  agenti strategici, questa tensione di occultamento del factum horribile dell’uccisione ingiustificata del re consacrato ci conduce allora alla vera origine della nostra modernità politica, e cioè al prodursi di un conflitto strategico, la cosiddetta rivoluzione francese e poi le altre che la hanno seguita, che per poter essere accettabile ha dovuto creare, visto che aveva gettato nel cesto oltre la testa del re ghigliottinato anche ogni tradizionale trascendenza, delle sub trascendenze (mito della rivoluzione, mito della democrazia e dei diritti politici ed umani) che non avendo però la blindatura a prova di realtà dell’originale trascendenza hanno generato due secoli di continue crisi politiche (e di crisi del mito stesso). Compito  del Repubblicanesimo Geopolitico è quindi cogliere l’autentico nucleo rivoluzionario ed imperituro della tradizionale rivoluzionaria occidentale sotto il duplice aspetto che si è qui cercato di enucleare. Da un lato, rendendosi conto che non tutto per tutti può essere non diciamo pubblicamente svelato  (la straussiana “ermeneutica della reticenza” anche prima dell’esplosione della rivoluzione informatica della comunicazione ha sempre avuto una sapore più di nostalgia archeologica che di vera possibile e praticabile proposta politico-filosofica) ma accettato, non rifiutare ed anzi utilizzare la tensione generata da un mito rivoluzionario e oggi democratico sempre al di sotto delle sue aspettative presso la maggioranza di vasti  e trasversali strati della popolazione (siano questi sezioni della popolazione spiccatamente non intellettuali o ceto intellettuale vero e proprio non importa: la tendenza all’illusione e a non volere vedere il conflitto strategico è equamente suddiviso in tutte le classi ed i ceti). Dell’utilizzo di questa tensione generata dalla credenza nel mito e dalla delusione della continua sua  smentita da parte dei fatti (e in cui l’analisi teorica ancora clemente concede, esplicitamente o implicitamente, l’esistenza di un tempo, non il nostro, dove il mito era forse una realtà, in un atteggiamento simile a coloro che, criticando la chiesa cattolica odierna, si rifanno miticamente alla chiesa delle origini) è un chiaro esempio l’articolo che costituisce lo spunto di questo commento, “Apoptosi della democrazia”, dove prendendo lo spunto dalla vicenda dell’oro della Banca d’Italia, si afferma che in Italia si sta assistendo all’ “Apoptosi della democrazia”, cioè alla morte programmata della democrazia, mentre se si fosse stati teoricamente ancora più affilati si sarebbe dovuto dire che si sta assistendo all’ “Apoptosi del mito democratico”. Dall’altro lato il cogliere il nucleo veramente fondante della nostra modernità politica consiste proprio nel disvelare pubblicamente che questo nucleo è un conflitto strategico che ha per sempre bruciato (o per meglio rappresentarlo storicamente storicamente: ha tagliato la testa) la possibilità di un ritorno ad una qualsiasi trascendenza politica e in cui la natura  della sua radicale immanenza sta proprio nella dialettica di una filosofia della prassi che pratichi il suo gioco politico utilizzando le tensioni generate dal mito (tentativo di questo utilizzo ma non disvelando la natura del mito, l’articolo “Apoptosi della democrazia”) e anche denunciando la natura tutta mitologica del misto stesso (il presente commento). La conclusione che non conclude è che non è certo la prima volta che una arretrata situazione politica (nel caso specifico quella italiana, evidentemente) ha dato origine ad un profondo rinnovamento teorico e a promettenti (ancorché drammatici) sviluppi politici. Ogni riferimento a personaggi storici e a situazioni che per rispetto all’intelligenza dei lettori non vengono neppure nominati è puramente non casuale. 

Massimo Morigi – 8 giugno 2016

 

Con il tentativo da parte del sistema bancario nazionale di derubare il popolo italiano dell’oro della banca d’Italia (e con le totalmente assenti reazioni da parte della politica e dei media a questa mostruosità, de facto genocidiaria contro gli italiani), le oligarchie politico-finanziarie del nostro paese hanno finalmente mostrato il loro vero volto, e cioè hanno palesato l’intenzione di instaurare un processo di morte programmata di quanto ancora rimane della democrazia italiana.

Possiamo così dire che la situazione italiana sta introducendo un’inedita variabile nei processi degenerativi delle democrazie già descritti in dottrina.
Se finora la scienza politica classificava fra i processi che pongono fine alla democrazie o violenti assalti contro l’ordine costituito o un lento scivolamento verso unità decisionali più efficienti e potenti di quelle nominate attraverso il principio della rappresentanza (in altre parole le tecnoburocrazie che prevalgono sui parlamenti e gli esecutivi, in un processo definito da Crouch postdemocrazia), oltre, come già detto, segno di un proposito di schiavizzazione e/o annientamento del popolo, il furto dell’oro della banca d’Italia non può che essere interpretato altrimenti – tralasciando ogni altra considerazione “catastrofica” per la storia del nostro paese ma limitando l’analisi su un piano meramente politologico – come la manifestazione di una volontà programmata all’uccisione della democrazia e, prendendo a prestito il concetto noto in biologia come apoptosi – che contempla un processo ove le cellule, anziché per malattia, per trauma o per senescenza possano morire in virtù di un loro specifico programma che pone termine alla loro esistenza –, come una sorta di inedita ‘apoptosi democratica’, una morte programmata della democrazia portata
Massimo Morigi, Repubblicanesimo Geopolitico Copiaincolla II dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, in Internet Archive da Domenica 31 maggio 2017, pagina 6 di 11

avanti per la prima volta nella storia della democrazia occidentale da parte di quelle stesse élite politiche e finanziarie che precedentemente svolgevano il ruolo di “Lord protettore” del sistema pluralistico.
A questo punto, veramente le “categorie del politico” ereditate dal Novecento si dissolvono come neve al sole e le reazioni a questo nuovo quadro devono tenere conto dell’elementare dato di fatto che l’ ‘apoptosi democratica’ non è nemmeno giustificabile come l’antidemocratico scivolamento verso un sistema maggiormente efficiente anche se non democratico (il processo postdemocratico) ma non significa altro che la riduzione in schiavitù del popolo. Che fare quindi?
In primo luogo essere consapevoli del processo e svincolarsi da qualsiasi forma di sottomissione anche mentale da un quadro politico-culturale sorto dopo la seconda guerra mondiale e che oggi non è altro che una cortina fumogena per impedire di prendere consapevolezza del definitivo (e voluto) decesso del vecchio canone politico liberaldemocratico.
In secondo luogo, sembrerà poco ma in realtà è moltissimo, contrastare democraticamente questo processo di ‘apoptosi democratica’ laddove esso si è manifestato in maniera così spudorata e violenta.
Si tratta, in altre parole, di essere presenti alla manifestazione di fine maggio in occasione della prossima assemblea della Banca d’Italia. Non è una manifestazione contro l’ennesimo scandalo politico italiano ma è il primo atto per dire che abbiamo capito che questo sistema ha esaurito il suo ciclo storico e che se si vuole non solo la sopravvivenza ma l’ampliamento della sfera delle libertà repubblicane (secondo il programma del Repubblicanesimo Geopolitico) un altro deve prendere il suo posto. E l’aurora di questo nuovo sistema repubblicano è anche cominciare a dire a chiare lettere che l’oro della banca d’Italia appartiene, come la sua cultura ed identità, al popolo italiano e che chi vuole mettergli le mani sopra deve essere trattato come i criminali processati a Norimberga, che per la loro folle volontà di potere e rapina distrussero popoli ed etnie. Come si propongono oggi di fare gli attuali ingegneri dell’ ‘apoptosi democratica’ e ladri dell’oro degli italiani.
Ma noi rinviamo al mittente queste intenzioni lottando, piuttosto, per l’apoptosi (“robustamente” assistita e sorretta dalla nostra consapevole iniziativa) di questa classe dirigente.
Nessuno escluso.
Massimo Morigi – 24 gennaio 2014

PODCAST nr 6 _TRUMP E LA CINA. Un amore appena cominciato. Ma è già finito?, di Gianfranco Campa

Gli scenari ormai si fanno sempre più complessi. I focolai di tensione negli ultimi dieci anni sono sempre più numerosi, ma si sono susseguiti nel tempo. La novità di questi ultimi mesi è che ormai tendono ad alimentarsi contemporaneamente e contestualmente. Come per l’Ucraina con la Russia, il confronto investe direttamente, ormai i rapporti tra Stati Uniti e Cina. Ancora una volta la dinamica non è condizionata dal semplice rapporto tra stati ma anche e soprattutto dalle tensioni sempre più sordide e distruttive tra le fazioni politiche negli States. Sembra che ogni passo sia mosso allo scopo di screditare e delegittimare il Presidente Trump, anche quando si finge di assecondare la sua linea politica originaria, come nel caso della Cina. Uno scontro dove i margini di mediazione sono sempre più ristretti. L’obbiettivo è quello di spingere Trump sempre più nelle spire dei neoconservatori e di isolare e distruggere la componente “produttivista” che ha costituito il nocciolo duro delle forze che hanno portato alla sua elezione. Il timore, forse il terrore è che, con o senza Trump, una tale situazione possa riprodursi in futuro. Intanto anche le Filippine iniziano a scaldarsi rapidamente. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

LA NATO E L’ADDESTRAMENTO PREVENTIVO PER LE CITTÀ RIBELLI EUROPEE. (a cura di) Luigi Longo

 

Riporto due scritti sulla militarizzazione del territorio europeo attraverso la NATO. Il primo riguarda il processo di americanizzazione e di militarizzazione delle città europee a partire dal Trattato di Velsen che istituisce la Eurogendfor, la polizia continentale con ampi poteri che fa capo alla NATO e, quindi, agli USA ( per una conoscenza ufficiale della Eurogendfor si veda il sito www.eurogendfor.org ).

Il primo scritto comprende lo stralcio dei paragrafi 3 “ l’americanizzazione del territorio europeo e italiano “ e 3.2 “ la militarizzazione delle città e dei territori” tratti dal mio, l’americanizzazione del territorio ( appunti per una riflessione), pubblicato su www.conflittiestrategie.it, 29/3/2014.

Il secondo scritto concerne la costruzione di una città-modello per l’addestramento di truppe al fine di combattere i cittadini europei che potrebbero ribellarsi ai loro sub-agenti dominanti a causa della grave crisi d’epoca che si accentuerà, tra alti e bassi congiunturali, mano a mano che la fase multicentrica avanza. La costruzione della città-modello è in realizzazione nella parte nord-orientale dello stato federale della Sassonia-Anhalt in Germania. Lo scritto è di Peter Koenig, Germania e Nato-Repressione fascista in Europa? ed è apparso su www.comedonchisciotte.org., 21/5/2017.

 

 

L’AMERICANIZZAZIONE DEL TERRITORIO

(appunti per una riflessione)

 

di Luigi Longo

 

 

Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente:                                          non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire                                             dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle

                                               armi moderne, la sua stessa esistenza): ma le teorie scientifiche, i                                                processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di                                                        comportamento americani penetrano, per il bene come per il male,                                              tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente                                            non appaia.

Raimondo Luraghi

 

 

In questo dopoguerra non si capisce più niente, questi                                                                   americani hanno cambiato tutto […] questi americani ne                                                              combinano di tutti i colori.

Antonio de Curtis (Totò)

 

 

[…] non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive                                                 degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre in                                                abbondanza tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, vivono popoli la cui                                             vita si svolge nella mitezza presso cui la coercizione e l’aggressione

                                               sono sconosciute. Posso a stento crederci; mi piacerebbe saperne di                                            più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a                                             far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento                                            dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri                                         aspetti tra i membri delle comunità. Io la ritengo una illusione.                                                  Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono                                     uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli                                                           stranieri. D’altronde non si tratta, come Ella stessa [ Einstein, mia                                               precisazione] osserva, di abolire completamente l’aggressività umana;                                               si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione                                          nella guerra.[…] finché gli Stati e nazioni pronti ad annientare senza                                          pietà altri Stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi                                              alla guerra.

Sigmund Freud[1]

 

 

  1. L’americanizzazione del territorio europeo e italiano. I segni del processo di americanizzazione del territorio, sia europeo, sia italiano, intesi come conseguenza della egemonia del modello sociale americano, che si ramifica in maniera profonda dopo il secondo conflitto mondiale ( fine della fase policentrica), con la ricostruzione e il conseguente sviluppo economico e sociale dei Paesi ( fase monocentrica), possono essere così delineati per comodità di sintesi:
  • La perdita della impalcatura urbana e territoriale europea.
  • Lo sviluppo quantitativo della città e del territorio ( la cultura quantitativa del territorio, la città diffusa, la città infinita, la ruralizzazione delle città, eccetera).
  • Il declino della città e del territorio come patrimonio sociale.
  • Le città e i territori della sicurezza e del controllo.
  • Il progetto di realizzazione del Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic trade and investment partnership).
  • La militarizzazione delle città e dei territori.

 

 

Tratterò brevemente gli ultimi due segni su evidenziati perché li ritengo prioritari in questa fase sociale europea e italiana che vede un aumento di temperatura della fase multipolare per le strategie di attacco degli USA – soprattutto via Siria e Ucraina – nei riguardi della Russia.

Premetto due brevi considerazioni, una storica per comprendere la nascita della potenza mondiale americana; l’altra territoriale per capire la costruzione della sovranità europea.

La prima. L’americanizzazione del territorio europeo e italiano è un processo che inizia con la dottrina di Monroe[2], cioè l’alt dato alle potenze europee di interessarsi al continente America, ovviamente negli interessi degli Stati Uniti e non dell’autodeterminazione dei popoli, e si consolida con la guerra civile americana[3], che rappresenta  per gli USA la svolta che permetterà loro sia di divenire una potenza mondiale, sia di operare una de-europeizzazione del territorio americano che consentirà la costruzione e la riorganizzazione del territorio (città e campagna), a partire da una propria identità, progettualità, disegno e visione[4].

La seconda. La città e il territorio europeo e italiano devono essere oggetto di un processo di de-americanizzazione[5] a partire da un progetto di sovranità su cui innestare una strategia di relazioni sociali altre, cioè, <<[…] trovare il sistema di vita << originale >> e non di marca americana, per far diventare << libertà >> ciò che oggi è << necessità >> >>.

 

 

3.2 La militarizzazione delle città e dei territori. Non nascondo che faccio fatica ad immaginare una Europa che si autodetermina avendo sul suo territorio una miriade di basi militari NATO e NATO-USA ( la Germania ne ha 70, l’Italia ne ha 111; sono dati da aggiornare ed escludono quelle che non si sanno)[6]. E’ fuori dubbio che gli USA sono egemoni nella NATO non fosse altro perchè è la potenza mondiale che spende in armamenti più della metà degli interi Stati mondiali ( 900 miliardi di dollari annui), e il suo presidente Barack Obama ha fatto sapere, in queste giornate europee, che<< […] «aerei Nato pattugliano i cieli del Baltico, abbiamo rafforzato la nostra presenza in Polonia e siamo pronti a fare di più». Andando avanti in questa direzione, avverte, «ogni stato membro della Nato deve accrescere il proprio impegno e assumersi il proprio carico, mostrando la volontà politica di investire nella nostra difesa collettiva». Tale volontà è stata sicuramente confermata a Obama da Napolitano e Renzi. Il carico, come al solito, se lo addosseranno i lavoratori italiani[7]>>. Così come è fuori dubbio che le strategie americane di politica estera, che ricalcano il vecchio retaggio da guerra fredda che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati[8], porteranno, mano mano che avanzerà la fase multipolare, ad una militarizzazione delle città e dei territori europei che esprime capacità militare, capacità di sicurezza e di controllo, capacità economica in funzione prevalentemente anti Russia. Non è un caso che la NATO non fu abolita una volta imploso il vecchio nemico “comunista”, ma fu rifondata probabilmente per meglio prepararsi ad un cambio di politica estera fondata sugli USA come unica potenza mondiale egemone: la nazione “eccezionale” universale. Oggi, per fortuna mondiale, non è così. La fase multipolare si va delineando e le strategie di politica estera americane fanno fatica a confrontarsi con le nascenti potenze mondiali ( soprattutto Russia e Cina).

Ho già trattato, nei miei precedenti scritti, la infrastrutturazione del territorio europeo in funzione della Nato (l’intervento sulla TAV) e le città NATO ( i due interventi sull’Ilva di Taranto). Voglio qui aggiungere una riflessione che riguarda la nuova polizia continentale con ampi poteri, l’Eurogendfor, istituita con il Trattato di Velsen (Olanda) e approvata all’unanimità dalla Camera e dal Senato all’assemblea di Montecitorio del 14 maggio 2010 ( legge n.84 il “Trattato di Velsen”). Per indicare i caratteri principali del Trattato di Velsen riporterò i seguenti passi dell’articolo di Matteo Luca Andriola:<< […] la Forza di gendarmeria europea (European Gendarmerie Force), conosciuta come Eurogendfor o Egf, che viene ora a proporsi come il primo corpo poliziesco-militare dell’Unione Europea, a cui partecipano cinque nazioni, cioè l’Italia, la Francia, l’Olanda, la Spagna e il Portogallo ai quali, in seguito, si è pure aggiunta la Romania, un’istituzione, quindi, con valenza sovranazionale.[…] Fra il 2006 e il 2007 il processo di genesi dell’Eurogendfor fa passi da gigante: il 23 gennaio 2006 viene inaugurato il quartier generale a Vicenza, la stessa città dove ha sede il Camp Ederle delle truppe Usa, divenendo operativa a tutti gli effetti, mentre il 18 ottobre 2007 viene firmato il trattato di Velsen, sempre in Olanda […]All’art. 3 si legge che «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero – l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR». Questa nuova “super-polizia” è, recita l’art. 1 del Trattato, «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi», al servizio, non tanto dei cittadini dell’Ue o degli Stati firmatari del Trattato (le “Parti”), ma, sostiene l’art. 5, sarà «messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche». Quindi un’Arma che può essere a disposizione degli Stati Uniti, dato che la Nato è, a tutt’oggi, il braccio armato di Washington in Occidente.[…] Colpisce, inoltre, il fatto che l’European gendarmerie force goda di una completa immunità internazionale. L’art. 4, recita che l’«EGF potrà essere utilizzato al fine di: condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione»[…] A quali casi si fa riferimento nel trattato di Velsen? A quelli inquadrati «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Cioè? A Petersberg, nei pressi di Bonn, si riunì il 9 giugno 1992 il Consiglio ministeriale della UEO ( Unione dell’Europa Occidentale) che approvò una Dichiarazione che individuava una serie di compiti precedentemente attribuiti all’UEO da assegnare all’Unione europea, cioè le cosiddette «missioni di Petersberg», cioè le “missioni umanitarie” o di evacuazione, missioni intese cioè al mantenimento dell’ordine pubblico, nonché operazioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace. Ergo, oltre all’intervento in caso di catastrofe naturale, l’Eurogendfor può intervenire per sedare delle manifestazioni in assetto da «forze di combattimento» >>[9].

Questa nuova istituzione europea di polizia continentale, che fa capo alla NATO, di controllo e sicurezza territoriale, con sede in una città NATO simbolo come Vicenza, trova comprensione in tre direzioni da approfondire: 1. Il ruolo della NATO che non è un ruolo direttamente militare ( viene sempre più velato ) ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento di territori in funzione di contrasto delle potenze mondiali emergenti, soprattutto la Russia; 2. La perdita della peculiarità territoriale ( di città e di territori) europea trova nel modello sociale e territoriale egemonico americano, direttamente e indirettamente tramite l’egemonia nelle istituzioni internazionali, una delle cause fondamentali del suo declino e della sua specificità storica:<< L’Europa si formò con l’emigrazione, l’America con la conquista. Per usare il linguaggio dei geologi, diremo che quella procede da alluvione e questa da azione vulcanica. E’ questo un primo tratto che differenzia la vita europea dall’americana.

Eccone un altro: la civiltà dell’America fu un’opera di governo, un’impresa di Stato, un grande atto amministrativo; quella dell’Europa un’opera anonima, popolare, senza azione legislativa […] Ogni civiltà ha un’opera genuina che è la città. La città è la sintesi di una civiltà, il gesto o il ritmo che traduce la sua anima. Atene è la Grecia, come Roma è l’Impero, Firenze è il Rinascimento, Siviglia è l’anima spagnuola ( New York è la modernità:” tutto ciò che è di solido, si dissolve nell’aria”, mia aggiunta)[10] >>[11]; 3.La politica di coesione e la cooperazione territoriale europea è funzionale alla strategia americana per aprire varchi ad Est risucchiando sempre più territori dalla sfera di influenza Russa ( ultimo caso: l’Ucraina).

Un esempio: si dice che << Una pluralità di questioni è associata alla coesione territoriale: il coordinamento delle politiche in regioni estese come quella del Mar Baltico, il miglioramento delle condizioni lungo le frontiere esterne orientali, la promozione di città sostenibili e competitive a livello mondiale, la lotta all’emarginazione sociale in alcune parti di regioni più ampie e nei quartieri urbani sfavoriti, il miglioramento dell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’energia in regioni remote e le difficoltà di alcune regioni che presentano determinate caratteristiche geografiche.[…] Il modello di insediamento europeo è unico. In Europa sono sparse circa 5 000 città piccole e quasi 1 000 città grandi, che fungono da centri di attività economica, sociale e culturale. In questa rete urbana relativamente densa le città molto grandi sono però poche. Nell’UE solo il 7% delle persone abita in città con oltre 5 milioni di abitanti, rispetto al 25% negli USA, e solo 5 città europee sono annoverate fra le 100 più grandi città del mondo.

Questo modello di insediamento contribuisce alla qualità della vita nell’UE, sia per gli abitanti delle città, che sono vicini alle zone rurali, sia per i residenti delle zone rurali, che beneficiano della prossimità dei servizi. È inoltre un modello più efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse in quanto evita le diseconomie dei grandi agglomerati e l’elevato uso di energia e di terre che caratterizzano l’espansione urbana; tali diseconomie assumeranno dimensioni ancora più preoccupanti con il progredire dei cambiamenti climatici e l’adozione di misure per adeguarvisi o per contrastarli >>[12], questo modello così delineato cosa ha a che fare con la realtà urbana e territoriale sempre più modellata su quella americana?[13].

 

 

 

 

 

[1] Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da: Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Nuova storia universale dei popoli e delle civiltà, volume sedicesimo, Torino, 1974, pag. XXI; Film: Totò, Fabrizi e i giovani di oggi, 1960; Sigmund Freud, Perché la guerra?. Carteggio con Albert Einstein, La città del sole, Napoli, 1996, pp. 24-25-28.

[2] Nico Perrone, Progetto di un impero 1823.L’annuncio dell’egemonia americana infiamma le borse, La Città del Sole, 2013, Napoli.

[3] Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie, Donzelli, Roma, 2007.

[4] Per una introduzione alla costruzione e contrapposizione politica e ideologica della concezione del territorio tra USA e URSS si veda Bernardo Secchi, La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp.63-85.

[5] Non leggo gli Usa come uno stato canaglia o una superpotenza canaglia alla Noam Chomsky (come fa nel suo “De-americanizzare il mondo”, 8/11/2013, www.comedonchisciotte.com ), ma leggo la de-americanizzazione dell’Europa come un processo che limiti l’egemonia degli USA per agevolare un mondo multipolare, possibilmente basato sull’autodeterminazione dei popoli.

[6] Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, 29/01/2014, www.millennium.org.

[7] Secondo i dati del Sipri, l’autorevole istituto internazionale con sede a Stoccolma, l’Italia è salita nel 2012 al decimo posto tra i paesi con le più alte spese militari del mondo, con circa 34 miliardi di dollari, pari a 26 miliardi di euro annui. Il che equivale a 70 milioni di euro al giorno, spesi con denaro pubblico in forze armate, armi e missioni militari all’estero in Manlio Dinucci, Quando ci costa la libertà della Nato, il Manifesto, 29/03/2014.

[8] Sui limiti della politica estera degli USA collegati al vecchio retaggio da guerra fredda, sulle difficoltà di impostare una politica estera adatta alla nuova fase multipolare che si sta delineando e sulle lacune nonché sui conflitti decisionali basati su vecchi schemi cognitivi e su un modello decisionale istituzionale che esalta l’esecutivo, la natura elitaria, la lotta interistituzionale, i “groupthink”, si veda l’interessante articolo di Giulia Micheletti, Le origini interne della strategia geopolitica statunitense, 03/03/2014, www.eurasia-rivista.org.

[9] Matteo Luca Andriola, Il trattato di Velsen e l’Eurogendfor, 13/03/2014, www.comunismoecomunita.org.

[10] Per la città di New York come simbolo della modernità, si veda Marshall Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna, 1985.

[11] Giovanni B. Teràn, La nascita dell’America spagnuola ,in Leonardo Benevolo e Sergio Romano, a cura di, La città europea fuori d’Europa, Libri Scheiwiller, Credito Italiano, Verona, 1998, pag.79. Si legga Fernand Braudel, Le strutture del quotidiano. Civiltà materiale, economia e capitalismo ( secoli XV-XVIII), Einaudi Torino, 1982, volume primo.

[12] Commissione delle Comunità Europee, Libro verde sulla coesione territoriale. Fare della diversità territoriale un punto di forza, 6/10/2008, www.europa.eu, pp. 3 e 5.

[13] Si veda David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013; Mike Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano, 2006;Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.

IL PAPA E L’ANTIPAPA, di Giuseppe Germinario

Dopo otto anni di fatiche presidenziali, Barack Obama ha deciso di concedersi un lungo meritato periodo di riposo. Un paio di settimane di soggiorno in Polinesia, presumibilmente di vero ozio, seguite da una lunga permanenza in Italia, assieme ai familiari, dai primi di maggio ed ancora in corso, sia pure inframezzato, stando almeno ai comunicati ufficiali, da un frettoloso rientro di pochi giorni negli Stati Uniti.

A un reduce di cinquantasei anni, ancora nel pieno delle energie, non si può certo chiedere un istantaneo rientro nell’anonimato della vita quotidiana, magari in pantofole davanti al televisore e con i nipotini che ancora mancano all’appello. Eccolo, quindi, presenziare nel frattempo a incontri e convegni per altro lautamente remunerati sull’alimentazione, sulla crisi climatica, sulla ecologia, sulla fame nel mondo; sulle tragedie che affliggono, come maledizioni divine o “umane”, il significato è pressoché simile, il genere umano.

Bisognerà concedergli anche il necessario periodo di adattamento da una vita di sfarzi e protezioni regali a quella di inerme cittadino e concedergli l’indulgente e benevolente comprensione ai suoi pernottamenti da diecimila dollari a notte e alle sue scorte blindate, ben più ingombranti della decina di automezzi destinati solitamente ad un convoglio presidenziale.

La fragilità dell’uomo affiora, però, guardando agli itinerari europei dei suoi spostamenti e alle persone dai quali più o meno riservatamente cerca conforto e riconoscimento. Solitamente la nostalgia comincia ad insinuarsi nel vuoto di aspettative, ma solo dopo un certo tempo.

In Obama, questo tratto è apparso praticamente il giorno stesso del suo abbandono della Casa Bianca. Quanto il personaggio sia abbarbicato ed affezionato agli incarichi di prestigio lo abbiamo visto nella fase di transizione, di passaggio delle consegne al nuovo presidente; non ha fatto altro che disseminare di trappole e di fatti compiuti una fase di passaggio che dovrebbe invece agevolare il più possibile l’ingresso del neoeletto. Quasi una ripicca per la sconfessione di otto anni di “change”.

A maggio ha fatto qualcosa di più. Si è guardato bene dal metter piede in casa saudita e in Israele, ancor meno in Egitto e in Turchia, paesi dalle spiagge altrettanto rinomate; segno che qualche traccia di realismo e di istinto di sopravvivenza deve essergli rimasto. In Europa, invece, ha ripercorso e soprattutto anticipato l’itinerario politico, già tracciato da un anno, di Trump al G7 e al Quartier Generale della Nato. Potrebbe apparire una preoccupante dissociazione della personalità, di chi si vede ancora investito delle trascorse funzioni, senza averne diritto, incapace di metabolizzare il trapasso.

Sta di fatto che il suo soggiorno in Italia è stato punteggiato da incontri pubblici e soprattutto riservati, ancorché protetti da una cortina assoluta di discrezione. Non sono mancate le puntate in Germania ad incontrare Angela Merkel e non sappiamo chi altri sino ad arrivare in Scozia, a meno di un ripensamento ufficialmente legato a problemi di sicurezza.

Si insinua il sospetto che la spiegazione psicologica di questo comportamento sia assolutamente riduttiva.

In effetti Obama aveva dichiarato più volte che la fine del suo impegno politico non avrebbe coinciso con quello del suo mandato presidenziale; la disfatta della Clinton ha certamente aperto la strada ad una sua presenza meno discreta volta a ricostruire il malconcio Partito Democratico senza grandi concessioni alle derive social-radicali, ormai ben radicate, espresse da Sanders e messe in quiescenza con qualche furbata di troppo nelle primarie democratiche del 2016. La coincidenza al momento di questa ambizione con gli interessi e le strategie di gran parte dello stato profondo impegnato a neutralizzare ed orientare le velleità conciliatrici verso la Russia e a impedire lo sconvolgimento del sistema di relazioni geoeconomiche perpetrati dalla parte più militante delle forze sostenitrici di Trump consente a BO (Barach Obama) di assolvere contemporaneamente ad entrambi gli impegni. A normalizzazione eventualmente compiuta lo Stato Profondo potrà finalmente tornare a disporre nuovamente di più opzioni politiche e BO potrà rifugiarsi in lidi più tranquilli, nella routine dello scontro tra gli scenari classici del palcoscenico politico.

Il viaggio di Trump in Medio Oriente e in Europa ha sancito lo stato avanzato di questa sua normalizzazione e il prezzo doloroso che una parte del vecchio establishment rischia di pagare a questo successo.

La clamorosa riattribuzione del ruolo egemone dei sauditi nel contesto arabo-sunnita suona come un campanello di allarme sulla persistenza della solidità di legami tra i Saud e la fazione democratica americana, rivelata apertamente dagli archivi di Wikileaks.

Un investimento che poggia sul sodalizio, tutto da rinsaldare ma con costi e incognite fondamentali, di due paesi “minori” di quell’area le cui ambizioni possono essere soddisfatte solo con l’esplicito appoggio esterno. I due paesi sono ovviamente Israele, “minore” per la sua collocazione geografica ed il peso demografico, e l’Arabia Saudita, ancora più esposta nella sua influenza ideologica ed economica, grazie alla crisi irreversibile e progressiva del petrolio. I costi a carico di Israele sono l’eventuale accordo per un definitivo riconoscimento di status dei palestinesi; a carico dei sauditi il rischio connesso a un tradimento dell’ISIS e all’ulteriore sacrificio della componente sunnita irachena già decimata dagli americani e dall’attuale governo dell’Iraq e sopravvissuta grazie al patto militare con l’ISIS. Le incognite sono le ambizioni da potenza regionale dell’Egitto da una parte, in procinto di fondersi con il Sudan e in grado di contrastare efficacemente il predominio ideologico dei sauditi; della Turchia, dall’altra, attualmente sospesa, ma tentata e spinta a realizzare un sodalizio con l’Iran, con pretese le quali, se non ben soppesate, rischiano di destabilizzarla ulteriormente. Il bersaglio immediato ridiventa l’Iran. La migliore condizione di realizzazione del piano sarebbe una accondiscendenza più o meno tacita delle due superpotenze emergenti, eventualmente timorose di veder sorgere al proprio fianco un competitore geopolitico del calibro della coppia Turchia-Iran. Una preoccupazione minore per la Russia, piuttosto che per la Cina. Una trama azzardata, ma che consentirebbe a Trump di ottenere sul piano economico e sociale, grazie ai contratti e alle collaborazioni in via di sottoscrizione, qualche risultato sacrificando i suoi propositi di svolta in politica internazionale.

Cosa c’entrerebbe l’Italia, o meglio la nostra scalcagnata classe dirigente, in tutto questo? C’entra, eccome!

Sin dai tempi dello “smacchiatore” Bersani si preconizzava un nuovo ruolo dell’Italia in Nord-Africa e Medio-Oriente. Lontana dai fasti di Mattei, in realtà il paese si sta riducendo ad una mera funzione di marchio per conto terzi, con tutti gli sballottolamenti legati alla competizione tra i paesi possessori. Piuttosto, come sollecitato da Trump, si chiede di svolgere una funzione di mediazione con Francia, Gran Bretagna e Germania che li spinga all’azione comune contro l’ISIS. Una azione particolarmente rischiosa soprattutto per i primi due paesi, proprio perché l’uso massiccio di queste frange integraliste sono state il veicolo di ritorno della loro influenza nell’area Nordafricana e Mediorientale e potrebbero intensificare le ritorsioni terroristiche in caso di ulteriori voltafaccia.

È certamente uno degli oggetti di disputa tra il Papa Trump e l’Antipapa Obama, l’argomento forte e decisivo di quest’ultimo essendo la precarietà della condizione dell’attuale Presidente e la ventilata sua prematura defenestrazione. Una panacea per una intera classe dirigente europea cresciuta malamente sulla russofobia e sull’espansionismo americano ad est a scapito della propria indipendenza politica, ma evidentemente pronta o quanto meno tentata a cogliere il repentino trasformismo dell’attuale Presidente. In Italia una parte della compagine governativa e della sedicente opposizione pare tentata ad assecondare la richiesta in cambio di un ruolo americano attivo di mediazione in Libia, in funzione antifrancese e antirussa. Ne rimane un’altra, legata al buon Matteo, legata nei suoi abbracci mortali fuori tempo massimo.

L’esito della disputa ci dirà se l’Antipapa si qualificherà come il messaggero diabolico del genio del male o si ridurrà alla figura di un impostore al servizio di una fazione politica ormai compromessa e miserabile. Quanto al Papa, pur con qualche sussulto, il solco pare sempre più quello classico conservatore con una qualche attenzione in più alla coesione sociale interna. L’imprevedibilità e il rivolgimento in un primo tempo sembrano spiazzare i due principali contendenti nello scacchiere internazionale. L’apertura di più fronti ostili, in realtà, rischia di rafforzare i loro propositi di momentanea collaborazione, pur tra le tante debolezze di quelle formazioni sociali e delle loro classi dirigenti ed accentuare il processo di formazione multipolare con tutti i rischi e le opportunità che classi dirigenti adeguate potrebbero affrontare e cogliere nello scenario mondiale.

LEBENSRAUM, NOOPOLITIK, ITALIA E CINA – Di Massimo Morigi

 

Proseguiamo con la pubblicazione di una serie di riflessioni datate, legate a contingenze politiche, di Massimo Morigi. Non si tratta, ovviamente, di una opera sistematica, ma di spunti tesi a suscitare discussione e ragionamento_ Giuseppe Germinario

A fronte della Cina che ha appena annunciato che verrà posta una restrizione sulla pena di morte ed una revisione sulla politica demografica, sono sempre più conclamati, in entrambe le sponde dell’Atlantico, i casi che dimostrano un apparente inevitabile declino delle democrazie rappresentative, una decadenza in cui l’avventurista politica turbobellicista statunitense (vedi caso Siria) fa benissimo il paio con l’avventurista politica economica europea attraverso la quale, il continente al quale è stato assegnato il premio Nobel per la pace, non si è peritato, per cervellotiche e criminali decisioni della sua ascarizzata tecnoburocrazia continentale, di ridurre letteralmente alla fame la parte sud del continente. Perché trattiamo nello stesso post due fatti che apparentemente non sembrano avere alcun legame fra loro? Molte semplicemente perché la Cina sta sempre più puntando, oltre che sugli aspetti materiali della geopolitica, anche sulla noopolitik, sta puntando cioè anche alla conquista di quel Lebensraum costituito dalle rappresentazioni culturali, ideali e/o ideologiche che fino a poco tempo fa era un elemento di grave handicap internazionale per un Celeste Impero governato dal partito unico comunista ma che ora, viste le male parate interne ed internazionali delle democrazie rappresentative occidentali, si presenta come uno spazio ormai del tutto abbandonato. È quindi di tutta evidenza che se il primo frutto della evoluzione postdemocratica delle democrazie rappresentative si presenta come un’affermazione delle burocrazie ed oligarchie irresponsabili, la seconda conseguenza sarà non solo l’immiserimento fino al decesso delle libertà politiche a livello interno ma anche, a livello geopolitico, la definitiva scomparsa di qualsiasi appeal del modello liberaldemocratico, apparentemente vincitore dopo la caduta del muro di Berlino, per i paesi emergenti. “L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” si presenta quindi molto meno neutrale e spoliticizzata di come l’avrebbero voluta le élite postdemocratiche di entrambe le sponde dell’Atlantico. Noi in Italia, per cominciare a pensare in termini geopolitici e di

noopolitik, dovremmo cominciare di smettere di pensare che la salvezza possa venire puntando sulla vecchio quadro internazionale emerso dal secondo conflitto mondiale e condotti, in questo devastato scenario, da una classe dirigente che ha delegato la sovranità nazionale alle tecnoburocrazie europee. In mancanza di questa (rivoluzionaria) presa di coscienza, l’unica noopolitik che ci sarà consentita saranno gli spettacoli di varietà sui “mitici” anni Sessanta (dove tutto andava bene perché il quadro internazionale non ci poteva permettere che andassero male).

 

 

 

18 NOVEMBRE 2013

STATO DI ECCEZIONE, LIQUEFAZIONE GIURIDICA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA ED ELEZIONI EUROPEE – Di Massimo Morigi

 

L’Italia è entrata tecnicamente in quello in termini giuspubblicistici viene definito ‘stato d’eccezione’. Questa è l’ineluttabile conseguenza della sentenza della Consulta in merito alla legge elettorale che ha portato alla elezione dell’attuale Parlamento e questo è il factum horribile che tutti gli osservatori hanno rimosso, arrivando costoro ad affermare che il Parlamento in seguito alla sentenza sarebbe politicamente delegittimato, giudizio corretto ma parziale perché si svolge unicamente lungo categorie moral-politiche avendo omesso di sottolineare il fatto – assolutamente più grave – che il Parlamento è pure giuridicamente decaduto. A parziale scusante della cecità dei commenti (suscitati ovviamente dall’intento di mantenere inalterati i vecchi privilegi oligarchici ma anche dal sincero terrore che tutto crolli e in questo novero si inserisce anche l’atteggiamento del Presidente della Repubblica che all’insegna del Tout va bien Madame la Marquise e sottolineando unicamente l’inderogabilità della riforma del sistema elettorale e così ignorando la terribile crisi sistemica intende mettere al riparo la stessa prima carica dello stato – eletta da un Parlamento originato da una procedura elettorale giudicata incostituzionale – dallo stato di eccezione generato dalla sentenza della consulta), bisogna tenere presente che il nostro sistema politico-istituzionale prima ancora che entrare nell’attuale conclamato ‘stato d’eccezione’ è da tempo che sperimenta prove tecniche di sospensione e/o aggiramento de facto della vigenza delle norme che (avrebbero dovuto) regolare la vita della repubblica parlamentare italiana. E, oltre alla continua decretazione d’urgenza che ha completamente esautorato il Parlamento e che ha conferito all’esecutivo una sorta di funzione dittatoriale, il primo e più grave esempio del continuo “autogolpe” che da tempo si infligge il nostro sistema politico-istituzionale è stato il conferimento di quote sempre maggiori di sovranità alle istituzioni politiche e agli organi tecnici dell’Unione europea, un processo che se in linea di principio consentito dalla Costituzione (Art. 11 Cost. : “L’Italia ripudia la guerra come strumento di

offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità [sottolineatura nostra] necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”), questo non poteva avvenire a detrimento dei diritti politico-sociali di cui godevano i cittadini italiani (come è successo durante la presente crisi economica dell’eurozona, dove le decisioni assunte sono state direttamente imposte dalle tecnoburocrazie europee cui nessun procedimento elettivo democratico aveva conferito questo ruolo e dove queste decisioni hanno direttamente leso i diritti politico-sociali degli italiani e quindi la possibilità di ampliare – in realtà la si è ridotta – la sfera di libertà del popolo, ampliamento che dovrebbe essere la vera “teleologia” di ogni sistema democratico degno di questo nome (esprimendoci nei termini del Repubblicanesimo Geopolitico questa “teleologia” viene definita anche come Republican Increased Common Domination ma questa inedita terminologia del già noto concetto di empowerment non deve nascondere l’elementare fatto che è sempre stato di tutta evidenza che un sistema democratico che abdica al fondamentale ‘principio di speranza’ di migliorare le condizioni spirituali e materiali del suo popolo non è più, de facto, un sistema democratico e che invertendo il processo di espansione degli spazi di libertà a favore di agenti sovranazionali che assumono quote sempre più crescenti di sovranità ma che non assumono l’onere di onorare lo scambio fra soggezione e libertà/protezione dello Stato originario, si genera per i popoli sottomessi a questo processo una situazione con profonde analogie con quella descritta da Hannah Arendt per gli apolidi nel suo saggio sul totalitarismo – cfr. Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, Torino, Edizioni di Comunità, 1999, pp. 410-418 -, i quali sono in possesso solo dei teorici diritti umani ma, concretamente, né di diritti politici né sociali, che possono essere garantiti solo da uno Stato che concretamente ha

storicamente contrattato col popolo questi spazi di libertà). Partendo quindi dalla constatazione dell’ autogolpe che si è inflitto il sistema politico-istituzionale italiano, giungo alle conclusioni e alla risposte. L’attuale ‘stato di eccezione’ italiano ha caratteri terribilmente drammatici non solo in ragione del mancato suo riconoscimento da parte delle oligarchie politico-finanziarie (vecchia pratica che – come si è sottolineato – è la cupa nota di fondo della nostra vita pubblica ) ma anche in ragione del fatto che nella nostra repubblica parlamentare se la legittimità giuridica dell’elezione del Parlamento viene colpita a morte, vengono colpiti a morte anche il Governo e la Presidenza della Repubblica che dal Parlamento sono stati messi in carica. Insomma lo ‘stato di eccezione’ italiano non trova alcun sovrano che possa assumersi né l’onere di decretarlo formalmente né di prendere provvedimenti per poterne uscire (ricordo ancora da una precedente nota che “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” , Carl Schmitt, Teologia Politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio, e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33). E allora? E allora non essendoci un vero sovrano che possa prendersi carico dello ‘stato di eccezione’ ma solo, come è accaduto in passato, una serie di sovrani abusivi, tutto è possibile, in quanto la situazione non può nemmeno definirsi come uno stato di rottura della Costituzione ma, bensì, di vera e propria liquefazione costituzionale perché, parlando in linea di diritto, gli attuali strumenti da essa indicati per agire – anche se con una terminologia e costruzione dell’articolo non adeguate ed incomplete per descrivere e fronteggiare lo stato di eccezione (Art. 78 Cost.: “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”) – per effetto della sentenza della Consulta sono anch’essi entrati in uno stato di caducazione giuridica. Nelle pagine del “Corriere della Collera” citate a premessa della presente nota, sono apparsi interessantissimi post con varie ed intelligenti soluzioni per uscire dall’attuale crisi e anch’io ho voluto dare il mio contributo suggerendo che nel

brevissimo periodo le elezioni europee potrebbero essere una ottima occasione per tentare di diffondere ad una vasta platea le idee comuni presenti in questo blog. Tutto ancora valido ma con un “piccolo” corollario. L’attuale crisi del parlamentarismo italiano ha raggiunto con l’attuale ‘stato di eccezione’, caratterizzato dalla liquefazione costituzionale, il suo momento più drammatico e con sbocchi, vista la debolezza evidenziata in Costituzione di un sovrano che possa farsi carico della soluzione (fra l’altro storicamente minato da quella tara per la quale Giuseppe Maranini coniò il termine di partitocrazia) e visto che questo stesso sovrano (il Parlamento in prima battuta e poi il Governo, ex Art. 78 Cost.), per gli effetti a cascata della sentenza della Consulta, è stato messo fuori gioco, assolutamente imprevedibili. Sono pertanto necessarie delle forze che possano costituire il momento generatore – pena la morte definitiva della democrazia italiana e il trionfo delle oligarchie politico-finanziare – del ‘nuovo sovrano’ che difenda la libertà e la democrazia. Bene quindi quanto da noi detto e proposto. Ma con la consapevolezza aggiuntiva – mi rendo conto che non è cosa da poco – che gli odierni tempi straordinari pongono le premesse per altrettanto straordinarie future azioni politico-culturali a difesa dell’attuale (sempre più declinante) legalità democratica e contro il sempre più impetuoso imbarbarimento oligarchico.

8 dicembre 2013

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia. di Luigi Longo 2a parte

 

link della 1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/05/09/gli-stati-uniti-e-lo-spettro-della-russia-di-luigi-longo/

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

La fase di transizione

Quando dico che la grande nazione imperiale USA è in fase di declino non intendo assolutamente che essa smette di lottare per il mantenimento o per una rinnovata supremazia mondiale ( intesa come centro di coordinamento per un nuovo ordine mondiale), per la semplice ragione che è ancora lunga la fase di transizione di egemonia mondiale verso una nuova potenza o una rinnovata egemonia: << Il nostro confronto delle passate egemonie mostra che il ruolo di nuove potenze aggressive nell’affrettare i crolli sistemici è diminuito di transizione in transizione, mentre è cresciuto il ruolo giocato dalla dominazione sfruttatrice esercitata dalla potenza egemone in declino […] Non ci sono nuove potenze aggressive credibili che possono provocare il crollo del sistema mondiale imperniato sugli Stati Uniti, ma, rispetto alla Gran Bretagna un secolo fa, gli Stati Uniti hanno possibilità anche maggiori di trasformare la loro potenza egemonica in declino in una dominazione sfruttatrice. Se alla fine il sistema crollerà, sarà principalmente per la refrattarietà degli Stati Uniti all’adattamento e alla conciliazione.>> (8).

Affinchè ci siano le condizioni di passaggio di egemonia da una potenza in declino ad un’altra occorrono le seguenti condizioni. << […] i paesi emergenti devono essere rispetto alla potenza in declino:

  1. più larghi e diversificati geograficamente;

  2. più efficienti economicamente e organizzativamente;

  3. più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato mondiale e sistema interstatale;

  4. più inclusivi socialmente all’interno;

  5. più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi [ funzionari del capitale, mia specificazione lagrassiana] a quelli dello forze organizzate del lavoro subalterno.

Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione egemonica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verificatesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. In questo caso, gli Stati Uniti hanno offerto al processo accumulativo:

  1. un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey (9) [ il termine spatial fix è di difficile traduzione e, perciò, si preferisce mantenere la dicitura inglese, anche se potrebbe essere impropriamente tradotto con soluzione spaziale così il traduttore Michele Dal Lago (9), mia precisazione ], più vasto e vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese;

  2. un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole economicamente e più efficiente organizzativamente della manifattura inglese;

  3. un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistema interstatale più complesso e stratificato ( dall’Fmi all’Onu) di quello inglese, basato su gold standard e concerto europeo;

  4. un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese alla soddisfazione degli interessi dei lavoratori;

  5. un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla conservazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capace di elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzioni significative del proletariato mondiale.

Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche succede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per ciascuna transizione egemonica. >> (10).

Le due potenze emergenti mondiali, Russia e Cina, non sono in grado di creare le condizioni per la sostituzione della potenza mondiale egemone, ammesso e non concesso che esse aspirino ad un dominio mondiale e non semplicemente, come lascia pensare la loro storia, ad una fase multicentrica ( che ritardi o annulli la fase policentrica del conflitto mondiale) nella quale confrontarsi su una visione diversa delle relazioni internazionali a partire dalla propria autonomia nazionale, dalla propria cultura, dal proprio legame sociale e dalla propria peculiarità territoriale.

Gli strateghi statunitensi non vogliono perdere il loro ruolo di grande nazione imperiale e temono il formarsi e il consolidarsi di poli, di aree, di regioni aggreganti intorno alle due potenze emergenti, in grado di mettere in discussione il loro dominio mondiale. Per questa ragione avendo scelto la strada di egemonia sfruttatrice, gli Stati Uniti sono la potenza mondiale più spregiudicata e pericolosa per l’intera umanità considerato, il livello di strategia atomica avanzata e radicale raggiunto. Alain Badiou, non molto tempo fa, sosteneva che:<< La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza.>> (11).

Gianfranco La Grassa dichiara che:<< L’eccezionalità del “mondo bipolare”, durato abbastanza a lungo, ha assicurato nella parte “centrale” del mondo (quella più sviluppata) un periodo di pace, legato però alla subordinazione di molti paesi all’uno o all’altro polo. Adesso siamo entrati in una fase molto diversa, che per di più va cambiando a sua volta “pelle” in periodi successivi e con il tentativo del predominante di uno dei due poli (il sopravvissuto) di avere il completo controllo della situazione. Tale tentativo non è per nulla favorevole al mantenimento di un minimo di equilibrio; da qui il disordine crescente attuale. Quindi, quel predominante (evidentemente gli Usa) deve essere contrastato e si deve arrivare al punto che esso si trovi nella situazione di rischiare tantissimo insistendo sulla sua prepotenza e arroganza. Non si ottiene questo risultato se non con l’unione degli sforzi di alcuni altri paesi, in cui si verifichi la presa del potere da parte di forze politiche capaci di decisa autonomia e di collegarsi fra loro in funzione anti-predominante>> (12).

Gli Stati Uniti si preoccupano, nel medio periodo, soprattutto della Russia (13) sia perché è stata la storica nemica del “mondo bipolare”, sia perché è la nazione centrale tra Asia e Europa ( il cuore della terra, l’immenso territorio bicontinentale), sia perché è stata la nazione dove è avvenuto un evento storico di grande importanza: la rivoluzione dei dominati che a partire dall’atroce macelleria della prima guerra mondiale hanno sperato in un mondo migliore. La lezione storica della rivoluzione russa indica che la maggioranza della popolazione se si organizza, pensa e progetta, può cambiare l’ordine costituito e pensare un nuovo legame sociale e nuovi rapporti sociali e questo a prescindere dal giudizio storico sulla rivoluzione russa del 1917.

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

NOTE

8. Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op.cit., pag. 336.

9. David Harvey, The geopolitics of capitalism in Social relations and spatial structure, a cura di, D. Gregory e J. Urry, Londra, Mcmillan, 1985, pp.128-163, ora in Giovanna Vertova, a cura di, Lo spazio del capitale. La riscoperta della dimensione geografica nel marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 2009, pp. 97-147.

10. Giorgio Cesarale, Le lezioni di Giovanni Arrighi in Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, op. cit., pp.19-20; sulla riorganizzazione sistemica statunitense si veda anche Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pp.41-43.

11. La citazione di Alain Badiou è tratta da Alain de Benoist, L’impero del “bene”. Riflessioni sull’America d’oggi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2004, pag. 107.

12. Gianfranco La Grassa, Alcune verità che sembrano dimenticate, www.conflittiestrategie.it, 29/4/2017.

13. La Cina è sostanzialmente una potenza economica mondiale funzionale alla logica imperiale USA: cosa è l’enorme surplus commerciale cinese pari a 347 miliardi di dollari e il consistente debito pubblico statunitense pari a 1058 miliardi di dollari che detiene se non una relazione “economico-finanziaria” asimmetrica a favore degli Stati Uniti: << Esportatori netti, tali paesi [ Giappone, Cina, India, Russia, eccetera, mia precisazione] sono costretti ad acquistare titoli di stato USA per mantenere apprezzato il dollaro e reinvestire il surplus commerciale nel più stabile luogo della terra, l’unico a non aver mai conosciuto cambi di regime. In nuce: per mantenere il benessere del loro principale acquirente, nonché garante delle vie di comunicazioni. Da qui l’accorato appello di Xi Jiuping per il mantenimento dell’attuale schema a guida americana >> ( Dario Fabbri, op. cit., pag.38). Per non parlare degli investimenti diretti e indiretti all’estero “propulsivi” ( investimenti fissi e azioni) per gli USA e “passivi” per Cina e Russia: << Gli Stati Uniti investono nel resto del mondo in maniera diretta- impianti- o in maniera indiretta-azioni- dieci volte più della Cina e della Russia messi insieme. Intanto che avviene questo, la gran parte delle riserve dei paesi che hanno accumulato avanzi commerciali- come la Cina, la Russia e i paesi produttori di petrolio- è trasformata in riserva in dollari ( e minor misura in euro) […] la maggior ricchezza cumulata da questi due paesi da quando è cambiato il sistema ( dagli anni Ottanta in Cina, dagli anni Novanta in Russia) non ha ancora spinto verso la strada della “dinamicità”. Questi due paesi, che per ora comprano- per bilanciare i propri avanzi commerciali – i buoni Tesoro degli Stati Uniti, potrebbero però- col passare del tempo- diventare dinamici nel campo degli investimenti esteri >>. Per non dire, infine, della moneta come riserva di valore (USA):<< […] si noti che per ora la Cina e la Russia investono all’estero, mentre spingono per l’uso delle proprie monete come mezzo di scambio che però è cosa ben diversa dalla moneta come riserva di valore >> ( Giorgio Arfaras, op. cit., pp.52-53).

 

 

LA RIVINCITA _ EN MARCHE, di Giuseppe Germinario

Il colpo clamorosamente fallito sette mesi fa a Washington, negli Stati Uniti, è perfettamente riuscito questa volta, il 7 maggio, a Parigi. Almeno per adesso.

Gli artefici dei due eventi appartengono, fatte salve le dovute gerarchie, allo stesso establishment. La compattezza del sodalizio è apparsa lampante al momento della sconfitta della Clinton; così pure la complicità e la simbiosi inestricabile di quel groviglio di affinità ed interessi svelate dai ripetuti attacchi del tutto inusitati nella loro forma e natura e dal muro eretto dalle due sponde dell’Atlantico contro il neopresidente americano.

Nessuna giustificazione a posteriori delle repentine ed improvvide giravolte di Trump; piuttosto una semplice constatazione.

A novembre l’inaspettata vittoria di “the Donald” aveva potuto contare sulla supponenza di una classe dirigente sicura del proprio totale controllo dei media tradizionali e sull’accondiscendenza e la complicità delle gerarchie addomesticate dalle epurazioni perpetrate negli ultimi venti anni tra gli alti gradi militari, negli apparati amministrativi e nell’intelligence e culminate nell’apoteosi degli ultimi sei di amministrazione Obama; tanto supponente da riproporre imperterrita una vecchia guardia ormai logorata. Una élite talmente tronfia da tollerare l’ascesa di un outsider alle primarie repubblicane nella convinzione che fosse il miglior nemico da battere alle presidenziali; vittima sacrificale più o meno inconsapevole sull’altare della sacra alleanza tra esportatori di diritti umani e interventisti militari fautrice dei numerosi focolai di guerra sempre più pericolosamente prossimi al nemico dichiarato: la Russia di Vladimir Putin. Una sicumera che ha accecato la loro mente e reso invisibile sino ad un paio di settimane dalla scadenza elettorale l’azione coordinata di un manipolo di “carbonari cospiratori”. Tanto limitato nel numero quanto compatto e sagace nello sfruttare ogni interstizio ed ogni crepa di quel moloch per scovare una improbabile candidatura, nello stringere i giusti contatti tra le pieghe degli apparati insofferenti ed esasperati da quella strategia, nel canalizzare con nuovi strumenti il consenso a un nuovo corso sino al successo finale di Trump.

Quanto quel successo si sia rivelato al momento e per il prossimo futuro effimero e foriero di un trasformismo che sta riconducendo rapidamente lo scontro politico nell’alveo e nelle ambizioni tradizionali della politica americana, pare ormai probabile; non basta però a ridimensionare la rilevanza di quell’impresa. Lo testimonia l’acutezza dello scontro ancora in atto dal giorno del suffragio e la inusitata trasparenza di un conflitto che in altri frangenti si ha solitamente cura di condurre dietro le quinte. Segno che i giochi non sono ancora conclusi, né tanto meno il risultato consolidato. Qualche avvisaglia di un ritorno alle intenzioni originarie infatti lo si coglie nella rimozione del capo del FBI, nella decisione di armare i curdi, nella gestione dell’esito elettorale in Corea del Sud favorevole ad una maggiore apertura a Cina e NordCorea. Staremo a vedere.

Con Macron, invece, è filato tutto meravigliosamente liscio.

La Francia di Le Pen e forse di Fillon avrebbe potuto diventare quella sponda necessaria a recuperare almeno alcuni aspetti delle originarie intenzioni in politica estera dichiarate a piena voce da Trump; a costruire un ponte stavolta più discreto verso la Russia di Putin, ad isolare quella classe dirigente tedesca così implicata e imbrigliata nelle strategie demo-neocon americane. Una evenienza da scongiurare assolutamente, secondo i canoni del politicamente corretto.

Da qui la selezione di un candidato, fresco di età e di esperienza sulla scena politica, ma già navigato nella tessitura di relazioni; da qui il suo repentino distacco dalla gestione presidenziale di Hollande, l’apparente ripudio della tradizione politica della sinistra socialista e della destra repubblicana conservatrice e la fondazione di un movimento di rinascita nazionale basato sull’iperattivismo e l’esasperazione delle attuali politiche di declino piuttosto che su un reale programma di rifondazione del paese e della nazione.

Agli evidenti impacci di gioventù del neofita ha sopperito per il resto l’incensamento mediatico orchestrato dai gruppi editoriali, tutti, ancor più che nella precedente avventura americana, direttamente implicati nella campagna elettorale e impegnati nella costruzione del personaggio come nel censurare apertamente sin dalla fonte le informazioni controproducenti. Ad essi si è aggiunta una sottile campagna giudiziaria tesa a eliminare l’avversario più pericoloso, Fillon, per quanto scialbo e improvvido, e a insinuare il discredito verso Marine Le Pen, la candidata vincente al ballottaggio, ma con ancora sulla fronte il marchio pur sbiadito dei collaborazionisti, dei traditori della Resistenza e della Repubblica e del razzismo da additare agli indignati o sedicenti tali.

Il successo di Macron è incontrovertibile, ma non così schiacciante e solido come la percentuale dei voti e il battage mediatico lascerebbero intendere. Non va sottovalutata la capacità di aggregazione e di ricomposizione degli interessi, ma nemmeno la loro fragilità e scarsa pervasività.

Ci sarebbero i milioni di schede bianche e nulle a certificare che il muro non è più così granitico e che tra i due schieramenti esiste ormai una zona grigia contendibile o quanto meno neutrale.

Buona parte dei voti presi, a dispetto dell’ostentata positività di Macron, sono voti contro l’avversario piuttosto che a lui favorevoli; disponibili probabilmente a rientrare in qualche misura nell’alveo classico dei vecchi partiti e ad alimentare una frammentazione politica propedeutica alla paralisi e allo stallo.

Il sostegno proviene da un movimento, “en marche”, dalle scarse probabilità di diventare una forza strutturata, mosso da motivazioni generiche; l’humus destinato a alimentare uno scontro di oligarchie tanto agguerrite quanto ristrette, rissose e instabili perché svincolate dalla ricerca di consensi organizzati estesi. Una dinamica che porta a sconvolgere le modalità di cooperazione e conflitto tra centri di potere così come regolate.

La grande stampa ha già iniziato ad evidenziare il gaullismo di Macron dimenticando che l’ascesa di De Gaulle coincise con il suo isolamento politico nell’Europa comunitaria dei Sei giustapposto ad un recupero dei legami con l’Unione Sovietica e con il mondo arabo; in particolare con un progetto di comunità europea antitetico a quello di Macron. Il richiamo al gaullismo appare credibile solo perché quel movimento è ormai frammentato e disperso in gran parte tra chi per recuperare parte degli antichi fasti perduti ha spinto verso la sudditanza atlantista e chi sogna un recupero della “grandeur” della Francia anacronistica e velleitaria dovesse prescindere da una politica di alleanze tra i più grandi paesi europei che si affranchi dalla sudditanza scaturita nel secondo dopoguerra. Non è casuale il silenzio di Macron sulla crisi che sta investendo l’organizzazione dell’ossatura economica delle passate ambizioni gaulliste: l’industria nucleare, quella del complesso militare e la meccanica pesante. La rivendicazione di una Unione Europea riformata rischia ancora una volta  di risolversi nella versione francese della battaglia renziana sui decimali di deficit da conquistare, su un efficientismo apparentemente fine a se stesso e su una precarizzazione dell’economia.

Il suo reale programma si può arguire dalla statura dei sostenitori indigeni e stranieri, a cominciare da Obama, già attivamente impegnato due anni fa nella ricerca di un candidato alle elezioni presidenziali francesi. Sta di fatto che, fondata sulla disgregazione dei due partiti tradizionali, in particolare il Partito Socialista, piuttosto che sulla loro trasformazione, Macron è riuscito al momento laddove in Italia Renzi ha subito un drastico rallentamento.

LIMITI DEL MINORITARISMO

La forza e la persistenza di Macron non rifulge però solo di luce propria; deriva soprattutto dalla incertezza, dalla approssimazione e dalle ambiguità delle due forze contrapposte, opposizioni nell’indole e nell’anima; quella di sinistra di Melenchon e quella del Front National di Marine Le Pen.

Opposizioni per l’appunto, non forze alternative di governo.

Sino a quando la sinistra continuerà a fondare la propria azione sugli esclusi, sugli “indisciplinati”, sugli “insoumis” (ribelli, non sottomessi) per esistere avrà sempre bisogno di oppressori; sarà sempre destinata ad essere forza di mera redistribuzione, di rimessa rispetto ad altri decisori, di sostanziale collateralismo. Negli ultimi tempi lo si è visto con “Podemos” in Spagna e con Syriza in Grecia. Melenchon sembra destinato a seguire quella traiettoria solo con qualche convulsione e conflitto più radicale e con qualche attenzione in più alla condizione dello Stato, come da tradizione francese.

L’ultimo  confronto preelettorale tra Le Pen e Macron ha rivelato come questa impronta non sia una prerogativa della sola sinistra, ma continua a pregiudicare l’aspirazione del Fronte Nazionale a costruire una linea coerente di ricostruzione nazionale e un indirizzo di politica estera tesa a fondare un’alleanza dei principali paesi europei in grado di sostenere il confronto soprattutto con gli Stati Uniti libero da rapporti di sudditanza.

Non è l’unico indizio rivelatore di tale incapacità.

Quattro anni fa ci fu un primo avvicinamento tra alcune componenti gaulliste meno attratte dalla svolta atlantista degli ultimi dieci anni e il FN. Avrebbe potuto fornire l’embrione di una nuova classe dirigente in grado di consentire il controllo degli apparati statali e l’attuazione concreta delle linee operative. Un avvicinamento durato appena due anni e in gran parte malamente rifluito. Non è un caso che il sostegno garantito da Dupont-Aignan non sia riuscito nemmeno a convogliare la totalità dei propri voti su Le Pen. La stessa campagna elettorale non solo ha conosciuto oscillazioni repentine e contraddittorie delle parole d’ordine e una debolezza di argomentazioni specie sul futuro dell’Unione Europea; ha rivelato un comportamento schizofrenico con linee e comportamenti antitetici degli esponenti tra un distretto elettorale e l’altro. La stessa performance protestataria poco presidenziale tenuta nell’ultimo confronto, più che a un errore o a un cattivo consiglio potrebbe essere, al netto di eventuali trappole ben congegnate del contendente, il risultato dell’impulso di contenere innanzi tutto il dissenso della componente identitaria del partito reso alla fine pubblico con la rinuncia della nipote Marion Le Pen a candidarsi alle elezioni parlamentari di giugno.

Sta di fatto che un pur rispettabile incremento di consensi, inferiore per altro alle aspettative, rischia di risolversi in uno stallo che impedirà l’assunzione della leadership e la definitiva maturazione di una forza nazionale scevra da grandi lacerazioni e fratture traumatiche.

A differenza della leadership americana, in Italia ed in Francia il tentativo in atto nasce da una rimozione improbabile di retaggi politici originari di queste formazioni, assolutamente incompatibili con il nuovo corso auspicabile.

Se, inoltre, in qualche maniera negli Stati Uniti si è trattato di uno scontro politico sostanzialmente impermeabile ad influenze esterne, vista la posizione dominante di quel paese, in Francia tali influssi risultano determinanti anche se non dalla direzione denunciata dalla stampa, quella russa. Si può affermare, al contrario, che l’interesse di quest’ultima sia scemato man mano che risaltavano le contraddizioni del movimento.

La recente tornata elettorale in Austria, Olanda, Stati Uniti e Francia ha rivelato ciò che la scuola del realismo politico ha sempre evidenziato. Le elezioni politiche “democratiche” non sono il momento fondamentale e decisivo del confronto politico.

Intanto i centri decisivi di potere, luoghi di confronto e conflitto di gruppi decisionali, coincidono solo marginalmente con le sedi di governo, in particolare quelli su base elettiva. Il controllo o la destrutturazione di quei centri è decisivo per l’affermazione o meno delle strategie politiche. Ogni forma di confronto e conflitto politico, anche quello più partecipato, si sviluppa tramite l’azione di gruppi dirigenti e con la manipolazione delle leve di potere e degli strumenti di formazione ed informazione secondo i punti di vista di gruppi dirigenti più o meno emergenti. La formazione di blocchi di consenso sono, quindi, sempre il frutto di azione politica. La detenzione delle leve di governo non comporta necessariamente la detenzione delle leve di potere. Una formazione politica tesa al cambiamento ma tutta concentrata nella competizione elettorale è destinata per tanto a vivere cocenti delusioni se non pesanti trasformismi dettati dalla realtà dello scontro politico.

PRIGIONIERI DEI PROPRI SLOGAN 

Anche se essenziale, il limite decisivo che impedisce il salto di qualità alle forze cosiddette sovraniste non è questo.

Il dibattito e lo scontro politico di questi ultimi anni si è sviluppato secondo dicotomie semplificatrici: sovranismo/globalismo, stato/sovrastatalismo, nazionalismo/mondialismo, pubblico/privato, protezionismo/liberismo, tecnocrazia/popolo, mercato/comunità, élite/popolo e così via.

Una dinamica comprensibile e inevitabile in una fase di stridenti contraddizioni, di contrapposizione aperta ad una ideologia sino a poco tempo fa ormai sulla soglia dell’affermazione del pensiero unico.

In effetti è servita a riproporre il ruolo e la funzione dello Stato e delle comunità nazionali, quello delle strategie e della decisione politica nei vari ambiti dell’agire umano, compreso quello economico, nonché il problema della costruzione di formazioni sociali e comunità nazionali più coese ed inclusive, fondate su valori condivisi piuttosto che sul mero scambio di valori economici.

Una rappresentazione antitetica elementare, necessaria a fondare un punto di vista e a motivare e compattare schieramenti politici, nel tempo può diventare fuorviante se non addirittura un ostacolo all’affermazione in mancanza di una analisi concreta e di una tattica efficace di una leadership politica.

L’assolutizzazione dei poli della coppia protezionismo/liberismo rimuove il fatto che il mercato, anche il più liberista, è comunque un luogo normato  attraverso il quale si afferma il predominio di una formazione sociale sull’altra; un luogo dove le tariffe doganali assumono un’importanza sempre minore e dove divengono predominanti la definizione delle caratteristiche dei prodotti, le modalità di formazione ed espansione delle imprese, la regolazione del commercio estero, il controllo dei flussi finanziari, l’orientamento del mercato interno, la detenzione delle tecnologie, ect. Lo scontro politico va condotto sulla definizione di queste norme e gli esempi storici, oggetto di analisi e studio, di formazione di sistemi economici sono innumerevoli.

L’analoga assolutizzazione dei poli pubblico/privato tende ad identificare il pubblico come bene esclusivo della collettività contrapposto all’interesse privato nell’economia. Riduce ad un aspetto morale una necessità storica, ignora che la funzione pubblica, con modalità diverse, è altrettanto importante anche nelle gestioni più privatistiche come quella americana, glissa sul fatto che anche il pubblico è gestito da élites e centri di potere in competizione.

Quella tra sovranismo e globalismo tende a mettere in relazione un concetto di potere con un flusso di relazioni molecolari, quando in realtà anche i più accesi globalisti, almeno quelli non accecati dalla taumaturgia delle parole, comprendono e utilizzano benissimo il ruolo fondamentale degli stati di appartenenza a scapito degli altri.

Lo stesso vale per le altre dicotomie, sulle quali si dovrebbe riflettere piuttosto che ridurre a slogan.

Più che per il valore intrinseco, i poli delle dicotomie andrebbero valorizzati in relazione agli obbiettivi politici di un gruppo dirigente. Il rischio, altrimenti, è di ricadere in una ottica reazionaria che cambi semplicemente le modalità di degrado delle formazioni sociali e in operazioni trasformistiche dal respiro corto.

Il recupero, la ridefinizione ed il rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali devono essere, quindi, lo strumento e la modalità attraverso le quali ridefinire le relazioni internazionali, così come si sono delineate ad esempio nell’Unione Europea, sia nella definizione di una politica estera autonoma, sia nella regolamentazione ad esempio di un mercato che consenta la formazione di imprese adeguate nelle dimensioni e nelle capacità tecnologiche e impedisca la distruzione delle capacità produttive e manageriali di interi settori e paesi, sia nella composizione di formazioni sociali più coese e dinamiche dove possano trovare posto anche gli attuali “esclusi”.

La perdurante, anche se ormai logorata, superiorità   del vecchio establishment deriva soprattutto dalla paralisi di una nuova classe dirigente ancora prigioniera dei propri slogan.

In Francia il Fronte Nazionale si sta avvicinando rapidamente ad una cruenta resa dei conti interni con un successo elettorale insufficiente a garantire il netto predominio dell’attuale gruppo dirigente e a favorire il processo di affrancamento da un atteggiamento minoritario. L’ambizione, quindi, di guidare un fronte gaullista/sovranista appare al momento frustrata; sarebbe già significativo riuscire a svolgere e mantenere un ruolo da comprimario.

In Italia la situazione appare ancora più disgregata, proprio perché gli attuali maggiori aspiranti a dirigere un tale movimento non provengono nemmeno da forze di impronta nazionale e devono, quindi, liberarsi di retaggi ancora più vincolanti per assumere una linea sufficientemente coerente e realistica.

 

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