Perché ci serve il concetto di comunità, di Gennaro Scala

Perché ci serve il concetto di comunità. Riflessioni a partire da un testo di Fabio Rontini su Costanzo Preve

Recentemente è stato pubblicato dal sito “intellettualecollettivo.it” un articolo, dal titolo un po’ internettiano-sensazionalistico La tesi di Costanzo Preve che spaventa i marxisti italiani di Fabio Rontini, che merita di essere discusso. Mi sia permessa un po’ di non malevole ironia, si direbbe che in Italia ci siano ancora schiere di marxisti, anche se facilmente prede dal panico, un po’ come le mandrie di mucche, ma ahimè secondo la mia esperienza ormai si contano sulle dita delle mani, se poi al sostantivo “marxista” aggiungiamo l’aggettivo “raziocinante” forse può bastare una mano sola. Rontini si chiede perché Costanzo Preve, uno dei migliori filosofi marxisti italiani, e che tale si è dichiarato fino all’ultimo anche se “non ortodosso e indipendente”, fosse stato ostracizzato, o posto in quarantena, se vogliamo utilizzare un termine più attuale, dalla sinistra marxista. Una prima risposta egli la trova in Carlo Formenti, notevole studioso delle trasformazioni sociali e politiche, anch’esso di formazione marxista, proveniente dall’operaismo, ma ha preso da tempo le distanze delle in-voluzioni negriane, restando invece estimatore del ben più profondo Mario Tronti. Formenti ha preso atto dell’irrimediabile deriva politica, e finanche antropologica, della sinistra dalla quale intende sottrarsi, e da questa via è giunto alla conclusione che è necessario un nuovo inizio, come sintetizza il titolo del libro Il socialismo è morto, viva il socialismo. Era conseguente quindi un ripensamento, espresso in un paragrafo del libro succitato, o per meglio dire un avvicinamento verso la figura di Preve, visto che afferma di aver “infine letto Preve”.

Veniamo alla tesi di Rontini, il quale sostiene giustamente che l’appartenenza dei marxisti al contenitore denominato sinistra perde di senso dal momento che è scomparsa ogni vestigia di borghesia progressista, desiderosa di rapportarsi con la classe operaia. Questa è la tesi di Preve, sintetizzata all’osso, che secondo Rontini spaventa i marxisti. Ciò è anche vero, ma non è questa sola tesi, ma la sua intera filosofia a costituire scandalo per il marxista benpensante e timorato … di Marx. Rontini utilizza il dibattito fra Preve e Losurdo che si svolse nel 2009, pubblicato in rete, come episodio esemplare dell’incomprensione della sinistra marxista nei confronti di Preve. Personalmente, direi di non focalizzare troppo su questo dibattito, i due si conoscevano bene tanto sul piano intellettuale, quanto su quello personale (conservo il ricordo di loro due discutere fittamente a distanza ravvicinata seduti ad un tavolino fuori da un convegno dalle parti di Assisi, adesso non ricordo quale, sono passati quasi vent’anni), per cui si tratta di un dibattito pieno di presupposti non esplicitati. Preve avrebbe voluto portare Losurdo dalla sua parte, quindi non va mai fino in fondo, esplicitando una rottura che poi era nei fatti. Il compianto Losurdo non avrebbe mai abbandonato una sinistra, nella quale la sua area, quella “antimperialista” dell’Ernesto e dintorni, non erano “ascoltati”. Erano isolati quanto lo stesso Preve ma continuavano e continuano fino alla fine a stare in essa, fino all’estinzione. Con Azzarà, che continua e continuerà fino alla fine a sbraitare contro la sinistra sul suo profilo facebook, ma a restare sempre al suo interno (immagino, perché mi ha bannato). Difendere la “distinzione destra-sinistra” voleva dire questo per loro, e che qualsiasi cosa faccia “la sinistra è sempre preferibile” ecc. ecc.

Se vogliamo capire perché Preve è stato ostracizzato dalla sinistra, marxista e non, bisogna guardare alla sua intera filosofia che mira ad una sua riforma teorica complessiva, ma essendo questa “irriformabile” (Preve) la conclusione logica è quella della necessità di un nuovo inizio.

Come racconta egli stesso, Preve iniziò un percorso di rottura dopo lo spettacolo del “baffetto bombardatore” che con il suo “sorrisetto cinico” mostrava soddisfazione della grande arguzia politica che l’aveva portato ad una completa acquiescenza nei confronti del “bombardamento etico” (titolo di un suo libro) della Yugoslavia. Mentre il “circo Barnum” della sinistra saltava sul carro del vincitore, e appoggiava la guerra contro una nazione che non ci aveva fatto nessun torto, e con la quale anzi avevamo proficui rapporti economici, con incoerenti prese di posizione di Rifondazione e del “filo-sovietico” Cossutta che fece una scissione per sostenere il governo D’Alema. Mentre invece esponenti della “nuova destra” come Alain de Benoist erano nettamente contrari a questa guerra. C’era qualcosa che non andava nelle categorie di Destra e Sinistra. Da qui inizia un ripensamento delle categorie di destra e sinistra, e anche questa è solo una parte del discorso di Preve, indirizzato alle categorie filosofiche di fondo che poi generano il discorso politico. Riporto qui un passo che è, a mio parere, il nucleo della sua analisi:

La sua critica al giacobinismo robespierrista, sia pure ogni tanto un po’ ingenerosa e unilaterale (personalmente, sono un ammiratore di Robespierre), resta però nell’essenziale è giusta, ed a mio avviso è la critica anticipata del comunismo storico novecentesco migliore che conosca. Se non condividessi profondamente questa critica, che è “comunitaria” e quindi né individualista né tradizionalistica, non avrei scritto un elogio del comunitarismo, ma l’ennesimo elogio del comunismo tout court. Se invece ho fatto questa scelta relativamente innovativa rispetto alla tradizione comunista da cui provengo, e proprio perché la critica di Hegel ai “comunitarismi frettolosi” che infine si rovesciano nel loro contrario e si autodistruggono mi pare convincente. Per me, questa non è in alcun modo una rottura con il comunismo, ma, al contrario, una maniera (che considero matura) di essere ancora fedele a questa scelta giovanile assolutamente non rinnegata che tempo fa definii una “passione durevole”.

[…] Hegel stima Rousseau e gli riconosce volentieri la sincera intenzione di superare l’individualismo atomistico astratto (per Hegel, l’individuo isolato è sempre astratto, mentre la comunità tenuta insieme dai costumi è sempre concreta), ma ritiene che su basi russoviane si possa avere soltanto una “comunità illusoria”, ossia un’addìzione di individualità presupposte come originariamente solitarie che si lanciano insieme nel progetto ugualitario di un nuovo contratto sociale equo, che possa sostituire quello precedente iniquo. Hegel chiama questo progetto russoviano una “furia del dileguare”. E che cosa è che propriamente “dilegua” , cioè scappa in .. avanti, si affretta senza essersi prima consolidato? È una comunità illusoria, tenuta insieme fittiziamente da una virtù politica soggettivamente sincera, che salta i momentìi essenziali della comunità familiare, della comunità elettiva di amici, della comunità fondata sul mestiere e sulla competenza professionale riconosciuta, e su tutte le comunità “intermedie” senza le quali non può neppure esistere la comunità delle comunità, il contratto sociale virtuoso fra cittadini uguagliati dalla legge.

Personalmente, trovo questa critica hegeliana non solo intelligente e pertinente, ma addirittura risolutiva. Non si può volere la “comunità ideale” se si comincia a disprezzare e ignorare le comunità intermedie precedenti. Il comunismo è, tra l’altro, morto proprio di questa specifica patologia. Ha messo la comunità astratta del comunismo davanti a tutto il resto, ha creduto di potersi costituire saltando la famiglia e la società civile (spacciate frettolosamente come “borghesi”), e così ha costruito sulla sabbia. Quando ha cominciato a entrare in crisi sul piano economico e produttivo, si era bruciato i ponti alle spalle, e non aveva più trincee di difesa su cui attestarsi. Franturnato l’apparato burocratico del partito, tutto si è dissolto in pochi mesi (l’esperienza della Russia nel 1991 è stata in proposito esemplare). (Elogio del comunitarismo, pp. 151-153)

In questo passo geniale viene esposta sinteticamente la tara storica della sinistra, comunista e non (notare che si parte dalla rivoluzione francese). In altre occasioni occasioni ho sintetizzato con il termine individualismo-universalismo, ovvero il salto dall’individuo al genere, il paradigma su cui si è costituita la sinistra comunista e non,. Ricostruire le categorie del movimento comunista superando questo paradigma fu il programma filosofico di enorme portata in cui Preve si impegnò. Un faticoso quanto necessario lavoro di ricostruzione su nuove basi, nel quale i “compagni” non hanno saputo e non hanno voluto impegnarsi, perché costava la dolorosa ridefinizioni delle convinzioni di una vita e dei rapporti politici, che sono poi anche rapporti personali.

Come ho sostenuto in occasione di un convegno in onore di Preve tenutosi a Bologna il 6 dicembre del 2013, il comunitarismo di Preve mira a correggere quell’impostazione di fondo per cui i comunisti e la sinistra in generale, hanno avuto una concezione errata dello Stato. È senso comune tra i “marxologi” che la concezione dello Stato fosse la tara principale della teoria marxiana, ma un “comunista antimperialista”, che in genere è, inconsapevolmente, più leninista che marxista, mi risponderebbe: i comunisti non hanno affatto ignorato la questione nazionale, i movimenti di liberazione nazionale del secolo scorso hanno visto un ruolo fondamentale dei comunisti! Per un’adeguata trattazione della questione non posso che rimandare al mio libro Per un nuovo socialismo, qui posso solo accennare al fatto che l’antimperialismo riportava nel movimento comunista “la questione nazionale” ma aveva dei difetti di fondo per cui non potè essere un’effettiva correzione del movimento comunista su tale questione. L’antimperialismo ha svolto una funzione importante durante il periodo dell’ascesa delle principali potenze che si oppongono allo strapotere americano, Russia e Cina, ma dal momento che queste potenze si sono affermate questa categoria va abbondonata e sostuita con il concetto di “mondo multipolare”. Inoltre, la categoria dell’antimperialismo si applica solo alle nazioni che hanno subito l’oppressione coloniale, ma delle autentiche questioni nazionali si sono poste e si pongono anche nella nazioni occidentali, ad es. l’errata teoria del movimento comunista sulla “questione nazionale” portò i comunisti a commettere dei gravi errori che favorirono l’affermazione del nazismo (in merito rimando al mio suddetto libro), come ho cercato di dimostrare anche basandomi su un testo del borioso Stefano G. Azzarà, allievo di Losurdo e punto di riferimento per Rontini.

Preve era un uomo della “vecchia guardia”, aveva trascorso gran parte della sua vita all’interno del fu movimento comunista, del quale si rese conto che aveva chiuso il suo ciclo, e cominciò un immane lavoro di ripensamento, ma su alcune questioni, tra cui l’antimperialimo e lo Stato, non giunse a delle soluzioni. Non credo di essere ingeneroso verso quello che considero uno dei miei principali maestri, è normale che sia così, gli siamo grati per l’enorme lavoro fatto, ma onoriamo i maestri proseguendo il loro lavoro, e a costo di apparire presentuoso, credo che almeno sulla questione dell’antimperialismo di aver fatto dei passi avanti.

Anche se il problema della subordinazione agli Usa non scompare, il problema più prossimo e più immediato, e che rischia di sfasciare lo Stato e la società italiana, è la subordinazione alla Ue (come ha già da tempo capito chi non era oberato da un bagaglio culturale marxista, ma magari in una prospettiva più limitata). Certo Preve sapeva che l’Unione Europea non poteva funzionare, e aveva previsto anche una divisione tra Europa del Nord e una del Sud, ma non costituiva per lui questo il principale problema. E in questo si dimostrava ancora uno della “vecchia guardia” che considerava il problema principale l’“imperialismo statunintense”. Io stesso ho fatto fatica a comprendere la priorità di questo problema, che ora è sotto gli occhi di tutti. Ripeto il problema del dominio statunitense non è certo scomparso, ma per l’immediato è assolutamente necessario risolvere il problema europeo.

Però Preve aveva posto correttamente il problema della sovranità e per questo è considerato un filosofo di riferimento dai “sovranisti”:

Immaginare che ci potesse essere una demokratia ad Atene con una guarnigione spartana stabilmente insediata sull’acropoli sarebbe stata un’assurdità per gli antichi. Eppure questa assurdità è oggi la normalità (una normalità anormale, in cui Kafka e Borges hanno sostituito Erodoto e Tucidide) per i popoli europei” (La saggezza dei Greci)

In breve tutte le divisioni politiche tra destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini perdono di senso in assenza di sovranità, poiché qualsiasi decisione scaturisca da questa dialettica politica questa si risolve in nulla, non serve a niente, poiché la decisione sulle questioni decisive spetta ad altri. Per questo è meglio A. de Benoist che si oppone all’imperialismo americano piuttosto che Luxuria che è culturalmente e politicamente allineato ad esso. La fine del mondo bipolare che aveva garantito uno spazio di sovranità (limitata) all’Italia e la degenerazione della sinistra avevano posto in secondo piano la divisione destra/sinistra, poiché è necessario convergere sull’obiettivo del ripristino di un adeguato livello di sovranità (una sovranità assoluta non potrà mai esistere). Quando in un ipotetico futuro la sovranità sarà ripristinata, le divisioni in base alle classi sociali e ai valori ritorneranno in primo piano, potremo anche tornare a definirle destra-sinistra, anche se a me non piace tale definizione che non sfugge al gioco di specchi, esiste una destra perché esiste una sinistra e viceversa, senza poi che si sappia “cos’è la destra e cos’è la sinistra” (per dirla con Gaber), preferisco le divisioni tra socialisti, (neo)liberisti, repubblicani, nazionalisti o in base all’identità religiosa ecc, insomma in base ad una definizioni dei valori politici, culturali, ideologici di riferimento, non delle generiche destra e sinistra che di per sé non vogliono dire nulla.

Destra e sinistra, o come si voglia definire le differenze politiche, hanno senso solo in uno Stato sovrano. Lo Stato è una delle comunità che si interpongono tra l’individuo e il genere. Il concetto di comunità avanzato da Preve è cruciale oggi. La crisi sociale, economica, politica innescata dal Coronavirus ha portato alla luce l’inconsistenza della costruzione sottostante alla “Comunità Europea”, mai nome fu più inadeguato. È fondamentale analizzare tutte le misure economiche e di carattere legislativo emanate dalla Commissione Europea e dalla Bce da valutare con la massima attenzione, ed è benemerito il lavoro di chi si sobbarca questo ingrato compito, ma ciò che più conta è stabilire se noi e i tedeschi (o anche i francesi) apparteniamo alla stessa comunità, se loro ci considerano o noi consideriamo loro come appartenenti alla stessa comunità. È questo che alla fine determina le misure economiche che vengono prese. Come sosteneva Preve appartienamo al genere umano, ma vi apparteniamo attraverso comunità determinate a partire dalla famiglia, passando per le classi sociali a finire con lo Stato. Tali comunità non hanno una base naturalistica, sono costruzioni sociali, ma sono nondimeno reali, e hanno effetti concretissimi. Alla luce dei fatti non possiamo che concludere che no, non apparteniamo alla stessa comunità, che non basta il nome, non abbiamo costruito con gli altri popoli europei una comunità, ogni nazione europea sta agendo per proprio conto e in funzione esclusiva dei propri interessi, e ci conviene ripristinare gli strumenti economici della sovranità che avevamo prima di entrare nell’Unione Europea altrimenti saranno c…. e qui evito di terminare con una locuzione volgare.

37° Podcast_Coronavirus, Taiwan-un esempio rimosso_di Gianfranco Campa

 

La diffusione del covid-19 ha scoperto il vaso di Pandora del complottismo; della tesi quindi della creazione artificiale del virus e della sua diffusione consapevole ad opera dei servizi americani. La verità, compresa quella dell’incidente, per ovvi motivi non la sapremo probabilmente mai. Appare però poco verosimile l’utilizzo di una arma difficilmente gestibile e il cui uso è suscettibile di ritorcersi contro l’eventuale aggressore. Tanto fervore induce piuttosto a mettere in ombra le enormi implicazioni geopolitiche e l’azione destabilizzante e trasformatrice di una tale crisi; ad oscurare le diverse modalità con le quali vari paesi hanno affrontato la pandemia. L’esempio di Taiwan è in proposito illuminante. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://soundcloud.com/user-159708855/podacast-episode-37

Qui sotto una sintesi scritta dell’intervento registrato di Gianfranco Campa. Si consiglia l’ascolto dei video linkati in calce al testo.

C’è un’isola che possiamo definire miracolata. La buona novella non è il risultato di un intervento divino dopo una preghiera in una piazza vuota, in un pomeriggio uggioso, recitata da un papa disorientato e inetto. Né deriva da un colpo del destino o da una buona dose di fortuna; è l’esito invece di una pianificazione esemplare, una preparazione e organizzazione stellare e una lungimiranza peculiare  di un popolo che, nonostante la condizione di precaria sopravvivenza, minacciata dal malefico dragone appena fuori l’uscio di casa, riesce ad eccellere sempre e comunque, contro tutto e tutti, anche nella titanica lotta pluridecennale nel farsi riconoscere come stato e come nazione legittima dalla comunità mondiale: stiamo parlando di Taiwan.

Taiwan, l’isola che resiste e che grazie alla sua organizzazione e pianificazione è riuscita nel miracolo di controllare l’epidemia di Coronavirus. Si parla e discute tanto di come l’epidemia del Coronavirus viene affrontata e gestita nei vari paesi. Si cerca di spiegare la mortalità relativamente bassa registrata in Germania, Giappone e Corea Del Sud; si è alla ricerca del modello ideale da prendere come esempio; sarà la Svezia, sarà Israele, sarà chi sarà… In altre parole, chi dei governi e collettività mondiale si vuole prendere come esempio dal quale studiare, analizzare e copiare la migliore risposta alla crisi pandemica e prepararsi quindi alla prossima pandemia. Vi posso assicurare che un’altra pandemia verrà, è solo questione di tempo.

Comunque sia del modello Taiwan non ne parla quasi nessuno; non è una sorpresa poiché l’isola per motivi politici e storici è una nazione collocata ai margini della diplomazia mondiale. Per esempio proprio qualche giorno fa durante un’intervista televisiva,  un alto funzionario dell’OMS ha evitato di rispondere ad alcune domande dirette su Taiwan. Il dottore canadese Bruce Aylward è stato intervistato da una stazione televisiva di Hong Kong (RTHK). L’intervista dell’ex vice direttore generale dell’OMS è diventata virale, scatenando feroci critiche. Nel segmento televisivo la giornalista Yvonne Tong chiede se l’OMS sarebbe disposta a riconsiderare la possibilità di far entrare Taiwan nell’organizzazione, vista la sua esclusione. Alla domanda segue un lungo silenzio di Aylward; concluso con la richiesta alla giornalista di passare ad un’altra domanda. Tong ha poi chiesto ad Aylward se poteva commentare “su come Taiwan sia riuscita a gestire finora la pandemia contenendo il virus“. Aylward ha risposto: “Bene, abbiamo già parlato della Cina e quando osserviamo le diverse aree della Cina, la realtà ci dice che hanno fatto un buon lavoro. Con questo vorrei ringraziarti molto per avermi invitato a partecipare” ha risposto Aylward staccando il video…

Il comportamento dell’OMS non è una sorpresa poiché la sua linea sembra rispecchiare la posizione della Cina su Taiwan, visto che l’OMS è ormai una organo pesantemente infiltrato dal partito comunista cinese. l’OMS non riconosce ufficialmente Taiwan. Ciò significa che in questa emergenza del Coronavirus, Taiwan rimane totalmente esclusa da riunioni importanti e conferenze globali  di esperti sulla pandemia di coronavirus. Il diplomatico taiwanese, Stanley Kao, ha affermato che negli ultimi anni all’isola è stato negato il permesso di partecipare alle riunioni annuali dell’Assemblea mondiale della sanità. Questa condizione di avversione e ostilità nei confronti di Taiwan è da ricercare nella storia controversa fra il partito comunista cinese e i taiwanesi; con il progressivo aumento del peso diplomatico della Cina negli ultimi decenni, sfociato in un’aperta “guerra” diplomatica, economica e culturale lanciata dal partito comunista verso l’isola miracolosa. Al momento attuale solo 15 paesi al mondo riconoscono e hanno pieni rapporti diplomatici con Taiwan.  Dal 1971 cioè da quando le  le Nazioni Unite espulsero Taiwan dall’organizzazione, trasferendo il seggio alla Repubblica popolare cinese (RPC). l’isola è stata lentamente e inesorabilmente isolata, diplomaticamente messa alla periferia del mondo, esclusa dal resto delle organizzazioni mondiali incluso l”OMS. 

Nonostante la mancanza di sostegno dell’Oms e l’isolamento in cui opera, l’isola ha gestito e continua a gestire la crisi del Covid19 in maniera esemplare. Quali sono i motivi di questo successo? Andiamo per ordine: Prima di tutto il sistema sanitario di Taiwan è considerato il migliore al mondo. Secondo la CEOWORLD, cioè la rivista guida a livello mondiale per amministratori delegati e professionisti esecutivi di alto livello, Taiwan si colloca al primo posto al mondo per assistenza sanitaria, mentre il sistema Italia si ritrova relegato al 37° posto. Questo dovrebbe una volta per tutte mettere a tacere le opinioni che sostengono “l’eccellenza del sistema italiano” . Tra parentesi mi fido piu dell’analisi del CEOWORLD che di quella dell’OMS il quale annovera l’Italia e la Spagna fra i 6 paesi al mondo con il sistema sanitario migliore. Il fiasco Italiano nel gestire la crisi del Coronavirus dovrebbe mettere a tacere qualsiasi proclama di eccellenza…

Parte del successo del sistema sanitario taiwanese consiste nella sua semplicità ed efficienza. Solo l’1% del budget sanitario viene speso in costi amministrativi e quindi la burocrazia è ridotta al minimo; per dirla all’americana meno ufficiali e più soldati insomma… Altro punto importante nel successo del sistema sanitario taiwanese riguarda l’efficiente sistema dell’infrastruttura tecnologica informativa; questa infrastruttura ha permesso al governo taiwanese di rispondere prontamente ed efficacemente ai primi casi di coronavirus, isolando gli infettati e separandoli dal resto della comunità, mappando nei minimi dettagli le comunità contagiate, evitando così che il virus si diffondesse a macchia d’olio, silenziosamente, tra il resto della popolazione. E’ chiaro che il sistema taiwanese non è perfetto e richiede di perfezionarsi con ulteriori accorgimenti; primo fra tutti la carenza di dottori pro-capite. Il problema è che i taiwanesi approfittano della loro assistenza sanitaria economica, accessibile e qualitativa andando dal dottore molto spesso. Come risultato il numero medio di visite mediche all’anno (12,1) è quasi il doppio paragonato a quello di altri paesi. Ci sono circa 1,7 medici a Taiwan per ogni 1.000 pazienti, che è ben al di sotto della media di 3,3 in altri paesi sviluppati. Comunque sia la sanità taiwanese rimane un buon esempio da seguire, non perfetto ma perfettibile.

Il secondo punto nel successo della gestione della crisi del Coronavirus è dovuto alla preparazione del governo taiwanese dopo la crisi del primo SARS nel 2003: Per non farsi trovare impreparati, sapendo che dopo la prima SARS sarebbe stata solo questione di tempo prima che arrivasse una seconda SARS; I taiwanesi si sono adoperati affinché tutta la catena di forniture necessarie a combattere una nuova pandemia venisse prodotta in casa senza fare affidamento a forniture straniere. Mascherine, grembiuli, occhiali di protezione, guanti, visiere, ventilatori, liquido igienizzante, medicine e molto altro viene ora prodotto internamente, senza far affidamento su altri paesi. Mentre in Europa sostenevano che le mascherine non fossero necessarie alla prevenzione del Coronavirus, Taiwan ha investito pesantemente nella loro produzione sapendo benissimo che le mascherine erano strumento essenziale nella prevenzione di  COVID-19. Come se non bastasse Taiwan, tramite la mappature digitale, ha inoltre sviluppato un sistema di razionamento in base al quale ogni residente adulto è in grado di acquistare tre maschere a settimana. Per garantire che tutti i residenti rispettino la regola, le maschere possono essere acquistate presso farmacie e centri medici designati. Queste sedi hanno le strutture per scansionare digitalmente le tessere dell’assicurazione sanitaria nazionale (NHI), la qual cosa consente al governo di registrare la cronologia degli acquisti. Il razionamento però non è stato necessario poiché la capacità di produzione di mascherine è aumentata da 4 milioni nel gennaio del 2020 agli attuali 15 milioni di pezzi al giorno; ripeto, l’attuale capacità produttiva di mascherine è ora di 15 milioni di pezzi al giorno. La capacità produttiva di taiwan e talmente larga che la presidente taiwanese ha promesso di donare 10 milioni di maschere ai paesi più colpiti dal coronavirus. Il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu ha specificato che le maschere sarebbero state inviate agli Stati Uniti e alle nazioni dell’Europa occidentale. Attenzione parliamo di donazioni non di vendita. Un gesto nobile per un paese piccolo e per lungo tempo abbandonato dalla comunità internazionale a scapito dei criminali di pechino.

Un paio di giorni fa l’avatar; Ursula von der Leyen sul suo account twitter ha ringraziato taiwan per conto della comunità europea: “ L’Unione Europea ringrazia Taiwan per la donazione di 5,6 milioni di mascherine per aiutare a combattere il coronavirus. Apprezziamo davvero questo gesto di solidarietà. Questo focolaio globale del virus richiede solidarietà e cooperazione internazionali.” 

Terzo punto importante nella lotta contro Covid19: Taiwan ha messo in atto un sistema chiamiamolo di allerta precoce.  In altre parole; Taiwan dopo la Sars del 2003 ha creato una Task force incaricata di monitorare il mondo a caccia di possibili segnali anticipati di pandemia. Possiamo chiamarla un servizio di intelligence incaricato di occuparsi esclusivamente di identificare possibili focolai di malattie prima che arrivino a colpire Taiwan. Questo servizio di monitoraggio è soprattutto finalizzato a cogliere gli eventi in corso nella Cina continentale. Così quando a Wuhan sono trapelati i primi segni di una nuova sconosciuta e devastante epidemia  il governo taiwanese era già informato delle possibili ramificazioni e disastrose conseguenze che avrebbe potenzialmente potuto arrecare al mondo. I primi segnali si erano avuti all’inizio di Dicembre, mentre il mondo nella quasi totalità ignorava ciò che stava succedendo nella provincia di Hubei e il partito comunista cinese era intento a censurare nascondendo la apocalittica realtà. I taiwanesi si erano già messi in moto per attuare i protocolli di sicurezza sviluppati negli ultimi anni, mettendo in moto la macchina organizzativa. . “Ciò che abbiamo imparato da Sars è che dobbiamo essere molto scettici riguardo i dati provenienti dalla Cina“, ha affermato Chan Chang-chuan, decano del College of Public Health dalla National Taiwan University. “Nel 2003 abbiamo imparato una funesta lezione e quell’esperienza è qualcosa che altri paesi non hanno recepito”.

Veniano così all’ultimo quarto punto fondamentale della battaglia Taiwanese al Covid19: la chiusura totale della frontiere. Nonostante le strette relazioni ed i frenetici scambi tra Cina e Taiwan, il governo di Taipei ha immediatamente limitato gli arrivi all’isola prima dalla Cina e poi dal resto del mondo, isolando di fatto l’isola dal resto della comunità internazionale. Chi è rientrato a Taiwan è stato assoggettato ad un rigoroso protocollo di controllo , monitorato elettronicamente, tramite i  propri cellulari, gli spostamenti delle persone sotto ordine di quarantena. Il Centro di comando per il controllo delle malattie (CECC) lavorando all’unisono a livello interministeriale, ha deciso di integrare i propri dati rendendoli compatibili con i dati della l’agenzia doganale e di immigrazione, la National Immigration Agency (NIA). Questo connubio ha reso possibile individuare, tramite il sistema PharmaCloud, la sequenza degli itinerari e degli spostamenti intrapresi dalle persone che entravano nel territorio Taiwanese. Ciò ha consentito  ai medici di avere accesso ai dati dei contatti della persona implicata. Un fattore che ha aiutato non solo ad isolare i potenziali portatori di epidemie, ma ha anche aiutato i medici taiwanesi a determinare se i pazienti dovevano sottoporsi ai tamponi ai fini dell’accertamento della presenza del Coronavirus.

Ricapitolando quindi i punti fondamentali del modello taiwan sono i seguenti: Un’eccellente sistema di copertura sanitaria gestito efficientemente. Uso appropriato ed efficace  della tecnologia informatica.Pronto monitoraggio di possibili focolai nel mondo. Produzione interna del materiale medico necessario a far fronte alla malattie e, ultimo ma non meno importante, controllo meticoloso e ferreo dei confini del paese, sia in entrata che in uscita.

Questo efficace sistema taiwanese è stato adottato dal governo neozelandese. All’inizio di marzo di quest’anno, il Dr. Ashley Bloomfield, capo del Ministero della Salute della Nuova Zelanda, ha elogiato le misure di prevenzione della pandemia adottate da Taiwan. Il dottor Bloomfield ha affermato che due paesi – Singapore e Taiwan – hanno mostrato una efficace capacità di isolare e mettere in quarantena coloro che sono venuti a contatto con casi positivi di coronavirus. Prendendo spunto dai taiwanesi la Nuova Zelanda dovrebbe muoversi in questa direzione.

Il successo di questa strategia potrebbe dare un nuovo impulso alle possibilità di riconoscimento diplomatico del paese. Nel frattempo il presidente americano Donald Trump ha firmato una settimana fa , ma per lo più ignorato dai mass media per via della crisi del coronavirus,  il cosiddetto disegno di legge denominato Taipei Act. Il TAIPEI ACT segna un cambio epocale nei rapporti Taiwan-USA in chiave soprattutto anti-Cinese. Il taipei act riporta un bilanciamento nelle relazioni asiatiche migliorando il supporto degli Stati Uniti verso Taiwan e incoraggiando altre nazioni a intrecciare relazioni con l’isola. Un tentativo di isolamento di coloro che seguono gli ordini del Partito Comunista Cinese (PCC). 

L’ufficio rappresentativo economico e culturale di Taipei (TECRO), l’ambasciata di fatto di Taiwan negli Stati Uniti, ha esternato la propria approvazione e gratitudine verso il presidente americano. Il presidente taiwanese Tsai ha affermato che è stato “gratificante” vedere firmata la legge TAIPEI, salutandola come un “attestato di amicizia e sostegno reciproco mentre lavoriamo insieme per affrontare le minacce globali alla salute umana e ai nostri valori democratici. Il disegno di legge ribadisce la forza congiunta di Taiwan e Stati Uniti. Inoltre, apre la strada a scambi bilaterali ampliati, preservando allo stesso tempo lo spazio internazionale del paese di fronte alla campagna di coercizione autoritaria della Cina “

Inutile dire che Il Partito Comunista Cinese è, ovviamente, meno soddisfatto della Legge TAIPEI. “Esortiamo gli Stati Uniti a correggere i propri errori, a non applicare la legge e non ostacolare lo sviluppo delle relazioni tra altri paesi e la Cina; incontrerà altrimenti inevitabilmente una risposta risoluta da parte della Cina“, ha avvertito un portavoce del ministero degli Esteri cinese. La Cina come risposta alla legge TAIPEI ha intensificato la sua campagna di pressione militare contro Taiwan conducendo provocatorie esercitazioni navali e aeree. Ma il dado è ormai tratto, la nuova guerra fredda tra i cinesi e gli americani è solo all’inizio e continuerà ad allargarsi. 

 Nel frattempo più di qualche nazione al mondo, a parte la Nuova Zelanda, potrebbe cogliere la novità ed adottare il modello taiwan come esempio da seguire per affrontare la prossima crisi epidemica ed economica. L’italia sarebbe una candidata eccellente per attuare queste misure, ma dubito che possa farlo anche se ci fosse la volontà, poiché attuare queste misure vuol dire andare in diretto contrasto con l’unione europea. Penso solo ai cambiamenti necessari per assicurarsi il completo controllo delle frontiere.  Tali controlli sarebbero necessari per gestire in maniera competente una nuova pandemia, Ma attuare ciò vuol dire eliminare, sospendere o uscire dal trattato di Schengen. Azioni decisive e ferme che però, ahimè, i nostri politicanti attuali non sarebbero capaci di intraprendere; preferiscono seguire l’avatar di Ursula von der Leyen, che ringraziando il governo di taipei per la forniture delle mascherine ha messo a nudo l’incapacità europea di affrontare la pandemia.

I morti italiani gridano vendetta, una vendetta che richiede dei passi decisivi e drastici. L’Italia non ha bisogno dell’Europa, L’Italia ha bisogno di trasformarsi in una nuova Taiwan. Un’italia sovrana, libera, democratica, padrona del proprio destino e capace di programmare e decidere la propria risposta. L’Isola miracolata, che resiste; Taiwan segna la strada. Per l’italia il modello da seguire è quello, al resto dell’Europa alla prossima pandemia possiamo regalare eventualmente quattro mascherine per puro spirito di compassione….

 

 

 

 

https://ceoworld.biz/2019/08/05/revealed-countries-with-the-best-health-care-systems-2019/

https://www.msn.com/en-us/news/world/taiwan-donating-millions-of-masks-to-other-countries-to-fight-covid-19/ar-BB121ex5

https://www.congress.gov/bill/116th-congress/senate-bill/1678

La rinascita nazionale, a cura di Giuseppe Germinario

Nel corso della settimana pubblicheremo i testi e gli appelli delle varie formazioni politiche critiche ed antagoniste rispetto al vigente progetto europeo e agli schemi conseguenti nell’affrontare la drammatica crisi politica e geopolitica ancor più che meramente economica accelerata dalla pandemia e destinata a sconvolgere le attuali formazioni socioeconomiche e politiche. Seguiranno ovviamente le dovute riflessioni con l’auspicio che si inneschi un dibattito finalizzato finalmente alla costruzione di un terreno e quindi un progetto politici comuni. Si comincia con il documento del FSI (Fronte Sovranista Italiano). I documenti saranno raccolti nel dossier “rinascita nazionale” del sito_Giuseppe Germinario

https://appelloalpopolo.it/?p=57222&fbclid=IwAR1QIEkym5mdchL6fMo8BUvTMFjdi22j2ktqkgsUXoimY-gq_1qS8N9OW3A

Emergenza coronavirus e crisi economica: come uscirne

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI….SOCIALISMO CHE FAI, di Pierluigi Fagan

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI. Rapido giro mattutino della stampa int’le (SPA,FRA,UK,GER,USA).

1) L’EUROPA. Nel gruppo euro, siamo a 15 paesi contro 4 (GER-OLA-AUS-FIN). I 4 hanno capito di aver clamorosamente sbagliato il primo round, critiche interne si sono sollevate soprattutto in Olanda ed un po’ anche in Germania. Soprattutto hanno capito di star mettendo seriamente a rischio euro ed UE. Così ora scatta l’operazione elemosina ovvero gettare in pasto alle opinioni pubbliche un marasma di ipotesi di intervento tutte largamente insufficienti, ma che possono dar l’impressione si stia facendo fattivamente qualcosa. Si parla di un fondo per la disoccupazione di 100 mld () e l’olandese Rutte, si è anche spinto fino all’idea di una donazione caritatevole da 10 mld che i Paesi “ricchi” farebbero ai “poveri”🤣. Von der Leyen ci scrive chiedendoci scusa, i tedeschi ci prendono qualche decina di malati da qualche giorno, Rutte ha chiesto scusa alla Spagna per l’infelice uscita che gli è valso quel “ripugnante” da parte del premier portoghese. L’importante è non fare nulla o poco, guadagnare tempo, minimizzare i danni d’immagine ed evitare che il “sogno europeo” venga percepito come “incubo europeo”. “Percepire”, questo è secondo questi illusionisti il problema, diagnosi che si commenta da sé. Segnalo però anche l’avvenuta gara europea per le fornitura centralizzata di miliardi di mascherine (Cina, India, Vietnam). Aspettiamoci quindi una invasione di mascherine con il logo europeista da portare tutti quando sarà obbligatorio, di modo da confermarci che l’Europa ci protegge.

2) POPOLI E GOVERNI. FAZ pubblica un sondaggio a 100.000 casi (Cambridge, Princeton, Harvard) sull’umore dei popoli. I più contenti del proprio governo sono gli austriaci, poi noi. Due terzi di consenso per Merkel, mentre così così (sotto o sopra 50%) stanno gli olandesi e svizzeri sebbene più positivi che negativi, mentre un po’ meno positivi ed un po’ più negativi francesi e spagnoli. Più di due terzi critici i britannici, più dell’80% degli americani (russi e turchi ancora peggio, secondo il sondaggio). Britannici, americani ed olandesi si auto-criticano anche come reazioni e comportamenti della popolazione all’emergenza, ma anche un po’ francesi e canadesi. Giudizi critici sull’onestà del proprio governo nel dire come stanno le cose soprattutto in USA, ma anche in Francia, Gran Bretagna e Spagna. Italia, più o meno a livello di Germania, Olanda, Svizzera e Svezia in territorio decisamente positivo.

3) CAPITALE vs SALUTE. Ovunque si mostra il conflitto tra interessi economici ed interessi sanitari. Segnalo che i governi spagnolo ovviamente ma anche francese, britannico e tedesco, sembrano voler frenare (come in Italia per altro) l’impeto a “riapriamo e fatturiamo”. Ovunque e stamane ne ho letto addirittura sulla stampa tedesca, c’è il semplice problema che noto ad alcuni fatica ad entrare in testa, della capacità ricettiva degli ospedali. Gli “altri” poi, sono indietro a noi nella tempistica di sviluppo dell’epidemia. Segnalo che oltre ovviamente a noi che abbiamo iniziato per primi e gli spagnoli che stanno sotto un treno, in termini di rapporto morti per 1 milioni di abitanti, cominciano a star maluccio anche francesi, belgi, olandesi e svizzeri, più indietro i britannici. Com’è noto i tedeschi sono invulnerabili, perché allora si preoccupino non si capisce. A proposito di tedeschi segnalo che per la terza volta in breve tempo, dopo la tempestosa riunione dei premier eurogruppo ed un messaggio alla nazione, Merkel continua a mandare messaggi vocali ma si rifiuta di comparire in video come nella conferenza stampa di ieri. Ricordo che Merkel è ufficialmente in “isolamento”, forse non si è fatta la messa in piega e non vuole mostrasi “scapigliata”?

4) SALUTIAMO L’AMERICA. Trump sta capendo in che razza di casino è capitata l’America. Diventato a fatica serio e preoccupato, pochi giorni fa ha annunciato di aspettarsi 100.000 morti poi appena qualche giorno dopo è passato a 240.000. L’America sta mostrando un livello di organizzazione pari forse solo all’Iran. Manca tutto in termini di materiali, c’è un casino tra entità federali pazzesco, non sanno dove mettere i morti e sono solo a poco più di un terzo dei nostri morti (e sono pure cinque volte più grandi di noi per non parlare della ricchezza). Non hanno fatto scattare alcun lockdown serio e quindi continueranno a contagiarsi e finire in ospedale per mesi e mesi. In più stanno fallendo compagnie di shale gas una dopo l’altra e seguiranno vari tipo di industria. La foto che gira degli homeless messi sdraiati per terra a distanza di sicurezza occupando – per “distanziamento sociale” – ognuno uno scacco dei parcheggi vuoti di Las Vegas con tutti gli alberghi vuoti a teorica disposizione dice dello stato di civiltà di quella nazione. Ricordo qualche settimana fa i commenti dei liberali italici indignati per i miseri ospedali messi su in una settimana dai cinesi, ma si sa, noi viviamo in un eterno presente e nessuno si ricorda quello che ha detto l’altro appena due giorni fa. Poi arriveranno i ghetti in rivolta e con la nazione che ha un terzo della popolazione con almeno un’arma (ma in complesso in USA ci sono più armi private che abitanti quindi alcuni hanno veri e propri arsenali), vedremo film à la Carpenter con Jena Plissken dal vivo.

Di cinesi, giapponesi, indiani, brasiliani ed africani ci occuperemo un’altra volta. A chiedere tre punti: 1) nonostante le difficoltà in cui si dibattono, i popoli si stringono al proprio leader o forse solo alla nazione detto in senso culturale, il “noi”. In emergenza, nessuno sente il bisogno di far esagerate polemiche, non è il momento, ora. Ma il momento arriverà, sembra che pochi abbiamo capito l’entità e la durata di questa storia; 2) l’epidemia è come un apparato radiografico semovente. Mano a mano che procede, rivela di ogni Paese e di ogni popolo, le nudità strutturali. Ogni giorno qualcuno scopre qualcosa di nuovo e di inaspettato, è un bagno di realismo il che in un’epoca surreale è interessante; 3) ricordo che i cinesi, a Wuhan, hanno chiuso tutto ma tutto davvero per dieci settimane. Oggi però sono alle prese con nuovi possibili focolai ed hanno richiuso Hong Kong. L’Imperial College, in uno studio -mi sembra logicamente affidabile-, ha detto settimane fa che la faccenda, a cicli di up&down, durerà probabilmente 18 mesi. Ognuno ne tragga la conclusione che crede su tempo e spazio del fenomeno.

[La foto è Associated Press, la prima agenzia di stampa del mondo ed è tratta da Time. Nulla meglio di foto+AP+Time dice dello stato delle cose occidentali]

IDEE DI SOCIALISMO SANITARIO. Oggi ci lanciamo in una semplice idea guida, un esempio di modo di ragionare che può tornare utile quando le cose saranno se non normali, meno eccezionali. Ed a tale proposito, da ieri possiamo dire -per il momento- che si vede forse la fine almeno della fase 1, quella emergenziale. L’emergenza era data da un semplice fatto, bisognava diminuire il flusso dei contagiati negli ospedali perché questi si riempivano più di quanto non si svuotassero. In quelle condizioni i morti sarebbero aumentati di molto.

In questi giorni molti hanno continuato a non darsi conto del fatto che i morti complessivi per e con coronavirus non fossero più delle normali epidemia di influenza. A parte il fatto che più di 11.000 morti in poco più di un mese sono ben più dello standard statistico delle influenze annuali, il problema principale in termini di “urgenza” (ciò che viene prime vs ciò che viene dopo) non erano solo i morti ma i bisognosi di ricovero (terapia d’assistenza respiratoria + terapia intensiva), tant’è che molti non ce l’hanno fatta, rimanendo a casa perché non c’erano posti nelle strutture ricettive. Nonostante giri da febbraio un disegnino con le curve a picco del “se non fai niente” o a curva sdraiata “se fai il lockdown”, ovvero spalmare i richiedenti ricovero bloccando i contatti sociali, come hanno capito per altro tutti i dotati di senno in tutto il mondo, vedo che molti hanno avuto insormontabili difficoltà a collegare un numero sufficiente di neuroni per capire questo fatto. Ieri però Callera ha detto che tra entrati ed usciti dagli ospedali lombardi, il saldo era solo di +2 e quei due letti in più ci sono, quindi incrociamo le dita per gli andamenti futuri e passiamo ad altro.

L’altro non è la fase 2 o 3 del coronavirus, ma quella posteriore l’epidemia. Ieri mi veniva in mente un sistema circolare di questo tipo. Lo Stato con suoi capitali, potrebbe creare un sistema che chiameremo Officine Sanitarie Nazionali. Sarebbe un network di imprese che producono, non tutto ma una buona parte dei materiali necessari al Servizio Sanitario Nazionale. Ora abbiamo avuto lo shock da mascherine, disinfettanti e ventilatori polmonari, ma ci sono anche molti farmaci con le molecole a libera produzione, solventi, vari tipi di liquidi necessari in varie terapie, strumenti diagnostici, strumenti di cura, fino ai letti reclinabili, l’arredo delle ambulanze e quant’altro d’uso comune e non solo per il coronavirus che prima o poi avremo domato. Tutto il necessario per un SSN in un Paese con un terzo di abitanti anziani quale abbiamo scoperto finalmente di essere. Una gran parte del valore di spesa della voce di bilancio “Sanità” che ogni anno lo Stato italiano deve spendere attingendo alla fiscalità generale, oltre a gli stipendi per le maestranze, se ne va per comprare tutto il necessario sul libero mercato, italiano ed estero.

La cosa tra l’altro produce costi enormi per via del’enorme macchina amministrativa (ordini-fatturazioni-rendicontazione) che deve indire gare a ripetizione. In più, oltre al costo vivo dei materiali ed al costo indiretto di gestione, c’è il costo occulto delle migliaia di atti di micro o macro corruzione che affliggono la gestione della spesa pubblica in Italia. Questi tre costi sarebbero semplicemente eliminati o abbassati grandemente perché se il fornitore è unico ed è dello Stato: 1) la spesa d’acquisto del SSN diventa guadagno del produttore statale, una buona parte della spesa sanitaria annua diventa una partita di giro; 2) non c’è da mantenere alcun ipertrofico apparato amministrativo perché non c’è da fare alcuna gara, solo ordini; 3) non c’è alcuna mazzetta che gira tra privati, Regioni, partiti, ospedali e primari.

L’occupazione persa tra amministrativi degli ospedali e delle Regioni così come le maestranze che oggi lavorano in aziende private verrebbe semplicemente assorbita dal network di aziende pubbliche che crea una sorta di socialismo sanitario nazionale (SSN). Ci sarebbe ovviamente da meglio curare l’efficienza delle imprese pubbliche, un problema che il “socialismo teorico” dovrà prima o poi affrontare perché il problema c’è ed è innegabile. Ma studiando credo si possa trovarne soluzione almeno parziale. Gran parte di questi costi, rimarrebbero in Italia in quanto potremo produrre molte cose qui invece che esser dipendenti da fornitori esteri. Ovviamente questo non coprirebbe tutte le necessità. Molti farmaci speciali, macchinari particolari, strumenti troppo costosi da produrre in pochi pezzi, rimarrebbero da acquistare sul mercato. In più, altri stanziamenti in ricerca, potrebbero alimentare continuamente di idee nuove e nuove soluzioni l’upgrade tecno-scientifico delle produzioni magari competitive al punto da avere anche un loro mercato estero. Di base però, cedo che il risparmio e l’efficienza di costo e gestione, sarebbe comunque notevole. In più permetterebbe di acquisire una certa resilienza per un servizio che è sempre più necessario data l’estrema longevità dei connazionali e che non può dipendere dalle sempre più frequenti perturbazioni di quadro internazionale. Un buon servizio sanitario nazionale, ovviamente, sarebbe anche un risparmio di spesa per singoli e famiglie ed il servizio nazionale potrebbe esser implementato proprio a partire dai risparmi ottenuti fornendo materiali prodotti in casa su cui non è più necessario far profitto.

Non mi viene in mente altro modo di onorare le vite di coloro che sono morti oltre il dovuto solo perché ci siamo fatti trovare “impreparati”, che far del loro sacrificio una lezione da apprendere. Quando inizieranno le geremiadi retoriche per coprire con l’emozione empatica il disastro a cui non siamo stati in grado di far fronte, facciamoci trovare pronti con altre soluzioni che non i pianterelli di circostanza. Finiremmo con l’esser colpevoli due volte, il che è inammissibile. Glielo dobbiamo …

Perché Cina e aziende cinesi aiutano l’Italia anti Covid-19?, di Giuseppe Gagliano

Perché Cina e aziende cinesi aiutano l’Italia anti Covid-19?

di

Cina Italia

Mosse, obiettivi e strategie di Cina e aziende cinesi in Italia alle prese con l’emergenza Covid-19. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Che la posizione del nostro paese sul Mediterraneo sia stata – e sia – fondamentale per la Nato e la proiezione di potenza americana è un dato di fatto. Ora è la volta della Cina che intende attraverso la Nuova Via della Seta estendere la sua influenza sul nostro Paese anche con lo scopo di limitare e contenere quello americano.

L’anno scorso, l’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina sulla partecipazione alla Belt and Road Initiative cinese. L’Italia è stata la prima e finora l’unica nazione G7 a farlo. Dopo anni di stagnazione economica, l’Italia sperava di provocare uno stimolo necessario utile alla crescita grazie alla a una partnership economica con la Cina. Questa scelta ha determinato da parte degli alleati occidentali critiche molto dure determinando anche conflitti a livello nazionale, con una parte della coalizione governativa dell’epoca (la Lega di Matteo Salvini) che si opponeva. Allo stato attuale, la firma del protocollo d’intesa non ha portato all’Italia più contratti dalla Cina rispetto ad altri Paesi che non lo avevano fatto come ad esempio la Francia.

A marzo 2020 la situazione è cambiata. L’Italia è in preda alla crisi del coronavirus. A partire dal 20 marzo, la malattia ha ucciso oltre 3.400 italiani, più del bilancio delle vittime registrato in Cina, dove la pandemia è iniziata alla fine del 2019. All’inizio di marzo, l’Italia ha chiesto aiuto ai suoi partner dell’Unione europea. Nessuno Stato membro dell’Ue ha risposto. Inoltre, Francia e Germania hanno imposto il divieto di esportare maschere per il viso. Molti italiani si sono sentiti ingannati e umiliati dai loro partner europei.

Pechino, tuttavia, ha risposto bilateralmente e prontamente trasportato in aereo 30 tonnellate di forniture mediche a Roma. Il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha pubblicato un video sull’arrivo dell’aereo carico di approvvigionamento sulla sua pagina Facebook. Per la Cina è stato un trionfo a livello di soft power e di diplomazia pubblica. Se è vero che successivamente la Germania si è impegnata a fornire mascherine per il viso all’Italia e ha ospitato malati Covid-19, la narrativa nei social media era già stata plasmata: l’Unione europea ha abbandonato l’Italia e la Cina ha salvato la situazione. Di Maio si è preso il merito dell’aiuto della Cina, che ha collegato alla sua politica filo-cinese e alla sua telefonata con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi il 10 marzo, due giorni prima della consegna delle forniture dalla Cina.

In realtà le forniture erano state inviate di comune accordo tra la Croce Rossa cinese e italiana. Come è consuetudine tra le filiali della Croce Rossa in diversi paesi, la Croce Rossa cinese ha ricambiato per l’aiuto ricevuto dalla Croce Rossa italiana solo un mese prima, quando l’Italia ha inviato 18 tonnellate di forniture a Wuhan. La chiamata tra Di Maio e Wang Yi non riguardava la donazione della Croce Rossa, ma l’acquisto da parte dell’Italia di una grande quantità di ventilatori tanto necessari per le unità di terapia intensiva.

La macchina della propaganda cinese si è affrettata a cogliere l’occasione e ha pubblicato video di italiani riconoscenti che elogiano la Cina per la sua generosità.

Oltre alla prima spedizione di forniture mediche, sbarcata a Roma il 12 marzo, la Cina ha anche inviato una seconda spedizione a Milano il 18 marzo, che è stata inviata dalle province cinesi tra cui Zhejiang, che ha una grande comunità di immigrati in Italia. Altre donazioni di società cinesi sono state destinate a regioni e città italiane che ospitano le loro controparti italiane. Guarda caso una delle società in questione è la Zte, che ha donato 2.000 maschere alla città dell’Aquila dove Zte gestisce un centro di innovazione e tecnologia 5G congiunto con l’università locale. Inoltre, Huawei ha offerto di istituire una rete di cloud computing per collegare gli ospedali italiani tra loro e con gli ospedali di Wuhan, il che specie per il Copasir solleva interrogativi sul controllo delle infrastrutture critiche e la protezione dei dati, e il colosso cinese con Fastweb ha donato tablet e smartphone a ospedali della Lombardia e del Veneto.

Grazie a questo raggio d’azione, la Cina in Italia non è più associata all’origine della pandemia o incolpata a causa della sua scarsa regolamentazione dei mercati e della soppressione delle informazioni che avrebbero potuto aiutare a sradicare la malattia in una fase precedente. La propaganda online cinese ha lavorato instancabilmente per dissociare il coronavirus da Wuhan, dove è emerso per la prima volta, e dalla Cina, e in Italia tale sforzo è ampiamente riuscito. La Cina in Italia è ora vista come un Paese che ha fornito un aiuto concreto, mentre altri partner geograficamente più vicini si sono comportati in modo egoistico, nonostante la retorica della solidarietà europea e non hanno fornito alcun aiuto.

In una recente telefonata con il Primo Ministro italiano Giuseppe Conte, il premier Xi Jinping ha colto l’occasione per lanciare una nuova “Via della seta per la salute”, da associare all’attuale Belt and Road Initiative. Nell’ambito di questa iniziativa, la Cina userebbe le lezioni apprese nella sua riuscita lotta contro il virus e le condividerebbe con i suoi partner in tutto il mondo. Poiché è probabile che la pandemia duri più mesi in tutto il mondo e poiché una pandemia simile potrebbe ripetersi, molti paesi sarebbero interessati.

La percezione tra molti in Italia è che la Cina sia riuscita a dominare il virus in breve tempo grazie alle misure rigorose e decisive che ha adottato. L’Italia è paragonata sfavorevolmente alla Cina in questo senso. Implicitamente, la governance cinese è ammirata come un sistema più efficace che aiuta a salvare vite umane e a ridurre le perdite economiche in caso di emergenza.

Ora, al di là della ingenuità dei nostri politici nostrani, che leggono la dinamica internazionale in un’ottica scevra di qualsiasi realismo politico, la Cina ha piani molto precisi per l’Italia: è interessata ai porti e alle infrastrutture dell’Italia in connessione con la Belt and Road Initiative; alla sua qualità alimentare, al design e al potenziale turistico; ai suoi hub ad alta tecnologia come L’Aquila e allo sviluppo del 5G nel paese.

In ultima analisi, l’aiuto fornito dalla Cina dovrebbe aiutare a rafforzare le relazioni sino-italiane e a preparare il terreno per una celebrazione appropriata dei 50 anni di relazioni diplomatiche a novembre.

https://www.startmag.it/mondo/antichi-consigli-di-jean-per-tutelare-la-sicurezza-economica-dellitalia/?fbclid=IwAR27BAJzGLORaztCt6GUFr30XeTvUwQaCCqmD578KBkEz02UkvDsDonjgbE

senza né Capua, né coda, di Pierluigi Fagan

SENZA NE’ CAPUA, NE’ CODA. (Un’avvelenata) Il post è sull’uso improprio degli “esperti” nel dibattito pubblico, un problema già noto che è passato dalla sovraesposizione di economisti che non saprebbero gestire neanche il bilancio della rosticceria sottocasa, ai biologi che passano dalle piastre di Petri al crisis management con altrettanta nonchalance.

Nulla in particolare contro la signora in questione, già parlamentare della lista Monti (Scelta civica), che tutti i giorni ci spiega come si dovrebbe gestire l’emergenza da coronavirus in Italia stando a Miami, senza far i conti con il fastidioso attrito della realtà concreta. Senz’altro una “eccellenza” (mammamia questo uso smodato del vocabolario retorico mi fa venire l’orticaria), in più “donna e scienziata”, quindi mille punti, per carità. Ma “mille punti” a che gioco? in che contesto? mille punti ad un idraulico valgono anche per risolvere problemi dell’impianto elettrico? Il problema è che se aprite un qualsiasi quotidiano nazionale spagnolo, francese o inglese, scoprirete che con ritardo di una settimana, le stesse questioni che dibattiamo qua, vengono improvvisamente “scoperte” anche là. E così scopriamo tutti la stesse cose che -in breve- sono quattro:

1) mentre diventavamo tutti Paesi con concentrati di vecchi anziani che si camuffano con botulino e jeans, i nostri Paesi hanno continuato a ragionare come fossimo ai primi del Novecento quando cinque rivoluzioni tecno-scientifiche (energia, meccanica, chimica, elettrica e sanitaria) dettero lo start all’incredibile sviluppo economico del Novecento. I nostri Paesi cioè, non sono “paesi per vecchi” eppure siamo sempre più vecchi;

2) abbiamo creduto … alla favola bella che ieri ci illuse ed oggi ci delude … di un rampollo di famiglia portoghese sefardita trapiantata a Londra e proprietario di una banca (tal David Ricardo) che, due secoli fa, sosteneva che ogni Paese deve concentrarsi a produrre sempre meglio una specifica cosa e poi la scambia con altri Paesi per avere tutte le altre che non produce eppure servono per vivere. Così in ogni Paese mancano mascherine, camici, ventilatori, tamponi, reagenti chimici, farmaci ed ogni altro strumento necessario improvvisamente ed in quantità inimmaginabili per far fronte all’emergenza sanitaria. Quindi il primo che dice “facciamo a tutti i tamponi”, è pregato di tirar fuori anche i reagenti, i biologi, i laboratori e le attrezzature, altrimenti taccia.

3) come ben espresso da una studiosa politica britannica ieri sul Guardian, la nostra immagine di mondo è settata sul modo “aspettiamo di non avere scelta e poi ci adattiamo”, quando il mondo complesso funziona in modo che se non prevedi per tempo e ti attrezzi ex ante, quando ti svegli è tardi e il locomotore sulla rotaia su cui ti eri appisolato pensando di esser nel migliore dei mondi possibili, di trancia la gola;

4) pensavamo di vivere in un “mondo globale”, un grande villaggio comune mentre invece eravamo solo in un Risiko di giocatori egoisti competitivi che rubano le mascherine e la clorochina gli uni a gli altri. Pensavamo di esser in una commovente comunità degli europei ed invece stiamo in un tavolo da poker in cui si gioca a “mors tua vita mea”. Pensavamo di esser nell’era dell’informazione e della conoscenza ed invece tutti quanti non sappiamo e forse mai sapremo quanta gente ha preso davvero il virus, quanta ha l’influenza, quanta ne muore a casa, quanti tamponi davvero si fanno, quanti i ricoverati, gli ossigenati, gli intubati e soprattutto i morti. Dai cinesi ai russi, dai tedeschi a gli inglesi ed americani è gara a non dirla tutta e non turbare troppo il bambino che è in noi. Sulla “democrazia” non spendo parole, di questi tempi sparare sulla croce rossa è inelegante.

Ecco allora che quando il problema è complesso, l’esperto della frazione infinitesimale, apporta solo entropia, confusione falsa conoscenza. E giù col solito tormentone: gli economisti non sanno di biologia, i biologi di logistica, i logistici di geopolitica, i geopolitici di economia, in circoli vari sempre più larghi e senza chiusura, cioè senza né capo né coda. In questo triste momento di clamoroso fallimento cognitivo ed adattivo, ci illumina solo il terso pensiero dell’intramontabile di Ponte a Ema, il quale scuotendo sconfortato la testa diceva: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Aggrappiamoci alla sua saggezza, quando i sopravvissuti avranno acquisito tutti l’immunità di gregge, finito di contare i morti, forse sarà il caso di ripartire rimettendo proprio in discussione la nozione di “gregge” e cominciar col rivedere molte cose, se non tutte visto che son tra loro interconnesse.

Campo di battaglia: Draghi, Consiglio Europeo, Coronavirus. Cronache del crollo, di Alessandro Visalli

Il Governo italiano ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio Europeo che si riunisce oggi, sottoscritta da Emmanuel Macron (Francia), Pedro Sanchez (Spagna), Sophie Wilmes (Belgio), Kyriakos Mitsotakis (Grecia), Leo Varadkar (Irlanda), Xavier Bettel (Lussemburgo), Antonio Costa (Portogallo), Janez Jansa (Slovenia).

Si parla di quasi la metà degli stati dell’eurozona (9 su 19), per un totale di 212 milioni di abitanti (64% dell’area) e 7.800 mila miliardi di Pil (il 57% di quello dell’eurozona).

E’ chiaro che se andassero fino in fondo, nel Consiglio Europeo di oggi (che include tutti i membri dell’Unione Europea, e quindi 442 milioni di abitanti e 17.000 miliardi di Pil, per cui in questo consesso si parla del 48% degli abitanti e 45% del Pil), sarebbe una forza imponente.

Rispetto all’attuale stato dell’epidemia i paesi firmatari sono “titolari” del 72% dei casi in Europa e del 77% dei casi nella sola eurozona. In rapporto agli abitanti il paese più colpito è il piccolo Lussemburgo (che ha 2,67 casi per 1000 abitanti), seguito dall’Italia (1,24), Spagna (1,04), Belgio (0,45), Irlanda (0,34), Francia (0,33), Portogallo (0,3), Slovenia (0,26), Grecia (0,07). Tra i paesi che non hanno firmato spicca la Germania, con 35.700 casi (0,44) e l’Olanda, con 6.400 (0,38), l’Austria con 5.500 (0,64), la Finlandia, con 900 (0,16), la Svezia, 2.500 (0,25), la Polonia, con 1.000 (0,03), Romania, 900 (0,05).

Jeremy Mann

 

Vediamo la lettera:

La lettera al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, del Presidente Conte e dei leader di Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna.

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Caro Presidente, caro Charles

la pandemia del Coronavirus è uno shock senza precedenti e richiede misure eccezionali per contenere la diffusione del contagio all’interno dei confini nazionali e tra Paesi, per rafforzare i nostri sistemi sanitari, per salvaguardare la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali e, non ultimo, per limitare gli effetti negativi che lo shock produce sulle economie europee.

Tutti i Paesi europei hanno adottato o stanno adottando misure per contenere la diffusione del virus. Il loro successo dipenderà dalla sincronizzazione, dall’estensione e dal coordinamento con cui i vari Governi attueranno le misure sanitarie di contenimento.

Abbiamo bisogno di allineare le prassi adottate in tutta Europa, basandoci su esperienze pregresse di successo, sulle analisi degli esperti, sul complessivo scambio di informazioni. È necessario ora, nella fase più acuta dell’epidemia. Il coordinamento che tu hai avviato, con Ursula von der Leyen, nelle video-conferenze tra i leader è d’aiuto in tal senso.

Sarà necessario anche in futuro, quando potremo ridurre gradualmente le severe misure adottate oggi, evitando sia un ritorno eccessivamente rapido alla normalità sia il contagio di ritorno da altri Paesi. Dobbiamo chiedere alla Commissione europea di elaborare linee guida condivise, una base comune per la raccolta e la condivisione di informazioni mediche ed epidemiologiche, e una strategia per affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo non sincronizzato della pandemia.

Mentre attuiamo misure socio-economiche senza precedenti, che impongono un rallentamento dell’attività economica mai sperimentato prima, abbiamo comunque bisogno di garantire la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali, e la libera circolazione di dispositivi medici vitali all’interno dell’UE. Preservare il funzionamento del mercato unico è fondamentale per fornire a tutti i cittadini europei la migliore assistenza possibile e la più ampia garanzia che non ci saranno carenze di alcun tipo.

Siamo pertanto impegnati a tenere i nostri confini interni aperti al necessario scambio di beni, di informazioni e agli spostamenti essenziali dei nostri cittadini, in particolare quelli dei lavoratori transfrontalieri. Abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica. I nostri sforzi saranno prioritariamente indirizzati a garantire la produzione e la distribuzione delle attrezzature mediche e dei dispositivi di protezione fondamentali, per renderli disponibili, a prezzi accessibili e in maniera tempestiva a chi ne ha maggiore necessità.

Le misure straordinarie che stiamo adottando per contenere il virus hanno ricadute negative sulle nostre economie nel breve termine. Abbiamo pertanto bisogno di intraprendere azioni straordinarie che limitino i danni economici e ci preparino a compiere i passi successivi. Questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo. La BCE ha annunciato lo scorso giovedì 19 marzo una serie di misure senza precedenti che, unitamente alle decisioni prese la settimana prima, sosterranno l’Euro e argineranno le tensioni finanziarie.

La Commissione europea ha anche annunciato un’ampia serie di azioni per assicurare che le misure fiscali che gli Stati membri devono adottare non siano ostacolate dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita e dalla normativa sugli aiuti di Stato. Inoltre, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno annunciato un pacchetto di politiche che consentiranno agli Stati membri di utilizzare tutte le risorse disponibili del bilancio dell’UE e di beneficiare degli strumenti della BEI per combattere l’epidemia e le sue conseguenze.

Gli Stati membri dovranno fare la loro parte e garantire che il minor numero possibile di persone perda il proprio lavoro a causa della temporanea chiusura di interi settori dell’economia, che il minor numero di imprese fallisca, che la liquidità continui a giungere all’economia e che le banche continuino a concedere prestiti nonostante i ritardi nei pagamenti e l’aumento della rischiosità. Tutto questo richiede risorse senza precedenti e un approccio regolamentare che protegga il lavoro e la stabilità finanziaria.

Gli strumenti di politica monetaria della BCE dovranno pertanto essere affiancati da decisioni di politica fiscale di analoga audacia, come quelle che abbiamo iniziato ad assumere, col sostegno di messaggi chiari e risoluti da parte nostra, come leader nel Consiglio Europeo.

Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e la necessità di una ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona.

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia.

Vi sono valide ragioni per sostenere tale strumento comune, poiché stiamo tutti affrontando uno shock simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti. E dobbiamo rendere conto collettivamente di una risposta europea efficace ed unita. Questo strumento di debito comune dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere pienamente efficace e per evitare rischi di rifinanziamento ora come nel futuro.

I fondi raccolti saranno destinati a finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale.

Con lo stesso spirito di efficienza e solidarietà, potremo esplorare altri strumenti all’interno del bilancio UE, come un fondo specifico per spese legate alla lotta al Coronavirus, almeno per gli anni 2020 e 2021, al di là di quelli già annunciati dalla Commissione.

Dando un chiaro messaggio di voler affrontare tutti assieme questo shock unico, rafforzeremmo l’Unione Economica e Monetaria e, soprattutto, invieremmo un fortissimo segnale ai nostri cittadini circa la cooperazione determinata e risoluta con la quale l’Unione Europea è impegnata a fornire una risposta efficace ed unitaria.

Abbiamo inoltre bisogno di preparare assieme “il giorno dopo” e riflettere sul modo in cui organizziamo le nostre economie attraverso i nostri confini, le catene di valore globale, i settori strategici, i sistemi sanitari, gli investimenti comuni e i progetti europei.

Se vogliamo che l’Europa di domani sia all’altezza delle sue storiche aspirazioni, dobbiamo agire oggi e preparare il nostro futuro comune. Apriamo pertanto il dibattito ora e andiamo avanti, senza esitazione.

Firmato da

Sophie Wilmès, Primo Ministro del Belgio

Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese 

Kyriakos Mitsotakis, Primo Ministro of Greece

Leo Varadkar, Primo Ministro of Ireland

Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano

Xavier Bettel, Primo Ministro del Lussemburgo

António Costa, Primo Ministro del Portogallo

Janez Janša , Primo Ministro della Slovenia


Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna

Un breve commento.

Cosa si sta dicendo qui? Che la crisi da coronavirus in corso è esterna e non è colpa di nessuno, che per affrontarla si interromperanno gli scambi e disgregheranno le “catene del valore” (ovvero la connessione di fornitori e clienti di ogni singola impresa), che nello sforzo di canalizzare le risorse contro l’aggressione virale ci sono aziende strategiche e non, che le prime vanno tenute in attività e protette dalle possibili aggressioni ostili, che i danni per i cittadini e l’economia vanno compensati da spesa pubblica, che per farla serve che ci sia un’emissione di titoli di debito comune, garantita in solido.

Nel luogo della lettera in cui si arriva al punto, e si chiede uno strumento di debito comune, alle medesime condizioni e per tutti, la frase successiva risponde all’obiezione luterana sempre ripetuta, che il debito è colpa e

Qui il caso è diverso, nessun paese è responsabile.

Quindi la lettera accende una piccola luce sul futuro e specifica che da ora bisognerà “organizzare le economie”, ovvero le catene del valore globali, i settori strategici, i sistemi sanitari e gli investimenti comuni.

Dunque nel campo di battaglia si è schierato un esercito, ed ha dichiarato le sue intenzioni.

Al contempo è sceso in campo un generale, Mario Draghi sul Financial Times, ha scritto un articolo di grande decisione e rilevanza.

Jeremy Mann

Leggiamolo:

“La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati.  Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile.  La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.  È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura.  La domanda chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette. I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo.  Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le poste sistema per tutti gli altri. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.  Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette.  Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così. Tali società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato.  O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità.  I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabilmente futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio.  Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia. Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è abbastanza una storia di ammonimento.  La velocità del deterioramento dei bilanci privati ​​- causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nella ricerca di evidentemente una causa comune”.

Se i nove governi affermano che non è colpa di nessuno e che bisogna sia sostenere sia ristrutturare le economie europee, ma ragionano in termini di capitali da raccogliere sul mercato a condizioni di mercato, sia pure eguali per tutti, Draghi dice una cosa diversa.

Intanto ricolloca la crisi che nel paludato linguaggio delle segreterie era solo “senza precedenti”, come “tragedia di proporzioni bibliche”. Dichiara il costo economico essere al contempo “enorme ed inevitabile” e la recessione sia “profonda” sia “inevitabile”.

Abbiamo dunque al primo passaggio della sua stringente logica un costo economico “enorme” ed una recessione “profonda” (che potrebbe mutare in “depressione”[1]) entrambe inevitabili.

A ciò che è inevitabile bisogna rispondere inevitabilmente. E qui si diventa perentori, “la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico”.

E perché? La bomba arriva esattamente a questo passaggio. Anni di controinformazione, analisi condotte con il metodo dei saldi settoriali, insistenza sul debito privato e sulla eccessiva valutazione di quello pubblico ottengono improvvisamente piena legittimazione. A decine di servili ripetitori del senso comune economico devono essere scoppiate le orecchie: “la perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici”.

Ripetiamo:

  • le perdite del settore privato ed i debiti accumulati, devono essere assorbiti dai bilanci pubblici.

E il “moral hazard”? E la “colpa”? E … l’horror vacui qui colpisce anche buona parte della sinistra storica, che ha inconsapevolmente interiorizzato una versione della narrativa ordoliberale, immaginando che lo stato debba essere “austero” perché l’economia sia “sana”.

Cosa accade se, in condizioni date come queste, le perdite anche esse inevitabili (e, come vedremo, senza colpa) del settore privato, cittadini e imprese, sono assorbite nei bilanci pubblici? Che il debito pubblico sale, che sale in modo “permanente”, e che il debito privato viene “cancellato”.

C’è una glossa di teoria, “È il ruolo corretto dello stato utilizzare il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire”.

Quindi è inevitabile, si deve agire, tramite l’espansione del debito pubblico.

Come? Qui c’è il punto. Il “se” è superato. Restano alcune cose:

  •   non fornire solo reddito di base (es, helicopter money), ma proteggere le persone dalla perdita del lavoro,
  •   garantire sostegno alla liquidità immediato,

Arriva la seconda bomba.

In una strategia rivolta a garantire liquidità all’economia reale, imprese e famiglie, Draghi propone di utilizzare le banche, che sono capillarmente diffuse. E propone che queste aprano linee di credito e scoperti di conto corrente, immediatamente e senza aspettare liquidità (quindi senza aspettare la Bce o altri), perché queste “possono creare denaro istantaneamente”.

Ripetiamo:

  • “Le banche possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito”.

E le riserve? E il buon padre di famiglia? E … anche qui l’horror vacui colpisce buona parte della sinistra storica, che non lo sapeva ma era rimasta ai tempi del dollaro-oro.

In sostanza le banche devono prestare soldi creati dal nulla, istantaneamente, a imprese che conservano l’occupazione. E lo devono fare a costo zero. La ragione è che le imprese, non licenziando, sostituiscono il pubblico che in caso diverso dovrebbe intervenire garantendo un reddito ed un lavoro.

Ovviamente il denaro si crea dal nulla, ma deve essere restituito (schematicamente una banca apre una scrittura contabile, che ad un certo punto deve essere chiusa), e quindi prestare a costo zero lascia impregiudicato l’assorbimento del danno delle mancate restituzioni. Serve qualcuno che faccia fronte e chiuda le scritture. Per questo il governo nello schema di Draghi non impegna denaro immediato per sostenere l’occupazione, ma presta garanzie alle banche per coprire il loro rischio. Ed il costo di queste garanzie, anche esso, deve essere zero.

Questa è la terza bomba, comincia ad assomigliare ad un bombardamento a tappeto. Il costo zero è come l’illimitato, sono altri due tabù. Si deve guadagnare dal sudore della fronte.

  • Ripetiamo, “il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette”.

C’è un problema, le regole prudenziali delle convenzioni di Basilea. Vanno sospese, “Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo”.

Abbiamo poi la quarta bomba. Per alcune imprese e “mutuatari”, il debito alla fine andrebbe cancellato. O tramite il fallimento e la copertura delle perdite da parte del governo o direttamente da questo lasciandole in vita.

Insomma, il debito pubblico salirà per tenere in vita la società. L’alternativa sarebbe peggiore. Ma salirà come? Senza aumentare i costi di servizio.

Qui non entra nel dettaglio, strettamente parlando un enorme incremento del debito pubblico, e la sua detenzione permanente, senza aumento dei costi del servizio di questo (ovvero in sostanza creando moneta) è possibile se gli Stati emettono titoli a scadenza illimitata, non redimibili, ed a tasso zero e se la Banca Centrale li acquista e li detiene. Un simile titolo non è “di mercato” per definizione e corrisponde ad una monetizzazione del debito.

Ogni altra soluzione aumenta i costi del servizio, soprattutto alla luce degli enormi volumi qui prefigurati.

Ciò non significa che i bilanci delle Banche Centrali (i titoli sarebbero poi da redistribuire pro quota nei vari bilanci) resteranno permanentemente ‘gravati’ da un attivo enorme, senza rendimento[2], ma che la progressiva espansione dell’economia li renderebbe sempre meno rilevanti. In fondo il debito pubblico è sempre stato riassorbito in questo modo, il suo vero problema è esclusivamente il costo del suo servizio, ovvero il monte degli interessi annuali che lo stato paga[3].

Tutto ciò va fatto in fretta, e senza remore, perché, ultima bomba: “La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono”.

Abbiamo un esercito che si è schierato ed abbiamo un generale che sembra volerne prendere la testa.

La battaglia si combatterà e penso che sarà persa. Troppo forte è l’inerzia del pensiero unico ordoliberale (attenzione, non che questa posizione sia rivoluzionaria, è comunque una variante di affidamento al mercato, ma con notevole incremento della presenza pubblica[4]). Nella scaramuccia di cavalleria dei giorni scorsi, in sede di Eurogruppo, è stato chiaro l’animus dell’armata nordica.

Mentre Peter Altmeier dichiara per la Germania che “Impediremo una svendita degli interessi economici e industriali tedeschi” (Wir werden einen Ausverkauf deutscher Wirtschafts- und Industrieinteressen verhindern) e, in inglese, in quanto rivolto oltre manica, “Germany is not for sale”, al contempo l’Olanda e la Germania, unite, hanno rigettato ogni ipotesi di messa in comune del debito. Sempre Altmeir, cambiando oggetto, ha detto che “la discussione sugli eurobond è un dibattito sui fantasmi” (Die Diskussion über Euro-Bonds ist eine Gespensterdebatte) e ha aggiunto che “dalla lezione degli anni ’70 abbiamo imparato che lo Stato non può salvare tutti” e che “l’Innovazione è più importante delle sovvenzioni” (Innovation ist wichtiger als Subvention). Insomma, gli interessi economici e industriali tedeschi saranno sostenuti contro qualsiasi nemico, ma quelli degli altri devono restare esposti. Per gli altri vale il principio che non si sovvenziona.

Per sé vale che “il nostro scopo non è solo proteggerci da acquisizioni nemiche (feindlichen[5]), ma anche evitare mancanza di capitale e di liquidità”, per gli altri, per i nemici, ovvero noi, solo se siamo capaci di farcela, se siamo “innovativi”.

Lo scontro delle cavallerie, la classica scaramuccia di avvio, è andato così.

Oggi c’è la battaglia. Avremmo bisogno di Decimo Claudio Druso (detto “germanico”), ma abbiamo solo Giuseppe Conte. Perderemo.

Ma non finirà qui. I popoli nordici hanno una strana caratteristica: sembrano sempre vincere, perché hanno una grande capacità operativa, ma poi alla fine perdono sempre e rovinosamente, perché non avendo la forza sufficiente vogliono troppo e non lasciano nulla. Finiscono per coalizzare tutti contro di loro, ed anche allora continuano, dritti, come un caprone lanciato nella corsa e la testa bassa. Ora pensano di aggirare questo ostacolo, che la sorte ha posto davanti ai piedi, assorbendo i nostri capitali e le nostre aziende, come fecero con quelle della Germania dell’est[6] quando cadde il muro e come hanno fatto per venti anni al tempo dell’euro.

Ma tutto sta arrivando al suo termine[7].

Il mondo non è già più quello della “fine della storia” tardo novecentesca[8], il baricentro si sposta verso est e noi siamo geograficamente, culturalmente, storicamente meglio posizionati. Tra qualche tempo dovremo rovesciare le cartografie d’Europa.

Tra dieci anni vedremo chi ha perso e chi ha vinto. Ma, come è accaduto già due volte, il prezzo per loro sarà altissimo.

 

[1] – Nel gergo economico una “recessione” è un evento ciclico relativamente normale, una “depressione” è una stagnazione permanente e difficilmente risolvibile dell’economia come quella del 29-39 aperta dalla crisi finanziaria e conclusa solo dalla seconda guerra mondiale.

[2] – Non sarebbe molto diverso se i titoli avessero un rendimento, una volta nel bilancio della banca centrale, perché questa deve restituire gli utili ai rispettivi Tesori. Come accade ora per la quota (20%) del debito già detenuto e che potrebbe benissimo essere annullato senza alcuna conseguenza pratica.

[3] – Bisogna notare che questo pagamento di interessi, che in Italia è attivato fino ad essere vicino ai cento miliardi, rappresenta un trasferimento netto di risorse dalla generalità dei cittadini ai renditieri che posseggono titoli di debito. È, insomma, un fattore tra i più rilevanti di incremento delle ineguaglianze e uno strumento potente di redistribuzione verso l’alto.

[4] – L’intero meccanismo proposto da Draghi è preordinato a salvaguardia delle gerarchie sociali e nazionali attuali. Limita l’intervento pubblico ad un consolidamento dello status dei rapporti di classe, si mette a salvaguardia del sistema delle imprese attuale, in qualche modo congelandolo. Certo, l’alternativa è diventare una colonia interna (ancora di più) del capitale nordico, ma ciò che serve è ben altro e molto più.

[5] – Come giustamente scrive Vincenzo Costa “Feindlich” allude a nemico, un termine che non si usa a cuor leggero. Non dice competitori: dice nemici. Allude al fatto che chi non riesce a proteggere la propria economia, chi non è in grado di sostenerla in questo momento, diventerà un terreno di conquista per altri. Perderà il dominio sui settori strategici, la sovranità sulle scelte di politica economica: diventerà una colonia. (cfr https://www.facebook.com/vincenzo.costa.79025/posts/106587930990528)

[6] – Si veda il testo di Vladimiro Giacchè.

[7] – Si veda “Riavviare l’economia in Cina, cronache del crollo

[8] – Titolo del famoso libro di Francis Fukuyama.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/campo-di-battaglia-draghi-consiglio.html?fbclid=IwAR1XM3rbnJWlwkVHlHej6KZfzAAkH-R90D5rvpSAusTYaQMhQ6vs_8vvDdg

ECCEZIONE E ORDINAMENTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

ECCEZIONE E ORDINAMENTO

Dopo i primi decreti (amministrativi) sull’emergenza sanitaria è iniziato sulla stampa un lamento corale sulla triste “fine” dello Stato di diritto, col suo Parlamento, le sue leggi (e decreti-legge) ma soprattutto i suoi diritti, garantiti dalla Costituzione come (in genere) nelle altre costituzioni degli Stati democratici-liberali e nelle dichiarazioni (anche internazionali).

Di quella italiana la prima vittima è stato il diritto di locomozione (art. 16), ormai ridotto – in linea generale e salvo deroghe – alla facoltà di girare intorno al proprio isolato.

Tali considerazioni presuppongono che tra eccezione e norma vi sia incompatibilità assoluta e che un ordinamento “liberale” debba necessariamente bandire la prima – e le relative misure – dalla normativa.

Ma è vero ciò? Tra i tanti esempi contrari che si possono portare, è istruttivo ricordare le considerazioni – a  distanza più che secolare – che facevano sull’habeas corpus due pensatori come De Maistre e Gaetano Mosca.

L’habeas corpus è, come noto, un istituto dell’ordinamento inglese volto alla tutela della libertà personale e della legalità delle accuse, onde evitare arresti e detenzioni arbitrarie. Dopo la rivoluzione francese normative in qualche misura simili (anche se probabilmente meno efficaci) si diffusero agli ordinamenti europei (continentali) e nelle dichiarazioni internazionali dei diritti. A tale proposito Gaetano Mosca lo considerava lo strumento più semplice ed efficace pensato e praticato a tutela della libertà personale. Scrive Mosca che l’habeas corpustutela i cittadini inglesi… in modo così pratico ed efficace che non è stato possibile in nessun altro paese, e neppure nel secolo XIX, fare di meglio”.

Proprio per la sua libertà ed efficacia, De Maistre, un secolo prima di Mosca, sulla base del fatto che spesso era sospeso dal Parlamento, lo considerava un’eccezione, nel senso che, se applicato sempre, avrebbe travolto la costituzione (id est l’esistenza ordinata) della Gran Bretagna. Sosteneva De Maistre “La costituzione inglese è un esempio più vicino a noi, e di conseguenza colpisce maggiormente. La si esamini con attenzione: si vedrà che essa funziona solo nella misura in cui non funziona (se è consentito il gioco di parole). Essa non si regge che sulle eccezioni. L’habeas corpus, per esempio, è stato sospeso così spesso e così a lungo, che si è potuto sospettare che l’eccezione fosse divenuta la regola. Supponiamo per un istante che gli autori di tale famoso atto avessero avuto la pretesa di fissare i casi in cui potesse essere sospeso: l’avrebbero con ciò stesso ridotto a nulla”. Ovvero l’ordinamento inglese riesce a funzionare nella misura in cui l’habeas corpus è sospeso. Ma chi aveva ragione: il costituzionalista siciliano o il diplomatico sabaudo? È facile rispondere: entrambi. La tutela delle libertà fondamentali è connaturale ad un ordinamento liberale, come la sospensione o la deroga delle stesse lo è nel caso sia in pericolo la vita comunitaria ed individuale: perché senza vita non c’è libertà. Così nelle legislazioni e anche nelle costituzioni – sia degli Stati liberali era ed è previsto che in situazioni eccezionali potevano essere sospese le libertà individuali. La “costituzione più bella del mondo” non lo contempla: ma la legislazione ordinaria ha riconosciuto, anche ad organi amministrativi eccezionali, creati ad hoc, di provvedere con ordinanze, in deroga alle leggi, col solo limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico (ad es. art. 1 L. 22/12/1980 n. 876, in occasione del terremoto campano-lucano).

Parimenti gran parte degli ordinamenti liberali prevedevano e prevedono garanzie della libertà individuale simili (anche se – spesso – meno efficaci dell’habeas corpus). Pertanto è chiaro che lo Stato democratico-liberale tiene tanto alla libertà individuale quanto all’esistenza comunitaria, anzi in caso d’eccezione, limita quella per salvaguardare questa. In definitiva ha fatto proprie – come ogni ordinamento – le affermazioni di De Maistre che “non è nel potere dell’uomo fare una legge che non abbia necessità di alcuna eccezione”. E l’eccezione, tenuto conto del principio d’uguaglianza, è rapportata alla situazione oggettiva: se è realmente eccezionale sono necessarie e legittime le misure d’emergenza: se non lo è, deve applicarsi la normativa ordinaria. Di converso osservare questa se ricorre un caso d’emergenza significa fare un buco nell’acqua; del pari, attentare alla libertà individuale quando non ve ne sono i presupposti. Ossia dare all’apparato pubblico dei poteri enormi senza che ve ne sia ragione. Questi è stato il pretesto spesso usato per sovvertire l’ordine, giustificando abusi di potere, dal colpo di Stato in giù.

Il cui movente comune è salvaguardare la “poltrona” di chi esercita il potere talvolta in condizione di dichiarare legalmente lo stato d’eccezione. Ma all’uso improprio non c’è rimedio giuridico se non, come scriveva Locke (per i casi estremi) che l’“appello al cielo” ossia la disobbedienza e, al limite, la guerra civile.

Resta il fatto che la prima tutela che si ha in questi casi è la limitazione nel tempo soprattutto (e nello spazio) delle misure d’emergenza (la sunset clause della legislazione inglese), dimenticata talvolta in quella nazionale, dove misure eccezionali (anti BR) sono state in vigore anni dopo la fine della situazione che le aveva giustificate. La seconda, e la più importante: che i cittadini vigilino perché ciò non succeda.

Resta il fatto che in ogni ordinamento sia liberal-democratico che non, vale la regola che Machiavelli enunciava nei Discorsi sulla dittatura romana: “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti istraordinari… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli”.

Esorcizzare l’abuso (sempre possibile) opponendosi alle misure d’emergenza ed alla loro previsione è credere che la storia non possa bussare più alla porta di casa. Mentre il problema è essere pronti ad accoglierla, quando prima o poi si presenta.

Teodoro Klitsche de la Grange

CONTINUARE A RIFLETTERE MENTRE ACCADONO I FATTI, di Pierluigi Fagan

CONTINUARE A RIFLETTERE MENTRE ACCADONO I FATTI. Una settimana fa, scrivemmo un post sul fatto dei tempi, lasciando lì una domanda di accompagno allo svolgersi dei fatti: in che misura quanto sta succedendo cambierà la mentalità e poi le forme sociali, se le cambierà? Mi pare la domanda sia e sarà, a lungo, attuale. Vediamo allora, se qualcosa sta cambiando, cosa sta cambiando.

Al momento sta cambiando una cosa sola che però non è di poco conto. Stiamo mano a mano sapendo di non sapere. Il virus sta avendo una funzione socratica, almeno potenzialmente. Non sappiamo un sacco di cose, vediamo di farne un primo elenco:

1) Del virus non sappiamo l’origine. Le tesi possibili, al momento, sono due, l’origine animale e quella umana. Quella umana ipotizza il caso o l’intenzione deliberata. La prima possibilità, l’inavvertita fuga da un laboratorio mi pare molto improbabile, la seconda mi pare ancor meno probabile per varie ragioni, ma il post non è su quello che io penso a riguardo quindi lasciamo lì la pista. L’origine animale a sua volta, chiama due considerazioni. La prima, come alcuni stanno cominciando a fare, è sul quanto il cambiamento climatico ovvero il cambiamento degli equilibri dinamici delle ecologie, stia portando a contatto le specie in modo nuovo, contatto che forma le prime catene si trasmissione che poi arrivano all’uomo.

La seconda considerazione invece è più una constatazione, una deduzione cioè cosa certa eppure fintanto che viene espressa, non conosciuta esplicitamente. L’ha espressa ieri una biologa italiana “gli uomini sono animali”. Questo potente ritorno del biologico che riprende il dominio dell’immagine di mondo dopo esser stato a lungo chiuso in cantina mentre all’attico dell’edificio cognitivo il metafisico, l’economico e l’informatico si dilettavano a dar dell’umano astratte descrizioni ad hoc necessarie poi a sciorinare il loro discorso egemone, è il grande ritorno del principio di realtà. Si noti ad esempio come alcuni concetti di recente o meno recente, grande diffusione stiano cambiando significato: il virale ad esempio, la realtà aumentata, la sempiterna relazione problematica mente-corpo, l’altra sempiterna problematica relazione emozione-ragione, il presunto concetto di “singolarità”, il nostro tendere a costruire cose morte che poi ci fanno pensare di essere divinità creatrici, il trans umanesimo e l’immortalità, il grande significato dei Big data, la distruzione creatrice, confini e frontiere, libertà, e molto altro. Il virus, sull’immagine di mondo, potrà avere un certo effetto, credo.

2) La seconda cosa che non sappiamo è anch’essa duplice: che effetto ha sugli individui e che effetto ha nei grandi numeri? Il virus si sta scavando una sua nicchia definitoria tra l’influenza nomale e quella spagnola. Ma fanno fatiche molte menti ad aggiornare la classificazione e quindi s’è speso inutilmente molto tempo per cercar di capire se fosse dell’una o dell’altra categoria, quando il suo posto è semplicemente in un’altra categoria, una categoria propria. Fanno fatica le menti individuali ma fa molta più fatica la mente collettiva anche perché gli esperti riflettono lo stato di incertezza. Scopriamo così lo statuto limitato della stessa nozione di “esperto”. Esperto di cosa? Innanzitutto se il virus è di tipo nuovo e categoria propria, le analogie non funzionano. La novità poi di per sé significa che non ha storia pregressa e quindi è difficile fare induzioni. Poi tra i biomolecolari, i biologi, gli epidemiologi, i medici, gli statistici, i nutrizionisti, gli immunologi, i farmaceutici ci sono decine di gradazioni di esperti. Ci vorrebbe une esperto di esperti, ma temo che direbbe: ancora non sappiamo dire precisamente. Forse è proprio che quell’aspettativa di “precisione” è sbagliata, le cose morte sono precise, quelle vive no. Ma a noi piacciono i numeri, i confini definiti, le cose chiare e distinte e poiché non vogliamo rinunciare a questa aspettativa a priori, costringiamo i fatti nel nostro letto di Procuste, tagliandoli, allungandoli, legandoli, obbligandoli a stare lì dove non possono stare ed a dirci quello non ci possono dire. Ci metteremo un po’ a cambiare i nostri presupposti, è questo il destino del nostro obbligo ad adattarci alla realtà. Questo poi se gli esperti vivessero nel migliore dei mondo possibili. Nei fatti però vivono nel nostro imperfetto mondo e quindi ecco che prima si allarmano, poi rimangono allarmati ma gli vien detto di esser rassicuranti, poi sono in competizione tra loro, oscuri funzionari della scienza vengono sbattuti davanti al microfono ed il video provando il warholiano quarto d’ora di celebrità e fanno pasticci. Ne potrebbero conseguire effetti positivi, tipo domandarsi cos’è la scienza o se sono legittime le nostre aspettative per un certo tipo di scienza che però non corrisponde alla scienza in quanto tale, quanto finanziamo e quale scienza finanziamo nella ricerca e molto altro. Ma è presto per dire, vedremo. Nel frattempo scopriamo di non sapere molte cose come accadde a suo tempo per il termine “spread” ovvero la differenza tra epidemia e pandemia, tra causa unica (il virus ammazza) e causa complessa (il virus può portare sistemi già compromessi all’esito finale, è causa quindi? O concausa? Che cos’è una concausa?). Non sapendo che WHO ha lanciato un voluminoso paper su i rischi epidemico-pandemici come fenomeno probabile per una serie di ragioni già nel 2007 (ma altri ne parlavano già negli anni ’70), ci meravigliamo che Bill Gates se ne occupi per cui se si occupa sapendo cose che noi non sappiamo, invece di domandarci cosa non sappiamo, deduciamo che Bil Gates fabbrica apposta virus per sterminarci. Anche se il virus ha mortalità relativa. Tra l’altro, WHO ossia OMS è l’unica entità pubblica ad aver mantenuto costante forma e contenuto del suo dire in queste settimane, un dire settato sul problematico-plumbeo direi.

Il secondo effetto è nei grandi numeri. Qui appaiono chiare alcune cose, ovvero che le cose non sono chiare. Come fa il Sud Est asiatico ad avere così pochi casi? O il Pakistan? O le monarchie del Golfo? E l’Africa? La Germania? Gli Stati uniti d’America? Abbiamo citato tutte aree che statisticamente hanno dalle decine alle centinaia di linee di interrelazione coi cinesi, più che non quelli di Codogno lodigiano. Scopriamo così che in alcune parti del mondo globale gli standard sanitari non sono globali (accipicchia, una deduzione davvero illuminante!), ma non lo sono neanche quelli politici. Spicca il caso americano dove il presidente ha nominato addirittura uno “Zar”, un terminale unico che è l’unico che ha diritto a parlare di cosa sta succedendo. Però è scientificamente affidabile visto che si è più volte dichiarato per il “disegno intelligente”. E cosa succede quindi nel Paese che non ha una sanità pubblica, in cui i test tamponi sono a volte a pagamento, dove la lobby delle assicurazioni private trema al timor di doversi dissanguare per pagare gli effetti del cigno nero, dove il partito di opposizione rischia di veder nominato candidato uno che propugna la sanità pubblica sul modello europeo e dove tra nove mesi si va ad elezioni col rischio di esser in recessione economica e l’evidenza che solo i ricchi possono sperare di sopravvivere indenni alla cieca furia infetticida del virus cinese? Ma che domande, non succede (quasi) niente, è ovvio! Quindi, sì non sappiamo perché non abbiamo esperienza ma neanche sapremo perché chi detiene le chiavi del diritto pubblico all’informazione, deciderà che è meglio non sapere. Infatti, una prima cosa che abbiamo capito presto, è che non il virus in sé ma le aspettative su i suoi effetti sono molto più dannose del virus stesso, per cui la società dell’informazione diventa improvvisamente la società della non informazione. I dati saranno Big per le banche dati che servono la marketing ed al controllo panoptico ma rimarranno Small per quanto riguarda ampiezza e velocità dell’epidemia.

Questa enorme bolla di incertezza oscura poi tutto il resto. L’Antartide nell’ultimo mese si sta sciogliendo e se si scioglie tutta, dio non voglia, i mari saliranno di cinquanta metri. Di cavallette abbiamo già parlato in altro post. In India si massacrano tra hindu e musulmani con un bilancio morti e feriti che fa di Delhi un posto più rischioso di Vo’ euganeo. Trump fa finta di fare pace coi talebani ma con effetti a quattordici mesi per cui c’è tutto il tempo per presentarsi alle elezioni come “ho mantenuto le mie promesse” e poi ripensarci. La Nato che ha perso l’andata della guerra in Siria, vuole giocare il ritorno scendendo in campo con i turchi che nel frattempo ci vogliono inondare di siriani, a noi che poi in teoria siamo Nato. A dirigere la CDU si candida un certo Merz che oggi lavora per Blackrock che fa paura solo a guardarlo con la sua aria da feldmaresciallo sadico che ci farà ricordare la Merkel come Nonna Papera. Prestigiose università americane hanno verificato e confermato che i risultati delle elezioni che si tennero in Bolivia erano assolutamente corretti e quindi abbiamo cacciato un presidente legittimo perché trionfasse la vera democrazia. Roubini è l’unico che dice quello che tutti sanno ovvero che ci sarà una recessione globale. Nel mentre torme di sciacalli si aggirano furtivi intorno al caos per trarne qualche piccolo vantaggio, economico, finanziario, politico, geopolitico, di momentanea notorietà.

Non sappiamo poi tante altre cose, dal quanto durerà, al che effetto finale avrà, del che faremo dopo, se ci saremo nel dopo e così via. Ma dovremo abituarci, è passata una sola forse un paio di settimane dall’inizio della storia, almeno la sua italica fase conclamata. C’è tempo per sapere quante altre cose non sappiamo e sapremo e domandarci meglio che ruolo hanno informazione e conoscenza nei funzionamenti delle nostre società complesse. Intanto, laviamoci le mani …

NB tratto da facebook

Alain De Benoist Critica del liberalismo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Alain De Benoist Critica del liberalismo. Arianna editrice, Bologna 2019, pp. 285 € 23,50

Quando un pensatore così acuto e influente come Alain De Benoist giudica il liberalismo che considera (a ragione) come “l’ideologia dominante del nostro tempo”, occorre prenderne atto, senza incorrere nelle usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa) anche se (parte) delle tesi sostenute non convincono.

Scrive De Benoist “Una società liberale non è esattamente la stessa cosa di un’economia liberale. È invece una società in cui dominano la preminenza dell’individuo, l’ideologia del progresso, l’ideologia dei diritti dell’uomo, l’ossessione della crescita, lo spazio sproporzionato del valore mercantile, l’assoggettamento dell’immaginario simbolico all’assiomatica dell’interesse … è all’origine della mondializzazione, la quale non è altro che la trasformazione del Pianeta in un immenso mercato, e ispira quello che oggi si chiama «pensiero unico». Beninteso, come ogni ideologia dominante, è anche l’ideologia della classe dominante”; ma aggiunge subito dopo “Se “liberale” è sinonimo di persona dalla mente aperta, tollerante, sostenitrice del libero esame e della libertà di opinione, o ancora ostile alla burocrazia e all’assistenzialismo come allo statalismo centralizzatore e invasore, l’autore di queste righe non avrà evidentemente alcuna difficoltà a fare proprio questo termine. Lo storico delle idee, però, sa bene che tali accezioni sono triviali. Il liberalismo è una dottrina filosofica, economica e politica, ed è evidente in quanto tale che deve essere studiato e giudicato”. Studiandolo come dottrina, De Benoist, ne indica i fondamenti, “ossia un’antropologia fondata essenzialmente nell’individualismo e sull’economicismo …  pensiamo infatti che il liberalismo sia anzitutto un “errore antropologico”; perciò parliamo di liberalismo … per designare questa ideologia e per parlare del suo naturale correlato: il capitalismo”; la conseguenza (logica)  ne è che “ l’individuo è divenuto il centro di tutto ed è stato eretto a criterio di valutazione universale. Comprendere la logica liberale vuol dire comprendere ciò che unisce tutti questi elementi fra loro e li fa derivare da una matrice comune”. L’uomo liberale è così connotato da due fondamentali caratteri: l’indipendenza dagli altri e la ricerca del proprio interesse. Ogni struttura politica e sociale che limiti l’individualismo economicista è quindi negata o rigettata. In particolare la dedizione rispetto alla comunità. Se Renan diceva che la nazione è “un’anima, un principio spirituale”, per i liberali contemporanei, Stato, nazione, patria sono qualcosa di non-esistente.

Per cui il bene comune ossia il fine per cui si costruisce l’istituzione politica, viene negato, più spesso, minimizzato o comunque viene dopo la tutela dei diritti individuali.

Né sono sostenibili e coerenti le posizioni dei conservatori-liberali. In effetti è contraddittorio pretendere di regolare “l’immigrazione aderendo al contempo all’ordine economico liberale, che si basa su un ideale di mobilità, di flessibilità, di apertura delle frontiere e di nomadismo generalizzato”; in genere difendere le frontiere, limitative sia del diritto a trasferirsi sia di quello a consumare, è in contrasto all’ “ideal-tipo” liberal-liberista. I liberali conservatori “non vogliono comprendere che il movimento perpetuo della hybris capitalistica non può non provocare sconvolgimenti, che lo rendono incompatibile con ogni vera forma di conservatorismo”. La crisi attuale dipende dall’aver portato alle conseguenze più estreme l’individualismo economicista con la relativa chiusura di senso e la marginalizzazione della politica, del politico e dello Stato, e generato la dialettica nascita del sovranismo, contrario a talE prospettiva.

Questo per sintetizzare l’essenza del libro che, in quasi trecento pagine di critiche serrate e coerenti, spazia su tanti temi, come l’Unione Europea, le insorgenze populiste, i regimi “illiberali” della Polonia e dell’Ungheria, il conflitto tra Stato democratico e cosmopolitismo liberista per cui rinviamo alla lettura del saggio, concettoso e ricco quanto chiaro.

Al recensore trarre un paio di osservazioni generali.

De Benoist stigmatizza il liberalismo come ideologia, come tipo ideale (à la Weber); e la critica è particolarmente efficace e coerente. Ma, è appunto quella al “tipo ideale” liberale che tra lo scorcio del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, si è preso (da solo) troppo sul serio, pretendendo di fare di una parte del liberalismo pensato e storicamente realizzato in alcuni secoli il tutto. A tal proposito, a ripristinare il carattere concreto del liberalismo ci soccorre un grande giurista come Carl Schmitt, apprezzato dall’autore (e da chi scrive). Sostiene Schmitt nella Verfassungslehre (e in altri scritti) che lo Stato liberale è frutto della ibridazione tra principi di forma politica (identità e rappresentanza) e principi dello Stato borghese (separazione dei poteri e distinzione tra Stato e società civile – id est tutela dei diritti fondamentali).

I primi necessari a costituire la forma politica e legittimare il potere pubblico: i secondi a limitarlo. Senza forma di potere le limitazioni a questo non hanno senso. A tale proposito Schmitt cita quanto sosteneva Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”; e il patriota italiano aveva ragione: riecheggia in ciò l’affermazione di Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta” (prgrf. 260 dei Grundlinien). In altre parole: i teorici dello Stato borghese moderno da Sieyès a Tocqueville, da Hegel a Jellinek da Hamilton a Orlando (tra i tanti) ben capivano che potere pubblico e limiti a quello vanno di pari passo.

Per tenerci all’antropologia, ritenevano necessaria perché naturale sia la sociabilità umana (che genera lo scambio e il droit commun) che la politicità (la zoon politikon di Aristotele e S. Tommaso) che genera il droit disciplinaire, cioè il diritto dell’istituzione politica, come scriveva Hauriou. Se l’uomo dei liberali odierni è solo individualista ed economicista, quello dei “vecchi” era anche comunitario e politicista. Inoltre nel Federalista si afferma che lo Stato borghese si regge su un’antropologia negativa: “Ma cos’è il governo se non la più poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo interno ed esterno sul governo diverrebbe superfluo.  Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare … e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi … L’autorità del popolo rappresenta il primo sistema di controllo … ma l’esperienza ha insegnato all’umanità che altre garanzie ausiliarie sono necessarie” (Il Federalista n. 51). Qui di esaltazione della mano invisibile e della governance tecnocratica ce n’è poco o punto, tantomeno di un’antropologia meramente individualista, soprattutto in grado di far a meno dell’autorità politica. Per cui il liberalismo reale e concreto si fonda sulla natura problematica dell’essere umano, sulla conseguente necessità di un potere politico e su quella di controlli perché i governanti realizzino in concreto l’interesse generale (il “bene comune”) e non il proprio.

Ossia proprio l’inverso delle conclusioni cui porta il liberalismo astratto e ideal-tipico propinatoci da un trentennio (almeno) e che De Benoist acutamente critica.

Liberalismo (quello global-mercatista) estraneo a chi recensisce, che, come liberale italiano, appartiene ad una variante tutta nazionale del liberalismo, la quale -.diversamente da altri Stati europei, costruiti dalla plurisecolare e paziente opera dei monarchi (prima feudali poi assoluti) – ha costituito in unione alla monarchia sabauda lo Stato nazionale. Quello Stato liberale che i vecchi maestri del diritto pubblico e della scienza politica italiani come Orlando e Mosca  non chiamavano (pur considerandolo tale) neppure liberale ma “Stato rappresentativo”.

Peraltro, e veniamo al secondo punto essenziale, i (sedicenti) liberali global-mercatisti sono, in grado di realizzare quanto fanno intendere, o non lo sono proprio, perché dovrebbero cambiare le leggi naturali, almeno quelle sociologiche?

In realtà è che su tale punto, decisivo, i liberal, o non parlano (per lo più) o lo presuppongono scontato, in contrasto con l’esperienza storica. Ad esempio l’idea espressa già da B. Constant, che l’esprit de commerce riduce l’ esprit de conquête, è (in parte) condivisibile a condizione di relativizzarla. Perchè è un fatto che proprio nel XIX secolo i due esprits si congiunsero generando guerre imperialiste: il che induce a prendere il giudizio del pensatore di Losanna come tendenziale, utile ma non decisivo. Piuttosto occorre ricordare quanto sosteneva V. E. Orlando “le leggi sociali come le leggi fisiche, hanno una forza tutta propria, sono un portato affatto naturale cui la volontà umana non può che conformarsi. Elles ne se font pas, elles poussent”; per cui sono le regolarità (Miglio), i presupposti del politico (Freund) a condizionare la capacità umana di conformare le istituzioni. Cosa che i liberal contemporanei dimenticano o sottovalutano. C’è da chiedersi se poi  questi “liberali” siano veramente tali. Sempre a seguire Schmitt, i nemici del liberalismo e dello Stato borghese di diritto sono coloro che non ritengono desiderabile uno Stato connotato (anche) dalla divisione dei poteri e dalla tutela della libertà e della proprietà. Osama Bin Laden (tra i tanti) avrebbe sottoscritto con entusiasmo. Ma se il liberalismo si basa sul mercatismo globalista, sulla confusione dei generi, sulla distruzione dei legami comunitari, e così via, il nemico dei liberali non è più il tiranno liberticida, ma il governante che cerca di difendere l’anima di un popolo e il suo modo d’esistenza.

E in effetti se nella prima metà del XX secolo i nemici sono stati Hitler e Stalin, in questo inizio di secolo è diventato Orban (tra i tanti). Quell’Orban il quale ha voluto una costituzione che, ad onta delle decisioni del Parlamento UE, ha più istituti di garanzia di quella italiana, ma il torto imperdonabile di volerli fondare sulla storia e sull’anima della comunità nazionale ungherese.

Resta da vedere se i veri liberali sono quelli che nel Parlamento UE hanno votato l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria o – piuttosto – gli emergenti governi sovranisti che non hanno dimenticato che la libertà dell’individuo si fonda su quella della comunità cui appartiene; che la libertà dei moderni non è opposta, ma complementare a quella degli antichi.

Teodoro Klitsche de la Grange

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