Stati Uniti, Europa! Elites a confronto Con Roberto Buffagni e Teodoro Klitsche de la Grange

La conversazione trae spunto da due articoli pubblicati dal sito Italia e il mondo, dei quali si consiglia la lettura. http://italiaeilmondo.com/2024/11/21/una-strana-sconfitta_di-aurelien/ http://italiaeilmondo.com/2024/11/17/guardare-avanti-dal-bivio-di-simplicius/
Da una parte le élites europee le quali, nella quasi totalità, nel loro cieco ostile radicalismo verso la Russia e ottuso dogmatismo su temi fondamentali di gestione interna si rifiugiano per nascondere la loro inesorabile decadenza e insignificanza. Un istinto di sopravvivenza che sta trascinando nella rovina le proprie popolazioni. Dall’altra le élites statunitensi le quali, con la vivacità e virulenza dello scontro politico in atto, quanto meno rivelano il proposito di un rinnovamento e rivolgimento delle proprie classi dirigenti in un contesto geopolitico a loro più favorevole rispetto al vicolo cieco nel quale sono chiusi i loro gemelli di qua dell’Atlantico. Uno scontro aperto ad ogni soluzione, anche tragica, ma più propositivo rispetto alla stantìa realtà europea; almeno quella attuale. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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GOVERNO MELONI AL PALO, di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

 

 

GOVERNO MELONI AL PALO

 

 

L’elettorato italiano è ormai abituato a decretare fulminei trionfi e rovinose cadute delle leadership politiche nazionali. Lo sanno bene Renzi, Grillo, Salvini. Folgoranti carriere politiche bruciate nel giro di un paio d’anni, dal 40% all’1% in un battibaleno.

Alla Meloni, fino a questo momento, sembra sia andata meglio: nonostante qualche scricchiolìo qua e là, la sua popolarità è ancòra intatta, il suo governo ha ancòra la fiducia della maggioranza degli italiani, e il sostegno al suo partito – stando ai sondaggi – viaggia ancòra attorno al 30%. Merito indubbiamente del suo carisma e della sua abilità, ma anche demerito dei suoi avversari, della loro mancanza di carisma, della loro scarsissima abilità.

La Schlein è capace soltanto di rimproverare al governo di centro-destra di non aver risolto i problemi che ha ereditato da vent’anni di governi di centro-sinistra; e il pur dignitoso Conte, abbandonato dal popolo del vaffa, non riesce ad andare oltre il ruolo di modesto, modestissimo comprimario dello schieramento che si autoproclama “progressista”.

Nonostante tutto, però, la mia impressione è che la Meloni abbia raggiunto l’apice della parabola, e che – in tempi più o meno prossimi – possa cominciare la fase discendente. Fase lenta, graduale, rallentata dalla mancanza di una alternativa accettabile, ma comunque una fase calante.

Perché il ciclo positivo si è interrotto? Per mancanza di coraggio nel tenere fede alle promesse radicali del passato (una per tutte: il blocco navale per fermare l’invasione migratoria) e per un eccesso di furbizia nel rendersi gradita ai poteri forti della politica planetaria: gli Stati Uniti di Biden e dei clan Obama e Clinton, e l’Unione Europea delle scelte economiche antitaliane (regole finanziarie insostenibili, transizione ecologica, politica punitiva verso la casa, strangolamento dell’industria automobilistica, sanità pubblica ai limiti di sopravvivenza, pensioni da fame, accoglionimento migratorio, eccetera).

Non soltanto per questo, tuttavia. In mancanza di una alternativa, l’elettorato potrebbe anche perdonare; e finora lo ha fatto. Il problema vero è che, accettando le regole e i cosiddetti valori del “politicamente corretto”  (in realtà si tratta di disvalori) nessun governo è in grado di raddrizzare la baracca.  Occorrono soldi, tanti soldi per permettere allo Stato italiano di fare il suo dovere, che è quello di garantire adeguati standard di vita ai cittadini di quella che continua ad essere pur sempre una delle dieci maggiori economie del pianeta. Certo, se per pagare le pensioni o per assicurare decenti livelli di assistenza sanitaria lo Stato deve farsi prestare i soldi dalle banche private, pagando salatissimi interessi e facendo lievitare il debito pubblico, cosa che peraltro ci è inibita dai cerberi di Bruxelles… certo, se ci si deve uniformare a queste regole balzane, né il governo Meloni né nessun altro governo di qualsivoglia colore politico sarà in grado di produrre risultati positivi. Potrà resistere un paio d’anni o poco più, prima di dover alzare bandiera bianca ed ammettere la sua impotenza.

A quel punto il tal governo crollerà nelle urne, e gli elettori si volgeranno verso qualcun altro che sarà per un momento ritenuto capace di fare meglio.

Ripeto: il governo Meloni non è ancòra a questo punto, né all’orizzonte si profila una alternativa credibile.

Epperò il problema resta sempre quello: se lo Stato non si riprende la sua sovranità anche monetaria, se non si riappropria della facoltà di battere moneta, se non la smette di svenarsi per pagare gli interessi – solo gli interessi! – alle banche, se non manda a quel paese l’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, le banche “d’affari” e tutta l’onorata consorteria dell’altissima finanza internazionale… se non si trova il coraggio per scelte di questo tipo, allora ci sarà ben poco da fare, se non tirare onestamente la carretta di un qualunque governo di ordinaria amministrazione. Come il governo Meloni, per l’appunto.

 

 

[“Social” n. 568  ~ 29 novembre 2024]

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L’odiosa parabola del M5S, di Yari Lepre Marrani

L’odiosa parabola del M5S

  • Lo Stato, insegna Polibio di Megalopoli, conosce tre forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. Nella sua evoluzione, uno Stato è destinato a conoscere questa triade nella quale ciascuna forma di Governo ha un carattere degenerativo: la monarchia degenera in tirannide; l’aristocrazia in oligarchia; la democrazia in oclocrazia, storicamente identificata come la più forma più estrema e perversa della demagogia. Ancorando il presente assunto all’Italia dei nostri giorni, balza agli di tutti quanto la parabola del M5S sia stata un’efficace quanto squallida dimostrazione di come sia possibile sfruttare il malessere sociale e antipolitico del popolo per creare un movimento di protesta che, però, la protesta l’ha incarnata con furbizia ma incapacità e,forse,malafede.
  • Parole dure e perentorie che non possono non tenere conto della concreta nascita,maturazione, evoluzione e cammino del Movimento che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno rivelandosi, infine, peggiore del Parlamento esecrato. Il 7 settembre 2007 si aprì ufficialmente l’iniziativa e l’era politica del V-Day(Vaffanculo-day): l’ira della gente verso la politica romana e nazionale aveva toccato i vertici,la rabbia sociale dilagava come lava ardente tra le strade delle città Si pensò e si pensa, allora come oggi, che il comico Grillo cercasse di “contenere” l’esuberante e dolente rabbia dei cittadini attraverso la creazione di una forza politica che,apparentemente,spaccasse la cattiva politica inaugurando un periodo di ricostruzione della politica stessa, ricostruzione sociale, morale e psicologica. Tutto si è rivelato il più grande bluff della storia repubblicana italiana, che non è minimamente paragonabile alla parabola ben più genuina e, a mio avviso, intellettualmente e politicamente onesta dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Il Movimento politico fondato nel 1944 da G. Giannini e facente capo al giornale “L’Uomo Qualunque”, voleva contrastare l’assetto politico-istituzionale uscito dalla Resistenza costruendo una visione puramente amministrativa della gestione dello Stato: esso si delineò, senza tanti giri di parole, in una critica ai meccanismi della democrazia parlamentare per come era nata nel secondo dopoguerra. A volte l’onestà di un movimento di protesta si manifesta anche nel suo insuccesso: il c.d. qualunquismo si esaurì rapidamente ed ebbe vita brevissima, svanendo in soli due anni.
  • I tempi dell’Uomo Qualunque e quelli del M5S sono così diversi da rendere difficile un raffronto di fatti, circostanze e malesseri ma un dato comune c’è: la gente, in entrambi i casi, ha iniziato a disprezzare odiosamente la politica e i politici. Nel caso del Movimento fondato da Grillo, il disprezzo del popolo verso la politica è stato abilmente manovrato dal comico genovese che ha utilizzato le idee più brillanti del suo mentore milanese Gianroberto Casaleggio non per creare un grande cambiamento, una Grande Riforma in senso riformista e, perché no, di craxiana memoria, ma per sfruttare l’emotività ferita della gente. Un dato di fatto comprovato dalle illusioni suscitate e tradite dal Movimento stesso e, soprattutto, da coloro che hanno approfittato “alla grande” del carro del vincitore antipolitico per costruirsi lucrose carriere senza la ben che minima visione politica che non si riassumesse nell’egoistica e opportunistica volontà di entrare in quel Palazzo che essi volevano combattere assieme al loro capo.

I fatti racchiusi nel cammino ultradecennale del M5S comprovano la falsità di intenti e il grande tradimento di questa forza politica verso gli elettori: Grillo ha aperto le porte dei palazzi del potere a persone che assommavano all’incapacità personale la mancanza di visione politica e sociale, all’opportunismo nudo e crudo la volontà di “mescolarsi” a quelle forze politiche di destra e sinistra che loro stessi volevano eliminare dalla scena politica italiana. I pentastellati sono nati per contrastare i danni del berlusconismo, della sinistra doppiogiochista e malata,della politica corrotta e corruttrice. Alla fine dei giochi quel movimento si è avidamente mescolato a quel sistema politico pregresso, ha sfruttato i sentimenti di speranza degli elettori sino a diventare una forza di “occupazione delle poltrone” addirittura capace di allearsi con destra e sinistra senza vergogne, rinnegando gli ideali della prima ora.

Il M5S è politicamente morto ma i suoi ipocriti attori ancora politicamente vivi. Tornando all’iniziale riflessione polibiana, forse neanche un grande storico come Polibio saprebbe dare una definizione di questo fenomeno: parlerebbe di oclocrazia cioè squallida demagogia? No. Probabilmente si arrenderebbe innanzi allo squallore di questa triste forza politica nata sulle strade delle città per cambiare in meglio l’Italia sofferente e diventata peggio delle forze politiche che voleva combattere.

 

Giuseppe Conte vuole ora ricostruire un movimento perduto con l’aiuto dell’Assemblea costituente del Movimento: ha estromesso Grillo dal ruolo di Garante del Movimento stesso, vuole trasformare il M5S in un partito, dichiara che Grillo ne sta “cancellando la storia e schiaffeggiando così palesemente tutti gli iscritti e tutto ciò per cui si è battuto in tanti anni”. Grillo ribatte chiedendo una nuova votazione sui quesiti della Costituente M5S che si terrà dal 5 all’8 Dicembre per riappropriarsi del suo ruolo, prerogative e annessi introiti economici. La tensione tra i due rimane alta ma, in realtà, entrambi sono figli del fallimento che rappresentano. Conte non salverà l’Italia come non l’ha fatto Grillo: si limiterà come il secondo a mantenere vivo un furbo giochetto di successo che ha contribuito a tante poltrone e tanti disastri, primo tra tutti il tradimento del popolo.

 

Se ci fosse Polibio oggi, forse parlerebbe di una contravvenzione prevista dal nostro codice penale e rispondente al nome di “Abuso della credulità popolare”,sì forse si aggrapperebbe a questo testo per spiegare la parabola del “Movimento del Nuovo Rinascimento”. E ha ragione il figlio del visionario cofondatore del Movimento Gianroberto Casaleggio, Davide Casaleggio, quando afferma che tra Conte e Grillo c’è poca differenza perché “hanno perso entrambi”. Le ultime, vere parole.

Yari Lepre Marrani

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PROCESSARE IL “POLITICO”, di Teodoro Klitsche de la Grange

PROCESSARE IL “POLITICO”

La contemporaneità dell’udienza del processo al Ministro Salvini e dell’annullamento giudiziario della “destinazione” in Albania di un gruppetto di migranti hanno un connotato comune: riproporre l’(eterno) problema del rapporto tra politica e giustizia e, quale presupposto di questo, di determinare cos’è “politico”.

Infatti il potere di giudicare ha carattere generale (anche ritenere di non avere il potere di giudicare, è un giudicare). Lo stesso può affermarsi del politico, perché anche quando una sfera di attività umana è libera e garantita dall’intromissione di poteri pubblici e quindi (anche e soprattutto) politici, ossia privata, ciò è frutto di una distinzione (e decisione) essenzialmente e squisitamente politica: quella tra pubblico e privato.

Data la generalità, politica e giurisdizione possono entrare in contrasto specialmente negli Stati borghesi di diritto, dove le garanzie giudiziarie sono particolarmente penetranti onde hanno indotto alla limitazione costituzionale del potere giudiziario, laddove si debbono giudicate i titolari di certi organi e comunque di decisioni che incidono su funzioni politiche. Ed è un problema che si poneva già agli albori dello Stato borghese moderno, sia nelle leggi delle assemblee francesi rivoluzionarie, che nelle riflessioni dei primi teorici come Benjamin Constant.

La responsabilità (e il processo) penale (e le di esso limitazioni) non è che uno degli aspetti del problema. Pochi italiani sanno che l’ordinamento francese esclude che siano justiciables, cioè annullabili dal Consiglio di Stato gli acts de gouvernement, e che tale soluzione fu fatta propria in Italia nell’istituire la IV Sezione del Consiglio di Stato e poi sempre ripetuta: l’art. 31 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054, sul Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art. 24 del precedente t.u. 2 giugno 1889 n. 6166), prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. È penetrante il giudizio di Barile che l’attività politica non può venire “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura”. Da ultimo tale esclusione è stata confermata nel vigente codice di procedura amministrativa, pubblicato nel 2010 (in pieno fragore mediatico giustizialista). Il problema degli acts de gouvernement è discriminarli da quelli che non lo sono: la giurisprudenza francese ricondusse ad una liste jurisprudentielle tali atti, includendoci in particolare gli atti relastivi ai rapporti internazionali, quelli relativi a rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. In realtà passando da un tentativo di definizione denotativa, come la liste jurisprudentielle, ad una connotativa, emergono quali criteri distintivi degli atti politici da un lato lo scopo per cui sono presi tali atti: la difesa della comunità dai nemici, la sicurezza dell’insieme, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte, con quelli che costituiscono il fine della politica (e di riflesso, dello Stato). Carl Schmitt ritiene a tale proposito che nel diritto francese si era «tentato di instaurare un concetto di motivo politico (mobile politique) con l’aiuto del quale distinguere gli atti di governo “politici” (acts de gouvernement) dagli atti amministrativi “non politici” e sottrarre quindi i primi al controllo della giurisdizione amministrativa»; una definizione, assai interessante per il concetto del politico che ne trae, è la seguente: «Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone  l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in sé stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo». E in effetti tale considerazione – enfatizzata dal rapporto amicus-hostis – è assai prossima a quello che avrebbe poi scritto Freund.

Ritiene Freund, citando Aristotele, che ogni attività umana persegue  un fine specifico: quello della politica è il bene comune (così definito dalla teologia cristiana). Questo si può ripartire nella sicurezza (esterna ed interna) e nel mantenimento dell’ordine cioè della pace e della prosperità della comunità.

E in effetti una delle caratteristiche degli organi politici, in particolare di quello superiorem non recognoscens, è di essere sottratto ad ogni giurisdizione. The King can do no wrong: il Re non può far torto è un’antica massima del diritto inglese. Se nei due casi in esame, l’esercizio dell’azione penale nei confronti di Salvini era stata regolarmente autorizzata dal Senato, e la possibilità di giudicare la legittimità della procedura di “delocalizzazione” dei migranti non è soggetta al limite dell’atto politico (come la cognizione del giudice amministrativo), costituisce comunque un problema. Il quale non si pone nella quasi totalità dei casi alla ribalta delle cronache, concernenti o pure e semplice ruberie, abusi ecc. ecc. di funzionari compiuti a benefici, proprio del politico e dei di esso seguaci ovvero a questioni di carattere strettamente privato (come lo sbandieratismo/i processo/i a carico di Berlusconi per le “olgettine”). Qui invece ad essere giudicati sono atti politici presi nell’esercizio di un potere politico per fini politici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Cioè per un’attività politica  per la natura della cosa, come scriveva Barile. E su questo e sulle conseguenze c’è tanto da pensare.

Teodoro Klitsche de la Grange

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SALVINI E MONTESQUIEU, di Teodoro Klitsche de la Grange

SALVINI E MONTESQUIEU

Come al solito, in occasione al processo a Salvini, si è rianimato il dibattito sui rapporti tra politica e giustizia, con il coro (ovviamente a sinistra) di violazione del principio di separazione dei poteri, dello Stato di diritto, ecc. ecc.

Tutti interpretati ad usum delphini, ossia, più terra terra, per fare propaganda. Poco è stato notato che tali interpretazioni sono il contrario di quanto sosteneva Montesquieu (e non solo), spacciato come sostenitore dei pensierini dei suoi (sedicenti) seguaci contemporanei. Vediamo come.

Il primo tra gli idola in materia è che pretendendo di non essere condannato per aver governato il leader della Lega stia infrangendo il principio di distinzione dei poteri. Ossia che distinzione dei poteri voglia dire separazione assoluta e cioè isolamento tra più complessi organizzativi dello Stato, così separati che, coerentemente sviluppando tale impostazione, non si comprende in che guisa ritroverebbero l’unità, essenziale ad ogni comunità politica.

Ma non è questo il concetto che detta distinzione dei poteri aveva le President à mortier, il quale, nel famoso passo dell’XI libro dell’ “Esprit des loi” inizia ad illustrare la distinzione dei poteri scrivendo che “perché nessuno possa abusare del potere, è necessario che, per l’assetto delle cose, il potere possa fermare il potere”.

Non si comprende come ciò potrebbe avvenire se tra i poteri vi fosse una separazione assoluta. Anzi per corroborare la tesi contraria basta leggere il capitolo XV della Verfassungslehre di Carl Schmitt in cui il giurista elenca gran parte dei tipi di “collegamento” e “non-collegamento” tra poteri elaborati in meno di due secoli (allora) di costituzioni borghesi (di “Stati di diritto”), onde conformare le costituzioni al pensiero di Montesquieu.

Secondo. Infatti l’idea di “separazione dei poteri” che si critica è basata su due connotati fondamentali: l’equiordinazione e l’isolamento dei poteri stessi. Poteri equiordinati implicano l’impossibilità di soluzioni di conflitti tra gli stessi, se non demandandone la decisione ad un’autorità che, proprio per tale funzione, non è più “equiordinata”. Se questa non c’è, l’unità e la coerenza dell’azione politica è compromessa.

Terzo. Nell’XI libro dell’ “Esprit des lois” Montesquieu distingue tra due tipi di atti: quelli che presuppongono nell’organo una faculté de statuer e quelli che sono estrinsecazioni della faculté de empêcher. La prima, scriveva Montesquieu, consiste nel “diritto di ordinare da sé o di correggere ciò che è stato ordinato da altri”; l’altra nel “diritto di render nulla una risoluzione altrui”. Nelle reciproche relazioni tra poteri e organi diversi è alla dialettica tra potere di statuire e potere di impedire che Montesquieu affida la possibilità di buon funzionamento del sistema delineato.

Se si va a leggere la casistica d’interventi di un potere sull’altro, si nota che quello “incompetente” non si può sostituire a quello “competente”, come nella specie se il governo o il Parlamento pretendessero di fare una sentenza o spiccare un ordine di custodia cautelare, ma solo impedire (in sostanza derogare o limitare) l’attività di un altro comparto.

Questo anche all’inverso: ad esempio la giustizia ordinaria non può prendere dei provvedimenti attribuiti al potere esecutivo-amministrativo, ma può disapplicarli, privandoli di validità nel caso concreto sottoposto a giudizio. Se fosse valido quanto sostengono a sinistra, proprio uno dei caposaldi dello Stato liberale cioè il controllo giudiziario sulla P.A. sarebbe violazione del principio della distinzione dei poteri, con buona pace del pensiero e dell’azione liberale degli ultimi due secoli.

Quarto. Scriveva un filosofo del diritto come Radbruch che mentre per la politica vale il detto salus rei plublicae suprema lex, per la giustizia vige fiat justitia pereat mundum.

In genere, in caso di contrasto, prevale la necessità politica (cioè dell’esistenza ordinata della comunità e dello Stato). A parte il caso di Salvini, lo si riscontra in più disposizioni dell’ordinamento, tra cui quella sull’ “atto politico”, proprio perché politico sottratto alla cognizione del Giudice (norma vigente da oltre un secolo e confermata da ultimo nel 2010).

Scriveva V.E. Orlando sull’atto politico (ma è utile anche nel caso Salvini) che a distinguerlo dal semplice atto amministrativo era assai più lo scopo che la “natura” dell’atto: “la distinzione acquista un’importanza effettiva, quando il carattere politico che vuolsi attribuire all’atto dipende non tanto dalla natura di esso quanto dallo scopo cui, a torto o a ragione, si dicono diretti: noi accenniamo a quegli atti del potere esecutivo che infrangono le leggi sotto l’impulso di una pubblica necessità, assumendo per giustificazione il motto salus reipublicae suprema lex”. E sindacare lo scopo e la congruità non è certo compito del Giudice, limitandosi questo alla conformità dell’azione del potere pubblico a delle regole. Montesquieu distingueva così i tre poteri: “In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…

Per il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”. Confondere i poteri è compromettere la libertà. Permettere che un Ministro venga condannato per come ha tutelato i confini (cioè la sicurezza e i limiti territoriali) è fare politica, nel senso della potenza esecutrice del diritto delle genti” definita da Montesquieu. Ma non condivisa dai suoi sedicenti seguaci.

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Brendan O’Neill, Il Manifesto di un eretico. Saggi sull’indicibile_ recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Brendan O’Neill, Il Manifesto di un eretico. Saggi sull’indicibile, Liberilibri, Macerata 2024, pp. 167, € 16,00.

Come scrive Michele Silenzi nella prefazione «Il manifesto di un eretico è un libro insolito e inquietante. Si potrebbe definire, in estrema sintesi, una galleria di mostri generati dal sono della ragione. Solo che “i mostri” di cui il libro parla non arrivano da altri mondi, ma siamo noi, l’Occidente ripreso nel suo funzionamento pratico e quotidiano: nelle istituzioni, nelle aziende, nelle università, nei mezzi di comunicazione, nei libri, insomma, in tutto ciò che costituisce quella che chiamiamo società». E in effetti il saggio è una rassegna di idola, argomentazioni e comportamenti riconducibili al politicamente corretto ed alla sua ultima manifestazione cioè la cancel culture. La quale ha ripreso da altre epoche della storia le pratiche iconoclastiche, che hanno, come nota O’Neill, la caratteristica di contrapporre agli idoli da distruggere altri da innalzare agli altari: ma sempre di idoli si tratta. Nel quale un ruolo essenziale lo riveste il linguaggio, che tende a veicolare i nuovi valori, secondo una tattica stigmatizzata da Orwell in 1984 (la neo-lingua), ma descritta già da Tacito negli Annales, come afferma Hobbes. L’autore sostiene pertanto la necessità  di nuove eresie: di sostenere la necessità di un pensiero eretico, fondato sul dissenso e il controllo razionale.

Temi così oggetto della disamina sono tanti dal “pene di lei” (sulla fluidità sessuale) al “paradosso dell’odio” praticato assiduamente da chi dichiara “love is love” (un caso esemplare è – come oggetto di tale odio è quello contro J.K. Rowling).

Lascio al lettore del libro (peraltro denso di ironia e di piacevole lettura) esaminare gli aspetti della cancel culture. Dato che non vogliamo limitare il piacere di leggerli tutti, faccio al riguardo due considerazioni generali.

La prima. Julien Freund osservava ormai cinquant’anni orsono che il pensiero tardo moderno stava diventando razioide: ossia diveniva una caricatura del razionalismo occidentale, che aveva contrassegnato lo sviluppo e la diffusione planetaria della civiltà europea. Questo perché sotto l’apparenza di razionalità giungeva a conclusioni e affermazioni decisamente non razionali e neppure ragionevoli (come ad esempio “il pene di lei” contrario all’evidenza). Il politicamente corretto aggiunge ora ad una pretesa razionalità coniugata  una intollerante ed apodittica affermazione di “valori”.

Non è poi una novità nel governo dei popoli mutare il linguaggio e il senso delle parole: è uno strumento di propaganda, di controllo sociale e politico delle (nuove) élite sulla massa (la neo-lingua), come tanti secoli fa descritto da Tacito e valutato (positivamente) come instrumentum regni da Hobbes. Così come le pratiche di creazione di un nemico o di un’emergenza fittizia o almeno strumentalizzata o esagerata ad arte. L’autore cita un episodio della caccia alle streghe del XVI secolo per un’emergenza climatica: la strega bruciata era condannata per aver provocato tempeste nel Mare del nord.

Nulla di nuovo quindi: gli ideologi del “politicamente corretto” di oggi sono come i consiglieri del Principe di ieri contro i quali l’eresia è più che opportuna, addirittura una condizione per la sopravvivenza collettiva e a volte individuale.

Teodoro Klitsche de la Grange

Sull’Inghilterra totalitaria, di Morgoth

Sull’Inghilterra totalitaria

Il libro di Richard Adam Watership Down è tornato a occupare i miei pensieri ultimamente, mentre facevo il punto sulla situazione in Gran Bretagna. Mi aspettavo che, una volta terminate le elezioni, la politica britannica si sarebbe addormentata e che tutti gli occhi si sarebbero spostati sullo sfarzo e sulla pompa magica delle elezioni americane, ma eccoci qui. Le carceri si stanno riempiendo e si dice che i prigionieri siano stati rilasciati in anticipo per liberare le celle di coloro che hanno manifestato e protestato dopo gli omicidi di Southport. Il lettore noterà che ho inserito un goffo “presunto”, che sembra fuori luogo. L’idea è quella di concedermi un piccolo margine di manovra, un’infarinatura di copertura, sapete, per ogni evenienza. So cosa ne penso io, so cosa ne pensate voi, ma la parte che dobbiamo assicurarci non sia scontenta è il governo britannico. .

Per quanto ne so, esiste qualche tecnicismo legalistico in base al quale la semplice affermazione che il governo sta rilasciando i prigionieri per liberare spazio per i rivoltosi (che non sono riconosciuti come politici) mi farebbe cadere in fallo rispetto alle varie leggi sia esistenti che in fase di elaborazione contro la diffusione di errori, disordini o malformazioni.

Ho pensato a Watership Down per il personaggio di Blackavar. Blackavar è il coniglio ribelle che abita nella prigione totalitaria di Efrafa del generale Woundwort. Le sue orecchie sono state strappate ed è coperto di cicatrici, punizione per un tentativo di fuga. Il ruolo di Blackavar all’interno della struttura narrativa è quello di enfatizzare il potere e la brutalità del Generale Woundwort e allo stesso tempo di rappresentare l’outsider, il ribelle all’interno di un sistema totalitario. È attraverso l’oppressione di Blackavar che viene rivelata la vera natura del sistema, tuttavia egli non è del tutto una vittima passiva, ma anche una rappresentazione della futile ribellione. Nel film del 1978, muore dopo aver sferrato un ultimo disperato attacco al generale Woundwort, dove viene rapidamente sgozzato, mentre la telecamera indugia sul suo cadavere insanguinato. .

Data la quintessenza inglese e l’ambientazione, il simbolismo è azzeccato. Qui il totalitarismo esiste, ma non è circondato da ideologie del primo Novecento e da un’estetica modernista. Lo stato di polizia di Woundwort si trova tra due sentieri fiancheggiati da rovi, mentre un prato rurale inglese si trova poco distante. La terra e l’estetica sembrano familiari, ma Efrafa è in qualche modo aliena; non è molto inglese.

Questa è la bella storia che ci piaceva raccontare a noi stessi.

Pensare che il Lake District, i piccoli villaggi sulla strada costiera del Northumberland o le fattorie del Kent esistano all’interno di uno Stato di polizia fa ancora un po’ pena, sa ancora di iperbole. Non c’è dubbio che siamo più vicini a una tirannia formalizzata oggi di quanto non lo fossimo nel 1978, quando Watership Down traumatizzò i bambini. .

Non ho alcun dubbio che lo Stato britannico sappia esattamente chi sono e dove mi trovo e che possa presentarsi alla porta in qualsiasi momento. Ho infranto la legge? Non credo, certamente non intenzionalmente. Per anni ho scelto la cautela proprio perché non credo alle consolanti favole liberali del regime. Non sono coinvolto in attività reali o in gruppi politici e ho consigliato alle persone di evitare le proteste.

Ma sonoancora a chiedermi se la polizia o un’ala di un quango governativo di tipo outreach potrebbero fare una visita a prescindere. Forse si tratta di mera paranoia, e hanno cose più importanti da fare che inseguire un blogger scontroso, ma resta il fatto che opinionisti e giornalisti di destra stanno adornando i loro account sui social media con:

Nessuna delle informazioni pubblicate o ripetute su questo account è nota al suo autore come falsa, né è destinata a fomentare odio razziale o di qualsiasi tipo, né a causare danni psicologici o fisici a qualsiasi persona o gruppo di persone (comunque identificate).

È come imbrattare il proprio conto X con il sangue dell’agnello, nella speranza che l’angelo dell’applicazione tecnocratica passi sopra la propria abitazione senza fermarsi. Ancora una volta, si tratta di un’iperbole? È semplicemente un modo astuto per segnalare la propria natura ribelle e gli allori anti-establishment? Il fatto è che la gente non ha più idea di ciò che può dire o scrivere, perché anche se si evitano i campi minati di mis, dis e malformazione, si può essere accusati di “fomentare l’odio” e se si riesce a evitare anche questo, c’è sempre il “legale ma dannoso” in attesa di inciampare, come una lenza da pesca legata di nascosto attraverso un sentiero.

Le persone sussurrano tra loro, come i conigli di Efrafa. Parlano di “andarsene!” perché il loro intuito e i loro sensi dicono che il Paese sta diventando insicuro e che alla gente non è permesso discuterne.

Dopo decenni passati a lamentarsi di non essere ascoltati, i britannici hanno paura di essere ascoltati.

E ancora si aggirano stupefatti per quello che è successo, perché “Noi non viviamo così! Non è quello che succede in Inghilterra!”. Il nostro Paese di Teseo si sta trasformando gradualmente da decenni, non solo per quanto riguarda la demografia, ma anche per quanto riguarda la crescente e onnicomprensiva gonfiatura dello Stato. La classe politica e i media si rifiutano categoricamente di riconoscere i cambiamenti incrementali. Come Hatchlings, si appellano all’ignoranza e presentano quella che è la formalizzazione di un sistema autoritario come una semplice reazione di uno Stato liberale a rivolte e disordini. I mulini ad acqua adornano ancora il fiume vicino alla Cattedrale di Durham, il Vallo di Adriano striscia ancora sull’aspro paesaggio della Northumbria, ma il tessuto sociale è stato incenerito. .

Almeno, c’è un elemento di sollievo e di chiarezza per chi riesce a vederlo. La gente mi chiede se mi sono già pentito di essere stato così cattivo con i conservatori. Capiamo ora il panico? Ma il fatto è che tutto ciò che è cambiato è che la maschera clownesca dei Tory dietro cui si nascondeva il sistema è stata strappata, rivelando la sua vera natura al mondo. La mia critica ai Tory era essenzialmente quella di essere dei bugiardi truffatori. Era sempre “almeno i laburisti non fingono di essere nostri amici”, oppure “i laburisti ci pugnalano davanti, non dietro”.

Ebbene, la pugnalata viene fatta alla luce del sole, non solo dai loro clienti, ma dal governo stesso in senso metaforico.

Non mi aspettavo che la politica britannica dominasse l’intero mese di agosto, ma sembra che siamo entrati in Efrafa, e ora dobbiamo sopravvivere e, si spera, fuggire.

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Ultime cene a Paris. Testi di Andrea Zhok e Pierluigi Fagan

Aprire un dibattito è sempre un bell’invito. Non amo particolarmente questa questione di costume conosciuta come ideologia woke e già nominarla con termine incomprensibile denuncia la nostra minorità concettuale di chi deve fare i conti con pezzo di immagine di mondo che semplicemente subisce. Inoltre, non ho neanche visto questa performance inaugurale delle Olimpiadi. Tuttavia, l’argomento ha una rilevanza sull’immaginario e se si tratta di immaginario si tratta di immagine di mondo, quindi ce ne dobbiamo occupare. Che immagine di mondo promana da questo tipo di performance? Che rapporto c’è tra queste visioni di costume ed il c.d. “capitalismo”?
Tocca tornare al Cinquecento, in Francia. In quel secolo, i francesi portano avanti una novità storica decisiva, lo Stato. Lo Stato, più o meno “nazione”, nasce a fine XV secolo a seguire l’impasse della Guerra dei Cent’Anni. Soprattutto nella seconda metà di quel secolo, “emerge” a protagonista una nuova classe sociale. In realtà non era nuova, che gli abitanti dei borghi che ora diventavano sempre più città fossero diversi da contadini, aristocratici e preti era un fatto almeno da tre secoli. Ma nel Cinquecento, questa classe sociale assume un suo nuovo protagonismo e lo fa in ragione del fatto che ciò permette la transizione tra l’ordine medioevale e quello moderno. In un certo senso, si apre uno spazio dovuto al cambiamento storico, l’ordine medioevale non è più adatto alla nuova forma di questa parte di mondo (Europa occidentale), nel vuoto si intrufola la nuova classe con sue idee, istanze, ideologie, protagonismi.
L’ideologia di questa classe che si esprimerà in Francia ma anche a nome della sua versione anglosassone, ha alcune caratteristiche precise. La prima è il senso di libertà. “L’aria di città rende liberi” era un refrain già nel Trecento. Io sono e sempre vissuto a Roma, ma coloro che sono nati in qualche paesino e poi si sono trasferiti in una grande città, avranno provato questo senso diverso del fatto che nella città l’agone sociale è meno stretto ed invasivo, nessuno sta lì a controllarti chi sei, che fai, con chi vai a fare cosa. Quel materiale da “chiacchiericcio” che anima la vita delle comunità piccole. Come ogni cosa, il fenomeno ha le sue due facce. Si può godere di questa improvvisa libertà in cui improvvisamente diventi anonimo e poi magari dolere del fatto che sei improvvidamente solo, slegato da ogni legame in una società di anonimi che però tende all’anomia. Il mondo è così, meglio o peggio sono sempre dei relativi. Sta il fatto che questa classe più di ogni altra, tiene alla sua libertà ossia a non dover rispondere ad altri che non il diritto dell’individuo ad essere come vuole essere. Su tutti i piani, ma a cominciare da quello che più coinvolge la nostra complessione psico-fisica, il sesso.
Il sesso fu la forma di espressione umana tra le più coartate dall’ordimento medioevale religioso. La religione, nel caso quella cristiana, ha avuto sempre un problema specifico col sesso. La religione cristiana era arrivata a farsi ordinatore sociale principale e quindi doveva avere una sua idea di società, la società è la risultante delle interrelazioni interindividuali e queste sono di varia natura sebbene la più importante sia appunto il sesso, con chi decidiamo di provare piacere sessuale, attività che chiama alla partnership, spinge alla relazione. L’ideologia cristiana aveva quindi precise idee su come si dovessero regolare le interrelazioni sessuali arrivando addirittura a produrre una sua élite di funzionari che dichiarano di essere praticamente asessuati non potendo in teoria avere rapporti di biologia naturale con simili, sebbene poi abbiamo molto cose invece da dire a chi quei rapporti ce li ha su con chi averle, quando, come a che fine entro quali limiti etc. etc. Essendo tutti maschi ed impediti ad avere relazione sessuale naturale con le femmine, spesso finiscono a fare tra loro o con i chierichetti, ognuno ha le sue stranezze che però è bon ton sociale far finta di essere normalità a-problematica.
Così, la prima spinta alla rivoluzione dei costumi operata dalla neo-borghesia in Francia, fu sessuale, nacquero i libertini. Pochi sanno che l’intera pianta del liberalismo, nasce in verità proprio dal libertinismo, Micheal de Montaigne e Pierre Gassendi, sull’onda di quella transizione tra medioevo e moderno in cui declina l’immagine di un mondo ordinato a garantito da Dio ed emerge un nuovo modo di stare al mondo che responsabilizza l’uomo individuale chiamato a farsi il suo destino. La libertà sessuale e dei costumi diventa la prima bandiera a scendere nella piazza sociale per promuovere il cambiamento.
Accanto a questa rivendicazione di libertà ne compaiono altre due poiché agli esseri umani le trinità piacciono in particolar modo, fanno “ordine mentale”. Uno è noioso, Due è già più mosso (dialettico) ma poco creativo, tre è complesso.
La seconda rivendicazione era in realtà anche più antica e derivava da quel frame storico della rivolta baronale inglese che conosciamo come Magna Charta in quel del 1215. Questa classe non capisce perché deve pagare le tasse. Poiché alfieri del loro individualismo egoico, tendono a dimenticare e quindi sottovalutare quanto del loro essere individuale dipenda comunque sia dal loro essere sociale. Dalla Magna Charta all’anarco-capitalismo, passando per l’odio per lo Stato che fa da esattore, i libertini ora liberali, non ritengono di dover ridare indietro la questo societaria poiché tendono a minimizzare il valore del fatto che comunque sia, vivono “in” e “di” società.
La terza rivendicazione venne pronunciata sempre da un francese ma il tema fu anche più caro agli inglesi. La frase era: “Laisseznous faire”, data dal mercante Legendre al ministro J.-B. Colbert (1619-1683) che chiedeva cosa si poteva fare per aiutare il commercio. Lasciateci fare, non vi impicciate che fate solo danni, noi sappiamo come si fa ovvero basta non fare niente e lasciare che i liberi spiriti animali umani individuali abbiano il sopravvento. Da cui la paginetta scarsa dell’Inquiry di Adam Smith, col lattaio ed il macellaio da cui la “mano invisibile” e molto altro. Non solo c’è questa precisa indicazione operativa, c’è in fondo una preferenza ordinativa. Ai liberali non piace essere sottomessi a persone, preferiscono i processi forse perché sono impersonali e più aperti all’individuale merito. C’è chi ha Putin o Xi Jinping ed il PCC e c’è chi preferisce il capitalismo. Gli inglesi ci fecero su quella che chiamarono “Gloriosa rivoluzione”, in colpo di stato che sovvertì le prerogative del monarca (la monarchia è una istituzione franca, mai amata davvero dagli inglesi), dando tutto il potere al parlamento delle élite. Tra cui il potere decisivo a chi, come e quanto far pagare le tasse. Quelle che i più traviati dalla letteratura marxista chiamano “capitalismo” che invero non è affatto una forma economia ma politico-economica, nacque lì a fine Seicento.
Insomma, la trinità ideologica borghese, poi liberale, è libertà individuale assoluta (sciolta da ogni legame), libertà dal pagamento degli oneri sociali in quanto non si ritiene di dipendere dalla società in alcun modo, libertà dell’essere ordinati da un processo a cui tutti possono partecipare con propri meriti e demeriti.
Ci si può allora domandare: ma perché dare a questa nota e ormai antica narrazione il ruolo di manifesto ideologico per aprire a Parigi una Olimpiade? Si sa, i francesi ritengono di essere i custodi valoriali della modernità, in termini di “valori” è roba loro sebbene in realtà lo sia più nitidamente degli inglesi.
Credo che il riproporre il mito delle origini sia un segno di quanto si tema che il periodo storico basato su quelle origini sia in pericolo di “finale di partita”, direbbe Beckett. Siamo in una nuova, potente transizione storica, il moderno è finito, il periodo successivo al momento non ha ancora nome ma ogni giorno ha sempre più sostanza, questione di tempo affinché la cosa abbia il suo nome. Quando il vecchio sta morendo ed il nuovo stenta a nascere, nelle transizioni (ed infatti il manifesto concettuale anche dal punto di vista dell’immaginario sessuale è il transitare in non essere in nessun genere o specie precisa) c’è confusione, smarrimento timore, incertezza, paura.
Dovremmo forse però occuparci noi tutti un po’ di più del mondo nuovo e lasciare il vecchio ai suoi tormenti esistenziali. Più tempo ci metteremo a dar l’avvio ad un modo nuovo di abitare il mondo nuovo, più tempo ci toccherà avere a che fare con la triste rievocazione dei fondamenti dell’era che si allontana alle nostre spalle. Cercasi nuova visione del mondo evitando il rimbalzo per il quale oggi spuntano fuori addirittura i paladini del modo più antico, quello religioso. Il futuro non è scritto chi ha mente e pennino cominci a buttar giù idee che il tempo del cambiamento pressa.
Intorno alle scelte coreografiche della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi si è già detto e scritto molto. E tuttavia ho l’impressione che il tema non sia stato inquadrato in maniera ben centrata.
L’argomento centrale che è stato sollevato dai critici mette in particolare rilievo l’aspetto offensivo, lesivo dei costumi morali e delle credenze religiose altrui. E non c’è dubbio che qui vi siano stati elementi degni di contestazione. Questo non tanto per la natura delle espressioni – pochi oggi si scioccano per provocazioni grottesche come la drag queen barbuta che si affaticava in divincolamenti vari per apparire sessualmente sfidante. Non la natura delle manifestazioni, ma il CONTESTO in cui sono state proposte, ha un carattere oggettivamente offensivo.
Trattandosi dell’inaugurazione di una manifestazione sportiva mondiale, che abbraccia paesi di ogni continente ed emisfero, di culture e sensibilità differenti, mettere in scena qualcosa il cui unico senso possibile – nella più benevola delle interpretazioni – era quello di una “provocazione culturale” era intrinsecamente inappropriato. E sarebbe dovuto risultare fuori luogo a chiunque, quali che fossero le proprie convinzioni, nel momento in cui avesse preso sul serio la dignità di culture diverse dalla propria. Anche ammettendo che quelle sceneggiate fossero “rappresentative della propria cultura”, non si capisce esattamente a che titolo un paese ospitante dell’evento olimpico debba sentirsi in diritto di impartire “provocazioni” per “educare gli altri all’emancipazione” (ammettendo che questa sia l’idea che abbia attraversato l’open space in cui risiede comodamente il cervello degli organizzatori.)
Peraltro, – continuando nella sforzo di un’interpretazione benevola – se l’idea fosse stata quella di “indurre ripensamenti nei paesi meno emancipati attraverso delle provocazioni”, francamente mi chiedo se qualcuno si sia posto il problema della “ricezione del messaggio”. Se, per dire, si voleva “stimolare un ripensamento” in qualcuno come la rappresentanza del Sudan (dove mi risulta esistere una legislazione intollerante nei confronti dell’omosessualità), esattamente chi è quel genio della comunicazione che ha pensato che promuovere in mondovisione provocazioni postribolari, tipo la simpatica drag queen barbuta, avrebbe fatto guadagnare punti presso il pubblico sudanese ad un atteggiamento di normalizzazione delle “disposizioni non ortodosse”? Non so, ma a me pare che l’unico risultato ottenibile attraverso quella provocazioni, può essere stato soltanto quello di consolidare nei paesi meno tolleranti le ragioni degli intolleranti; sbaglierò, ma temo che il sudanese medio, dopo aver visto le sceneggiate parigine sarà semmai un po’ più propenso di prima a rigettare tutto ciò che odora di libertarismo occidentale.
Quindi, sì, ci sono state buone ragioni per ritenere che quelle scelte coreografiche siano state offensive: non solo offensive nei confronti di credenze religiose altrui, ma più in generale offensive per l’atteggiamento di mancanza di rispetto che trasuda in chi vuole farti lezioncine morali a colpi di “provocazioni”.
E tuttavia non mi pare che sia questo il cuore problematico di ciò che abbiamo visto l’altro giorno a Parigi.
Nell’odierna atmosfera “politicamente corretta” le regole del gioco tendono in effetti ad incentivare l’atteggiamento di “offesa risentita”. È tutta una gara a chi si sente più offeso, più ferito nella propria sensibilità, e praticamente l’unico modo per legittimare un discorso pubblico è oramai quello di presentarsi come vittima vulnerabile di un attacco altrui.
È per questo motivo che si è spinto molto, sin dal primo momento, il tasto dell’offensività ai credenti rappresentata dalla “parodia dell’Ultima Cena”. Perché così si poteva giocare a carte invertite il gioco del politicamente corretto: “Ecco, questa volta è la mia sensibilità di credente ad essere toccata!”
Ma si tratta di una difesa oramai molto fragile nel mondo occidentale. Dopo tutto chi crede che la Chiesa odierna possa percepirsi davvero offesa da alcunché sul piano rappresentativo? E in effetti il Vaticano ha borbottato una protesta a mezza bocca, perché dopo tutto sa benissimo di avere oggi, come “detentrice di un credo forte”, una credibilità bassina. Credenze annacquate in una cornice di costumi annacquati e con una tradizione sempre più incerta non possono recitare facilmente il ruolo della Dignità Spirituale Offesa.
Dunque, in generale, io non batterei il tasto sulla questione dell’Offesa alle Credenze Altrui, che pure visto il contesto ci sono state. E non credo che sia il caso di giocare a parti invertite lo stesso gioco del politicamente corretto, chiedendo sanzioni, censure, e simili. A me va benissimo che un creativo di regime sia libero di fare l’ennesima stanca parodia dell’Ultima Cena, purché gli si possa con altrettanta libertà dire che è, tecnicamente, un mentecatto.
A mio modesto e trascurabile avviso, ad essere particolarmente preoccupante è un’altra cosa. Non il tema di chi ha più o meno diritto a sentirsi offeso – per quanto la mancanza di rispetto culturale sia stata evidente. Ciò che io trovo tragico è che una tale grottesca rappresentazione sia stata escogitata, e poi anche difesa, come una legittima autorappresentazione culturale dell’Occidente. Non solo è parso ad un gruppo di persone, si presume colte, dell’establishment culturale francese pensare che una tale pila di spazzatura potesse essere un’operazione culturalmente commendevole, ma moltissimi altri rappresentanti della cultura francese ed europea hanno ritenuto che una cosa del genere fosse “una originale provocazione”, uno “stimolo a pensare”, una “espressione di libertà”, una “sfida al conservatorismo”, ecc. ecc.
Senza tante parole, basta mettere una accanto all’altra la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino 2008 con la cerimonia di Parigi 2024 per vedere plasticamente il contrasto tra una cultura in fase ascendente ed una in fase decadente.
Nella prima spettacolarità, grazia, cura, coralità, precisione, originalità, potenza si fondevano nell’autorappresentazione di una nazione che percepisce di avere un futuro ricco di possibilità davanti a sé. Nella seconda troviamo grottesche provocazioncelle da liceali e imprestiti dalla cultura pop più commerciale, che segnalano una cultura enervata, esaurita, che cerca di sollecitare artificialmente i propri nervi stanchi e ammanta la propria impotenza creativa di “libertà dai condizionamenti”.
Nelle ore in cui si svolgeva la cerimonia d’apertura a Parigi mi trovavo ad Orvieto, a visitarne il meraviglioso Duomo, costruito nell’arco di 3 secoli (1290-1591). Un progetto secolare non è né nel mondo antico, né nel Medioevo un caso isolato. Molto del nostro patrimonio architettonico storico è frutto di un lavoro secolare, che coinvolgeva in un’unità d’intenti generazioni di artisti, politici, mecenati. E chi ne esplora l’incredibile ricchezza, la straordinaria cura, l’attenzione al messaggio, la quasi soprannaturale capacità di esprimere e mantenere il gusto estetico, chi nota tutto questo vede i segni di una civiltà che era in grado di creare per i secoli, di preparare case e radici per le generazioni a venire, sentendosi intanto erede di un passato profondo.
Noi, abitanti dell’Occidente contemporaneo, abbiamo invece la patetica presunzione di guardare a quel passato dall’alto verso il basso, pensando che vivere in un mondo in cui c’è la penicillina ci renda automaticamente un’umanità migliore. L’atteggiamento culturale che si manifesta in eventi come la cerimonia di Parigi, è l’analogo dell’atteggiamento di un medio adolescente disagiato, che pensa che libertà sia qualcosa come “dire le parolacce” e ridacchiare di tutto ciò che non si capisce (cioè, più o meno, di tutto senza resti). Questa cultura e civiltà, che lo sappia o meno, è in caduta libera e destinata a sparire, per essere rimpiazzata da forme di vita più strutturate, probabilmente non autoctone. Ciò che ci resta – per chi ne è ancora capace – è forse solo fare come i monaci benedettini: dedicandosi a preservare il meglio di una civiltà – che pure ha prodotto cose importanti – per generazioni future capace di riesumarle e rivitalizzarle.

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Omelette con gusci d’uovo: Sul fallimento della sinistra millenaria_di Alex Hochuli

Con questo secondo articolo, assieme ad altri che seguiranno, cercheremo di illustrare il dibattito in corso nel continente americano e negli stessi Stati Uniti sulla sinistra e l’area radicale, in particolare sulla condizione della sinistra radicale statunitense. Giuseppe Germinario

Omelette con gusci d’uovo: Sul fallimento della sinistra millenaria

SAGGIO DI RASSEGNA
La morte della sinistra millenaria: interventi 2006-2022
di Chris Cutrone
Sublation, 2023, 293 pagine

If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution
di Vincent Bevins
PublicAffairs, 2023, 352 pagine

Il momento populista: The Left after the Great Recession
di Arthur Boriello e Anton Jäger
Verso, 2023, 224 pagine

Abbiamo fallito. Noi millennial abbiamo perso un’opportunità politica storica nel lungo decennio successivo al crollo del 2008. “Almeno ci abbiamo provato”, potremmo dire con un po’ di giustizia. Dopo tutto, la generazione che è diventata maggiorenne negli anni ’90 non ha fatto nemmeno quello. Ma, cresciuti come eravamo con i tropi dei reality TV sui partecipanti che risorgono dall’oscurità e fanno il loro drammatico tentativo di successo – una generazione i cui coetanei più anziani potrebbero certamente recitare a memoria i testi di Eminem sulla possibilità di avere solo una chance – ci saremmo aspettati di meglio. D’altra parte, siamo anche la generazione dei trofei di partecipazione.

Il 2010 è stato il decennio della protesta, il decennio populista, in cui si è conclusa la “fine della storia” dei lunghi anni Novanta. È stato un momento proto-rivoluzionario, per quanto possa essere sconcertante o “sgradevole” pensare in questi termini.

Un cambiamento politico consapevole e voluto non arriva all’improvviso, ma non è nemmeno il solo prodotto di una costruzione incrementale. È il prodotto sia dell’organizzazione che della spontaneità. I marxisti lo sanno da tempo, motivati dalla nozione di preparazione, in attesa della prossima crisi. Lo sapevano anche i neoliberali originali, la cui Mont Pelerin Society ha gettato le basi intellettuali per un nuovo ordine politico-economico con decenni di anticipo rispetto alla crisi del fordismo-keynesiano degli anni Settanta. In effetti, in una notevole salva di due millennial di sinistra, Nick Srnicek e Alex Williams, gli autori hanno esortato la sinistra a imitare la Mont Pelerin Society – ad attrezzarsi e ad aspettare un’opportunità. Pubblicato nel 2015, Inventing the Future era già troppo tardi per il periodo immediatamente successivo al 2008 e per l’ondata di proteste che ha generato. Il momento era già arrivato: quell’anno Jeremy Corbyn è diventato leader del partito laburista britannico e Bernie Sanders ha iniziato la sua prima campagna per la presidenza. Nel Paese in cui la crisi era più acuta, dove la contestazione politica ha raggiunto il suo apice, il populismo di sinistra ha fallito la sua grande prova: nello stesso anno Syriza ha capitolato in Grecia.

Per questa generazione sembrava che la crisi arrivasse sempre troppo presto: eravamo sempre impreparati, sia nelle idee che nell’organizzazione. Non sapevamo cosa ci avesse colpito; nessuno ci aveva detto che la politica era così. La Generazione X è stata la generazione che ha assorbito i fallimenti dei boomers e della Nuova Sinistra; è stata la generazione della fine della storia. Così i millennial hanno dato per scontato un mondo senza politica , finché questo non è stato improvvisamente messo in discussione negli anni 2010. In termini di trasmissione di idee derivate dall’esperienza, un abisso ci separa dalle precedenti ondate generazionali di attivismo, dalla Nuova Sinistra degli anni Sessanta e, prima ancora, dalla Vecchia Sinistra degli anni Venti e Trenta. Non c’era nessuno a tenerci la mano. Eppure, il nostro fallimento potrebbe rivelarsi una conseguenza del fatto che siamo stati troppo legati al passato, senza nemmeno saperlo.

La sinistra millenaria può essere periodizzata in tre fasi. La sua preistoria riguarda il movimento contro la guerra degli anni 2000. L’elezione di Obama e il crollo del 2008 hanno messo fine a un movimento già privo di energia e di attenzione. La seconda fase è stata segnata da proteste di piazza e occupazioni di massa; l’opposizione al “capitalismo” in quanto tale è tornata alla ribalta. Ricordo di aver pensato, all’epoca, che l’appello di Occupy Wall Street al 99% sembrava preannunciare una svolta, un’ apertura alla maggioranza dei cittadini, al popolo, dopo decenni in cui essere di sinistra significava appartenere a una sottocultura minoritaria, lontana e contraria alla società tradizionale. La protesta divenne più frequente, ma anche disorganizzata e priva di leader, per cui le manifestazioni e le occupazioni tendevano a esaurirsi, oppure a essere cooptate o aggirate. La seconda metà del decennio rappresenta la terza fase, in cui i millennial hanno iniziato a fare i conti con il potere. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, millennial di sinistra come il redattore di Jacobin Bhaskar Sunkara o Aaron Bastani di Novara Media hanno iniziato a parlare di vittoria. Sembra così ovvio ora, ma la nozione stessa di vittoria era un’idea nuova per una generazione per la quale il potere era quasi una parola sporca. John Holloway (che non è un millennial) ha persino scritto un libro molto apprezzato dai giovani della Gen X e dai Millennial più anziani, intitolato Cambiare il mondo senza prendere il potere.

Cosa mostra il bilancio degli anni 2010? L’ondata di protesta globale che ha seguito la crisi finanziaria, dai centri nevralgici del capitalismo globale alle languenti periferie, è stata per lo più “non ideologica”, il divorzio dalle tradizioni precedenti evidenziato dalla sua proposta principale: il rifiuto delle vecchie élite corrotte, della classe politica, dell’establishment, della casta. La destra millenaria ha fatto altrettanto, naturalmente, e con maggior successo. In proteste amorfe, senza leader, aperte a tutti, la destra ha mobilitato un’antipolitica più efficace. Vale la pena ricordare che Leszek Kołakowski definiva la destra per la sua mancanza di utopismo, caratteristica che contraddistingueva la sinistra, e quindi identificava la “destra” essenzialmente con l’opportunismo. Di conseguenza, la spada del giudizio cade necessariamente più pesantemente sulla sinistra.

Il risultato di questo pasticcio antipolitico è stato quello di lasciare i Paesi in condizioni peggiori di quelle in cui erano partiti. Alcuni sono sfociati in una sanguinosa guerra civile (Siria, Ucraina), altri in una terribile restaurazione (Egitto, Brasile). Anche negli scenari migliori, il cambiamento è stato lento e fragile (Tunisia, Corea del Sud).

Per altri, l’epilogo sarebbe stato più lungo e quindi più tragico. In Grecia, Spagna e Cile, gli attivisti sono passati direttamente dalle strade alle sale del potere, cercando di istituzionalizzare le loro richieste. In quest’ultimo caso, la grande promessa che il neoliberismo sarebbe morto proprio nel Paese in cui era stato attuato per la prima volta non è stata mantenuta. Una sinistra allegra ha sovraccaricato una proposta di costituzione con le sue preoccupazioni, e le masse cilene l’hanno respinta. In Spagna, gli Indignados che occupavano le piazze hanno dato vita a un vero e proprio partito, Podemos. È finito come junior partner di coalizione proprio di quel partito, il PSOE, che riteneva responsabile della svolta neoliberista e che intendeva scalzare. Il tradimento di Alexis Tsipras ha rappresentato un momento decisivo , un “colpo alla sinistra più grande della Thatcher”, secondo la valutazione dell’ex ministro delle Finanze di Syriza Yanis Varoufakis, che ha visto tutto dall’interno.

La Grecia è solo un caso estremo di ciò che è accaduto in tutto l’Occidente e oltre: una popolazione stremata dall’austerità neoliberista e arrabbiata per la mancanza di responsabilità democratica e di partecipazione significativa era pronta, finalmente, ad abbandonare il vecchio e a giocare per il nuovo. Il momento era arrivato. E la sinistra millenaria non era in grado di guidare. In un primo momento, ha rifiutato l’idea stessa di leadership. Poi, in un secondo momento, ha rifiutato il tipo di rottura necessaria per una seria riforma. La sua impreparazione – qualcuno direbbe opportunismo – ha riportato la sinistra nella posizione marginale e subculturale da cui aveva cercato di fuggire.

La Grecia fornisce ancora una volta un esempio cristallino. Nel secondo mandato di Syriza, dopo aver ingoiato il micidiale memorandum della Troika, voltando così le spalle alla maggioranza dei cittadini che avevano rifiutato l’austerità e i diktat dell’Eurogruppo e delle istituzioni finanziarie internazionali, il partito si è dedicato a battaglie facili come la “guerra morale” contro la corruzione e le riforme postmateriali su sessualità, genere e così via. Si è preoccupato di attuare l’austerità in modo “sensibile”. Rifiutando il settarismo della vecchia sinistra, il partito voleva essere pragmatico. Ma in modo straordinariamente rapido, “osiamo governare” è diventato “governiamo ad ogni costo”. Questo potrebbe essere l’epitaffio del populismo di sinistra, ben oltre la Grecia.

In ultima analisi, la sinistra è diventata l’ultimo difensore del neoliberismo, non il suo becchino. Con tutte le sue denunce, era incapace di immaginare qualcosa di diverso? Troppe delle sue pratiche riflettevano alcune delle peggiori caratteristiche dell’ordine attuale: il breve termine, la tendenza a non promuovere i programmi politici, l’organizzazione di massa e la costruzione delle istituzioni, l’affidamento ai media e ai leader carismatici. Ecco perché gli anni 2010 rappresentano un’occasione storica mancata: quando, per la prima volta dopo decenni, in mezzo a segnali di rivolta di massa, le forze apparentemente utopiche hanno cercato di cambiare il contenuto della politica senza mettere in discussione il guscio neoliberale che la conteneva , per fare una frittata senza rompere le uova.

Nel 2023 sono usciti tre libri che tentano di fare i conti con questa storia. The Death of the Millennial Left di Chris Cutrone è esplicito nel pronunciare la fatalità. Cutrone si propone di dimostrare come il fallimento di questa generazione sia il prodotto di sconfitte passate e delle cattive idee che ha interiorizzato. If We Burn del giornalista Vincent Bevins ricostruisce la narrazione della protesta di strada globale, prendendo di mira l'”orizzontalismo” dei movimenti, che ritiene responsabile della “rivoluzione mancata” del sottotitolo del libro. The Populist Moment (Il momento populista ) di Anton Jäger e Arthur Borriello si occupa della terza fase, in cui la sinistra si è rivolta alla politica elettorale. Il libro analizza le contraddizioni della “scommessa populista”, del tentativo di vincere senza l’infrastruttura sociale di cui disponevano le precedenti generazioni della sinistra.

Nel loro insieme, le tre opere illustrano non solo come la protesta e il populismo siano stati caratterizzati da cicli interni di crescita e decadenza, ma anche come il momento storico appena trascorso abbia rappresentato una vera e propria apertura, attraverso la quale non siamo riusciti a passare. Per quelli di noi che sono cresciuti nel gelo profondo della fine della storia, chiedendosi se ci sarebbe mai stata di nuovo la politica, se gli esseri umani avrebbero mai potuto raggrupparsi, ribellarsi e cercare di cambiare le cose, riflettere sugli anni 2010 invita a una certa amarezza. Dovremmo essere arrabbiati. Gli anni 2010 ci hanno regalato masse nelle strade e rivolte alle urne, e siamo finiti forse peggio del punto di partenza. Ma come sempre, la vera catastrofe sarebbe non imparare nessuna lezione, o imparare quelle sbagliate.

Elegie millenarie

In Se bruciamo, Vincent Bevins, ex corrispondente in Brasile e poi nel Sud-Est asiatico per importanti giornali statunitensi, tesse una narrazione dal gennaio 2010 al gennaio 2020 che lega insieme le proteste di massa in Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Corea del Sud e Cile. Attraverso interviste a chi era presente, nelle strade di San Paolo o in piazza Tahrir o Maidan, Bevins racconta la storia del decennio che “ha superato qualsiasi altro nella storia della civiltà umana per numero di manifestazioni di massa in strada”.1 Il metodo di Bevins è “giudicare i movimenti in base ai loro obiettivi”. Così apprendiamo che sette di questi casi hanno avuto un destino peggiore del fallimento. Più che una semplice classifica, l’autore, nei capitoli iniziali e finali, traccia anche i modi in cui la storia intellettuale ha plasmato la protesta, attraverso la tensione tra verticalismo e orizzontalismo, tra gerarchia e auto-organizzazione spontanea, e su questioni di rappresentazione, significato e mediazione tecnologica.

Adeguandosi a ciò che i media tradizionali hanno trattato come protesta guidata dai social media, Bevins satireggia l’immaginario corso della vita delle proteste del 2010 nello stile di un tweet2:

(1) Le proteste e le repressioni portano a una copertura mediatica favorevole (sociale e tradizionale).
(2) La copertura mediatica porta più persone a protestare
(3) Ripetizione, fino a quando quasi tutti protestano
(4) ???
(5) Una società migliore

Questa ingenuità attraversa le proteste in luoghi diversi come il Cile, la Turchia e Hong Kong, forse un prodotto di una generazione post-storica che pensava davvero che se si fosse riunita abbastanza gente e si fosse gridato abbastanza forte, sarebbero accadute cose buone. O come ha spiegato il popolare blogger egiziano “Sandmonkey”, con un riferimento al Signore degli Anelli, lui e coloro che hanno combattuto in piazza Tahrir credevano che quando Sauron fosse stato sconfitto, tutto il male sarebbe semplicemente scomparso dalla terra. Se ci si sbarazza di Mubarak, si creano cose buone. Nelle circostanze più tragiche (Libia, Siria, Ucraina), una protesta è diventata una sorta di rivoluzione, che è diventata una guerra civile, che è diventata un sanguinoso pantano internazionale: “eravamo molto lontani dal mondo digitale che i leader occidentali avevano previsto. Cose brutte stavano accadendo tutt’intorno, e la sensibilizzazione era ben lungi dall’essere sufficiente a fermarle”, afferma Bevins in modo toccante.3

La politica aborre il vuoto. Chi è più organizzato o più potente di voi riempirà il vuoto. Se non parli per te stesso, per dire ciò per cui sei, lo farà qualcun altro”. Tutte le proteste che Bevins ricostruisce “iniziano con qualcosa di molto specifico; poi esplodono per includere tutti i tipi di persone, accogliendo numerose visioni in competizione o addirittura contraddittorie; infine, la risoluzione impone ancora una volta un significato molto specifico. Nel mezzo, si presentano infinite possibilità “4.

Anton Jäger e Arthur Boriello – che come Bevins sono dei millennials  riprendono il filo del discorso nel momento in cui i manifestanti decidono di ricorrere a mezzi elettorali. Concentrandosi sull’Europa occidentale e sul Nord America (Bevins è più interessato al mondo al di là del nucleo centrale), gli autori ritraggono quello che sembra essere un brusco cambiamento di rotta: da manifestazioni non organizzate e libere, con ogni richiesta sotto il sole e nessuna, a partiti politici formali in lizza per il governo attraverso le elezioni. “Svilupparono un sincero interesse per il potere, perché non credevano che si potesse “cambiare il mondo” senza prenderlo”. Erano seriamente intenzionati a organizzarsi in partiti, ma, come scopriamo, erano frenati da un mondo in cui il potere dei partiti in quanto tali era indebolito.

Alcuni hanno creato un nuovo partito dal nulla, come gli accademici dell’Università Complutense di Madrid che hanno dato vita a Podemos; altri hanno trasformato partiti esistenti, come Jean-Luc Mélenchon in Francia, che ha preso parti del Front de Gauche per generare La France insoumise (LFI; “France Unbowed” in inglese). Nei Paesi privi di sistemi elettorali proporzionali, i populisti di sinistra si sono avvalsi della via dell’insider: tentare di rilevare i partiti mainstream esistenti, come i Democratici o i Laburisti. Tutti, però, condividevano la stessa “grammatica politica”: orientarsi intorno al “popolo”, scartando la vecchia sinistra che si concentrava sulla “classe operaia”.

Questo abbandono del tradizionale simbolismo di sinistra è stato un tentativo di rispondere a due crisi, “una breve storia di contenuti e una lunga storia di forme”, come dicono Jäger e Borriello: la crisi economica e l’austerità, e la crisi più a lungo termine della politica, della rappresentanza e dell’organizzazione – in una parola, il “vuoto” tra Stato e cittadini che il compianto politologo Peter Mair ha rivelato.5 Ciò che diventa chiaro è che il “populismo” in questione si riferisce a una strategia perseguita all’interno della sinistra come risposta a questa crisi della politica: “Tutti speravano di ripensare e rianimare la sinistra adottando un’identità populista , sia attraverso l’installazione di nuove e dinamiche macchine di partito, sia attraverso l’acquisizione di partiti sclerotici già esistenti”.6 Dovremmo quindi parlare di una sinistra populista, piuttosto che di sinistra-populista.

Tutti i casi di Jäger e Borriello sono passati attraverso lo stesso processo di costruzione del popolo come soggetto politico e di ricerca di un leader carismatico che ne incarnasse le speranze, i sogni e le richieste. Tutti hanno cercato una partecipazione di massa trasversale alle classi, ma con un’enfasi particolare sulle seguenti: la generazione perduta (giovani, istruiti, “outsider connessi”); la classe media schiacciata che aveva votato per i neoliberali progressisti della Terza Via nei decenni precedenti, ma che ora temeva di unirsi ai “nuovi poveri” dei disoccupati di lunga durata; e la classe operaia industriale sopravvissuta. È stata la relativa assenza di quest’ultima a rivelarsi più dannosa per la scommessa della sinistra populista.

In effetti, il contributo più forte del libro consiste nel rendere evidente questa tensione tra populismo di sinistra e socialdemocrazia: il populismo nasce quando manca l’organizzazione necessaria alla socialdemocrazia. Oggi mancano i sindacati, le sezioni di partito, le associazioni civiche, i club sportivi e simili che formavano una fitta rete di associazioni che fornivano la zavorra per la politica socialdemocratica. In particolare, il libro non presenta una discussione sostenuta sui programmi, riflesso, sicuramente, di piattaforme che, sebbene promettessero molte politiche decenti, avevano poca della coerenza necessaria per unificare visione e politica in una sola.

Così, pur rifuggendo dall’orizzontalismo delle proteste dei primi anni 2010, le strategie elettorali della sinistra populista erano ancora confuse da problemi molto contemporanei. Tra la leadership al vertice e le masse di potenziali elettori non c’era nulla, un grande vuoto. Per tutta la novità del populismo di sinistra, emerge un quadro in cui nulla è davvero nuovo, come i due anziani rappresentanti che le sinistre anglo-americane hanno adottato come rispettivi portabandiera.

L’ispirazione intellettuale è venuta dall’America Latina. Il teorico argentino Ernesto Laclau è stato il pensatore che ha esortato le sinistre ad abbandonare la retorica e il simbolismo del proletariato a favore di un “popolo” che sarebbe stato costruito discorsivamente, in opposizione e in contestazione con le élite. Si trattava di un adattamento a un contesto sudamericano in cui la classe operaia formale era una piccola minoranza tra le masse lavoratrici, e quindi in cui i sindacati industriali non potevano servire come elementi costitutivi dell’organizzazione di partito. L’influenza è stata più consapevole in Spagna, dove la “latinoamericanizzazione” è stata un obiettivo esplicito di Podemos e ganar (vincere) è diventata una parola chiave di un “populismo senza scuse”.

Ma non hanno vinto. Tutti hanno attraversato lo stesso ciclo: una prima svolta elettorale, che ha generato grandi aspettative, seguita da un periodo di istituzionalizzazione segnato da scandali o tensioni interne. Il ciclo si chiude poi con un relativo fallimento che porta a un ridimensionamento delle ambizioni. Le campagne della sinistra populista, proprio come le proteste di massa che le hanno fatte nascere, sono state confuse da un vuoto, dove avrebbero dovuto esserci le organizzazioni di mediazione e la classe operaia organizzata che avrebbe potuto dare loro peso e forza. Hanno cercato di fare “socialismo senza le masse”, e hanno fallito.

Dei tre libri, è nel contributo di Chris Cutrone che questo punto viene maggiormente sottolineato. Cutrone è il “principale organizzatore originale” della Platypus Affiliated Society, un gruppo il cui nome riflette la sua idea centrale: se oggi dovesse emergere un’autentica sinistra marxiana, sarebbe irriconoscibile, non classificabile. Questo perché, secondo Cutrone, la sinistra stessa è diventata così distorta dall’esperienza della sconfitta che difficilmente riconosce le proprie tradizioni. Non sorprende che per un gruppo che dichiara che “la sinistra è morta”, esso sia per lo più disprezzato dai compagni di sinistra (i consensi in quarta di copertina sono – ilari – tutti di condanna).

Il libro di Cutrone si distingue in questo trio perché non è un resoconto retrospettivo, ma “una cronaca continua dei momenti chiave [della sinistra millenaria]”, composta da saggi polemici contemporanei pubblicati originariamente tra il 2006 e il 2022 e ora riuniti dall’editore di Sublation Doug Lain. Si tratta di una “storia involontaria della sinistra millenaria”.

In un saggio del 2009, Cutrone sottolinea l’assenza di una sinistra che possa essere significativamente criticata e spinta in avanti. Tuttavia, la crisi globale ha fornito “un terreno migliore per la sinistra rispetto alle guerre statunitensi degli anni 2000. La questione del capitalismo è riemersa”.7 Ma la sinistra pensava che l’era neoliberista potesse essere semplicemente invertita con politiche progressiste, riflettendo il fatto che non aveva mai compreso adeguatamente la crisi dello Stato keynesiano-fordista e quindi le ragioni per cui il neoliberismo rappresentava una sorta di soluzione. Inoltre, lo status quo ante a cui la sinistra millenaria si appellava – l’ insediamento socialdemocratico  non era stato progressivo ma piuttosto regressivo in termini di emancipazione sociale. Leggendo la storia in avanti, il Grande Compromesso del dopoguerra – i lavoratori ottengono salari più alti e welfare in cambio di non agitare la barca – è stato una sconfitta dal punto di vista dei sogni del socialismo tra le due guerre, per non parlare di quello del XIX secolo.

Osservando la prima campagna di Sanders, Cutrone si chiede se rappresenti una potenziale svolta politica o piuttosto “l’ultimo sussulto dell’attivismo di Occupy” prima di crescere e unirsi all’ovile dei Democratici. Allo stesso modo, osservando la Primavera araba in un saggio intitolato “Un grido di protesta prima della sistemazione?”, Cutrone confronta le proteste degli anni Sessanta e quelle del 2010 e avverte che la rivoluzione potrebbe non essere quella desiderata dai manifestanti, ma “piuttosto quella che ha usato il loro malcontento per altri scopi”. Entrambi si sono dimostrati corretti, anche se i costi di essere smentiti quando si è pessimisti sono molto più bassi di quando si è ottimisti.

Per tutta la ricerca di Cutrone e la profonda critica storica di una sinistra millenaria i cui fallimenti sono mere iterazioni di fallimenti precedenti, si rimane con un senso di qualcosa di stranamente apolitico, o di ciò che Marx chiamava “indifferentismo politico”.8 Se ogni lotta è corrotta dalla sua natura limitata e complice, allora cosa dovrebbe fare Cutrone per la sinistra millenaria – a parte leggere i classici? Sì, la sinistra millenaria ha giocato male le sue carte, ma almeno si è seduta al tavolo e ha giocato a poker online , e non alla quadriglia o alla speculazione o a qualsiasi cosa fosse in voga nel XIX secolo.

Ora ci troviamo di fronte al pendolo della politica capitalista che si allontana da un periodo di “libero mercato” e si dirige verso uno “stato-centrico” , tornando alla “regolamentazione governativa dopo il neoliberismo, ma in condizioni peggiorate”. Cutrone è triste e vede i momenti liberali e cosmopoliti come più propizi. Questo è sicuramente sbagliato: i periodi di capitalismo più “pubblico” permettono di contestare ciò che lo Stato promette ma non mantiene.9 Negli ultimi quarant’anni si è assistito all’assenza di promesse in cui la responsabilità dei risultati è stata esternalizzata ai singoli cittadini. Questo cinico privatismo è un’abdicazione dell’autorità da parte delle élite politiche. Il risultato è stato una cittadinanza che opera con aspettative estremamente ridotte. La sinistra millenaria ha almeno cercato di suscitarle, per quanto in modo limitato e retrospettivo.

Per una nuova generazione di sinistra che cerca di rispondere alla protesta di massa e alle rivolte delle urne si pongono quindi quattro problemi: l’organizzazione, i media, la rottura e la tradizione.

Il problema dell’organizzazione

Cutrone osserva che le proteste degli anni 2010, come quelle della sinistra degli anni ’90, si sono intese come “resistenza”, piuttosto che come tentativo di far passare le riforme, per non parlare della rivoluzione. Questo atteggiamento difensivo spiega in parte la forma organizzativa che l’ondata di proteste ha assunto: orizzontale, senza leader, pluralista, spontanea e organizzata attraverso i social media. Questo a prescindere dalle tensioni interne che Bevins scopre nelle interviste ai partecipanti. Gli anarchici vedevano l’occupazione delle strade e delle piazze come la creazione di uno spazio prefigurativo e di una comunità autogestita (alla quale in ultima analisi solo gli studenti o i disoccupati avrebbero potuto partecipare a lungo termine), mentre altri ritenevano che si trattasse di un mero punto di raccolta temporaneo. In ogni caso, il fattore unificante è stato il rifiuto: le proteste erano antipolitiche. In Brasile sono stati vietati gli emblemi dei partiti; a Hong Kong la parola d’ordine è stata “no stage”: niente leader, niente rappresentanza.

Il rifiuto della formalità era profondo. Alcune proteste di massa erano originariamente organizzate da un piccolo nucleo con obiettivi chiari. È il caso del Brasile, che costituisce il caso di studio centrale di Se bruciamo. Il Movimento Passe Livre (MPL), o movimento per le tariffe libere, era un gruppo di anarchici che si agitava intorno alla questione dei trasporti pubblici. L’MPL era organizzato sulla base del principio “tutti fanno tutto”: questa resistenza alla divisione del lavoro funziona quando si è un gruppo piccolo e affiatato. Ma quando le proteste si sono sviluppate e sono diventate le più grandi della storia del Brasile, il gruppo non ha trovato il modo di integrare nuovi membri. Seguendo un copione che si sarebbe ripetuto in molti altri casi, una piccola protesta si è trovata ad affrontare una pesante repressione, le immagini ampiamente diffuse della violenza della polizia (contro il tipo di vittima “sbagliata”  in questo caso, una giornalista bianca, di classe media e donna) hanno fatto scattare qualcosa nella popolazione, e la protesta è esplosa, attirando un’enorme massa di cittadini. Tuttavia, il gruppo, ferocemente anti-gerarchico, ha finito per affidarsi alla gerarchia informale del gruppo di amicizie originario: di fatto, una cricca decisionale che non deve rendere conto a nessuno.

Jäger e Borriello raccontano lo stesso processo ironico anni dopo nella LFI francese. L’assenza delle consuete strutture di partito che vanno dalla base alla leadership – ovviata attraverso la consulenza digitale e gli strumenti plebiscitari – ha fatto sì che i “supervolontari” diventassero una nuova sorta di oligarchia interna, prendendo decisioni alle spalle della massa di sostenitori online che, in termini digitali, costituirebbero dei “lurker”. È una delle tante ironiche inversioni che incontriamo nel corso di questa storia, dove l’eccesso di correzione finisce per riprodurre il problema originale in una forma diversa.

Il pregiudizio contro la formalità si manifesta persino nell’abbigliamento. Gabriel Boric, ora presidente del Cile, si è fatto conoscere durante le manifestazioni studentesche del 2011, e poi ha cavalcato la rivolta del 2019 fino a raggiungere la massima carica. Quando è entrato in parlamento nel 2015, Boric “ha fatto girare la testa” quando “si è presentato con capelli disordinati da emo-rock, un trench e senza cravatta”. Boric era un “autonomista” e, come il MPL in Brasile, cercava di distinguersi dalla vecchia sinistra e dalle pratiche “leniniste”. In questo senso, il suo stile era in linea con la Nuova Sinistra emersa negli anni Sessanta, cioè quella che aveva già più di cinquant’anni , che cercava di rifiutare tutto ciò che puzzava di stalinismo. Si opponeva quindi a tutto ciò che era grande, inflessibile, centralizzato, organizzato, burocratico e formale.

Bevins mantiene un distacco giornalistico per tutto il tempo, ma possiamo intravedere chi è il suo vero nemico: Il “pensiero anti-sovietico e neo-anarchico” che, sostiene, ha trovato un’affinità elettiva con gli sviluppi tecnologici e aziendali degli anni Duemila.10 La rivoluzione non sarebbe stata trasmessa in televisione, ma sarebbe stata pubblicata su Facebook. Per tutta la loro “resistenza”, i giovani manifestanti presentavano notevoli somiglianze con la disposizione del capitalismo contemporaneo. “Distruggere le cose, qualcosa di meglio emergerà dai rottami” suona terribilmente come la “disruption” della Silicon Valley. Oppure, con un tocco di classe che Bevins riserva per una nota a piè di pagina, suona come Obama, che ha affermato che il suo più grande errore è stato quello di non aver pianificato il “giorno dopo” in Libia. Il capitalismo del XXI secolo continua a essere anti-istituzionale, non-normativo, anti-pianificazione, a breve termine e si basa sul controllo dei flussi più che sulla costruzione. Che senso ha, allora, una sinistra che si limita a riflettere queste caratteristiche dominanti della società contemporanea?

Il fatto che così tanti abbiano creduto a queste idee è tragico. “Pensavamo che la rappresentanza fosse elitaria, ma in realtà è l’essenza della democrazia”, osserva l’attivista Hossam Bahgat nel libro di Bevins, riflettendo sul fallimento della Rivoluzione egiziana.11 Conoscendo la forma che ha preso la controrivoluzione  la dittatura ancora più autoritaria del generale Sisi  non si può che essere tristi, amareggiati, arrabbiati.

Il terzo avvento della sinistra millenaria, la formazione dei partiti, ha risolto queste carenze? Le proteste di strada erano aperte a tutti e quindi i costi di uscita erano altrettanto bassi. Tuttavia, nonostante il passaggio alla forma partito, il populismo di sinistra ha sofferto dello stesso problema. Ad esempio, Jeremy Corbyn è stato eletto leader del Partito Laburista solo perché, nel tentativo di diluire l’influenza dei sindacati, il precedente leader Ed Miliband aveva reso disponibile l’iscrizione al pubblico al costo di sole 3 sterline. Le campagne dei partiti populisti di sinistra sono state costruite sul modello di Internet: chiunque è a un solo clic di distanza dal registrarsi, fondare un gruppo d’azione e fare campagna per i candidati del partito. È anche possibile abbandonare il partito con un solo clic.

Questo ha i suoi vantaggi. In un ecosistema di “democrazia non mediata”, la malleabilità ha permesso ai populisti di sinistra di attrarre elettori al di là dei tradizionali allineamenti di classe. Un leader carismatico (o uno su cui i devoti proiettano i valori) unifica il movimento; tale personalizzazione della politica è stata la norma politica per almeno trent’anni. Nuovi strumenti e tecniche di comunicazione attraggono i giovani. Un atteggiamento anti-establishment cattura il sentimento prevalente. “Senza istituzioni potenti come il movimento sindacale a cui appellarsi, le sinistre sono state costrette a portare la battaglia nell’arena elettorale, lanciando così la vera scommessa populista della sinistra”, come dicono Jäger e Borriello.12

Questo “attacco” all’idea stessa di mediazione presuppone un rapido assalto al potere, “come di sorpresa”, osservano Jäger e Borriello. Bernie Sanders sperava di passare da vecchio e dimenticato senatore di sinistra a leader del mondo libero nel giro di diciotto mesi. Forse non è andata così, ma syriza si è davvero trasformata da una nuova, piccola coalizione di sinistra radicale in una coalizione che unisce e rappresenta tutti i segmenti della società frustrati dall’austerità. Inizialmente identificato con “i manifestanti”, in breve tempo è diventato il rappresentante riconosciuto di una maggioranza sociale. E si è insediato. Ma sappiamo cosa è successo dopo.

Jäger e Borriello sostengono che la “scommessa del populismo di sinistra” si basa su una concezione completamente diversa del partito politico (borghese-democratico): il suo obiettivo non è più quello di radicare blocchi di voto nel lungo periodo, ma di servire come il miglior strumento usa e getta per ogni competizione elettorale. Ancora una volta, la natura speculativa, flessibile e opportunistica del populismo di sinistra riflette in modo inquietante il funzionamento del capitalismo odierno. Questo dovrebbe metterci in guardia dal fatto che le domande che hanno tormentato il populismo di sinistra – allearsi o meno con il centro-sinistra istituzionale? Fare una guerra lampo digitale o costruire strutture di partito? Posizionarsi sull’asse destra-sinistra o cercare di essere indeterminati?

Cutrone è d’accordo. All’interno della tradizione marxista, i rivoluzionari Rosa Luxemburg e Vladimir Lenin rappresentano, in parte, rispettivamente la spontaneità e l’organizzazione. Citando J. P. Nettl, biografo della Luxemburg, Cutrone osserva che sia i leader rivoluzionari tedeschi che quelli russi hanno affrontato questioni complementari, che non possono essere ridotte a questa semplice dicotomia: “Come l’azione politica permette un’organizzazione trasformativa; e come l’organizzazione politica permette un’azione trasformativa, emancipatrice e non preclusiva?”. Queste sono le domande che devono essere rivolte alla sinistra millenaria, perché i problemi organizzativi sono più che semplici impedimenti, sono sintomi che devono essere elaborati. Forse dobbiamo essere “conservatori” nella nostra politica “rivoluzionaria” per essere effettivamente radicali nel presente”, concludeCutrone13 .

Ciò potrebbe valere anche per un’altra innovazione postmoderna: il leaderismo. Esaminati dal sociologo Paolo Gerbaudo qualche annoprima14 , i movimenti elettorali di sinistra degli anni 2010 si sono affidati a iperleader che traggono legittimità dal riconoscimento emotivo e dall’acclamazione della base, piuttosto che dall’investitura legale del partito. La personalizzazione della politica intorno al leader serve a compensare l’assenza di strutture di mediazione tra base e leader. Non ci sono filiali locali, né quadri, né tantomeno una vera e propria fedeltà al partito. Si parla invece di corbynismo, mélenchonismepablismo Questo è diverso dal leninismo, dal maoismo o dal trotskismo, termini che rappresentano variazioni di un corpo comune di pensiero – il socialismo – e sono quindi filosofie totali. Come giustamente insistono gli autori, il leaderismo non è in realtà il superamento dell’assenza di leader: non è una cura, ma un sintomo dello stesso problema. L’antistalinismo delle occupazioni orizzontali si è trasformato in qualcosa di più personalistico dello stesso stalinismo!

Il problema dei media

Il leaderismo genera anche nuovi problemi. L’iperleader populista è pensato per essere con i piedi per terra e moralmente irreprensibile. È un’ovvietà politica che chi cavalca il cavallo più alto cada più duramente. Così è stato per Corbyn, distrutto dalle accuse di antisemitismo, o per Mélenchon, minato dall’attenzione dei media sul suo carattere irascibile, o per Iglesias, che ha scoperto di aver comprato una casa da 600.000 euro con la sua compagna politica e di vita, Irene Montero. L’iperleader porta con sé così tante speranze e aspettative che quando cade, cade anche l’intero progetto. Come notano Jäger e Borriello in riferimento a Jeremy Corbyn, quel progetto si è affidato ai nuovi media per comunicare con gli elettori millenari entusiasti, aggirando i media tradizionali. Ma questo ha sottolineato quanto fosse un affare mediatico. Un “partito mediatico sarà sempre vulnerabile agli attacchi dei media”.

La natura mediatica di gran parte della politica della sinistra millenaria emerge forte e chiara nello studio di Bevins sul decennio della contestazione. Già nell’introduzione nota come l’esperienza del maggio 1968 sia stata tradotta da coloro che sono stati selezionati per apparire in TV a parlarne nel periodo successivo (naturalmente i più preparati e istruiti). Poiché le proteste di massa del 2010 erano ancora più incoerenti di quelle degli anni Sessanta, lo spazio per imporre un significato a posteriori era ancora maggiore.

Nel corso del libro scopriamo che le lotte per il controllo degli account dei social media erano una caratteristica sia di Occupy di New York che degli Indignados spagnoli. E che l’MPL brasiliano condivideva le responsabilità dei media, ma “si assicurava certamente di offrire ai media il tipo di contenuti che amava diffondere”.

Come osserva Bevins a proposito dell’Egitto nel momento critico di fine gennaio 2011: “i rivoluzionari avrebbero potuto prendere qualsiasi cosa. Hanno scelto di rimanere in piazza Tahrir, la destinazione predefinita per molti della folla; era un pezzo di terra vuoto, e la sua conquista non offriva alcun valore strategico, se non la sua visibilità“.15 L’assenza di chiare identità e significati politici e di classe ha fatto sì che i simboli fossero cercati altrove. Uno dei principali partecipanti alle Giornate di giugno brasiliane racconta a Bevins che l’influenza principale del gruppo di attivisti è stata quella degli zapatisti messicani, la cui lotta era stata introdotta attraverso la band degli anni ’90 Rage Against the Machine. A Hong Kong, il saluto a tre dita, tratto dai film di Hunger Games, è diventato un segno comune. “Penso che sia anche un po’ triste, e sicuramente molto sfortunato, che abbiamo preso così tante delle nostre idee dalla cultura pop”, ha concluso un abitante di Hong Kong.16 Il carattere surrogato della politica alla fine della storia era in piena mostra in queste manifestazioni. Nell’EuroMaidan ucraino, dopo che Viktor Yanukovych aveva annunciato che non avrebbe accettato l’accordo dell’UE, un gruppo di sinistra ha preso una bandiera rossa ricamata con le stelle dell’UE. L'”Europa” qui non rappresentava l’austerità e l’antidemocrazia, ma “la democrazia sociale e il progresso umano, la prosperità e i diritti”.

Riflettendo sulla “rivoluzione mancata”, Bevins si chiede se le insurrezioni di massa siano state momenti autentici, scorci del “modo in cui la vita dovrebbe essere” e “la cosa più reale che si possa provare”, o se, al contrario, siano state vuote espressioni di estasi di massa, con più cose in comune con Woodstock e Coachella che con la presa della Bastiglia. L’autore conclude che “la gente ha fatto passi da gigante” , anche se si sospetta che questa sia anche l’opinione dell’autore.

Al posto di una conclusione definitiva, l’oggetto politico diretto di Bevins è la condanna dei giornalisti occidentali e del loro rapporto sinergico con professionisti istruiti, spesso provenienti da organizzazioni non profit, che hanno scelto come portavoce delle rivolte. “In Ucraina, l’ala liberale di EuroMaidan comprendeva lavoratori del settore tecnologico che erano per lo più favorevoli a Bruxelles, parlavano la lingua degli ideali democratici, in un inglese competente, ed erano associati a ONG che avevano dipendenti a tempo pieno “formati e pagati per interagire con persone come me [Bevins]”. È questa dinamica pregiudiziale a complicare un compito già difficile: trovare la “verità” dei movimenti. La manipolazione è evidente. In Brasile, un gruppo di destra favorevole al business è riuscito a prendere il comando sulle proteste socialdemocratiche di sinistra grazie all’astroturfing. Il loro nome? MBL ( Movimento Brasile Libero ) – quasi indistinguibile, soprattutto nel portoghese parlato, dai promotori autonomisti delle proteste del giugno 2013, MPL. In Ucraina, i nazionalisti dell’estrema destra sono diventati la forza predominante di Maidan, facendo leva sul loro peso. Come spiega uno degli intervistati da Bevins, “non sono riusciti a farcela perché gli ucraini normali li hanno sostenuti : hanno combattuto per questo e hanno vinto”.18

Il problema della rottura

La scommessa della sinistra populista può aver rappresentato un tentativo di prendere il potere, ma ha anche evidenziato una radicale sottovalutazione del potere. Nel migliore dei casi, i populisti di sinistra hanno ottenuto una carica, sì, ma mai il potere. In un’altra ironica inversione di tendenza, la sinistra millenaria ha abbandonato la nozione di essere consapevolmente marginale e ha iniziato a rivolgersi, e a cercare di rappresentare, fondamentalmente tutti. Ma questo significava evitare scelte ideologiche difficili. Non si può essere amici dell’Eurogruppo e del 61% degli elettori greci che hanno respinto il Memorandum. Non si possono guidare i Remainers della classe media metropolitana e i Leavers della classe operaia del Nord nel Regno Unito. Non si può unificare una coalizione di culturisti woke con istruzione universitaria e di materialisti provinciali della classe operaia semplicemente attraverso il richiamo del potere esecutivo. Rimangono una legislatura potenzialmente ostile, una magistratura certamente ostile, uno Stato profondo diabolico e persino istituzioni sovranazionali che rovineranno i piani migliori. La crisi a lungo termine della politica non può essere ignorata in una rapida ricerca del potere esecutivo, nell’illusione che il neoliberismo possa essere spazzato via con un tratto di penna.

Altre ironie abbondano. Jäger e Borriello notano quanto il populismo di sinistra fosse in realtà tecnocratico. Poiché non avevano un’adesione di massa in grado di plasmare la politica e i loro elettori provenivano da diversi gruppi sociali con preferenze contrastanti, i partiti populisti di sinistra si affidavano a soluzioni politiche tecnocratiche per risolvere le profonde contraddizioni. Ma questo ha un limite : come conciliare , ad esempio, gli atteggiamenti della classe media urbana e della classe operaia industriale nei confronti del cambiamento climatico? L’investimento nella persona di Jeremy Corbyn o, più credibilmente, di Jean-Luc Mélenchon, che è un oratore e un tribuno molto più bravo , può arrivare solo fino a un certo punto. Ma facciamo un passo indietro: personalismo e tecnocrazia? Non è forse questo il Blairismo? E così il populismo di sinistra è rimasto, in sostanza, un affare professionale della classe media urbana. In Francia, Mélenchon ha parlato di conquistare i fachés mais pas fachôs (i lavoratori arrabbiati ma non fascisti che non si sono rivolti irrevocabilmente al Rassemblement National di Le Pen). Ma “quella coalizione non si è mai concretizzata”. Ha continuato a basarsi sulla gioventù urbana e altamente istruita e sul proletariato suburbano del settore dei servizi. Come tale, il populismo di sinistra non è riuscito a mantenere la sua promessa populista e unificante.

Jäger e Borriello individuano il problema finale nel fatto che i populisti di sinistra non sono mai stati in grado di trasformare il loro esercito di attivisti elettorali in qualcosa di più duraturo: “Senza una guerra di posizione per consolidare le conquiste dell’avanguardia digitale, il populismo di sinistra sarà ricordato come poco più di un’occasione sprecata”. Se questo fosse riuscito, i populisti di sinistra forse non avrebbero preso il potere, comunque non nel breve periodo, ma avrebbero potuto costituirsi come una sorta di forza post-neoliberale, esercitando pressioni per cambiare la politica economica, oltre a fare un po’ di strada per sanare la crisi secolare della politica. In definitiva, concludono gli autori, l’esperienza è stata molto breve, come si addice a un ecosistema sempre più a breve termine e “pieno di opzioni di uscita”.

Una più grande opera di trasformazione sociale è appena accennata come possibilità. Tuttavia, Jäger e Borriello notano che nel Regno Unito manca il tipo di barriere costituzionali che avrebbero frenato un programma corbynista altrove, e sono consapevoli che il Labour ha subito una pesante sconfitta nel 2019 dopo non aver onorato il risultato del referendum sulla Brexit del 2016. Dov’è la denuncia a tutto campo? Gli autori si limitano a spiegare che la base di attivisti, per lo più Remainer, “conosceva principalmente la politica britannica come una camera di tortura per la disciplina fiscale, non come un luogo di sovranità”. Per quanto questo sia vero, gli autori finiscono per ricapitolare in qualche modo le basse aspettative dell’epoca.

L’appetito popolare per il cambiamento c’era comunque (anche se la paura del futuro è sempre in agguato dietro l’angolo). Quando alle persone viene data l’opportunità di rifiutare lo status quo, lo fanno, insiste giustamente Cutrone. La risposta dello status quo è sempre che non si doveva dare loro questa opportunità. Da qui l’importanza di battere il ferro quando è caldo. Organizzazione, sì, ma anche un po’ di spontaneità.

Allo stesso modo, Jäger e Borriello osservano che la campagna di Sanders è finita come “un altro tentativo donchisciottesco dall’interno di un partito del capitale”. Se l’insuccesso in Gran Bretagna riguardava la questione dell’UE, negli Stati Uniti riguardava il Partito Democratico. “Per avere successo”, insiste Cutrone, “Sanders avrebbe dovuto correre contro i democratici come Trump ha corso contro i repubblicani. Questo avrebbe significato sfidare la combinazione neoliberale democratica di austerità capitalista e politica identitaria della Nuova Sinistra su “razza, genere e sessualità” che rappresenta lo status quo aziendale”. Questo, però, sarebbe stato un “populismo” più completo di quello che i populisti di sinistra realmente esistenti hanno mai considerato – o se lo hanno preso in considerazione, sono stati dissuasi dalla maggior parte degli attivisti incatenati a un sinistrismo autolesionista.

Cutrone conclude che qualsiasi aspettativa nutrita dalla sinistra millenaria “è stata delusa nel corso di un decennio di sbalorditivi rovesci”. Questo è un po’ esagerato rispetto a quanto la sinistra millenaria avesse da perdere. Certo, ha perso un’opportunità storica, ma è più simile a perdere l’ultimo autobus per lasciare la città che a farsi rubare l’auto. In un’intervista con me, Cutrone ha ammesso che la sinistra millenaria “ha fatto del suo meglio”, ma, cosa fondamentale, che questo è anche ciò che la Nuova Sinistra degli anni ’60 e la Vecchia Sinistra degli anni ’30 si sono dette.19

Ancora una volta, la Grecia fornisce il quadro più chiaro della posta in gioco. Molti nella sinistra internazionale20, pur deplorando la bandiera bianca di Tsipras, hanno spiegato in termini “realistici” che l’uscita della Grecia dall’eurozona e dall’UE avrebbe significato il caos più totale, i più poveri avrebbero sofferto di più, syriza sarebbe stato incolpato, l’estrema destra avrebbe potuto beneficiarne e così via. Ma questo è esattamente ciò che la Grecia ha subito in ogni caso, anche se in modo più prolungato. Il fallimento avrebbe almeno offerto alla Grecia un orizzonte, una possibilità di ricostruirsi come nazione indipendente. E, cosa fondamentale per gli internazionalisti, avrebbe potuto innescare una reazione a catena. Nulla di tutto ciò è certo, ma sarebbe stato un gioco di possibilità maggiori. Cutrone cita giustamente Leon Trotsky per dire che “chi chiede garanzie in anticipo dovrebbe in generale rinunciare alla politica rivoluzionaria”. Il problema è che la maggior parte della sinistra millenaria lo ha fatto. E questo rende la riforma ancora meno probabile.

Il problema della tradizione

Cutrone, come Jäger e Borriello, ricorre alla metafora del gioco d’azzardo. Cutrone, tuttavia, sostiene che la sinistra millenaria ha scelto di non giocare la mano che le è stata data. Si è allontanata per paura dall’azzardo stesso, ripiegando invece sul rigiocare le carte distribuite alle generazioni precedenti. Che cosa significa? Il modo migliore per esplorarlo è fare riferimento alle tradizioni politiche della sinistra.

Il fulcro dell’analisi di Bevins sulle proteste è che esse erano espressive dell’eredità della Nuova Sinistra antistalinista, che, tagliata fuori dalla Vecchia Sinistra a causa della guerra mondiale e del maccartismo, agiva sulla base di insegnamenti assorbiti e dimenticati a metà. Il risultato è stato il rifiuto della struttura e la preferenza per una politica prefigurativa piuttosto che strumentale. Al di fuori del Nord America, tuttavia, la vecchia sinistra era molto viva, ricorda Bevins, citando i partiti marxisti-leninisti e gli sviluppisti nazionali che spesso reprimevano i comunisti, anche quando si alleavano con l’URSS (l’egiziano Nasser ne è un esempio).

Si tratta di una falsa dicotomia. L’eredità degli anni Sessanta attraversa entrambi gli schieramenti: è presente nell’anticomunismo “stalinofobico” (sia del liberalismo della Guerra Fredda che della socialdemocrazia, compresi gli odierni tentativi “populisti” di rifondare la socialdemocrazia senza organizzazione operaia) e nella “militanza” staliniana (maoismo, guevarismo). Impostare la politica quasi stalinista o quasi maoista come “sinistra che funziona” contro gli evidenti fallimenti dell’orizzontalismo anarchico è un errore. Si tratta solo di un’opposizione sterile e indesiderabile tra due vicoli ciechi della sinistra: la “serietà” e l'”organizzazione” staliniane e il “narcisismo” e la “prefigurazione” anarco-liberali.

Per Cutrone, infatti, ciò che oggi viene considerato “sinistra” o “socialismo” non è altro che la “naturalizzazione della degenerazione della sinistra in rassegnazione e abdicazione”. La sinistra prende il prodotto dei fallimenti precedenti e li erge a oggetto di desiderio. Elementi di questo sono visibili nel commento di Bevins sulla protesta. Egli suggerisce che il crollo dei governi è improbabile in Occidente e che le forze armate nei Paesi della NATO “non avrebbero certamente abbandonato lo Stato”, né la NATO “si sarebbe bombardata da sola”. Bevins sta forse dicendo che il criterio di successo è la creazione di blocchi separati e militarizzati di Stati nazionali, rendendo la contesa politica sul futuro una questione geopolitica? Questo significherebbe riproporre la Guerra Fredda! La Guerra Fredda è stata infatti la testimonianza del fallimento della rivoluzione globale, dell’ossificazione della lotta per il socialismo in una mera “alternativa” al capitalismo, piuttosto che in una forma più avanzata di civiltà. Tuttavia, Bevins indica che un cambiamento radicale non è realmente possibile negli Stati più avanzati, ma solo negli “anelli deboli” periferici. Questo sembrerebbe ricapitolare un terzomondismo che è sicuramente esaurito quanto la politica rivoluzionaria nei Paesi centrali. C’è un certo conservatorismo in questo. È anche per questo che Bevins non si occupa dei Gilet Gialli in Francia, che si sono distinti per essere le proteste più sostenute e proletarie, pur avendo luogo in un Paese a capitalismo centrale? Sarebbe stato interessante vedere questo aspetto esplorato.

Nel frattempo, sebbene Cutrone sottovaluti i problemi specifici di organizzazione della nostra epoca – in particolare il declino dell’associazionismo – i suoi saggi sono utili per sollecitare il pensiero storico. I millennial “hanno perso l’occasione di relazionarsi con la storia in modi nuovi che li sfidavano e li incaricavano di andare oltre la doxa post-sessantottina”. Invece, la sinistra millenaria, sia nelle fasi di protesta che in quelle populiste, evoca una qualità nostalgica, sia che spinga per un nuovo New Deal sia che (molto peggio) riproponga le proteste hippy degli anni Sessanta o la “resistenza” al neoliberismo degli anni Ottanta. Queste pratiche e convinzioni “non fanno presagire nuove possibilità, ma si aggrappano a vecchi ricordi di un’epoca in cui molti, se non la maggior parte, non erano ancora vivi”. La sua qualità spettrale e irreale è evidente”.

Dobbiamo prestare attenzione a un fatto preoccupante: negli ultimi cento anni, la sinistra è arrivata per lo più post-festum, sicuramente in Occidente. Ha un ruolo nell’inaugurare una nuova era, poi attacca la nuova era e infine ne ha nostalgia. Così la sinistra ha attaccato l’ottuso stato sociale negli anni Sessanta in nome dell’individualismo, azioni che, nonostante le intenzioni, hanno gettato le basi per il neoliberismo una volta che l’ordine del dopoguerra è entrato in crisi. La sinistra si è quindi posta come resistenza contro la riorganizzazione del capitalismo secondo le linee neoliberali, accompagnata dalla retorica più forte e moralizzata in difesa della società contro l’individualismo. Infine, la sinistra si ritrova ad essere l’ultimo difensore del neoliberismo di fronte al cosiddetto populismo di destra sotto forma di Trump, Le Pen, Brexit, Vox, Fratelli d’Italia o altro. La sinistra può anche non difendere le politiche neoliberali, ma si aggrappa a organizzazioni e istituzioni neoliberali o neoliberalizzate, siano esse il Partito Democratico o l’UE o l’università o le ONG.

Comunismo di buon senso

Nel 2011 è stato pubblicato The Strange Non-Death of Neoliberalism di Colin Crouch. Il fatto che la sua domanda centrale possa essere posta ancora oggi è una condanna sia per le nostre élite compiacenti e gerontocratiche sia per le forze di contestazione che dovrebbero spingere le cose in avanti. In effetti, è l’assenza di una sinistra popolare e credibile a consolidare l’autocompiacimento delle élite. Per tutte le critiche qui presentate, questo dovrebbe preoccupare gli osservatori che, a differenza del presente autore, non hanno alcun investimento nella sinistra.

Perché la sinistra non è riuscita a raggiungere nemmeno i suoi obiettivi riformisti, per non parlare dei suoi sogni rivoluzionari? Una domanda centrale si pone nei tre elogi della sinistra millenaria: quando la politica stessa è in crisi, il primo passo necessario è ricostruire l’associazionismo civico come elemento costitutivo di un partito politico di sinistra credibile e di massa? Oppure la sinistra deve essere preparata ad agire rapidamente, a prendere l’autorità e a guidare nei momenti in cui il conservatorismo delle masse evapora rapidamente e lo status quo viene rifiutato – come accade con una certa frequenza, anche se imprevedibilmente?

A queste domande dovremmo rispondere con un’altra domanda, già posta in precedenza: “in che modo l’organizzazione politica consente un’azione trasformativa, emancipatrice e non preclusiva?”. La risposta, per riprendere le due alternative di cui sopra, è sicuramente “entrambe”. Il fallimento della sinistra millenaria è stato quello di non fare nessuna delle due cose. Non è stata in grado né di legare le masse, a cui si è brevemente appellata, in nuove organizzazioni politiche, né di agire e guidare nei momenti di crisi, quando la distruzione del vecchio ordine (comunque concepito) era a portata di tiro.

Jäger e Borriello scrivono che l’esperienza della sinistra populista è fallita perché “troppo a sinistra e troppo populista”: non è riuscita a liberarsi dalle preoccupazioni e dal simbolismo della sinistra minoritaria e non è riuscita a costruire un vero partito lungo le vecchie linee, preferendo invece la scommessa populista. Forse un altro modo di inquadrare la questione è che la sinistra millenaria avrebbe beneficiato di un’ideologia più “populista” , cioè non legata alle modalità fallimentari dell’attivismo di sinistra della fine del XX secolo, pur essendo più “conservatrice” dal punto di vista organizzativo. Ciò sembrerebbe in linea con la richiesta di Cutrone che un “approccio marxiano dovrebbe cercare di occupare il centro vitale e radicale della vita politica”.

Nel contesto statunitense, ciò significherebbe “completare la Rivoluzione Americana ” – non MAGA, ma “Make America Revolutionary Again”. Il segno dei tempi, degli anni 2010, è stato il desiderio espresso di rompere con il vecchio, un segno che la sinistra ha troppo spesso ignorato. Sì, Sanders ha chiesto una “rivoluzione politica” in nome del “socialismo democratico”. Ciò significava “una svolta elettorale a sostegno di nuove politiche”. Ma fare i conti con la crisi dell’ordine postbellico e con l’attuale crisi del neoliberismo significa prendere sul serio l’idea che non si può tornare indietro, che la fine della storia è finita – e così il ventesimo secolo.

Questo articolo è apparso originariamente in American Affairs, volume VIII, numero 1 (primavera 2024): 85-104.

Note

1 Vincent Bevins, If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution (New York: PublicAffairs, 2023), 235.

Bevins, If We Burn, 258.

Bevins, If We Burn, 169.

Bevins, If We Burn, 167.

Peter Mair, Governare il vuoto: The Hollowing of Western Democracy (Londra: Verso, 2013).

Arthur Boriello e Anton Jäger, The Populist Moment: The Left after the Great Recession (Londra: Verso, 2023), 3.

Chris Cutrone, The Death of the Millennial Left: Interventions 2006-2022 (Portland, Ore.: Sublation, 2023), 75.

Karl Marx, “Indifferentismo politico [1873]”, Marxists.org, visitato il 9 gennaio 2024.

Si veda la mia recensione di The Triumph of Broken Promises di Fritz Bartel: Alex Hochuli, “Democrazia e disciplina“, American Affairs 6, n. 2 (estate 2022): 125-41.

10 Bevins, If We Burn, 268.

11 Bevins, If We Burn, 265.

12 Boriello e Jäger, Il momento populista, 45.

13 Cutrone, La morte della sinistra millenaria, 11.

14 Paulo Gerbaudo, The Digital Party: Political Organisation and Online Democracy (Londra: Pluto Press, 2019).

15 Bevins, If We Burn, 67, corsivo mio.

16 Bevins, Se bruciamo, 269.

17 Bevins, Se bruciamo, 69.

18 Bevins, Se bruciamo, 162.

19 La morte della sinistra millenaria ft. Chris Cutrone“, Bungacast, podcast audio, 9 gennaio 2024.

20 Si vedano ad esempio i veterosocialisti Sam Gindin e Leo Panitch su Jacobin, i quali sostengono che sarebbe necessaria una maggiore preparazione per l’uscita della Grecia: Sam Gindin e Leo Panitch, “Il dilemma di Syriza“, Jacobin, 27 luglio 2015.

Stellar Blade smuove il vespaio DEI, di SIMPLICIUS

Stellar Blade risveglia il vespaio DEI

Di solito non mi occupo di giochi, né li gioco da molto tempo, ma tengo d’occhio gli sviluppi e le tendenze recenti sono state estremamente rivelatrici di una striscia oscura che attraversa il settore. È particolarmente importante per il modo in cui si sovrappone ai movimenti di ingegneria culturale che stanno mettendo in crisi la società. Il motivo è ovvio: dietro a tutto questo ci sono sempre gli stessi attori. BlackRock e altri.

L’ultima controversia che ha coinvolto il mondo dei videogiochi riguarda un gioco per Playstation 5 chiamato Stellar Blade. La controversia ruota principalmente attorno al fatto che il personaggio giocabile, Eve, è reso in un modo presumibilmente maschilista e “misogino”, che si dice oggettivizzi le donne.

Per prima cosa, in modo che possiate farvi un’idea dell’argomento, permettetemi di presentarvi Eve:

Tutte le pubblicazioni del “regime”, come Kotaku, hanno iniziato a criticare il gioco per la sua rappresentazione eccessivamente realistica e, per così dire, “gigionesca” delle forme femminili. Un redattore senior della francese IGN, probabilmente la più grande testata “giornalistica” di videogiochi, ha dichiarato apertamente che il gioco potrebbe essere responsabile del suicidio delle donne, oltre che dei loro omicidi:

Ma il problema è che la moglie del regista del gioco, Kim Hyung-tae, è l’artista principale del progetto:

Questo per quanto riguarda quello sguardo maschile.

E il doppio smacco? Il movimento wok si è infuriato dicendo che il gioco sta promuovendo standard di bellezza “irrealistici” per i corpi femminili. Ma il personaggio principale è stato letteralmente scansionato in 3D da un modello coreano di nome Shin Jae-eun.

Eccola nello studio mentre viene scansionata:

I fan hanno preso in giro l’ipocrisia di aziende come Sony che perdonano apertamente altri titoli con scene di sesso o oscenità, mentre inspiegabilmente tirano le redini sul sex appeal relativamente pedonale di Stellar Blade :

La cosa più scioccante è che la stampa videoludica ha mostrato la propria palese ipocrisia durante questo episodio. Kotaku, un’altra importante rivista di videogiochi, ha apertamente sbandierato la sessualizzazione dei personaggi e delle trame della nuova serie Fallout di Netflix, mentre derideva la cosiddetta disumanizzazione delle donne in Stellar Blade:

L’ostile redattore senior di Kotaku, Radfem, è andato all’attacco:

Ma in un altro colpo di sfrenata ipocrisia, i principali punti vendita di gioco come Kotaku stanno spingendo pesantemente un altro nuovo gioco chiamato Hades II , che sessualizza ancora più apertamente i suoi personaggi, ma lo fa nella modalità accettata :

Noterete che l’articolo di Kotaku qui sopra è scritto dallo stesso “senior editor” caduto in disgrazia. Si noti anche la donna poco vestita e totalmente oggettivizzata sulla sinistra, che è stranamente accettabile.

Ma cos’è che rende questa voce così gradita alla plebaglia woke? La sua “diversità” e “rappresentanza”. Vedete, quella lì sulla sedia a rotelle è una persona di colore obesa, cioè con difficoltà motorie, non cisetta, probabilmente gender-fluid. Sì, ha tutte le carte in regola per combattere la buona battaglia contro l’abilismo e ogni altro -ismo e -fobia. Per non parlare del semidio dalla barba verde e bisessuale che non sarebbe fuori posto sul carro della Pride Parade locale.

In effetti, il redattore di Kotaku si schiera apertamente a favore dell'”inclusione” nel gioco di “twinks, orsi, mamme dominatrici, papà spaventosi…” e di qualsiasi altra degenerazione che possa stuzzicare la vostra fantasia:

E una redattrice di Gamespot di nome Jessica Cogswell è stranamente a favore dei lavoratori del sesso e dei diritti di liberazione totale delle donne, tranne quando si tratta di donne cisgender tradizionalmente belle, come in Stellar Blade:

Quando si è trattato di Stellar Blade, lo stesso editore ha avuto questa reazione insolita e totalmente fuori dal personaggio:

Vedete, si scopre che i media che includono contenuti sessuali volgari vanno benissimo finché giurano fedeltà agli dei DEI e i cui fan e creatori si sottomettono ai guardiani responsabili dei nostri mandati culturali.

Questo gioco di Ade è considerato accettabile perché promuove una ristretta finestra di Overton di prospettive razziali e sessuali accettabili, che includono personaggi il cui colore della pelle è – come sempre – rappresentato in un guazzabuglio grigio-marrone di ambiguità etnica e razziale:

L’oscuro segreto che quest’ultima controversia ha portato alla luce è che l’intero settore dei giochi è stato lentamente portato sotto la punta di lancia di aziende oscure come quella chiamata Sweet Baby Inc. , specializzata nella “consulenza” dei DEI a tutti i principali studi di giochi AAA. Un’intera scuderia di tali aziende si fa strada silenziosamente nel settore, rimodellando le trame stesse e i requisiti di razza/sesso dei titoli amati.

Il modo in cui lo fanno è complesso, ma l’ex sviluppatore di giochi Blizzard Mark Kern ha spiegato che queste società agiscono come mediatori tra interessi finanziari più grandi che spingono ESG, ovvero BlackRock e co. Come ci si può aspettare, questi fondi ESG sono accompagnati da “vincoli”:

Mark Kern spiega come il denaro ESG viene fornito con vincoli all’interno delle aziende e viene utilizzato per far sì che le aziende collaborino con società di consulenza DEI come Sweet Baby Inc:

“Tutti devono rendersi conto che non è che questi studi stiano finanziando i giochi di tasca propria; sarebbe molto costoso per loro. Il contante è fondamentale. Preferibilmente andranno a prendere denaro da altre fonti se abbastanza economiche da aiutare a diffondere il rischio di questi titoli enormi; quindi si verificano un sacco di quid pro quo. Posso dirti che gli sviluppatori si sono avvicinati a me per darmi informazioni dettagliate su ciò che sta accadendo, e ci sono accordi di finanziamento là fuori per gli studi – non posso essere troppo specifico; non voglio rivelare le fonti – che hanno determinati vincoli, come se un’azienda firmasse improvvisamente con uno sviluppatore e ora lo sviluppatore deve assumere un direttore del DEI e deve uscire e assumere società di consulenza per l’equilibrio di genere.” 

“Il loro personale esce specificatamente e assume aziende come SBI (Sweet Baby Inc) per consulenze sui loro scritti e per effettuare letture di sensibilità e modifiche per questo, e ciò che fa, tutto questo fa, aumenta il loro punteggio ESG. Permette loro di accedervi finanziamenti, quindi i criteri ESG non scompariranno del tutto.”

“[ESG] è diventato un marchio malvagio. Le persone si stanno rendendo conto di questo… Hai un rebranding in corso proprio adesso. Non lo chiamano ESG, ma è ancora là fuori.”

È qui che la saga prende una svolta oscura.

Ma prima riassumiamo: secondo Mark Kern e altri addetti ai lavori, i grandi titoli tripla AAA richiedono un sacco di soldi per essere realizzati nell’industria dei videogiochi, e questo denaro arriva per volere di speciali società intermediarie che offrono un servizio quid-pro-quo che essenzialmente dà agli sviluppatori di giochi un’opzione: introducete queste modifiche DEI nel vostro gioco, e noi possiamo mettervi in contatto con mega-investitori per sovvenzionare gli esorbitanti costi di sviluppo iniziali.

Ecco un altro esempio di un’altra società di “consulenza” chiamata GaymerX. Se non avevi indovinato, sono specializzati nella consulenza agli sviluppatori sull’inclusività in particolare sui contenuti LGBTQIA+:

E se vi state chiedendo come fanno queste società a convincere gli sviluppatori di videogiochi ad attuare questi cambiamenti spesso drastici di “inclusività”, la cofondatrice dell’ormai vituperata Sweet Baby Inc. ha reso apertamente omaggio ai suoi metodi:

Nel caso in cui fosse troppo estremo per crederci, puoi guardarlo tu stesso:

Quindi, come sempre, il metodo è la paura. Si basano sulla paura del contraccolpo dei soliti shibboleth culturali avvelenati: gli -ismi, gli -isti e simili. L’implicazione è che se non attuate i nostri diktat totalitari di riforma della cultura, sarete pubblicamente tacciati come razzisti, misogini, omofobi, transfobici, abili e così via.

E la cosa più grave è che quando questi metodi tirannici vengono messi in discussione o generano il contraccolpo previsto, i sinistri portatori reagiscono con un’ostilità immediata e sfrenata:

Ma se pensavate che il precedente fosse negativo, le cose si fanno molto più oscure.

Presumibilmente per volere di questi intermediari, gli sviluppatori di giochi vengono costretti ad apportare ai loro giochi modifiche che possono essere descritte solo come spaventose modifiche di ingegneria sociale. Nel caso di Stellar Blade, la situazione si è trasformata in una sottile battaglia ideologica. Ma nel caso di molte altre proprietà, l’intento è stato netto.

Prendiamo ad esempio l’ultimo aggiornamento di Pokemon Go. I fan sono in tumulto per l’improvvisa serie di cambiamenti radicali apportati ai loro personaggi. Ma bisogna vedere i cambiamenti per capire fino a che punto gli ingegneri sociali e culturali stiano spingendo le cose.

Ecco una serie di screenshot di giocatori indignati che mostrano i loro avatar ridisegnati in modo sgradito e indesiderato: guardate con attenzione e vedete se notate qualcosa:

Se avete notato che tutte le caratteristiche femminili sono state rimosse e trasformate in una strana androginia malata e detronizzante, avete ragione. Fianchi e curve appiattiti, vita ispessita, braccia allungate, postura mascolinizzata con una sorta di spavalderia ingobbita e con un braccio ad arco, per non parlare del fatto che il seducente e femminile busto unico è ridotto a un’ambigua sporgenza mascolina che ha lo strano e scomodo aspetto medicalizzato dell’anedonia indotta da SSRI.

In breve: tutti i personaggi sono stati realizzati per rappresentare, o meglio, promuovere un tipo di corpo trans.

Anche le mascelle non erano al sicuro:

Sono spariti i menti affilati femminili, per essere sostituiti da mascelle a forma di lanterna.

Nemmeno i maschi sono stati risparmiati, i loro fisici sono stati sostituiti da morbidezze estrogenate e volti lesbici:

Ricordate quando tempo fa il porno trans aveva improvvisamente iniziato a conquistare tutte le principali categorie di siti Hub in un modo che sembrava estremamente forzato e innaturale, come se stessero cercando di convertire i gusti degli spettatori? E di come questo coincidesse così convenientemente con tutte le altre offensive della guerra culturale “di sinistra” che cercavano disperatamente di colpevolizzare le persone etero-cisgender che non trovavano attraenti i trans, definendole transfobiche per aver rifiutato di uscire con i trans e grassofobiche per avere una preferenza innata per le persone magre?

E ricordate quando le persone che denunciavano questi sviluppi come inorganici e costruiti venivano chiamate teorici della cospirazione, nonostante le prove schiaccianti che un gruppo di ingegneri sociali transnazionalisti sta lavorando attivamente per rifare la società nella loro visione dell’utopia kalergiana?

E ricordate quando una nuova indagine con telecamere sotto copertura ha recentemente rivelato che i dipendenti di Pornhub hanno ammesso in un filmato di aver segretamente indirizzato a letterali preadolescenti il porno gay/transgender per la ragione dichiarata di “aprire i loro gusti”, dimostrando totalmente che i “teorici della cospirazione” avevano ragione?

Il dipendente Dillon Rice, sceneggiatore senior dell’azienda, sostiene che l’uso della pornografia potrebbe essere vantaggioso per i preadolescenti. “Diciamo che hai 12 anni, stai ancora cercando di capire la tua sessualità, forse anche il tuo genere, non sarebbe utile vedere non una celebrazione ma forse solo una… normalizzazione di qualcosa che pensi sia quello che vuoi?” ?” Si vede il riso dire. 

La Rice ha continuato facendo riferimento specificamente a un sito pornografico incentrato su individui transgender, sottolineando: “Diciamo che avevo 12 anni e ho visto TransAngels… mi aiuterebbe a capire cosa mi piace e cosa non mi piace”.

Michael Knowles ovviamente ha notato correttamente:

Knowles ha affermato che il tentativo di orientare i gusti sessuali degli spettatori va contro uno degli argomenti fondamentali emersi dalla rivoluzione sessuale. “La cosa più scioccante per me è che per tutta la mia vita ci è stato detto dalla sinistra, dai sostenitori della pornografia, dai rivoluzionari sessuali, che il desiderio sessuale è innato e immutabile”, dice Knowles. “Nessuno diventa gay o bisessuale”.

C’è qualche sorpresa allora?

Ecco l’amministratore delegato di un altro studio di videogiochi che esemplifica la diffusione virulenta dell’ideologia nel settore dei giochi:

Alla luce di quanto sopra, in quale altra luce potremmo leggere i recenti sforzi di gruppi oscuri per indirizzare l’industria dei videogiochi per adolescenti a rivedere completamente i propri standard di bellezza e identità e persino le preferenze di attrazione?

Ma non finisce qui:

Microsoft esorta gli sviluppatori a non creare personaggi femminili con “proporzioni corporee esagerate” sul loro sito ufficiale per supportare gli sviluppatori di giochi. Il sito, intitolato “Product Inclusion Action: Help Customers Feel Seen” comprende un elenco puntuale di considerazioni che gli sviluppatori sono invitati a fare quando lavorano ai loro prodotti. 

 Un utente di Twitter ha sottolineato che il linguaggio condanna espressamente alcuni personaggi femminili in quanto rafforzano gli “stereotipi di genere negativi”.

Ancora più illuminante è il fatto che il suddetto rapporto Microsoft sembra ancora una volta affidare il proprio incarico a un “istituto” specializzato nella traduzione dei mandati del DEI dall’“alto” fino al livello delle politiche degli sviluppatori. Una delle critiche di questa azienda prende di mira addirittura il classico “viaggio dell’eroe” in quanto dannosamente non inclusivo:

Ma in realtà ciò che questi recenti sviluppi hanno rivelato è un complotto sempre più nefasto per cambiare completamente la percezione della fascia demografica dei giocatori nei confronti della sessualità e dell’identità. I giocatori hanno notato che negli ultimi anni i titoli tripli AAA hanno imposto sostituzioni sempre più perverse dell’immagine fisica degli archetipi dei personaggi più comuni e attesi.

Ad esempio, proprio come il suddetto decreto di Microsoft implora gli sviluppatori di evitare personaggi eccessivamente femminili – ingenuamente espressi con l’ingannevole eufemismo “curvy” – così anche gli studi cinematografici sono costretti a eliminare completamente gli “standard di bellezza”, in particolare quando si tratta di donne. I personaggi principali femminili non possono più apparire femminili o “classicamente belli”.

L’esempio più offensivo è quello del prossimo sequel/reboot di Fable, un gioco della Microsoft XBox, che presenta un personaggio principale “femminile” che ha confuso e indignato i fan della serie:

Ovviamente androgina, se non proprio trans; verificare.

Razzialmente ambiguo; verificato.

Seno piatto e corporalmente de-femminilizzato; check.

I fan scontenti hanno utilizzato un software speciale per riportare il personaggio agli standard glamour precedentemente accettati:

Alcuni hanno addirittura scoperto che quando rimuovi digitalmente i “suoi” lunghi capelli, diventa più che ovvio che “lei” è davvero un “lui”:

Per la cronaca, il trailer del gioco è stato ampiamente riportato su YouTube:

Sì, è ancora possibile vedere le antipatie con una speciale estensione del browser.
In effetti, sono circolate immagini di compilation popolari che mostrano molte delle protagoniste femminili più iconiche dei giochi degli studi tripla AAA degli ultimi anni – notate una tendenza?

In effetti, alle donne è ora consentito occupare esclusivamente uno spazio nello spettro grottescamente poco attraente e poco femminile; questo è ciò che si ottiene con i soldi di ESG/DEI al giorno d’oggi.

La domanda è sempre la stessa: PERCHÉ?

Perché ne abbiamo bisogno? Chi si vuole tranquillizzare? Per coccolare la più piccola minoranza della società dobbiamo alienare totalmente la grande maggioranza, che include il pubblico pagante per il gioco vero e proprio? Non si suppone che “inclusivo” significhi includere tutti? Eppure si è trasformato nel coccolare la più piccola minoranza vocale escludendo tutti gli altri dalla conversazione. Non servono altre prove per dimostrare che l'”inclusività” non è altro che un cavallo di battaglia fraudolento per un’operazione di ingegneria sociale senza precedenti, coordinata dalle più alte cariche delle istituzioni finanziarie e politiche globali.

Il virus dell’ideologia si è ora diffuso in alcune delle più note e amate proprietà intellettuali del mondo del gioco. Nelle ultime settimane, le polemiche hanno investito l’industria e persino la serie Warhammer 40k ne è stata vittima:

È emerso che un famoso gruppo di truppe esclusivamente maschili, chiamato Adeptus Custodes, è stato improvvisamente ritrasformato in un gruppo di donne. Ma invece di ammettere semplicemente che si tratta di cambiamenti necessari per stare al passo con i tempi moderni, gli sviluppatori hanno offensivamente gassato il loro pubblico di riferimento – come sempre accade, a quanto pare – fingendo che le donne siano sempre state accettate e apportando persino modifiche silenziose alla storia originale, sperando che nessuno se ne accorga.

Ad esempio, la Confraternita dei semidei è diventata silenziosamente l’Ordine dei semidei:

E come è ormai prassi, i guardiani e i monitori affiliati alla serie sono ricorsi a colpire e allontanare la loro base di giocatori con i soliti -ismi, -femmine, ecc. o, in questo caso, a diffamarli come bigotti:

La tempesta di fuoco ha rivelato una serie di dettagli scomodi sui possessori di Warhammer:

Fortunatamente, le pratiche offensive sembrano aver colpito i profitti del creatore di Warhammer:

Ma la sinistra epidemia si è diffusa in lungo e in largo anche ad altre amate IP come Battletech – casa della serie Mechwarrior – che sembra essere stata catturata da “gruppi di interesse speciale”, come li chiamerò caritatevolmente:

Nel frattempo, in Cina gli standard promossi sono leggermente diversi:

L’Occidente continua semplicemente a spingere questa indesiderata malattia DEI sulla società:

È chiaro che, come sempre, l’agenda è altamente coordinata e si sta diffondendo in modo pestilenziale in ogni angolo del nostro mondo. Gli ingegneri sociali non si fermeranno di fronte a nulla pur di ristrutturare il nostro mondo secondo la loro visione demenziale. Il tutto, ovviamente, è coordinato per un solo scopo: ottenere la frattura delle nostre identità radicate per trasformarci in schiavi tabula rasa riprogrammabili destinati a inaugurare il nuovo domani utopico del WEF. Per chi fosse interessato, ho raccontato le origini di questa crociata sbagliata dalle sue radici qui:

DISPACCI DA BEDLAM CENTRAL

Frattura dell’identità all’altare del transumanesimo

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7 APRILE 2023
Frattura dell’identità all’altare del transumanesimo
La vera era moderna, il bivio che ci ha portato all’attuale campo di distorsione della realtà in cui viviamo, è iniziato nel 2008. Quell’anno diversi eventi chiave hanno cambiato per sempre la traiettoria dell’umanità, a partire dal grande crollo finanziario del 2008, che ha provocato una distruzione sistemica di massa dei sistemi finanziari statunitensi e globali.
Leggi la storia completa

Come sempre, rimanete vigili e sfidate le loro sovversioni, poiché la pratica ha dimostrato che una resistenza fortemente vocale e coordinata può far indietreggiare i DEI-ghouls e farli ricredere sulle loro azioni. Nel caso di Stellar Blade, una campagna vocale da parte dei fan arrabbiati è già riuscita a strappare alcune concessioni allo sviluppatore, almeno per quanto riguarda alcuni abiti censurati imposti all’ultimo minuto al personaggio principale dal distributore della DEI-attivista, Sony.

Se siete interessati a questo argomento, seguite l’ex dirigente del gioco Mark Kern, che è diventato involontariamente il tedoforo e il parafulmine di una delle ultime controversie sulla DEI a causa della sua schietta leadership sull’argomento, respingendo regolarmente le minacce di morte e altri oltraggi da parte della rabbiosa folla Woke armata di forconi. Non solo continua ad aggiornare la situazione di Stellar Blade, ma rimane anche una risorsa e un compendio di prim’ordine sugli sviluppi dell’escalation della guerra culturale del settore videoludico.

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