L’illusione del nazionalismo arabo, di Hilal Khashan

L’identità araba non è mai stata ben definita.

Di: Hilal Khashan

Le rivolte arabe hanno brevemente resuscitato l’idea del nazionalismo arabo. Durante i Giochi Panarabi del 2011 in Qatar, gli spettatori hanno cantato l’inno nazionale arabo non ufficiale, i cui testi promuovono l’idea che gli arabi non possono essere separati da confini artificiali o religione perché la lingua araba li unisce tutti. Ma l’euforia del momento si è presto dissolta, quando la realtà della faziosità ha preso il sopravvento. Nonostante i vari tentativi di unità, le nazioni arabe hanno ripetutamente fallito nell’agire collettivamente o concordare interessi comuni.

Falsi inizi

Il primo movimento nazionalista arabo fu lanciato a Beirut nel 1857. La Società Scientifica Siriana inaugurò una rinascita culturale e intellettuale araba di breve durata. Non riuscendo ad attirare un vasto pubblico, svanì con l’inizio della prima guerra mondiale. Era essenzialmente un’organizzazione elitaria di cristiani principalmente siriani e libanesi e alcuni americani e britannici che vivevano nella zona. (Il nazionalismo arabo laico piaceva ai cristiani perché significava che potevano essere integrati come cittadini a pieno titolo.) Decenni dopo, la Young Arab Society fu fondata a Parigi in risposta al colpo di stato dei Giovani Turchi del 1908 contro il sultano ottomano Abdul Hamid. Il gruppo ha chiesto una transizione democratica, autonomia amministrativa per gli arabi e la designazione dell’arabo come lingua ufficiale alla pari del turco.

Le politiche repressive del governatore militare ottomano della Siria portarono i Giovani Arabi a chiedere l’indipendenza per le province arabe dell’Asia occidentale, aprendo la strada alla Grande Rivolta Araba sostenuta dai britannici nel 1916. L’ordine mondiale emerso dopo la prima guerra mondiale diede fino agli attuali stati dell’Oriente arabo, mentre i paesi indipendenti del Nord Africa sono emersi all’indomani della seconda guerra mondiale. I paesi imperiali occidentali hanno creato gli stati arabi nel loro formato attuale per garantire la loro continua fragilità e dipendenza dall’Occidente per la loro sicurezza.

L’identità araba non è un indicatore etnico. Emerse durante il califfato abbaside come linea di demarcazione politica tra i califfi arabi ei loro sudditi persiani nel IX secolo. Per essere considerato un arabo bastava pretendere di esserlo e parlare la lingua araba. Il nazionalismo arabo era per lo più limitato all’orgoglio per i risultati della comunità, in particolare la diffusione dell’Islam e della lingua araba al di fuori della penisola arabica. L’ossessione dei regimi arabi di rimanere al potere ha impedito loro di cooperare, assicurando che il nazionalismo di stato superasse il panarabismo.

 


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Il mito del grande mondo arabo

L’idea del mondo arabo – una regione che si estende dall’Oceano Atlantico a ovest al Golfo Persico a est e l’Oceano Indiano a sud – è stata introdotta all’inizio del XX secolo da Sati al-Husary, ministro dell’Istruzione iracheno durante il regno di re Faisal I. A quel tempo, la sua concettualizzazione del nazionalismo arabo rimase per lo più un attaccamento sentimentale alla religione e alla lingua. In effetti, gli arabi erano orgogliosi della loro identità e cultura, ma non estendevano il loro senso di unità al regno economico o politico.

Nel 1920, Faisal fondò il Regno Arabo di Siria. Pochi mesi dopo, una forza francese – che comprendeva anche la cavalleria marocchina e due battaglioni algerini – sconfisse la forza siriana scarsamente equipaggiata e con personale insufficiente nella battaglia di Maysaloun vicino a Damasco, rivendicando la Siria come mandato francese. Ciò ha inferto un duro colpo al nazionalismo arabo, impedendo a Damasco di diventare un centro panarabo e condannando le sue prospettive di funzionare come uno stato centrale in grado di influenzare gli arabi ovunque.

A differenza del nazionalismo in Europa, il nazionalismo arabo non si è sviluppato a causa di una svolta tecnologica nella produzione che ha inaugurato un’era industriale. Non ha dato origine a una comunità politica inclusiva che ha sostituito le identità settarie, tribali e di clan. I leader arabi, sperando di ottenere la legittimità popolare, hanno promosso manifestazioni pubbliche dell’ortodossia sunnita invece di trattare la fede come una questione privata, cosa che ha alienato le sette islamiche eterodosse e i cristiani. Ad esempio, il vicepresidente egiziano Hussein el-Shafei, che ha servito sotto il presidente Gamal Abdel Nasser, ha cercato di attirare i cristiani copti egiziani all’Islam. Negli anni ’70, il libico Moammar Gheddafi esortò i cristiani libanesi maroniti ad abbracciare l’Islam per porre fine alla guerra civile.

Il pensiero nazionalista arabo ha contribuito a far rivivere il dogma religioso. In Sudan, ad esempio, il presidente Jaafar Numeiri si è trasformato da nazionalista arabo laico a fanatico religioso, introducendo la sharia in tutto il Paese, anche nella regione meridionale non arabizzata e non islamica.

Mancanza di azione collettiva

Questa faziosità e interesse personale ha bloccato ogni tentativo di genuina coesione. Il Consiglio di cooperazione del Golfo è stato creato nel 1981 da sei nazioni arabe – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Qatar, Kuwait e Oman – apparentemente per integrare le loro economie e capacità di difesa. Ma il gruppo non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi dichiarati e le relazioni tra gli stati membri sono state segnate dal conflitto. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono ancora coinvolti in problemi di confine in corso. E nel 2017, tre degli Stati membri (più l’Egitto) hanno imposto un blocco di tre anni al Qatar.

L’idea di fondare l’Unione del Maghreb Arabo – un’alleanza tra Marocco, Tunisia, Algeria, Mauritania e Libia – è nata nel 1956 dopo che Tunisia e Marocco hanno ottenuto l’indipendenza dalla Francia. Ma anche questo non è riuscito a ispirare un senso di unità. L’invasione del territorio algerino da parte del Marocco nel 1963 diede inizio alla Guerra della Sabbia, che inasprì permanentemente le relazioni tra i due paesi. La loro disputa sul Sahara occidentale ha ulteriormente aggravato le tensioni e il mese scorso l’Algeria ha interrotto le relazioni diplomatiche con il Marocco. I cinque paesi hanno tenuto il loro primo vertice nel 1988, ma i capi di Stato non si sono incontrati da quando l’Algeria ha chiuso il confine con il Marocco nel 1994. L’AMU ha raggiunto 30 accordi multilaterali, ma solo cinque di essi sono stati ratificati.

L’accordo Sykes-Picot del 1916, che divise parti della Mezzaluna Fertile in mandati francesi e britannici, smorzò la spinta nazionalista araba. A differenza dell’Iran e della Turchia, dove uno stato centrale forte promuoveva coesione e solidarietà, il nazionalismo arabo non aveva un paese impegnato a portare avanti la sua causa e a creare un’entità panaraba unificata. Non è riuscito a decollare principalmente perché i principali stati arabi erano distratti dai propri problemi con la corruzione, il dispotismo, la stagnazione economica e l’avventurismo militare.

I movimenti nazionalisti arabi si divisero, dando origine a partiti politici di sinistra e marxisti. Il Partito comunista libanese, ad esempio, si è dissociato dall’internazionalismo sovietico per partecipare alla guerriglia contro le truppe israeliane nel sud del Libano. George Habash, che fondò il Movimento Nazionalista Arabo nel 1951, lo ribattezzò Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Questo movimento marxista-leninista ha orchestrato trame terroristiche di alto profilo in Israele e una serie di dirottamenti aerei negli anni ’60 e ’70.

“Il risveglio della nazione araba”, un libro scritto nel 1905 dal cristiano maronita Naguib Azoury, prevedeva uno scontro tra nazionalismo arabo e sionismo, che non sarebbe terminato finché uno dei due movimenti non avesse sconfitto l’altro. La profezia di Azoury si è avverata nel 1967, quando la Guerra dei Sei Giorni ha deluso ogni speranza per una nazione panaraba mentre le preoccupazioni si rivolgevano al recupero del territorio catturato da Israele. La sconfitta ha permesso alle minoranze etniche e religiose della regione araba, che per la maggior parte non avevano articolato richieste specifiche, di contestare l’autorità statale e di premere per l’autonomia. Sono diventati militarizzati e hanno presentato richieste politiche di vasta portata in Algeria, Sudan, Iraq e oltre.

L’identità araba esiste ancora in senso stretto come ricordo della gloria passata e di una cultura comune. È una forza simbolica che non ha meccanismi di azione collettiva in tutta la regione. Avendo vissuto sotto una successione di imperi religiosi, gli arabi non subirono una trasformazione necessaria per facilitare il trionfo del nazionalismo. Nella regione araba la religione resta la forza sociale decisiva e il motore dell’azione collettiva.

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INFLUENZA BALCANICA. LA SERBIA RIARMA MA NON PER RIVINCITE. OFFRE IL TRANSITO ALL’OLEODOTTO CHE TAGLIA FUORI L’UCRAINA…_di Antonio de Martini

Lo avevamo sottolineato già in alcuni articoli ed interviste di alcuni mesi fa. Prima che ai confini esterni, la NATO si concentrerà nei punti bianchi interni. Da quelle fessure potrebbero aprirsi crepe ingestibili. I Balcani, inoltre, sono il maggior punto di accordo tra gli interessi degli Stati Uniti e della Germania. Un buon modo per tentare di mettere in secondo piano i punti di attrito o di cercare contropartite più impegnative. D’altro canto la sopravvivenza dell’indipendenza politica della Serbia dipende dalla possibilità di rafforzare i legami con la Cina e la Russia. Potrebbero rientrare nel gioco anche Francia e Italia; la prima abituata a strepitare per nulla, la seconda ad acquattarsi contro se stessa_Giuseppe Germinario

I SERBI NEGLI ULTIMI TRE ANNI HANNO RADDOPPIATO LE SPESE PER LA DIFESA SUPERANDO ( NEL 2019) LA CROAZIA PARTNER N.A.T.O. QUEST’ANNO SPENDE IL 2,6% DEL BILANCIO. PIU’ CHE PER IL COVID.

Nel 2018 la spesa per la Difesa della Repubblica di Serbia é stata di 700 milioni di dollari, nel 2019 di 1,14 miliardi e nel 2020 – secondo il Jane’s – ha raggiunto 1,5 miliardi con un aumento anno su anno, del 43%.

Radovan Karadzic prima e dopo la cura. I successori non vogliono il bis.

I suoi vicini, MontenegroKosovoCroazia e Bosnia, sono in allarme, specie quelli che hanno minoranze serbe sul loro territorio e che magari le hanno bulleggiate, forti della presenza protettrice NATO e USA (la KFOR di cui fa parte anche l’Italia).

Ora che la presenza americana viene a mancare e la Serbia riarma – nemmeno silenziosamente- la fibrillazione non manca, stimolata da dichiarazioni tipo “Adesso abbiamo 14 MIG 29” come ha affermato orgogliosamente il presidente Aleksander Vucic. Come a dire che questa volta bombardare la Serbia non sarà facile come nel 96 .

E’risaputo che le fanterie NATO e USA possono affrontare , male evidentemente, guerriglieri afgani, ma non i guerrieri che non hanno temuto di affrontare i turchi,gli Austroungarici o i tedeschi quando se ne é presentata la necessità.

Proprio questo mese é stato creato il “giorno dell’unità, della libertà serba e della bandiera nazionale”. Ottima occasione per revival patriottici.

Alla domanda retorica del presidente croato Zoran Milanovic ” se i serbi non avessero nulla di più importante o intelligente da fare” ha risposto il Ministro dell’interno serbo Aleksander Vulin, spiegando che ” non c’è nulla di più importante dell’identità serba” e con questo ha chiuso la questione, mentre la Serbia ha lanciato la nuova parola d’ordine ” il mondo serbo” del quale potrebbero far parte “volontariamente e informalmente ” i paesi della ex Jugoslavia “per poi aderire in futuro anche giuridicamente. “

Ovvio che dichiarazioni del genere provochino timori o ipotesi interessate di revanscismo che potrebbero potenziare eventuali vecchi rivali, ma la realtà potrebbe essere ben diversa e le dichiarazioni essere semplicemente destinate a rafforzare lo spirito patriottico serbo in vista di futuri cimenti che tengono conto di quanto é effettivamente accaduto in Siria, Irak, Yemen e Afganistan, non appena quei paesi siano stati attraversati dalle linee di rifornimento o rotte commerciali petrolifere americane.

Non credo sia vero.

Pubblico pertanto una carta geoeconomica dell’Europa e delle sue vie di accesso, che illustra in blu il sistema vascolare che alimenta l’Europa ( e l’Italia) in gas e greggio proveniente dalle zone di produzione: Algeria, Russia e Levante. Ci sono gasodotti in progetto e in costruzione ( tratteggiati in rosso). Le linee blu continue sono operative. Quelle irachene le ho viste coi miei occhi,erano tre, ma non ne ricordo più il tracciato esatto, solo i punti terminali alle raffinerie di Haifa e Tripoli di Siria.

Il tratteggiato rosso che attraversa la Serbia, ha creato le premesse di un periodo di instabilità, che non é dovuto all’ipotesi di una ” seconda lezione” ai serbi che si cautelerebbero con un piano di riarmo che ha allarmato i vicini. E’ dovuto alla previsione di rappresaglie contro l’aver offerto ai russi l’opportunità di ” punire” l’Ucraina privandola delle royalties di transito sul suo territorio dei gasodotti russi rivolti a occidente. A fine lavori, la Russia disporrà di due itinerari di rifornimento della Germania e dei paesi centroeuropei “amici”, senza dover subire controlli, ricatti e prezzi degli ucraini protetti dagli USA.

Al contrario , ora l’Ucraina deve temere per la perdita di miliardi di royalties russe di transito, nella indifferenza europea che si vedrebbe comunque rifornita.

La Russia ha raddoppiato il northstream ( anche se il secondo condotto é finito ma non é ancora operativo) e sta moltiplicando gli oleodotti anche da sud ( con l’oleodotto ” Brotherhood e Turkish detti southstream) con l’obbiettivo di impedire che un sabotaggio metta in crisi il sistema di approvvigionamento dell’Europa.

Per evitare di passare sotto le forche caudine dell’Ucraina, ha organizzato un passaggio ungherese attraverso l Serbia e l’Austria ed ora la Serbia si cautela riarmando ed ecco perché l’Austria si vede improvvisamente il premier passato sotto processo per corruzione.

Il ballo é cominciato e Belgrado ha intenzione di vendere cara la pelle.

Per cominciare intimorisce i vicini – specie il Kosovo – che potrebbero ospitare basi ufficiali come la base Usa costruita durante e dopo la scorsa guerra balcanica, sia clandestine in caso la si voglia destabilizzare col solito collaudato sistema di “rivendicazioni popolari democratiche.”

Irussi guardano ai Balcani dalla metà del XIX secolo fino al trattato che va sotto il nome di Sykes-Picot, ma che fu ideazione e proposta di SERGEI SAZONOV , ministro degli esteri dello Zar, nel 1915.

La Russia entrò nel primo conflitto mondiale per difendere la Serbia contro l’impero Austro-Ungarico brandendo la bandiera dell’idea panslava e molti analisti sono pronti a giurare che potrebbe nuovamente scendere in campo in difesa dell’alleato, visto anche il successo del suo intervento in Siria e l’evidente riluttanza americana ad essere coinvolta da sola in azioni dirette.

L’Europa, che già pensa ad armare un corpo di spedizione di 50.000 uomini, dimentica che questo numero era, negli anni novanta, il quorum minimo necessario per una azione di peace keeping. Una guerra guerreggiata contro un esercito di popolo motivato, ansioso di rivincita e modernamente equipaggiato, richiederebbe ben altri mezzi e tutt’altra leadership.

IBalcani sono i nostri vicini di casa e non possiamo non notare che la ragnatela dei metanodotti punta all’Europa – il grande consumatore del globo assieme alla Cina anche’essa rifornita dai russi con un accordo decennale- e sia la rete russa che quella algerina e la costituenda rete levantina puntano verso l’Italia ( quella libica é ipotecata e resterà così a lungo) che é il ponte attraverso il quale tutti vogliono passare per giungere al cuore industriale dell’Europa che é la Germania. Un gasdotto su terra costa molto meno di uno sottomarino e potrebbe usufruire della rete creata dall’ENI in mezzo secolo. Italia e Germania, assieme formano il più ricco mercato del mondo per gli idrocarburi.

COSA VUOLE PUTIN

Con il recente aumento dei prezzi nell’imminenza della stagione autunnale, La Russia intende recuperare la ricchezza perduta con il varo delle sanzioni a suo carico, varate dall’Europa sulla scia degli USA.

La sanzioni economiche alla Russia costano cos^ doppiamente agli europei: in termini di lucro cessante ( mancate vendite ) e di danno emergente ( aumento dei costi del petrolio e del gas).

Putin e Lavrov ( e non va dimenticato Schroeder che , diventato il consulente di Gasprom si é certo vendicato di essere stato sostituito alla guida della Germania da una incolore Hausfrau) hanno usato strategicamente i rifornimenti di idrocarburi abbinati alla politica di armamento.

Hanno fidelizzato la Cina – che era grande amica industriale degli USA – con l’impegno a forniture decennali per tutte le sue industrie e promettono di acquistare armamento terrestre dai cinesi, coi quali hanno recentemente fatto manovre combinate con utilizzo di soli mezzi cinesi di terra – stanno fidelizzando la Serbia offrendole – oltre che la franchigia doganale assoluta per le merci già in atto da anni – royalties di transito degli oleodotti che si apprestano a negare all’infedele Ucraina e allettano la Turchia con offerte analoghe e collaborazione alla progettazione ( notizia della scorsa settimana) di carri armati turchi.

Aentrambe viene offerta anche la certezza di difendersi dalla eventuale schiacciante superiorità aerea USA e le affranca dalla dipendenza in fatto di armamenti e manutenzione in maniera che ulteriori sanzioni USA a loro carico e minacce di intervento risulterebbero inefficaci. Vendono i formidabili sistemi contraerei S 400 e gli aerei MIG 29 che sono superiori ai concorrenti americani e rendono impossibile operazioni come quelle che hanno atterrato Saddam Hussein, Gheddafi e hanno messo in difficoltà Siria e Yemen. Chi compra da Putin diventa intoccabile senza che la Russia possa essere considerata direttamente responsabile…

COSA VORREMMO NOI EUROPEI

Questo é il mistero. Per il momento, ognuno segue una politica basata sulla percezione degli interessi nazionali: La Germania difende il proprio canale di rifornimento di gas ( Northstream 1 e 2 )con la Russia. La Francia segue, ma non sappiamo per quanto ancora, vuole esercitare l’opzione dell’energia nucleare, L’Europa dell’est riapre le proprie centrali a carbone, L’Italia ha , d’accordo col passato governo tunisino, puntato sull’energia solare da produrre in Nord Africa e portare in Germania.

Il problema si é manifestato a causa dell’impennata dei prezzi del Gas dovuta alle restrizioni combinate ” quarantena + sanzioni. La brusca ripresa dell’attività industriale ha provocato una altrettanto brusca ripresa delle forniture e dei prezzi. Unico rimedio finora notato, é stata la riduzione dell’IVA praticata dagli spagnoli, mentre la Francia ha – con tre aumenti successivi- aumentato il prezzo del 57% e gli italiani, hanno nominato una commissione di studio….

Più sempliciotta la soluzione escogitata dal duo Ursula Van Der Leyen e Frans Timmermans che hanno varato un ” piano verde” assortito a uno slogan ” Fit for55″ ( riduzione del 55% delle emissioni di gas serra) con cui si vantano di essere stati i primi al mondo a fissare il traguardo ” clima” delle riduzioni di consumi entro il 2030.

Non indicano come riuscirvi e questo ne riduce la credibilità. Si affidano alla buona volontà delle imprese e danno l’impressione di non rendersi conto degli ostacoli cui andranno incontro a partire dai due anni che mediamente una delibera impiega per giungere in Parlamento con l’approvazione dei singoli paesi. Non a caso i verdi votarono contro la elezione di Ursula alla presidenza della commissione e si astennero alla votazione della fiducia della intera compagine.

D’altronde, la Ursula si é già scusata ufficialmente per una serie di topiche: dal mancato sostegno all’Italia all’atto dello scoppio della pandemia, alla sottovalutazione del trentesimo anniversario dell’indipendenza ucraina (fece comunicare dal capo di gabinetto che non avrebbe partecipato, come per una fiera di paese), al “divanogate” di Ankara ( che ha mostrato un uso approssimativo del suo staff al netto della misoginia del protocollo turco); i ritardi nella consegna dei vaccini ASTRA ZENECA, mentre l’Inghilterra li otteneva puntualmente. Tutto fa pensare che non domina la macchina ma ne é dominata. Non mi meraviglierei se venisse sostituita in corsa ( o anche informalmente) , ad esempio , da Angela Merkel.

Di certo, di fronte a una politica energetica chiara degli USA, della Russia e dei cinesi, L’Unione Europea procede tra indecisioni del centro e miopi egoismi delle periferie.

Il finale della partita strategica ed energetica europea si giocherà nei Balcani dove la Croazia e la Bulgaria si riarmano per ” compliance” coi nuovi requisiti NATO, La Grecia per “difendersi” dai turchi, la Serbia per cautelarsi dalle possibili conseguenze dell’ospitare un gasdotto essenziale per l’economia ucraina in un momento strategico particolare per i rapporti tra est e ovest.

https://corrieredellacollera.com/

Requiem per il “sovranismo”, di Roberto Buffagni

Requiem per il “sovranismo”

Con il voto per il primo turno delle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre, il popolo italiano ha celebrato il requiem per il “sovranismo” italiano. Nelle ultime elezioni politiche di tre anni fa, metà degli elettori italiani ha votato per due partiti – M5* e Nuova Lega – che promettevano, benché confusamente e anche contraddittoriamente, di contrapporsi all’Unione Europea in nome dell’interesse della nazione e del popolo italiano; un movimento culturale e politico che si è convenuto di chiamare, goffamente, “sovranista”. Nel primo turno delle elezioni amministrative appena concluse, una metà degli elettori italiani si è astenuta dal voto.

Certo, la metà degli elettori italiani votante per il sovranismo nel 2018 e la metà astenuta nel 2021 non sono composte dalle stesse identiche persone, e sia nell’astensionismo sia nel voto confluiscono mille motivazioni. La corrispondenza, però, mi pare significativa, e logica. Perché avrebbe dovuto scomodarsi per votare nel 2021, la metà “sovranista” degli elettori italiani, quando i due partiti “sovranisti” del 2018, dopo una caotica e inconcludente esperienza di governo in comune, oggi fanno entrambi parte della maggioranza che sostiene il governo presieduto da Mario Draghi, il maggiore rappresentante italiano del “partito delle istituzioni” euro-atlantiche? Quando in effetti, il programma di governo di Mario Draghi consiste, in sostanza, nell’uniformazione dell’Italia alle linee culturali, politiche, economiche espresse dall’UE? Come ha recentemente rilevato Matteo Renzi, tre anni fa l’Italia aveva il governo più antieuropeista, e oggi ha il governo più europeista d’Europa.

Questa sconfitta del “sovranismo” italiano (non solo italiano) è una sconfitta strategica: non si è perduta una battaglia, si è perduta la guerra, o almeno una intera fase della guerra. Le ragioni pratiche della sconfitta vanno cercate nelle soggettività politiche “sovraniste”, che non sono state all’altezza del compito storico che si erano proposte; o meglio, per essere più precisi e meno ingiusti, del compito che la situazione storica presente imponeva loro malgré eux.

Così che, nonostante gli errori gravissimi commessi dall’avversario negli anni Duemila, nonostante la crisi di progettualità della UE, nonostante le disfunzionalità (tuttora non emendate, e in buona parte inemendabili) del progetto UE e del mondialismo occidentale, nonostante la finestra di opportunità apertasi, sul piano della politica di potenza, con la presidenza Trump che allentava il controllo statunitense sull’Europa; nonostante, insomma, le condizioni oggettive favorevoli alla battaglia “sovranista”, il risultato dello scontro è stata la resurrezione della UE, questo morto che camminava, e delle sue rappresentanze italiane, compreso un partito appena ieri moribondo e impresentabile come il PD; e il ralliement delle due principali formazioni sovraniste, M5* e Nuova Lega; verificatosi, per di più, nella forma ridicola e mortificante di un affannoso trepestio per salire a bordo della scialuppa di salvataggio del governo Draghi. Così agendo, M5* e Nuova Lega si sono disonorati: la parola non si usa più, ma la cosa che designa non ha smesso di esistere.

Il rovesciamento delle alleanze di M5* e Nuova Lega e la loro adesione al governo Draghi replicano infatti, farsescamente, il 9 settembre 1943, con le risse tra maggiorenti di seconda e terza fila sul molo nord di Ortona per riuscire ad imbarcarsi, al seguito della famiglia reale fuggiasca, sulla corvetta Baionetta. Come allora, e come sempre quando chi comanda si disonora, il popolo si disgusta, si rassegna, si rifugia nel cerchio di affetti e interessi personali della vita quotidiana, si spiega il mondo con le tristi ricette del cinismo, e non potendo fare il viso dell’armi tace, fissa lo sguardo a terra, si ostina in un muto diniego: neanche lo sfogo di un popolaresco vaffa gli è rimasto, perché era lo slogan battagliero del M5* “sovranista”, quando prometteva di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno” (!).

Sul come e il perché politici di questa sconfitta strategica c’è molto da dire, e molto ne dirà qualcun altro. Io non ne ho nessuna voglia. Sugli errori strategici della Nuova Lega, a mio avviso la formazione politica “sovranista” italiana più importante, ho già scritto qualcosa nel 20191, nel 20202 e negli anni precedenti. Chi ne avesse voglia cerca il mio nome su http://italiaeilmondo.com/ e trova quasi tutto quel che ho scritto in proposito. Con il senno del poi, mi sembra di averci indovinato spesso, e anche di avere previsto come sarebbe andata a finire, cioè molto male. Basta così. Tanto, non ha più alcuna utilità pratica ragionarci.

Beninteso: le ragioni del conflitto permangono, e con la sconfitta del “sovranismo” il conflitto non è finito: anzi. Esso si riaccenderà, più profondo e violento di prima, e continuerà a divampare per molti anni.

In questo breve scritto, mi preme di indicare – di iniziare a indicare – le cause profonde di questa sconfitta strategica del “sovranismo” italiano.

Scrivo “iniziare a indicare”, perché come cercherò di illustrare più avanti, le cause storiche profonde della sconfitta del “sovranismo” italiano sono anzitutto culturali: e il nodo culturale in cui vanno cercate è un vero e proprio nodo di Gordio, che da almeno due secoli e mezzo la cultura europea cerca di sciogliere o di tagliare, senza riuscirvi. Non ci riuscirò certo io. Mi limiterò dunque a indicare, molto sommariamente, la direzione in cui penso sia fruttuoso volgere sguardo e attenzione.

Il conflitto tra mondialismo e “sovranismo” è, ovviamente, un conflitto tra universale e particolare, o, per usare i termini cari alla cultura idealistica tedesca a cavallo tra Sette e Ottocento, tra Spirito e Natura; impiegando nozioni che datano più avanti nel tempo storico, tra Zivilisation e Kultur.

Per “Natura” va inteso, anzitutto, il mondo vitale degli uomini: i loro costumi, le loro tradizioni, i loro linguaggi, i loro legami di sangue, e in special modo le forme che storicamente integrano nella vita di una comunità tutto ciò che gli uomini non possono scegliere, le loro determinazioni esistenziali: il fatto che gli uomini nascono, maschi o femmine, in un tempo, in un luogo, in un linguaggio, da genitori che sono il loro destino; il fatto che tutti sanno di dover morire; il fatto che mondo, vita, uomo sono infinitamente più misteriosi che noti e compresi; eccetera. Il difetto, o il peccato, caratteristico della “Natura” è l’ostinazione, la cieca ostinazione nella propria particolarità, persuasa del proprio buon diritto a esistere “perché sì”, senza voler mai esaminare criticamente se stessa.

“Spirito” può essere inteso, ed è stato inteso, come “volontà di Dio”, o come “mondo trascendente delle Idee”, fonte della normatività e del giudizio assiologico su bene e male, giusto o sbagliato; oppure come leggi della ragione, pura e pratica, kantiane; oppure, ancora, come logica dell’intelletto astratto, della razionalità strumentale weberiana; eccetera. Nello Spirito, si manifesta la facoltà dell’uomo di riflettere su se medesimo, elevandosi sulla propria condizione, di prendere coscienza – ma scindendosi e alienandosi – di se stesso e del mondo; e di conseguenza, la capacità dell’uomo di modificare il mondo e modificare se stesso. Il difetto, o il peccato, caratteristico dello “Spirito” è la superbia, la cieca superbia persuasa della propria universalità e del proprio buon diritto ad asservire o sradicare ogni particolarità che gli resista: “fiat justitia o veritas o libertas, fiat spiritus – pereat mundus et vita!” scrive Thomas Mann a proposito dello “Spirito” nelle Considerazioni di un impolitico, e aggiunge: “è forse un valido argomento la verità, quando ne va della vita?

Nelle Considerazioni manniane, la Zivilisation è collegata a concetti come progresso materiale, astrattezza, uniformità, radicalismo, bourgeoisie, politica, democrazia, pacifismo, internazionalismo, letteratura, eloquenza pedante, forma vuota, nichilismo. La Kultur è invece definita negativamente rispetto alla Zivilisation, ma anche tramite l’associazione a concetti come conservazione, interiorità, anima, etica, sostanza, Bürgerlichkeit, arte, musica, poesia, Bildung. Sempre in questo suo ricco, tormentato e contraddittorio testo, scritto nel corso della Prima Guerra Mondiale, Mann esprime il suo timore che “in una fusione delle democrazie nazionali in una democrazia europea e mondiale” non sarebbe rimasto “più nulla della sostanza tedesca”.

Forse, il momento storico in cui è più proficuo volgere lo sguardo – non perché stia all’origine del problema, ma perché lì il problema comincia a chiarirsi e a prendere le forme che tuttora conserva in questa sua fase di nuova, acuta crisi – è il Settecento europeo, e il processo di formazione dei Lumi. Con le guerre di religione, si è spezzata la Cristianità; con la pace di Westfalia nasce lo Stato assoluto. Tra chi legge, scrive, pensa e comanda, il cristianesimo comincia a perdere la sua ovvietà, la sua posizione di presupposto indubitabile e indiscusso, di contesto obbligato per ogni riflessione. C’è dunque da ripensare il mondo di qua e di là, e, sul piano politico, da cercare una nuova e più adeguata legittimazione del potere, dei suoi mezzi e dei suoi scopi.

I laboratori in cui si svolge questo radicale ripensamento, e dove si formano i Lumi, sono due: la République des lettres e la Massoneria, come illustra la bellissima tesi di dottorato (1959) di Reinhart Koselleck3. La Massoneria continentale europea si divide presto in due ali, con linguaggio anacronistico denominabili come “di sinistra, progressista, illuminista” e “di destra conservatrice o reazionaria, romantica”. L’una, deistico-razionalista, è la Loggia massonica degli “Illuminati di Baviera”. Vi appartengono personalità come Goethe, Schiller (e il duca di Weimar Carl August), Fichte; si svolge al suo interno un dibattito culturale e politico vivacissimo, spesso aspramente conflittuale, nel quale si forma la cultura politica che darà origine a tutto il ventaglio di posizioni dei rivoluzionari francesi, dai girondini e foglianti ai giacobini. L’altra, cristiano-ermetica-alchemica, è composta da due Logge: l’Ordine della Rosacroce d’Oro e i Cavalieri Beneficenti della Città Santa, a cui partecipano membri della Compagnia di Gesù recentemente disciolta, aderenti al pietismo evangelico, pensatori e politici conservatori: è in queste due logge massoniche “di destra” che si forma la cultura politica che si manifesterà storicamente nella Santa Alleanza.

È interessante e significativo che Goethe, il membro più illustre della Loggia deistico-razionalista “di sinistra” degli “Illuminati di Baviera”, nella sua tarda maturità e vecchiaia sia divenuto un convinto sostenitore di Metternich e della Santa Alleanza. Il giovane incendiario che invecchiando diventa pompiere? Può darsi. Nella seconda parte della sua opera maggiore, il Faust, c’è però una spiegazione diversa, o ulteriore, di questa conversione politica.

Nell’Atto V del Secondo Faust, un Viandante – un Wanderer che è anche un autoritratto del giovane Goethe – turbato e stanco, tanto che “il cuore mi si spezza”, torna all’ “antico recinto, la capanna che mi ricoverò” da un naufragio, per ringraziare i suoi salvatori e riposarsi in un’oasi di pace. Ci vivono Filemone e Bauci, la coppia di vecchi sposi, umili e sereni, della favola ovidiana. A due passi di lì, con l’ausilio di Mefistofele e della sua magia, l’anziano Faust ha intrapreso la sua grande opera di Zivilisation: imbrigliare il mare in un vasto sistema di dighe, strappargli la terra e donarla all’operosità degli uomini. Per completare l’opera, Filemone e Bauci dovrebbero abbandonare la loro capanna, “i tigli antichi” e la cappella dove essi si affidano “alla santa custodia del Dio antico”. In cambio Faust, beninteso, gli ha offerto “una bella terra nel nuovo paese”. Ma Bauci si ostina: “Non aver fiducia nel suolo rubato alle acque: conserva la tua casetta sull’altura.” La caparbia fedeltà dei due vecchi, e il suono della loro campana, infuriano Faust: “Maledetto scampanio, che mi ferisce vergognosamente nel cuore come un colpo di fucile nei cespugli! Il mio regno si stende dinanzi a me senza confini, e consentirò io che il nemico mi derida alle spalle, e mi rammenti con questa invidiosa campana che il mio territorio è illegittimo.” Perché “La resistenza, la testardaggine, amareggiano la più ricca possessione; è solo per tuo danno e per la tua tortura che lavori a metterti sulla strada della giustizia.” Così che Faust incarica Mefistofele di occuparsene, e trasferire i due vecchi, ovviamente senza fargli alcun male: “Va’, dunque, e procura di farli sgombrare! Tu sai qual bel poderetto io abbia destinato a quella vecchia coppia.”

Ma le cose prendono un’altra piega, la piega che prendono “da lunghissimo tempo: la vigna di Naboth esisteva già.”

Insomma, il trasferimento non va liscio: come riferiscono a Faust i Tre Uomini di Mano di Mefistofele, “Perdonate! le cose non riuscirono troppo bene. Abbiamo bussato a quell’uscio, ma non venivano mai ad aprire: allora abbiamo atterrato l’uscio, il quale tutto rosicchiato dai tarli cadde sul pavimento. Abbiamo avuto un bel chiamare, minacciare, ma o non ci udivano o facevano mostra di non sentire; noi allora senza perder tempo te ne abbiamo liberato. La coppia non ha opposto una gran resistenza; essi caddero estinti e ciò fu cagionato dallo spavento. Un forestiero che si trovava colà e che cercò di resisterci, fu da noi freddato, e durante il breve intervallo scorso nel furioso combattimento, i carboni accesero la paglia sparsa intorno. Ora tutto ciò brucia liberamente come un rogo preparato per tutti e tre.

Dall’alto della sua torre Linceo, come Goethe “nato a vedere, eletto a guardare” racconta l’atroce accaduto: “Quale orribile spavento mi minaccia dal seno di questo mondo di tenebre! Vedo lampi fiammeggianti attraverso la doppia oscurità dei tigli; l’incendio si ravviva e divampa sempre più attizzato dal vento. Ah! la capanna brucia all’interno, essa che sorgeva umida e coperta di muschio. Si sente chiamare soccorso ma invano! Ah buoni vecchi, che un tempo vegliavano vicino al fuoco con tanta cura alimentato e custodito, diventano ora preda dell’incendio! Qual orribile caso! la fiamma divampa, il cupo mucchio di muschio non è più che un braciere di porpora. Possa almeno quella brava gente salvarsi da quell’inferno incandescente e furioso! Vivi lampi s’accendono, fra i cespugli, fra il fogliame; i rami secchi che ardono scintillando, si accendono in un batter di ciglio e vanno in cenere. Toccava dunque a voi, o miei occhi, di fare una simile scoperta! Perché mi fu dato di spingere lo sguardo così lontano? La piccola cappella crolla ad un tempo sotto la caduta ed il peso dei rami; acute fiamme serpeggiano già intorno alla cima degli alberi. I ceppi vuoti e scavati s’infiammano e rosseggiano, fino alla radice.”

[Lunga pausa. Canto.]

Il paesello, così bello allo sguardo, coi suoi secoli sparì.

E il Coro commenta, prima di uscire di scena: “L’antica parola dice: obbedisci di buon grado alla forza! e se tu sei deciso, se vuoi sostenere l’assalto, metti a repentaglio la tua casa, il tuo focolare. — e te stesso.”

Più chiaro perché il Consigliere Segreto von Goethe, reggente dei “progressisti” Illuminati di Baviera, in vecchiaia diventò un reazionario tifoso della Santa Alleanza?

Più chiaro anche perché “le ragioni del conflitto permangono, e con la sconfitta del “sovranismo” il conflitto non è finito: anzi. Esso si riaccenderà, più profondo e violento di prima, e continuerà a divampare per molti anni.”?

Mi pare di sì. Ne parleremo ancora.

 

3 Kritik und Krise. Eine Studie zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, Freiburg, 1959, tr. it. Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna, 1972

Tre paradossi di un assalto_di Giuseppe Germinario

Un mondo a rovescio! Almeno per chi ha vissuto e conosciuto il mondo di quaranta anni fa e più.

  • La sorpresa sardonica è tutta per Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, nelle vesti di apostolo e paladino delle libertà dal Green Pass e dalla “dittatura sanitaria”.

  • L’inquietudine serpeggia nelle parole di Giorgia Meloni che adombra il lezzo sulfureo della provocazione organizzata che sia quella autonoma di un gruppo di facinorosi o quella perpetrata e programmata, come più probabile, grazie a probabili complicità e direttive.

  • Il sarcasmo aleggia quando la quasi totalità dei gruppi dirigenti, specie quelli progressisti, ostentano la loro indignazione su un atto così proditorio e “tempestivo”, ma dimentichi dell’essenziale del loro passato.

LA SORPRESA SARDONICA

Tutti i movimenti a carattere rivoluzionario ed eversivo giustificano i propri atti, anche i più brutali, sotto il vessillo della libertà. In suo nome si compiono le azioni più coraggiose, gli atti più efferati, le conquiste più ambiziose e le nuove e peggiori forme di sopraffazione. L’enfasi dell’azione diretta individuale, il carattere di per sé purificatore ed emancipatore di essa, lo spiritualismo orientato al richiamo alla tradizione e a valori immobili come programma politico sono gli ingredienti necessari a tarare un movimento e a segnare la sua deriva progressiva verso un anarchismo individualistico reso politicamente praticabile paradossalmente attraverso una visione rigidamente gerarchica e militare del proprio impegno sino ad assumere un carattere terroristico. Un vicolo cieco che prima o poi, per sopravvivere e non soccombere, porta ad essere strumento e complice, volente e nolente, delle trame di potere più oscure dei centri decisionali. È quanto è successo a Roberto Fiore, a Terza Posizione e ai NAR negli anni ‘70 e ‘80. Uscito indenne con un salvacondotto che gli ha permesso di fuggire ed arricchirsi in Gran Bretagna. Difficile che la sua salvezza non abbia richiesto il pagamento di un qualche pegno pesante qui in Italia e nel luogo di esilio. Ritorna ormai attempato in Italia, ma assieme ad altri commilitoni pronto ad innescare pesanti provocazioni come l’assalto recente alla CGIL. La contingenza suggerisce la volontà di influire sul ballottaggio elettorale; uno sguardo più lontano suggerisce qualcosa di molto più profondo legato alla gestione della pandemia e della profonda ristrutturazione degli assetti sociali e politici.

L’INQUIETUDINE CHE SERPEGGIA

Ha ragione quindi Giorgia Meloni ad alludere sia pure timidamente alla “eccessiva” facilità di movimento di personaggi ormai attempati e conosciuti per il loro particolare impegno politico e a ricondurre la responsabilità di quanto accaduto per lo meno al Ministro dell’Interno. Dovrebbe essere molto più chiara ed esplicita visto che la sua formazione politica, FdI, è la lontana erede del partito che spesso e volentieri ha offerto qualche copertura alle formazioni stragiste di quegli anni. In mancanza, un ulteriore pesante tassello sarà posto al disegno di isolamento e ghettizzazione del suo partito, funzionale alla creazione di una opposizione di comodo. Una morsa che sembra ormai accompagnarla, con tempi e modalità diverse, alla parabola discendente intrapresa da Salvini.

IL SARCASMO CHE ALEGGIA

La prontezza e la decisione con la quale tutto il campo progressista ha reagito alla pesante provocazione nasconde un lato oscuro. La generazione detentrice delle principali redini del potere politico di matrice progressista ha vissuto in prima persona o si è formata nella fase immediatamente successiva agli attentati terroristici e stragisti condannando quegli atti e denunciando le connivenze, le infiltrazioni e le strategie di centri e settori istituzionali nazionali ed esteri. “La strage di Stato” era all’incirca il motivo conduttore di quegli anni. Sarebbe stato quasi scontato almeno ipotizzare qualcosa di analogo senza nemmeno lo sforzo di dover individuare nuovi protagonisti, visto l’evidente problema di ricambio generazionale. Non lo fanno e il motivo è facilmente intuibile.

CONCLUSIONI

I pretesti, le provocazioni, le trappole sono parti integranti dell’armamentario della lotta politica, a maggior ragione nelle fasi più concitate di scontro e nei momenti di scarsa credibilità di un ceto politico. Solitamente favoriscono maggiormente le forze che più controllano le leve e i centri di potere e di influenza.

Trovano condizioni più favorevoli di esercizio quando le questioni sono mal poste e gli obbiettivi individuati dai movimenti di opposizione scarsamente definiti se non fuorvianti.

Nella fattispecie con l’introduzione delle mascherine, il green pass, le chiusure il problema posto dalla contestazione è quello della limitazione delle libertà e dell’incostituzionalità dei provvedimenti, quando il tema reale ed imposto è quello della necessità dello stato di emergenza, delle modalità di applicazione e delle dinamiche di accentramento e di efficacia dell’esercizio del potere con tutte le manipolazioni connaturate o che fungono da corollario.

Può apparire una sottigliezza insignificante; in realtà è dirimente in quanto riconosce la possibilità teorica dell’introduzione di uno stato d’emergenza e costringe ad entrare nel merito della gravità dell’epidemia, del disordine istituzionale, delle misure necessarie in funzione degli obbiettivi da raggiungere e delle manipolazioni politiche ormai sempre più evidenti di questa condizione. Dal punto di vista delle dinamiche politiche può contribuire a superare la fossilizzazione del confronto antitetico-polare tra la visione complottista del grande disegno totalitario perpetrato da una cupola onnipotente e onniveggente e quella tecnocratica-positivista fondata sul verbo a prescindere degli esperti riconosciuti istituzionalmente; una fossilizzazione del dibattito su binari inesorabilmente tracciati di fatto dai secondi.

A corollario induce a porre realisticamente un altro aspetto dalle implicazioni analoghe: quello dell’esorcizzazione e demonizzazione del problema dell’acquisizione dei dati e del controllo di questi e dei comportamenti. Nella realtà qualsiasi progresso scientifico e tecnologico mira a, parte da una crescente capacità di controllo di dati e procedure. Il problema da affrontare è quello dell’utilizzo possibile e del riconoscimento istituzionale di questi da parte dei detentori piuttosto che la limitazione dei flussi.

Sembrano questioni avulse; sono invece dirimenti per liberare la dinamica politica e soprattutto i movimenti contestatori dalla gabbia inesorabile che hanno costruito i centri decisori dominanti, più fragili nella realtà rispetto alle apparenze, ma resi forti anche grazie alla complicità delle stesse vittime.

GLI EUROPEI DI FRONTE ALLA VECCHIA E NUOVA POLITICA ESTERA DEGLI STATI UNITI, di Hajnalka Vincze

Al momento dell’insediamento, l’amministrazione Biden ha approvato il cambio di paradigma nella politica americana. Dopo le deviazioni, i tentativi ed errori e gli approcci mezzo fico e mezzo chicco che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni, la nuova squadra prosegue e consolida la transizione iniziata dall’odiato predecessore: il XXI secolo sarà dominato, senza alcuna ambiguità , per confronto con la Cina. Il resto – compresi gli altri avversari, così come gli alleati europei – sarà interpretato, elaborato e, se necessario, strumentalizzato secondo questo duello.

Cina, Cina, Cina…

Già sotto l’amministrazione Obama, Cina e Russia sono state identificate come le due potenze “revisioniste” che cercano di “sfidare alcuni elementi dell’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti”. I documenti della presidenza Trump, e ancor più la Strategia nazionale ad interim della nuova squadra di Biden, mettono i riflettori principalmente sulla Cina: “l’unico concorrente potenzialmente in grado di coniugare le sue attività economiche, diplomatiche, militari e la sua potenza tecnologica per porre un sfida duratura a un sistema internazionale stabile e aperto”.[1] Non sorprende che l’Alleanza Atlantica sia esortata ad adeguarsi il prima possibile. Lo farà al vertice di Londra di dicembre 2019, con un timido primo riferimento: la Cina presenta “sia opportunità che sfide,

Alla Conferenza di Monaco del febbraio 2021, il Segretario generale della NATO ha formalmente nominato la Cina prima nelle sfide. Gli alleati europei sono d’accordo ma sono comunque preoccupati per la credibilità delle garanzie americane: è da tempo che gli Stati Uniti abbandonano la dottrina che prevedeva di condurre due guerre contemporaneamente. Lo ha recentemente confermato il presidente democratico della Commissione delle forze armate al Congresso: dobbiamo «ammettere che non possiamo dominare ovunque, soprattutto nei conflitti simultanei».[2] Ma tutti hanno a cuore questo avvertimento dell’eccellente Stephen M. Walt: “Per salvare la NATO, gli europei devono diventare nemici della Cina”.[3] Il presidente dell’Assemblea parlamentare della NATO, il deputato democratico Gerald Connolly, afferma lo stesso,

La Russia come spaventapasseri

I documenti strategici americani operano una sottile distinzione: la Cina viene presentata come il principale “rivale strategico”, la Russia come un “disgregatore”, colui che “destabilizza”. Che li menzionino sempre, però, non è affatto banale. L’essenziale, per gli Stati Uniti, è la loro politica di contenimento della Cina, e l’attivazione della leva europea è fondamentale per raggiungere questo obiettivo. Tuttavia, maggiore è la minaccia russa, più facile è arruolare gli europei in questa “grande strategia”. Washington può assicurarsi la lealtà dei suoi alleati europei, a loro volta divisi, in due modi: o come protettore affidabile per coloro che sono più esposti alle inclinazioni russe; o rendendo impossibile la cooperazione tra Mosca e gli alleati occidentali che potrebbero essere tentati di farlo,

Da qui la fermezza dell’amministrazione Biden di fronte alle mobilitazioni russe al confine ucraino nell’aprile 2021 da un lato, e le sue pressioni accompagnate da minacce sul gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 dall’altro. In entrambi i casi, l’obiettivo è garantire che, secondo le parole di Jens Stoltenberg, “la solidarietà strategica nella NATO abbia la precedenza sull’autonomia strategica europea”.[5] Il terzo pezzo del puzzle è l’accesso americano alla politica di difesa dell’UE. Appena lì, la nuova squadra ha ottenuto la partecipazione al progetto “mobilità militare”, parte di un pacchetto di iniziative volte, in linea di principio, a rafforzare l’autonomia europea. Come ha affermato l’ex consigliere del Pentagono Robert D. Kaplan: “La NATO e la difesa europea autosufficiente non possono entrambe prosperare. Solo uno dei due può, e il nostro interesse è che sia la NATO. L’Europa sarà quindi per noi una risorsa e non un handicap quando affronteremo la Cina”.[6]

La disintegrazione dell’Europa

Per gli osservatori esterni abbastanza lontani, la diagnosi è ovvia: più che Cina o Russia, che comunque non sono banali, è l’immigrazione in massa – con i cambiamenti demografici e le problematiche culturali che essa comporta – che è, per i decenni a venire, la sfida predominante per il nostro continente. Il diplomatico universitario di Singapore Kishore Mahbubani lo descrive molto chiaramente nel suo recente libro, molto notato oltreoceano, “Ha vinto la Cina?” “. [7] Secondo lui: a causa della sua “sfortunata geografia”, per l’Europa, “è molto plausibile la prospettiva di essere invasi da milioni di migranti che arrivano su piccole imbarcazioni”. Se le condizioni politiche ed economiche non migliorano rapidamente nel continente africano, l’Europa può aspettarsi, prosegue,

Data la portata e la complessità del pericolo, gli europei avranno bisogno di tutti i possibili alleati. Nella lotta al terrorismo islamista propriamente detto, gli Stati Uniti continuano ad essere un prezioso alleato, sia operativamente che nell’intelligence. Tuttavia, si trovano in una situazione demografica e geografica completamente diversa: possono certo essere minacciati da alcuni attentati sanguinosi, ma non nella loro coesione sociale, nella loro cultura, nella loro esistenza. Non solo quindi concentreranno la maggior parte delle loro energie su qualcos’altro, la Cina, ma non appena uno si occuperà delle altre dimensioni della sfida, Washington potrà persino trovarsi in contrapposizione ideologica.

Come il presidente Obama che, nel 2009 nel suo famoso discorso al Cairo, tese la mano al mondo musulmano diffamando, senza nominarla, la Francia: “È importante che i paesi occidentali evitino di impedire ai musulmani di praticare la loro religione come desiderano. per esempio, dettando cosa dovrebbe indossare una donna musulmana. Non possiamo mascherare l’ostilità nei confronti della religione sotto le spoglie del liberalismo”. Al contrario, dice, “il governo degli Stati Uniti usa i tribunali per proteggere il diritto delle donne e delle ragazze di indossare l’hijab e per punire coloro che le contestano”.[8] A causa del totale fraintendimento in America circa la nozione stessa di laicità che riducono alla sola libertà religiosa, il presidente Biden e il suo entourage rimarranno su questa linea, se non di più.

Di fronte alla doppia sfida dell’immigrazione di massa e dell’Islam politico, l’Europa avrebbe altri alleati naturali, ma non unanimi in Europa e visti con un occhio molto negativo in America: Cina e Russia. Pechino potrebbe essere un partner particolarmente utile per la stabilizzazione e lo sviluppo dell’Africa. Quanto a Mosca, Jean-Pierre Chevènement, rappresentante speciale del presidente Macron per la Russia, osserva: “Fondamentalmente abbiamo gli stessi avversari, le stesse preoccupazioni, le stesse preoccupazioni nell’ordine internazionale. È un Paese molto grande, cento nazionalità, venti milioni di musulmani. Il terrorismo, lo sanno, lo hanno dovuto sopportare a Mosca, a Beslan in Cecenia. Pertanto, abbiamo ancora degli interessi comuni”.

Un recente rapporto del Congressional Research Service degli Stati Uniti osserva: “I funzionari europei si lamentano regolarmente del fatto che gli Stati Uniti si aspettano un supporto automatico da loro”.[10] In effetti, quando gli europei sentono il presidente Biden dire che l’America “guiderà il mondo” ancora una volta e “unirà l’Alleanza”, sanno che sarà loro chiesto di allinearsi con il loro più potente alleato. In ogni caso, qualunque sia l’amministrazione americana, la reazione degli europei è la stessa. La loro “eccessiva deferenza nei confronti degli Stati Uniti”, definita come tale da un ex consigliere del Dipartimento di Stato ed ex direttore britannico dell’Agenzia europea per la difesa, si verifica ogni volta, inevitabilmente.[11] Sotto Donald Trump, le concessioni venivano fatte per paura,

L’asimmetria fondamentale della relazione non cambia. All’epoca, il generale de Gaulle criticò Washington per aver sostituito la semplice consultazione all’ideale della codecisione. Da allora, anche le consultazioni sono rare. Gli alleati hanno dovuto affrontare un fatto compiuto per la decisione di Joe Biden di ritirarsi dall’Afghanistan (anche se i soldati americani fornivano solo un quarto della forza della forza internazionale). Hanno assistito, stupiti, alle proteste dell’amministrazione Biden che nel giro di pochi giorni ha qualificato Vladimir Poutine di “killer” e la Cina di “genocida” di fronte agli uiguri e “la più grande minaccia alla stabilità internazionale”. Paralizzati dall’idea che la minima deviazione non potesse mettere a repentaglio la partnership con l’America, gli europei si rassegnarono ad essa.

Il Segretario di Stato Anthony Blinken partecipa in videoconferenza al Consiglio Affari Esteri di fine febbraio 2021, che decide sull’attuazione di nuove sanzioni contro la Russia. Un mese dopo, l’Ue impone le prime sanzioni in 30 anni contro la Cina, per il trattamento degli uiguri, in coordinamento con Washington. Il tutto sotto la costante minaccia di rappresaglie americane contro le imprese europee, grazie al regime di sanzioni extraterritoriali. Il ministro della Difesa tedesco non aveva forse avvertito alla vigilia delle elezioni americane che «le illusioni dell’autonomia strategica devono finire»?[12] Gli altri leader europei si sono affrettati a raggiungerla e Parigi resta, come sempre, solo per ripetere: 

***

L’ambasciatore cinese a Bruxelles aveva riso, sulla rinuncia a revocare l’embargo sulle armi alla Cina, sulla “patetica sottomissione” degli europei “incapaci di prendere le proprie decisioni senza farsi influenzare da altri poteri”.[14] Oggi, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Herbert McMaster li avverte: o si schierano con Washington contro la Cina, o scelgono la “schiavitù” a Pechino.[15] Le due visioni si completano e si rafforzano a vicenda. Confermano l’osservazione fatta dal presidente francese: a meno che non assumano pienamente un’ambizione di autonomia, gli europei “avranno la scelta tra due domini” in un mondo “strutturato attorno a due grandi poli: gli Stati Uniti d’America. e la Cina”. [ 16] Il ministro degli Esteri Ue Josep Borrell sostiene valorosamente che “Non dobbiamo scegliere tra i due. Dovrà suonare come la canzone di Sinatra ‘My Way’.[17] Dimentica che la suddetta canzone è solo un adattamento di quella di Claude François, il cui titolo è molto più in linea con l’avversione pavloviana degli europei per qualsiasi idea di emancipazione: “Come al solito”.

Note:
[1] Interim National Security Strategic Guidance, White House, marzo 2021.
[2] Conversazione con Adam Smith, presidente della House Armed Services Committee, “Priorities for the fiscal year 2022 defence budget”, American Enterprise Institute, 22 aprile , 2021.
[3] Stephen M. Walt, “Il futuro dell’Europa è come il nemico della Cina”, Foreign Policy, 22 gennaio 2019.
[4] Gerald E. Connolly, “The Rise of China: Implicazioni per la sicurezza globale ed euro-atlantica “, Rapporto, Assemblea parlamentare della NATO, 20 novembre 2020.
[5] “L’UE non può difendere l’Europa”: capo della NATO, AFP, marzo 2021
[6] Robert D. Kaplan, “Come combatteremo la Cina”, l’Atlantico, giugno 2005.
[7] Kishore Mahbubani, ha vinto la Cina? – The Chinese Challenge to American Primacy, PublicAffairs 2020.
[8] “A new start”, discorso del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, all’Università del Cairo, 4 giugno 2009.
[9] Commento di Jean- Pierre Chevènement sul programma Les Incorrectibles di Sud Radio, 5 gennaio 2020.
[10] Relazioni transatlantiche: interessi e questioni chiave degli Stati Uniti, rapporto CRS, 27 aprile 2020.
[11] Jeremy Shapiro – Nick Witney, “Verso un’Europa post-americana : A Power Audit of EU-US Relations ”, European Council on Foreign Relations, 2 novembre 2009.
[12] Annegret Kramp-Karrenbauer, “L’Europa ha ancora bisogno dell’America”, Politico, 2 novembre 2020.
[13] La dottrina Macron : una conversazione con il presidente francese, Le Grand Continent, 16 novembre 2020.
[14] Ambasciatore cinese: il servilismo dell’UE è ‘patetico’, EUObserver, 16 dicembre 2010.
[15] HR McMaster, «Perché Trump è andato duro con la Cina e Biden seguirà», Politico, 15 aprile 2021.
[16] Discours du presidente Emmanuel Macron à la Conférence des ambassadeurs, 27 agosto 2019.
[17] Borrell: L’UE non deve scegliere tra Stati Uniti e Cina, EUObserver, 2 giugno 2020.

Hajnalka Vincze, Gli europei di fronte alla vecchia-nuova politica estera americana, Impegno n° 131 (estate 2021) , ASAF ( Associazione per il sostegno dell’esercito francese ).

https://hajnalka-vincze.com/list/etudes_et_analyses/599-les_europeens_face_a_lanciennenouvelle_politique_etrangere_americaine

Le rane bollite, di Giuseppe Germinario

Quatto quatto, sornione il vero vincitore di questa tornata elettorale è stato paradossalmente chi non vi ha partecipato e ha agito per vie indirette. Pur con qualche ombra, Mario Draghi.

Non il Presidente del Consiglio bensì il funzionario, l’emissario incaricato di mettere ordine nello stallo e nelle fibrillazioni sterili di un ceto politico allo sbando, di gestire il PNRR rispettando principi e direttive comunitarie, di ridefinire i criteri europei di compatibilità delle finanze pubbliche, soprattutto di fungere da terzo in grado di ricondurre le eventuali pulsioni autonomiste europee nei tradizionali canali filoatlantisti.

Proprio le novità su quest’ultimo aspetto rischiano però di ridimensionare e circoscrivere localmente la sua missione; l’esito delle elezioni tedesche porterà probabilmente al varo di un governo ancora più filoatlantista. Se a questo dovesse aggiungersi una vittoria troppo netta di Macron, il cerchio si stringerebbe ulteriormente e l’azione dell’emissario non più indispensabile. Resta comunque la qualità del personaggio, superiore di molte spanne al livello del ceto politico che infesta lo scenario italiano; qualità, però che rischiano di essere offuscate da una eccessiva e troppo prolungata esposizione, del tutto inusuale e controproducente in tempi ordinari per uomini di potere abituati a muovere leve e tessere trame in modo riservato. Una dinamica destabilizzante, già all’opera da alcuni anni negli Stati Uniti, che potrebbe innescarsi e sfuggire al controllo anche in Italia.

La tifoseria mediatica si è invece concentrata tutta sul palcoscenico. Ha levato sugli scudi la clamorosa vittoria del PD, ha deposto nelle ceneri la débâcle della Lega; con qualche circospezione ha sottolineato il tracollo del M5S e la crescita di Fratelli d’Italia. Una sicumera che, tra le varie cose, tiene in scarsa considerazione il carattere locale delle elezioni, l’importanza della differente qualità dei candidati e soprattutto la debolezza del radicamento militante e la ridotta capacità di influenza e di richiamo alla fedeltà dei partiti nazionali.

La realtà offre quindi tinte meno nette almeno nel primo caso.

Più che una vittoria e una travolgente avanzata, l’esito elettorale del PD sembra annunciare la fine, si vedrà se definitiva o temporanea, di una tendenza verso il tracollo, interrotta più per dabbenaggine e limiti evidenti degli avversari che per merito proprio; una interruzione o una pausa per altro molto più appariscente nei grandi centri urbani e nelle città che nella provincia e nelle periferie del paese.

La Lega offre un quadro molto più complesso da decifrare. La rappresentazione mediatica del disastro appare verosimile solo rispetto alla proiezione irrealistica tracciata sulla base dell’esito delle elezioni europee del 2018; in un contesto più equilibrato si può considerare ancora più una situazione di stallo tendente verso il ribasso che di vero e proprio collasso con punte di crisi più accentuate nelle grandi realtà urbane e di confermata scarsa significanza nel Sud e parte del Centro Italia. Una condizione di crisi latente accentuata dalla fallimentare gestione leghista dell’emergenza pandemica in alcune aree della Lombardia; fattore però destinato a restare meno determinante in un contesto di elezioni politiche generali nel quale la contestuale disastrosa gestione nazionale della crisi pandemica, specie del secondo Governo Conte, spingerà ad un generale comportamento omertoso di tutte le parti politiche. Crisi resa endemica e sempre meno gestibile dal dualismo, appena tollerabile in una fase ascendente di consenso e di opposizione al governo, tra l’aspirazione conclamata a costruire un partito nazionale, dedito all’interesse nazionale e la realtà di un radicamento e di una formazione politico-culturale di una classe dirigente localistica e particolaristica, sensibile tuttalpiù in maniera opportunistica alle sirene universaliste dell’europeismo.

Un dualismo appunto irrisolvibile nell’attuale contesto politico se non con la riproposizione di un altro dualismo, ancora più precario e problematico nel tempo, con una componente conservatrice egemone preferibilmente esterna alla Lega, già proposto a suo tempo durante l’apogeo della leadership di Berlusconi, ma irrealizzabile date le caratteristiche ed i limiti evidenti di Fratelli d’Italia, il partito al momento emergente del centro-destra.

Da questo punto di vista appare evidente e ormai sancita dal responso elettorale l’incapacità del gruppo dirigente della Lega di inserirsi nei centri decisionali e nei settori, presenti soprattutto nelle grandi aree metropolitane, le quali dovranno trainare nel bene e nel male i processi di ristrutturazione economica e riconfigurazione della formazione sociale, nonché determinare la collocazione geopolitica del paese; gli rimane una capacità residua di contrattazione legata al suo radicamento particolaristico.

Non è purtroppo una caratteristica esclusiva della Lega; riguarda piuttosto l’intero arco della rappresentanza politica, compresa quella del PD.

Nella loro pochezza, ne hanno offerto una rappresentazione plastica i discorsi di commento dei due partecipanti all’accesso al ballottaggio alle comunali di Roma: Gualtieri per il PD, Michetti per il centrodestra.

Il primo tutto teso alla missione universalistica, europeista di Roma nella veste di capitale d’Europa, con qualche concessione compassionevole alla condizione materiale della città e di gran parte dei suoi cittadini; il secondo con la sua enfasi esclusiva ai problemi particolari di degrado dei quartieri con qualche riferimento demagogico ai fasti imperiali passati e con nessun riferimento al ruolo e all’immagine di una capitale di una nazione e di uno stato nazionale.

L’uno espressione di una élite universalista in realtà arroccata e del tutto dipendente da scelte esterne, l’altro proteso in una difesa confusa e demagogica di interessi popolari talmente indefiniti da essere rinchiusi in prospettive particolaristiche ed immobilistiche. Entrambi incapaci culturalmente, non solo politicamente, di coniugare il ruolo politico e geopolitico di una capitale e di una nazione con la costruzione di una formazione sociale più equa, dinamica e coesa.

Lo specchio esatto di quello che è in grado di offrire il quadro politico e dirigenziale nazionale.

Per i media nazionali, detentori sedicenti dell’orientamento della pubblica opinione, l’aspetto dirimente di questa elezione è invece la sconfitta del populismo e del sovranismo.

Il sollievo evidente quanto infantile sotteso a questo giudizio è esattamente proporzionale alla compiacenza indegna con la quale hanno gestito la vergognosa vicenda degli “affaires” Morisi e Fidanza-Lavarini; indegna molto più per la gestione giornalistica che per il merito dei fatti e delle trappole probabilmente orchestrate all’uopo.

Il giudizio sul populismo, a parere dello scrivente, ha un qualche fondamento; ma solo nel merito, non nel carattere definitivo della sua sconfitta. Se per populismo si intende l’attitudine a “servire il popolo”, a scambiare per strategia, tattica e programma politico slogan, proclami ed aspirazioni generiche di un ceto politico emergente il quale tende a nascondere i propri limiti e il più delle volte le proprie reali ambizioni e finalità dietro le pulsioni ed aspirazioni popolari da questi ovviamente e univocamente interpretati, la crescita dell’astensionismo, lo stallo legato alle improbabili e improvvise giravolte, alla volubilità rappresentano certamente l’indizio di una crisi di credibilità tanto di questi che del ceto politico elitario e progressista che intende contrapporsi e sostituirlo, ma che in realtà finisce per rimanere arroccato nelle sue enclaves.

Quella tra populismo e sovranismo è però una associazione possibile, ma non inestricabile, la cui scissione potrebbe creare teoricamente condizioni più favorevoli all’affermazione più matura di quest’ultimo.

Se per sovranismo si intende il fatto che lo stato nazionale e la formazione di una classe dirigente nazionale sono condizioni necessarie ed indispensabili ad affrontare le dinamiche multipolari e i processi di globalizzazione; se con esso si esprime di conseguenza la necessità di modificare, ampliare e potenziare le prerogative statuali in grado di consolidare l’identità e la coesione di una formazione sociale e sostenere il confronto geopolitico, il discorso, con buona pace degli universalisti e dei lirici europeisti, è tutt’altro che chiuso. Può essere tutt’al più rimosso, pratica dei quali gli universalisti, specie progressisti, sono maestri, ma con conseguenze tragiche nel tempo delle quali si cominciano a intravedere diversi aspetti nel nostro paese. È la chiave che consente di individuare i giusti strumenti per cambiare e ridefinire il sistema di relazioni e di rapporti nel continente europeo in modo tale da affrancare i paesi e le nazioni dalla condizione di asservimento , di paralisi e di incapacità cui ci ha condotti l’Unione Europea e la NATO.

La crisi pandemica, la profonda riorganizzazione delle catene produttive, l’invenzione di nuovi prodotti e l’annunciata scomparsa di alcuni tradizionali, lo spostamento del centro di confronto nel Pacifico sono tutte condizioni oggettive che potrebbero facilitare il sorgere di forze “sovraniste”, meglio definire nazionali più mature nel perseguire propositi di contestuale coesione e dinamismo sociale ed indipendenza e autonomia politica nelle decisioni.

Nella fattispecie la riorganizzazione della componentistica nella industria dell’auto e della meccanica, l’attuale conformazione dell’industria agroalimentare, le scelte energetiche e in materia di difesa, lo stesso comparto finanziario, settori alcuni dei quali forniscono le basi di una stretta ed asfissiante dipendenza economica dalla Germania in primo luogo, base della propensione culturale al particolarismo della Lega ed alla sua soggezione politica ai centri bavaresi potrebbero essere la molla per la trasformazione positiva di queste forze politiche o per la creazione, dalle loro ceneri, di una formazione politica più matura in grado di comprendere la complessità delle dinamiche, di adottare le migliori strategie e tattiche, di conquistare la testa non solo le pulsioni dei ceti più dinamici.

Non è escluso, tra l’altro, che la potenza di queste dinamiche inducano soprattutto parti della Lega a risolvere il dualismo che la costituisce e con esso scindano alla fine il partito stesso prima che arrivi a consumarsi.

Nella componente progressista, quella purtroppo meglio predisposta al “buon governo”, un processo del genere attualmente non appare neppure ipotizzabile. Nello schieramento opposto il particolare radicamento sociale è oggettivamente più favorevole a questa trasformazione; rimangono l’enorme ritardo culturale e la volubilità e volatilità estrema del suo ceto politico, retaggio del populismo d’anteguerra e del particolarismo autocelebrativo ad impedire la nascita di una espressione politica matura.

Per governare processi complessi di questa portata occorre infatti un ceto politico solido ed autorevole capace di orientare pulsioni ed interessi, piuttosto che rimanere strumento ed ostaggio di questi. Le attuali condizioni di esercizio della democrazia, assieme al dissesto istituzionale, non fanno altro che alimentare queste dinamiche sino a portarle presumibilmente a condizioni di rottura, con i suoi esponenti destinati a finire come rane bollite, grazie alla loro sostanziale inconsapevolezza della posta in palio.

La velocità sempre più repentina con la quale ascendono e tramontano i leader politici da oltre venti anni a questa parte sono il sintomo di tale condizione.

Una dinamica che rischia di trasformare l’esperimento temporaneo della gestione della scena politica da parte di un tecnocrate-decisore, quale è Draghi, in qualcosa di più duraturo. Una tempistica che rischia di logorare e compromettere ulteriormente non solo il ceto politico, ma anche la stessa classe dirigente di solito preposta a gestire le cose con modalità solitamente più riservate, ma già di per sé impedita da evidenti limiti di capacità e comprensione, anche essa circoscritta sempre più al ristretto “particulare” perfettamente compatibili e propedeutici a subordinazione ed asservimento scevri da ogni ambizione.

La strategia vincente di Quad, di Hervé Couraye

AUKUS, QUAD, ASEAN sono gli acronimi dietro i quali si nasconde una azione estremamente articolata degli Stati Uniti, pronti a fare leva sulle contrapposizioni endemiche di quell’area. L’altra parte, pur in difficoltà, non resta a guardare; la SCO, le vie della seta, i rapporti bilaterali sono la reazione ancora parziale e non esaustiva, non ancora stabilizzata. Siamo ancora al tentativo di occupare le posizioni migliori sotto la ovvia bandiera delle libertà. Buona lettura_Giuseppe Germinario

L’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe è il primo a parlare del Dialogo quadrilatero sulla sicurezza. Il secondo marcatore cui geopolitico Shinzo Abe rimane il grande architetto è il progetto di Oceano Indiano Pacifico dichiarazione libero e aperto dal titolo confluenza dei due mari , davanti al Parlamento indiano nel mese di agosto t 2007. É Paule nella sua azione 2017 dall’ex Segretario di É tat Rex Tillerson, che formulò per la prima re sia il concetto strategico di quello che potrebbe apparire î essere come la vista del governo degli Stati Uniti, sotto il nome di Indo-Pacifico ( [1] ).

Il tema dell’Indo-Pacifico rappresenta diverse grandi questioni, perché riguarda direttamente la stabilità, la sicurezza e la prosperità globali. È questa strategia che questo articolo intende affrontare. Quindi tutto parte da questa rivalità geopolitica tra gli Stati Uniti e la Cina, ma in realtà molte cose hanno iniziato ad evolversi diversi anni fa. Il presidente George Bush disse alla fine della Guerra Fredda nel 1991: ”  Gli Stati Uniti sono ormai la superpotenza e desiderano rimanere tali  ” ( [2] ). Un nuovo panorama strategico sta emergendo in questo spazio cardine formato da due oceani e due continenti, dove il combattimento navale diventa una probabile ipotesi.

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Quad oggi: un tropismo anglosassone

Il concetto geopolitico di Sea Power è stato sviluppato in particolare dal tandem AT Mahan-Julian Corbett. Fu all’inizio del XX secolo che Alfred Mayer Mahan teorizzò i suoi concetti di potere marittimo e tattica navale, che pubblicò con il titolo L’influenza del potere marittimo sulla storia, 1660-1783 . In questo primo libro, ha particolarmente evidenziato l’importanza della potenza navale come chiave di volta del predominio dei mari.

Quindi, quando esamina le realtà geopolitiche fondamentali dell’Asia nel suo libro Il problema dell’Asia , pubblicato nel 1900, individua tre fattori principali:

  • La grande massa della Cina e la latente forza geopolitica ”  di un territorio troppo stretto per quattrocento milioni di cinesi animati da una solo impeto e mossi come un sol uomo  ” ( [3] );
  • La potenziale lotta per l’egemonia nella regione dell’Asia centrale. Quest’ultima ha raccomandato l’annessione delle Hawaii da parte degli Stati Uniti al fine di garantire il loro controllo sul Pacifico settentrionale;
  • Il concetto di flotta e la costituzione di forze militari a vocazione difensiva per sottolineare il legame del controllo militare e commerciale per il dominio dei mari.

Questa riflessione ha portato al Quad. Vi troviamo il primato della strategia che Mahan propugnava in Asia. Mahan credeva fortemente in una coalizione tra Stati Uniti e Gran Bretagna sui mari come fattore centrale della supremazia navale. Si giunge alla conclusione che i paesi dovrebbero operare l’istituzione di un sistema di alleanza marittima multilaterale nel campo della protezione dei mari come bene comune dell’umanità. La dichiarazione congiunta dei leader del Quad Spirit of the Quad , pubblicata nel marzo 2021, ha evocato apertamente la rilevanza del momento di fronte alle circostanze internazionali della grande questione del Quad, sia in materia politica che militare ( [4 ] ).

Veniamo a Julian Corbett, un grande storico britannico, dello stesso periodo di Mahan. L’approccio “Corbetienne” si basa sul concetto di flotta in essere, un gruppo di navi che, senza esercitare il dominio marittimo, hanno una solida base di appoggio per unire e difendere lo stretto e altri punti chiave della libera navigazione. Una versione moderna del Quad, dove gli Stati Uniti sono liberi di pattugliare con i loro alleati dall’Africa al nord-est asiatico. Innegabilmente, il Quad della nostra epoca contemporanea si unisce alle idee difese dai sostenitori del concetto di flotta (Mahan e Corbett): dare più coesione alle alleanze, alla loro interoperabilità in un dispositivo di rete operativa, veri e propri hub tattici di coordinamento immediato come i più lontani per uno spazio indopacifico (FOIP) libero e inclusivo.

Perché basta prendere una mappa per vedere che, dallo Stretto di Malacca allo Stretto di Taiwan, la geografia funge da fulcro per la Marina degli Stati Uniti e i suoi alleati per maritare la loro strategia Quad, che porta anche le loro ambizioni, perché il concetto è globale. Riconosciamo che questa conquista americana di continuità nelle sue opzioni per alleanze bilaterali non esiste oggi ed è ovviamente storicamente basata su aspetti indiscutibili: fiducia reciproca, valori condivisi, cooperazione in tempo di pace come in tempo di guerra.

C’è un’altra tendenza nel Quad oggi. L’ambizione di mettere in atto un altro principio guida, noto come acquisto di tempo, che è a lungo termine per frenare le ambizioni cinesi nelle sue manovre geopolitiche. Allo stato attuale di questo ciclo, gli Stati Uniti e il Giappone stanno conducendo giochi di guerra, e la realtà permanente della minaccia cinese intorno alle isole Senkaku e allo stretto di Taiwan risulta federare Tokyo e Washington nelle loro azioni di sicurezza preventiva contro una possibile intrusione militare della Cina ( [5] ). Il Quad deve prevenire lo scoppio di conflitti o guerre mantenendo la sua capacità di mantenere l’equilibrio di potere ed evitando l’escalation della violenza.

Il Quad e la sua sfera d’interessi

L’impegno a lungo termine che unisce gli Stati Uniti ei suoi alleati è il primo interesse a proporre un nuovo paradigma di deterrenza ai principali alleati. Una convinzione lo guida. Diversi interessi lo consolidano. La convinzione è quella dichiarata da Kurt M. Campbell, Vice Assistente del Presidente e Coordinatore per gli Affari Indo-pacifici presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale alla conferenza di Oksenberg del 26 maggio 2021, ”  il paradigma dominante sarà la concorrenza  ” ( [6]). Ciò trova la sua espressione nella credibilità dell’impegno americano sulla base di interessi militari e diplomatici che fanno rima con una visione strategica in cui gli Stati Uniti riaffermano l’importanza degli alleati, moltiplicatore di forze e cardine della difesa collettiva.

Nessun dubbio per l’amministrazione Biden di non capitalizzare l’esperienza accumulata con gli alleati impegnati o meno nel Quad per consolidare la propria strategia di contenimento. È così che il ragionamento militare si insinua in questo paradigma con Kenneth Braithwaite, Segretario della Marina, che dichiara iconicamente il 27 ottobre 2020, durante una commemorazione della creazione del Corpo dei Marines degli Stati Uniti, che ”  Mai dalla guerra del 1812, la sovranità degli Stati Uniti è stata sottoposta a forme di pressione quali le vediamo oggi in Estremo Oriente e altrove per l’aggressività della China » ( [7] ).

Un secondo interesse corrisponde a una questione di sovranità per il comando della flotta americana del Dipartimento della Difesa. L’estensione geografica dell’Indo-Pacifico potrebbe portare la Marina degli Stati Uniti a rifondare la prima flotta americana tra i due oceani Indiano e Pacifico al fine di istituire un Indo Pacom per stabilire la credibilità della deterrenza americana ( [8] ). A seguito della pubblicazione, nel marzo 2021, degli orientamenti strategici provvisori della Casa Bianca in materia di sicurezza nazionale, lo spazio indo-pacifico è in cima alle priorità ( [9] ).

Un altro interesse si concentra sulla capacità di proiezione navale degli Stati Uniti, unita alle potenzialità delle cosiddette missioni di retroguardia delle flotte Quad nell’uso della forza, perché è lì che si gioca. Simbolo della loro unità in questo uso, questo vantaggio strategico fornisce un massimo di interazioni e capacità di azione desiderabili in termini di interoperabilità. La recente esercitazione militare tra le marine statunitensi e giapponesi svoltasi nel Mar Cinese Meridionale nel giugno 2021 ha dato concretezza alle annunciate decisioni politiche di cooperazione e sicurezza reciproca in campo militare. L’esercitazione “di routine” della portaerei USS Ronald-Reagan, con sede a Yokosuka, ha così guidato operazioni aeree e navali collettive, incentrate sul gruppo di battaglia del gruppo d’attacco della portaerei Ronald-Reagan , e ha inviato alla Cina un messaggio in cambio: gli Stati Uniti e i 168 paesi firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite on the Law of the Sea (UNCLOS) sono preoccupati per gli ostacoli alla libera navigazione e il Quad farà tutto il necessario per proteggere i suoi membri esposti.

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Per coloro che sono interessati non alle retoriche oscillazioni degli Stati Uniti con i paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico (ASEAN) ma alla storia del loro impegno, l’enunciazione di Richard Nixon nel 1969 della dottrina Guam, riaffermata nel 1984 in un altro contesto, ragioni che non li rassicurano sulla volontà dell’amministrazione Biden di rivitalizzare i rapporti di sicurezza.

Washington deve gestire questo paradosso e creare una dinamica di alleati dell’ASEAN, facendo affidamento sui suoi alleati di vecchia data e stimati come il Giappone e l’Indonesia, al fine di aprire la porta al dialogo sulla sicurezza promosso dal Quad. Resta il fatto che questo interesse ad ancorarli al Quad può esporre l’amministrazione Biden al rischio di una contraddizione con l’altro principio che pone al centro della sua politica estera: quello dell’impegno con cui i paesi ASEAN hanno un atteggiamento piuttosto ambiguo e neutrale nei confronti della Cina.

L’idea è quindi che il Quad risponda all’esigenza intrinseca della leadership dell’ASEAN sulle questioni di governance ambientale, sul diritto del mare o sulle risorse ittiche. D’ora in poi, per gli strateghi americani, è importante che questi paesi siano coinvolti in questioni di diversa geometria. In ogni caso bisogna averli con sé e appoggiarsi a loro per consentire agli Stati Uniti di fare perno verso il sud-est asiatico, ed è qui che entra in gioco il valore aggiunto strategico del Giappone, “  power of networks  ”.

Le dinamiche e le tendenze del concetto Indo-Pacifico sono numerose e complesse da cogliere. Eppure il messaggio è chiaro: le alleanze statunitensi stanno operando come deterrente nell’Indo-Pacifico e l’obiettivo rimane quello di migliorare la deterrenza convincendo altri paesi a unirsi allo sforzo. Come ha dichiarato Kurt Campbell il 6 luglio 2021 durante un webinar organizzato dall’Asia Society Policy Institute ( [10] ). La domanda valida è se gli Stati Uniti e gli altri tre membri sono in grado di costruire coalizioni basate sull’interesse piuttosto che sulla minaccia?

Aumentare i budget militari

Vista da questo punto di vista della posizione militare, la coalizione offre spazio per progressi in diverse aree ed è anche qui che il Quad può avere un effetto a catena. Abbiamo un esempio con Singapore in cui gli Stati Uniti potrebbero sostenere un modo concreto per resuscitare il comando della 1a flotta statunitense. Per quanto riguarda Singapore, ricordiamo l’incontro tra il comandante della flotta del Pacifico degli Stati Uniti, l’ammiraglio Samuel J. Paparo e il ministro della Difesa di Singapore, il dottor Ng Eng Hena, a Singapore l’8 luglio 2021 ( [11] ). Le due marine regolarmente interagiscono in una strategia di forza di proiezione collettiva in mare che si trovava su una visione più ampia di un semplice comando della 1 ° flotta.

Il quindicesimo incontro dei ministri della difesa dell’ASEAN (denominato ADMM-Plus), svoltosi il 15 giugno 2021 in videoconferenza, si è ulteriormente concentrato su questioni di cooperazione che sono direttamente rilevanti per le diverse visioni dell’Indo-Pacifico. La dichiarazione di Bandar Seri Begawan non è caduta nella trappola di interpretare la sua posizione come diretta contro la Cina, ma alla fine il suo ruolo di diga tra il Quad e la Cina presuppone un migliore coordinamento tra i paesi. La rivalità sino-americana mostra che è necessario anticipare rapidamente questa domanda per l’unità dell’ASEAN, perché la Cina sta moltiplicando gli attacchi e le intimidazioni della sua strategia indo-pacifica.

Per Tokyo c’è ancora, più che in passato, l’assoluta necessità che il soggetto aumenti il ​​proprio budget per la difesa che simbolicamente si attesta intorno all’1% del PIL. Philip Davidson, in qualità di ammiraglio a capo del comando Indo-Pacifico, con sede alle Hawaii, ha fatto su questo argomento un promemoria molto importante per il Giappone per garantire la sua sicurezza e impegnarsi nella lotta strategica del primato militare. . Secondo la formula Il costo dell’ignoranza geografica è incommensurabile . Questo riassume praticamente lo spirito dei leader del Quad al primo vertice il 24 settembre 2021.

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[1] Trascrizione ufficiale del discorso del Segretario di Stato, 18 ottobre 2017, Centro per gli studi strategici e internazionali (CSIS), disponibile online: Definire la nostra relazione con l’India per il prossimo secolo: un discorso del Segretario di Stato americano Rex Tillerson | Centro di studi strategici e internazionali (csis.org) .

[2] Testo di George W. Bush, disponibile online: La fine della guerra fredda – George Bush – politica, elezioni, interne, estere (presidentprofiles.com) .

[3] Il problema dell’Asia: il suo effetto sulla politica internazionale / Alfred Thayer Mahan,; con una nuova introduzione di Francis P. Sempa, Transaction Publishers, New Brunswick, New Jersey, 2003 e AT Mahan, The Problem of Asia, capitolo 3, versione disponibile online: Review: Mahan’s “The Problem of Asia” su JSTOR .

[4] Citiamo due documenti essenziali per esaminare le questioni di questa cooperazione che si basa su valori comuni, collegamenti dei documenti disponibili online con il testo ufficiale del 12 marzo 2021: Dichiarazione congiunta dei leader Quad: “Lo spirito del Quad ”| La Casa Bianca ; e la scheda informativa allegata: Scheda informativa: Quad Summit | La Casa Bianca .

[5] Dichiarazione congiunta degli Stati Uniti e del Giappone, 16 aprile 2021, disponibile online:  Dichiarazione dei leader congiunti USA-Giappone: “PARTNERSHIP GLOBALE USA – GIAPPONE PER UNA NUOVA ERA” | La Casa Bianca .

[6] Webinar disponibile online: FSI | Shorenstein APARC – Kurt M. Campbell e Laura Rosenberger sulle relazioni USA-Cina: Conferenza di Oksenberg 2021 (stanford.edu) .

[7] Si veda il discorso in onore del 245° anniversario del Corpo dei Marines, Museo del Corpo dei Marines, 27 ottobre 2020, disponibile online sul sito della Marina degli Stati Uniti: 201027-N-BD308-1620 (navy .mil) .

[8] Vedere le parole dell’ex segretario della Marina Kenneth Braithwaite, 17 novembre 2020, articolo disponibile online: SECNAV Braithwaite chiede la nuova 1a flotta degli Stati Uniti vicino all’Oceano Indiano, Pacifico – USNI News .

[9] Cfr. le proposte strategiche fornite al presidente Biden sui vantaggi strategici, pp. 19 ~ 21, Interim National Security Strategic Guidances, marzo 2021, disponibili online:  NSC-1v2.pdf (whitehouse.gov) .

[10] Si veda il webinar “  Una conversazione con Kurt Campbell  ”, 6 luglio 2021, disponibile online: A Conversation With Kurt Campbell, Coordinatore della Casa Bianca per l’Indo-Pacifico | Società Asiatica .

[11] Cfr. comunicato stampa online: Il comandante della flotta del Pacifico degli Stati Uniti effettua una visita introduttiva a Singapore (mindef.gov.sg) .

https://www.revueconflits.com/la-strategie-gagnante-du-quad/

Guarda chi si rivede, l’esercito europeo 24 settembre 2021_ del Generale Marco Bertolini

Proseguiamo con il tema della difesa comune europea_Giuseppe Germinario

Guarda chi si rivede, l’esercito europeo

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Una ventina d’anni fa, nello stesso periodo nel quale iniziava quell’impegno in Afghanistan dal quale siamo usciti sconfitti, l’Italia cambiava il modello della propria Difesa, passando da Forze Armate a coscrizione obbligatoria a Forze Armate basate su personale di truppa volontario.

Tutti gli schieramenti politici volevano fortemente questo cambiamento, certamente necessario per esigenze di funzionalità operativa, ma non fu questo il motivo per il quale venne adottato in un regime di sostanziale unanimità: a destra forse si sperava che una maggiore componente professionale avrebbe dato più peso al tradizionale conservatorismo dei quadri militari; nel “nuovo” centro si auspicava una riduzione  quantitativa di un apparato in buona sostanza ritenuto poco utile, in nome della “lotta agli sprechi” mentre a sinistra, probabilmente, si intravvedeva la possibilità di inserire in uno strumento che si percepiva estraneo alla propria tradizione quelle istanze sociali che avevano già eroso l’autorevolezza dello Stato in altri ambiti.

A partire dalla Scuola: obiettivo conseguito con la recente affermazione delle associazioni sindacali che in buona sostanza smilitarizzano i militari.

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Ora sono in tanti a mangiarsi le mani, vista la caduta educativa alla quale è stata esposta la nostra gioventù, privata del più elementare senso dello Stato, esclusa da ogni rifermento all’orgoglio nazionale e orbata di quel sentimento che portava tutti, anche le ragazze e coloro che magari con qualche amicizia altolocata riuscivano a scansare o edulcorare la naja, a considerarsi in debito con la società.

Anche da questo, l’esplosione della retorica dei diritti, a partire dai più assurdi, che ha sostituito quella un po’ bolsa ma rassicurante dei doveri, da quello dell’obbedienza a quello che potremmo definire della “dignità” dei comportamenti.

Comunque, problema superato: indietro non si torna, infatti, visto che abbiamo smantellato quegli strumenti e quelle procedure che ci consentivano di individuare, chiamare, selezionare, assegnare ai reparti decine di migliaia di giovani ogni anno, tenendo conto dei limiti di età, dei criteri di rivedibilità, dei motivi di studio, dei desiderata, delle situazioni familiari, delle esigenze dei reparti e chi più ne ha più ne metta.

E che con i congedati ci consentivano di costituire unità di riservisti, composte da personale già addestrato con il quale allungare il brodo delle unità in vita in caso di necessità. In compenso abbiamo la Riserva Selezionata, fatta da professionisti di vario genere ma senza alcuna esperienza militare pregressa che con un fucile in mano si troverebbero come minimo a disagio.

Poco male: i fucili, come insegnava un nostro recentissimo ex Presidente del Consiglio, possono essere scambiati con altrettante borse di studio per la pace, senza scandalo e con soddisfazione di tutti.

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Da quel cambiamento radicale sono passati vent’anni e a quanto pare siamo pronti ad un altro passo avanti.

Il riferimento è al cosiddetto “Esercito Europeo” che ora entusiasma tutti coloro che non si sono mai entusiasmati per quello che fanno i nostri marmittoni e che magari preferiscono considerarli dei perditempo o dei pigri guardiani della Fortezza Bastiani, abituati agli ozi di una vita inutile.

Il termine scelto per questa ulteriore invenzione è una irritante semplificazione semantica con la quale si definisce “Esercito” quelle che sarebbero in realtà tutte le Forze Armate, naturalmente; ma come si può pretendere una maggiore definizione, e un maggiore rispetto, da una società a-militare come la nostra?

Ma veniamo al sodo. Intanto varrebbe la pena di osservare che l’ideona nasce, anzi rinasce, proprio con la fine ingloriosa della presenza occidentale in Afghanistan. Tutti a osservare, argutamente, che l’Europa è stata assente di fronte alle decisioni unilaterali statunitensi.

Nessuno, invece, si è sentito in dovere di osservare che l’Europa in Afghanistan era presente, presentissima, con molti contingenti dei paesi dell’UE.

L’Unione avrebbe quindi potuto dire la sua ma ha deliberatamente scelto di abbandonare i “propri” paesi ad una linea d’azione non coordinata e ancillare nei confronti degli Usa, facendo proprie le loro strategie e le loro parole d’ordine.

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Infatti, di fronte a un nemico brutale ma tutto sommato contenibile non abbiamo saputo trovare una linea di comportamento comune, trincerandoci dietro “caveat” e Regole di Ingaggio differenziate da paese a paese proprio per non essere costretti a un impegno percepito in mille maniere differenti. Altro che Esercito Europeo!

In Italia, da questo punto di vista, tutti i governi succedutisi in questi vent’anni hanno evidenziato un sostanziale disinteresse per quel che facevano laggiù i nostri uomini; salvo prodursi, a favore di telecamere, nei soliti fervorini sui burka, sull’istruzione femminile (i maschietti non contano) e su un falso ma rivendicato afflato a-militare dei nostri soldati, quasi fossero una sorta di sanfranceschi intenti a parlare coi lupi. Solo ora sembrano accorgersi, con sorpresa, che invece in quel paese non avevamo solo pozzi da scavare e buoni sentimenti da spandere ma anche un nemico da sconfiggere; un nemico che ha vinto.

Tra le sorprese che spingerebbero a questa nuova necessità, anche la sconcertante constatazione che Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia hanno stretto un’alleanza con funzione anticinese che potrebbe trasformare il “nuovissimo continente” in un’altra semi-superpotenza, con sommergibili nucleari e missili balistici. Ma come?

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Non c’eravamo già noi, i vecchi amici della Nato? Forse sfugge a qualcuno che un’alleanza anglosassone tra Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda (i “Five Eyes”) esiste da sempre ed è la stessa per la quale un semplice alleato Nato non aveva in Afghanistan l’accesso alle stesse informazioni alle quali poteva accedere un Australiano o un Neozelandese magari di passaggio, che della Nato non fanno parte.

E’ inutile girarci attorno, quindi: senza una politica estera comune non è possibile esercitare sforzi militari comuni. Ed una politica estera comune può basarsi solo su un’identità ed un mutuo rispetto attualmente schiacciati da condizionamenti che la rendono impossibile. Si pensi al seggio della Francia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: lo cederà a Ursula Von der Leyen?

E rinuncerà Macron alla sua Force de Frappe rendendola disponibile per interventi approvati “a maggioranza” e che prescindano dagli interessi diretti d’oltralpe? I virtuosi e frugalissimi paesi nord europei accetteranno di spartirsi le decine di migliaia di disperati che approdano nelle nostre coste, complice la nostra inerzia, e che ora è facilissimo bloccare a passi alpini?

La Germania accetterà di perseguire una parità stipendiale tra lavoratori tedeschi, greci e italiani? E noi rinunceremmo a far giudicare da un nostro tribunale un militare olandese o norvegese che avesse commesso un atto che la nostra giurisprudenza considera reato, mentre per i due paesi gli dovrebbe meritare una decorazione al valore?

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Insomma, penso che per l’Italia quella dell’Esercito Europeo sia un’altra seducente parola d’ordine per nascondere il desiderio di sbolognare ad altri la gestione di uno strumento militare che non si ama, assieme a quello che resta della sovranità nazionale, quale esercizio di responsabilità nei confronti del bene comune che ci è stato lasciato dalle generazioni che ci hanno preceduto.

Uno strumento militare del quale non si sa cosa fare, visto che abbiamo rinunciato anche alla politica estera che ne dovrebbe giustificare l’esistenza, come confermato dall’abbandono della Libia, prima ai disegni franco-anglo-americani e poi alle ambizioni della Turchia, dall’assurdo braccio di ferro con l’Egitto nonché dall’umiliazione della nostra cacciata dalla base aerea di Al Minad negli Emirati Arabi Uniti, per non avere onorato precedenti contratti commerciali in materia d’armamento.

Per concludere, quello dell’esercito europeo sarebbe un bellissimo sogno, ma richiederebbe un minimo comun denominatore tra paesi che ora dimostrano differenze di vedute e di interessi tutt’altro che marginali.

E che, forse per questo, si ostinano a non abbandonare gli stereotipi ereditati dalla Guerra Fredda con l’idea decisamente ipocrita di un’Europa Occidentale virtuosa che fronteggia un’Europa Orientale da “rieducare”, come nel caso delle manifestazioni di aperta ostilità verso Ungheria e Polonia, colpevoli di voler tutelare i propri valori, le proprie tradizioni più interiorizzate e la propria dignità.

Foto EUTM Mali ed EUTM Somalia

https://www.analisidifesa.it/2021/09/guarda-chi-si-rivede-lesercito-europeo/

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…, di Hajnalka Vincze

Non si tratta comunque di determinare chi sia il più europeista, quanto di precisare una realtà il più delle volte rimossa: l’esistenza stessa di questa classe dirigente tedesca dominante dipende dai suoi legami e dalla sua subordinazione agli Stati Uniti e la ricerca del proprio interesse non può e non intende prescindere oltre un certo limite da questo dato; essa è parte integrante di una componente ben definita di classe dirigente americana. Tutto è apparso alla luce del sole durante la presidenza Trump. L’attuale Unione Europea è un ingranaggio di questa dinamica. Le ambiguità e i cedimenti della Francia in quest’ultimo ventennio sono cresciuti parallelamente ai suoi proclami di autonomia europea anche se si deve riconoscere quantomeno l’esistenza in essa di un confronto ed un conflitto tra centri decisionali contrapposti. Giuseppe Germinario

I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…

Portfolio – 25 settembre 2021
News Note

… stanno solo usando l’UE per rafforzare il proprio potere nazionale?

Sul tema delle elezioni tedesche, è dilagante la speculazione su cosa significherebbe questo e quest’altro nuovo governo tedesco per la costruzione dell’Europa. Sarebbe senz’altro utile tornare prima a cosa significa Europa, in generale, per la Germania e viceversa. Perché ci sono poche possibilità che le linee principali, le stesse da molti decenni, cambino. Nel 1963 il presidente francese Charles de Gaulle tagliò corto: “I tedeschi si comportano come maiali. Tradiscono l’Europa”. Questa visione, certamente accuratamente celata dietro formule diplomatiche, è comunque largamente condivisa in tutto il Reno, anche oggi. Allo stesso tempo, in altri luoghi è comune considerare Berlino come il buon studente dell’UE: La Germania pagherebbe come una vera vacca da mungere; darebbe sempre più potere alle istituzioni comunitarie; non ci sarebbe stato più verde di lei; e sui temi della difesa è modesto (al massimo si spende qua e là qualche parola sul disarmo globale e la pace universale). Potrebbe essere che tutto questo sia solo una tattica intelligente?

Attivista per la pace, con le bombe atomiche

L’osservazione che paragonava i tedeschi ai “maiali” è stata fatta in relazione al trattato di amicizia franco-tedesco, detto dell’Eliseo. Questo accordo aveva originariamente una forte dimensione di sicurezza e difesa e deliberatamente non faceva menzione né degli Stati Uniti né della NATO. Ma il Bundestag lo ratificò alla sola condizione di allegare un preambolo collocandolo immediatamente nel quadro dell’alleanza con l’America. Il generale de Gaulle notò, furioso, che non ci si poteva fidare dei tedeschi: “sono appiattiti davanti agli americani”. Sessant’anni dopo, niente di nuovo sotto il sole. L’ex presidente del Parlamento europeo Pat Cox ha recentemente osservato: “L’autonomia strategica è fonte di tensione tra Francia e Germania: non sono d’accordo su quanto l’Europa possa e debba fare affidamento sugli Stati Uniti”. Qua e là, i politici tedeschi si sono lasciati sfuggire che l’UE avrebbe guadagnato acquisendo “un certo grado di sovranità”. Ma quando la Francia insiste che è tempo che gli europei diventino indipendenti, la Germania ribatte che “le illusioni di autonomia strategica devono finire”. Berlino continua a ripetere: “L’Europa dipende dall’alleanza transatlantica, non può difendersi”.

Quando il presidente Macron evoca il fatto che la forza d’attacco francese difende, senza dirlo, l’intero continente europeo e chiede cooperazione ai suoi partner, la Germania si fa notare per la sua riluttanza. A volte sostiene che esiste già un ombrello americano, a volte suggerisce che prima ci liberiamo dell’atomo, meglio è. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2020, il presidente francese ha messo in evidenza le contraddizioni dell’ardente pacifismo di Berlino. Come dice lui: questa riluttanza verso le questioni militari è finta, perché la Germania è bagnata fino all’osso in una politica di potere, inclusa la sua componente nucleare, attraverso la NATO – tranne che è una politica americana. Infatti: sotto l’egida della condivisione nucleare (alla quale Parigi non partecipa) dell’Alleanza, gli Stati Uniti hanno una ventina di cariche nucleari sul territorio tedesco. Inoltre, i servizi segreti federali (BND) occasionalmente spiano l’Eliseo e la Commissione europea per conto di Washington. L’atlantismo patentato di Berlino nasce da un ragionamento lucido. Da un lato, Berlino spera che in cambio del suo incrollabile sostegno al primato USA/NATO nella sicurezza europea, Washington sarà più indulgente con i suoi scherzi in altre aree (i suoi legami commerciali con Russia e Cina, in particolare). D’altra parte, la stessa Berlino beneficia di questo primato americano: questo relativizza il peso e la portata degli assetti militari francesi, e riduce così il vantaggio politico di Parigi negli equilibri di potere all’interno dell’UE.

(Credito fotografico: Portfolio.hu)

Zelo europeo per egoismo?

In ogni caso, l’atteggiamento della Germania nei confronti dell’integrazione europea è, per così dire, complesso. Berlino è sempre stata una fervente sostenitrice delle istituzioni sovranazionali dell’Unione, tanto più che le aveva investite per molto tempo e la sua influenza lì è schiacciante. Resta il fatto che il freno più netto al futuro dell’integrazione è arrivato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Nella sua decisione del 2009 che interpreta il Trattato di Lisbona, questo organo supremo dichiara nero su bianco che il quadro nazionale è l’unico rilevante per la democrazia e la sovranità tedesche. Il diritto europeo non ha la precedenza, l’Europa non è un’entità sovrana, non ha quella che si chiama “la competenza della competenza”. Quanto alle azioni concrete, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer osserva: “I governi tedeschi ora vedono sempre più l’Europa in termini di promozione degli interessi tedeschi. E lì c’è un pericolo per l’Europa”.

Berlino sta ora anteponendo sempre più apertamente le proprie considerazioni a ogni “comune interesse europeo”. Era disposto a sacrificare anche il più importante progetto strategico europeo fino ad oggi, il sistema di navigazione satellitare Galileo, a meno che il sistema tedesco OHB, ma totalmente incompetente per il compito, non si aggiudicasse l’appalto. In questi giorni, la Germania si rifiuta di discutere del futuro del razzo Ariane, anche se ciò significa mettere a repentaglio uno degli strumenti strategici (e commerciali) più cruciali dell’Europa, il suo accesso indipendente allo spazio. Certo, Berlino può anche essere generosa, purché trovi un profitto clamoroso.

Se ha tanto sostenuto l’allargamento dell’Unione verso Est, è perché ha trovato il suo tradizionale “Hinterland”, con manodopera a basso costo a disposizione delle sue aziende, nello stesso spazio normativo. Per quanto riguarda l’attuale piano di stimolo dell’UE, la Germania ha accettato solo l’idea del pooling del debito per garantire meglio gli sbocchi europei di cui la sua industria ha estremo bisogno (a causa della contrazione dei mercati internazionali). Sul versante della diplomazia, Berlino non esita più a far sentire la propria voce, anche a discapito delle considerazioni europee, a seconda dei casi. Quando la Turchia si avventura, ad esempio, nelle acque greche e cipriote, l’UE nel suo insieme è il bersaglio delle sue provocazioni. Atene insiste: “La Grecia protegge i confini europei”. Tuttavia,

L’eterno avversario: la Francia

Caso dopo caso, Berlino si trova ripetutamente di fronte alla Francia. Sono le due potenze centrali dell’UE, e la storia del nostro continente è in gran parte quella dei loro scontri. La Germania è principalmente interessata all’idea europea nella misura in cui questa può far pendere a suo favore gli equilibri di potere tra i due paesi. Prendiamo l’esempio di questa idea, a priori simpatica, secondo la quale Parigi potrebbe rinunciare al suo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, a favore dell’Unione europea. Sorpresa, sorpresa: ancora una volta la Germania intende “rafforzare” l’Europa sacrificando un… asset francese. Inoltre, l’UE ne trarrebbe ben poco. Infatti, finché gli Stati membri concordano su una posizione, è meglio avere diversi membri del Consiglio di sicurezza per difenderlo (un seggio equivale a un voto – e ci sono sempre uno o due paesi dell’UE tra i membri non permanenti). E se i Ventisette non dovessero trovare un accordo, la cosiddetta voce unica “comune” rimarrebbe in silenzio. Ovviamente a Berlino non interessa.

Lo stesso vale per il cambiamento climatico. La Germania ha deciso di chiudere al più presto tutte le sue centrali nucleari a favore delle energie rinnovabili (risultato: riprende la produzione di carbone, e Berlino punta, con Nord Stream 2, sull’aumento dei consumi di gas naturale. ). D’altra parte, quasi il 70% dell’elettricità francese proviene dal nucleare, una fonte non solo economica e permanente (affidabile sia in inverno che in estate), ma che riduce anche al minimo le emissioni di CO2. Tuttavia, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC) e il Centro comune di ricerca (JRC) dell’UE affermano entrambi che l’energia nucleare, nonostante tutti i suoi difetti, è attualmente uno dei nostri migliori strumenti per passare a un modello senza carbonio, La Germania sta conducendo una dura battaglia contro di essa. Di recente è riuscita ad escludere il nucleare dai bond “verdi” dell’Ue, per un importo di 250 miliardi, a differenza dei cosiddetti progetti “transitori” sul gas naturale che vi troveranno posto.

Ancora una volta, gestendo bene le istituzioni dell’UE, Berlino sta lavorando per indebolire le risorse francesi, gettando nel processo gli interessi europei. Quando reindirizza le risorse e gli investimenti dell’UE a società e progetti tedeschi, distrugge anche le prospettive per l’energia nucleare europea. Che avrebbe però il multiplo vantaggio di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica per l’UE entro il 2050, di promuovere la competitività delle industrie, di garantire energia elettrica stabile a un prezzo accessibile anche ai cittadini, il tutto senza che l’Europa non cada in un mercato energetico dipendente da potenze esterne come Russia, Turchia o Stati Uniti.

Il settimanale tedesco Der Spiegel ha recentemente riassunto i 16 anni al potere della cancelliera Merkel sotto il titolo “Opportunità mancate”. Questa osservazione vale anche, se non soprattutto, per l’Europa. Il giornale cita il filosofo Jürgen Habermas, per il quale Angela Merkel ha cercato soprattutto la pace – da qui la grave mancanza di qualsiasi strategia degna di questo nome durante le crisi successive e l’attenzione sul solo armeggiare per far ripartire la macchina, senza fare di più. In effetti, c’è una ragione molto più profonda per questo ostinato rifiuto di imparare dalle difficoltà. Il problema, per la Germania, è che la maggior parte degli eventi degli ultimi quindici anni, dalla crisi finanziaria alla pandemia passando per la presidenza Trump, hanno confermato la rilevanza degli obiettivi francesi per l’Unione, sovente agli antipodi delle priorità tedesche.

Che si tratti di emancipazione dagli Stati Uniti (la famosa autonomia strategica), di riportare in Europa le filiere produttive, di rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, di necessità di un’agricoltura autosufficiente, di utilità del nucleare nella lotta al riscaldamento globale, o l’importanza degli eserciti e di un’industria degli armamenti indipendente in un contesto internazionale caratterizzato da una crescente rivalità tra poteri – il mondo intero è consapevole di queste tendenze e cerca di trarne le conseguenze. Ma la Germania, dal canto suo, si oppone con le unghie e con i denti a che l’Europa faccia lo stesso, per paura che ciò favorisca troppo il suo partner francese. Perché, ovviamente, perseguire una politica capace di dare risposte concrete a tutte queste sfide significherebbe, per l’Europa, intraprendere la strada che Parigi ha sempre raccomandato. In questo caso, l’influenza della Francia sarebbe rinforzata automaticamente e le sue risorse ancora esistenti sarebbero immediatamente valorizzate. Tuttavia, Berlino vuole evitare a tutti i costi un simile spostamento negli equilibri di potere tra i due paesi.

Il generale de Gaulle ha detto: “E’ destino della Germania che nulla possa essere costruito in Europa senza di lei”. D’altra parte, c’è da temere che con essa non ci possano essere che “anticipi” che, a ben guardare, finiranno sempre per giovare all’Europa molto meno che a Berlino.

https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/604-les_allemands_sontils_de__bons_europeens__ou/

Sulla Geoeconomia, Di: Antonia Colibasanu

I collaboratori del sito si sono soffermati più volte sul rapporto tra politica ed economia, sulla relazione tra geoeconomia e geopolitica. Antonia Colibasanu ci offre il suo punto di vista. Una precisazione: il recente passato, in particolare negli anni ’70, ci dice che il trinomio inflazione-disoccupazione- stagnazione (stagflazione) non è poi così inedito. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Sulla Geoeconomia

C’è un cambiamento in corso che potrebbe cambiare le regole del sistema globale.

Di: Antonia Colibasanu

La scorsa settimana ho parlato e moderato di persona in diverse conferenze – una cosa rara dall’inizio della pandemia – i cui argomenti andavano dalla difesa e sicurezza al commercio regionale agli affari europei. Il denominatore comune, ovviamente, era la geopolitica, ma ciò che mi ha colpito di più delle mie conversazioni è stato che, piuttosto che il ritiro dall’Afghanistan o le elezioni in Germania, quasi tutti erano preoccupati principalmente dell’inflazione e della conversione ecologica dell’economia in corso in Europa.

In effetti, quasi tutte le conversazioni avevano una cosa in comune: le sfide economiche della nostra società alla luce della pandemia. Fino ad agosto, l’inflazione era generalmente innescata dal settore energetico e da un ristretto insieme di beni come i semiconduttori i cui aumenti di prezzo erano legati alla crisi della catena di approvvigionamento. Ma, come evidenziato dai recenti aumenti dei prezzi di cibo e servizi, sembra che gli effetti si stiano ampliando. Condizioni meteorologiche avverse, siccità insolite e inondazioni che hanno distrutto i raccolti , spesso citati come danni collaterali del cambiamento climatico, hanno contribuito all’aumento dei prezzi dei generi alimentari.

E sebbene fosse così anche prima dell’inizio della pandemia, la stessa ha effettivamente evidenziato le vulnerabilità del sistema alimentare, influendo sulla produzione, l’offerta e la distribuzione. L’aumento delle tariffe di trasporto marittimo, l’aumento dei prezzi del carburante e la carenza di autisti di camion stanno facendo aumentare i costi dei servizi di trasporto. Inoltre, la pandemia ha creato ai produttori difficoltà di accesso alla forza lavoro di cui hanno bisogno per far consegnare i raccolti in tempo utile (per non parlare dei lavoratori necessari per consegnare e distribuire altri beni). È stato così per i produttori di pomodori, arance e fragole in Europa nel 2020. In Australia, i gruppi industriali temono che le sfide legate alla pandemia possano far deperire quello che dovrebbe essere un raccolto stellare di cereali invernali in questa stagione.

L’industria alimentare non è certo l’unica industria alle prese con questo tipo di sfide. Una spiegazione avanzata dagli specialisti delle risorse umane cita il fatto che sembra esserci una discrepanza tra le industrie che assumono e coloro che cercano lavoro, una dinamica apparentemente confermata dalla ripresa irregolare in diversi settori. Un’altra spiegazione si riferisce al fatto che, durante la pandemia, molti lavoratori si sono allontanati dalle città in cui lavoravano, lasciando i loro posti di lavoro vacanti fino a quando non si percepisce una migliore sensazione di quando la pandemia potrebbe placarsi. Questo parla dell’importanza per la forza lavoro di essere in grado – e disposta – a migrare da un luogo all’altro.

Sondaggi socioeconomici globali
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Per la prima volta, assistiamo sia a un’elevata disoccupazione che a un’elevata inflazione, qualcosa di anomaloe quando le economie si stanno riprendendo dalla recessione, e generalmente anormale. L’inflazione in genere si accompagna alla ripresa e alla crescita, dinamiche che in genere riducono la disoccupazione. Il problema è che l’inflazione è sbilanciata: ci sono troppi posti di lavoro e poche persone disposte ad accettarli.

Aumento della disoccupazione e dell'inflazione
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L’estate del 2021 è stata tutt’altro che normale, ovviamente. La pandemia non è finita. La variante Delta, unita a bassi tassi di vaccinazione, ha nuovamente aumentato le infezioni da COVID-19 e ha quindi rallentato la ripresa del settore dei servizi. Oltre alla carenza di approvvigionamento che colpisce sia la spesa dei consumatori che quella delle imprese in tutto il mondo; una costante ondata di notizie tristi riguardanti l’Afghanistan, la stabilità politica globale e anche eventi estremi come uragani e incendi hanno eroso la fiducia dei consumatori.

Indicatore di anticipo composito (CLI)
(clicca per ingrandire)

La fiducia è essenziale per il funzionamento di un’economia. La pandemia ha dimostrato ancora una volta quanto sia vulnerabile il nostro attuale sistema sociale. Come con la crisi finanziaria globale del 2008, le persone stanno assistendo in prima persona agli effetti negativi della globalizzazione, anche se conciliano il fatto che l’interconnessione e l’interdipendenza sono realtà che non possono essere annullate rapidamente. È solo ragionevole che mettano in discussione le attuali regole del gioco se quelle regole creano dolore e sofferenza.

E, dopo tutto, è la tolleranza della gente per il dolore che innesca il cambiamento politico. Con così tanto malcontento generale per il modo in cui funziona il sistema globale, l’idea che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella nostra società ha a suo modo fatto avanzare la conversazione sulla sostenibilità e il cambiamento climatico. La percezione che viviamo in un mondo fragile richiede che chiediamo ai nostri governi di fortificare la nostra stessa esistenza, il tutto stabilizzando l’economia. Certo, è un cambiamento radicale, che richiede una ristrutturazione socio-economica.

Da un punto di vista geopolitico, agli stati viene chiesto di utilizzare il loro potere economico per garantire condizioni di vita sicure e stabili per la loro gente. Questo è stato a lungo il caso, ma l’urgenza dei cambiamenti necessari in un momento di intensa competizione economica internazionale porta alla trasformazione della geopolitica in geoeconomia. Il significato tradizionale della geoeconomia è che le nazioni impiegano strumenti del commercio estero per raggiungere gli imperativi. Nell’attuale contesto di tempi profondamente incerti – grazie alla pandemia, ai cambiamenti climatici e alla rivoluzione digitale – la funzione geoeconomica dello stato-nazione si riferisce all’utilizzo di strumenti economici per raggiungere obiettivi politici e aumentare il potere dello stato-nazione. Il controllo dei mercati, la gestione delle eccedenze commerciali e il ricorso a sanzioni economiche o investimenti strategici per rafforzare l’influenza politica fanno parte dell’arsenale che un paese può utilizzare per costruire, mantenere e aumentare il proprio potere economico.

Ma cos’è il potere economico? Come possiamo misurarlo, data la complessità dei tempi di pandemia in cui viviamo? La crescita del prodotto interno lordo reale e le dipendenze commerciali forniscono solo alcune idee di base sulla stabilità economica di un paese. Con la pandemia, abbiamo appreso che il potere di disposizione sulle materie prime strategiche svolge un ruolo importante nel mantenere vivi i settori strategici. Ciò che costituisce un settore strategico, e quindi una materia prima strategica, cambia anche in base al luogo e al tempo. Il petrolio non è così determinante ora come lo era negli anni ’70. L’approvvigionamento idrico, sebbene essenziale per tutti, è strategicamente più prezioso in alcuni luoghi rispetto ad altri. Fenomeni estremi attribuiti al cambiamento climatico pongono anche questioni specifiche a lungo termine. La capacità di produrre innovazione tecnologica darà ai paesi influenza sulle infrastrutture critiche e quindi consentirà loro di garantire la loro stabilità in tempi di eventi estremi come siccità e pandemie.

Allo stesso tempo, la capacità di un paese di far rispettare gli standard e le norme internazionali è la chiave per stabilire le regole del sistema economico globale e per esercitare un’influenza su altri stati. Con la globalizzazione, abbiamo già paesi che utilizzano norme diverse che operano nella stessa economia di mercato, ma l’accesso ai mercati strategici è ancora difficile a causa della prevalenza di standard occidentali.

Ci sono quindi tre elementi su cui uno stato dovrebbe concentrarsi nella costruzione della sua strategia geoeconomica. In primo luogo, deve mantenere la forza economica di cui dispone attualmente. In secondo luogo, deve ridurre le dipendenze economiche unilaterali. Terzo, deve sviluppare una strategia che catturi ed espanda il valore della sua forza economica. Nel compiere questi tre passi, lo stato si concentra sulla definizione dei suoi punti di forza economici, che sono in ultima analisi modellati dalla popolazione. Le risorse umane dello stato sono il bene più prezioso per la strategia geoeconomica, soprattutto in tempi di incertezza.

Ecco perché il rapporto instabile tra inflazione e disoccupazione deve essere preso come un serio segnale di ristrutturazione economica. Il comportamento umano provocato dal dolore umano sta potenzialmente innescando una rivoluzione che potrebbe cambiare le regole del sistema globale.

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