Italia e il mondo

L’Occidente mangerà se stesso?_ di Aurelien

L’Occidente mangerà se stesso?
Sì. I derivati sono in discesa.

AURELIEN
5 LUGLIO 2023
Qualche settimana fa ho pubblicato un saggio sulla politica estrattiva che ha suscitato un certo interesse. In esso sostenevo che il modello estrattivo dell’attività economica moderna – la finanziarizzazione, l’asset-stripping, i derivati e così via – si era ora esteso ad altri settori, in particolare alla politica. L’idea di ottenere effettivamente qualcosa è stata sostituita dall’estrazione dei massimi vantaggi politici e finanziari da una determinata situazione.

In genere, inizio a scrivere questi saggi con in testa solo un’idea approssimativa di ciò che voglio dire, e quindi spesso mi vengono in mente idee per le quali non ho spazio, ma sulle quali voglio tornare in seguito. Mentre terminavo il saggio, ho guardato il conteggio delle parole e mi sono reso conto che c’era molto altro da dire, ma non c’era lo spazio per farlo, così ho deciso di ritornarci in seguito. Da qui questo saggio.

In effetti, la mentalità estrattiva è oggi la norma ovunque, e non può essere una coincidenza. In genere è caratterizzata da tre elementi. Il primo è l’abbandono di idee genuine di progresso, o anche di qualcosa di veramente nuovo. Al contrario, si assiste alla disperazione, al nichilismo e all’incolpazione competitiva degli altri. In secondo luogo, e come conseguenza, la promozione di novità banali e transitorie come se fossero veri e propri cambiamenti e miglioramenti. Terzo, l’estrazione compulsiva del passato, non come ispirazione o emulazione, ma semplicemente come materia prima da trasformare in qualcosa di vendibile o in qualcosa da cui trarre vantaggio politico. La nostra società sta quindi essenzialmente consumando se stessa.

Notate che ho detto “la nostra società” perché non credo che questo sia un problema della razza umana nel suo complesso. È un problema delle società moderne, occidentali e liberali, e ci sono stati segnali di questo fenomeno (anche se ampiamente ignorati) da un secolo a questa parte. Al contrario, le società di tutto il mondo che non hanno questo problema, o che lo hanno in misura minore (spesso quelli che chiamiamo “Stati civili”) sono oggetto del nostro odio e della nostra inimicizia perché sembrano fare cose nuove e progredire davvero, mentre noi facciamo a gara per incolparci a vicenda della nostra inerzia e della nostra incapacità di fare le cose.

Propongo quindi di fare un numero sufficiente di esempi di comportamento estrattivo per stabilire il punto, per poi fare riferimento a due (e fugacemente a un terzo) autori che credo ci aiutino a capire meglio cosa sta succedendo. I due pensatori principali che voglio invocare sono lo scrittore svizzero-tedesco (relativamente oscuro) Jean Gebser e lo scrittore britannico Ian McGilchrist. Vorrei anche fare un breve riferimento al defunto Julian Jaynes e alle sue teorie sulla rottura della mente bicamerale. Se non avete mai sentito parlare di questi autori, non preoccupatevi: non ho la competenza per discuterne in dettaglio. Voglio solo usare un paio di loro idee come trampolino di lancio per un po’ di teorizzazione personale.

Cominciamo con l’economia. Quando insegnavo economia, molto tempo fa, si riteneva che l’attività economica riguardasse la produzione. Mi è stato insegnato che un uomo d’affari prendeva in prestito denaro o vendeva azioni per raccogliere capitali per costruire una fabbrica, dando così lavoro e soddisfacendo le esigenze dei clienti, e quindi guadagnando profitti. Forse si trattava di una caricatura, ma rifletteva l’assunto generale dell’epoca secondo cui l’attività economica era finalizzata a qualcosa e doveva portare da qualche parte. Ed è certamente vero che la mia giovinezza era piena di storie sulla ricostruzione dopo la guerra, sulla costruzione di nuove case, di autostrade e treni ad alta velocità, sullo sviluppo dell’industria aerospaziale e dei programmi spaziali. Le banche erano luoghi noiosi e rispettabili, e c’era una cosa chiamata Borsa, dove spesso andavano i figli poco dotati dell’alta borghesia.

Ma tutto questo era sostenuto – in molti casi in modo esplicito – da una speranza e da un interesse per il futuro, e dalla convinzione che con l’impegno fosse possibile continuare a creare una società migliore. L’investimento, nel senso delle mie lezioni di economia, era quindi naturale e necessario. Ma quando non si crede più nel futuro, tutto ciò che si può fare è trovare il modo di monetizzare il presente e il passato, il che ha portato alla finanziarizzazione di tutto e all’ascesa dell’industria del patrimonio. E lo sminuzzamento del passato ha i suoi limiti: se ci sono segnali di una tendenza redditizia verso la nostalgia degli anni Novanta, non li ho ancora visti.

Per molti versi, quindi, l’economia di mercato liberale sta mangiando se stessa. Il liberalismo è sempre stato ostile al settore manifatturiero (gli operai in camice marrone) e i sospiri di sollievo del Tesoro negli anni Ottanta, mentre l’industria britannica affondava sotto le onde, erano chiaramente udibili. Ma il processo di decostruzione (di questo si tratta) deve fermarsi da qualche parte, semplicemente perché non ci sarà più nulla da decostruire, nulla da finanziarizzare. Siamo già preziosamente vicini a quel punto, e i due shock di Covid e della guerra in Ucraina hanno fatto capire alla gente che è troppo tardi per fare marcia indietro.

Ma, direte voi, questo è solo un settore, ed è una serie di errori catastrofici e scellerati. Non può essere così dappertutto. Ebbene, prendete l’esempio più lontano che vi viene in mente. Che ne dite della filosofia? Come ho sostenuto altrove, l’esistenzialismo sartriano rappresenta l’ultima scuola filosofica che ha preteso di affrontare questioni serie che interessano la gente comune. I filosofi in senso tradizionale esistono ancora oggi, ma lavorano in aree molto ristrette e tecniche e generalmente scrivono per altri filosofi. In effetti, oggi il filosofo medio scrive su altri filosofi, per altri filosofi e per gli studenti di filosofia che diventeranno filosofi. Concettualmente non è molto diverso dal trading di derivati delle banche.

Inoltre, almeno dai tempi del Circolo di Vienna, le tendenze della filosofia sono state essenzialmente distruttive. L’idea che l’unico argomento proprio della filosofia siano le proposizioni empiricamente verificabili, elimina sostanzialmente tutte le questioni importanti dell’esistenza, che rimangono di interesse per le persone, anche se, come sosteneva Wittgenstein, non sono affatto problemi reali. Ma la sua efficace difesa del misticismo apofatico (“se non possiamo parlarne dovremmo stare zitti”) tralascia piuttosto il fatto che ci sono cose di cui dobbiamo parlare se vogliamo vivere. Il linguaggio ha i suoi limiti, come ha dimostrato Wittgenstein (e se pensate che non sia abbastanza sfumato e complicato leggete Saul Kripke), ma è tutto ciò che abbiamo.

Questo, forse, spiega perché alcune religioni tradizionali persistono e, soprattutto, perché il buddismo, l’Advaita Vedanta, il taoismo e altri sistemi di pensiero orientali suscitano sempre più interesse, poiché affrontano i problemi fondamentali dell’esistenza, della conoscenza e dell’etica in un modo che la filosofia occidentale non pretende più di fare. È interessante e intellettualmente eccitante leggere Foucault e Barthes che decostruiscono il linguaggio, il discorso e il significato, ma credo che sarebbero inorriditi da ciò che le persone che hanno letto cattive traduzioni del loro lavoro hanno fatto negli ultimi quarant’anni. Come nel caso della finanziarizzazione, quando si è decostruito tutto (anche la decostruzione) si scopre che non c’è più nulla di cui parlare, perché non c’è più nulla. È più o meno la stessa cosa con la religione consolidata che, almeno dagli anni Sessanta, evita di parlare di qualcosa di così volgare come la fede. Ricordo ancora il leggero shock che provai nell’imbattermi nel libro del teologo Don Cupitt del 1980, Taking Leave of God, che sostanzialmente sosteneva che avremmo dovuto abbandonare l’idea di un Dio trascendentale e metafisico, per guardare invece dentro di noi. Cupitt finì per diventare qualcosa di simile a un postmodernista: tutto, compreso Dio, era solo linguaggio. Ora c’è una soluzione a tutti i nostri problemi morali ed etici. Non c’è da stupirsi che le persone si siano rivolte alle chiese evangeliche, ai resti della Chiesa cattolica pre-Vaticano II, o addirittura all’Islam. Queste persone vedono la religione come reale, non come un gioco intellettuale derivativo.

La cultura è migliore? Onestamente non credo. Non è che non ci siano novità, nuovi movimenti, incessanti manifesti e richieste di cambiamento, ma a un livello più profondo non è cambiato molto nell’ultimo secolo. Il cinema è stata l’ultima grande invenzione culturale (e no, non credo che i videogiochi possano essere considerati tali). In realtà, i grandi sviluppi culturali delle ultime generazioni hanno comportato essenzialmente un ritorno all’indietro, a qualcosa come la messa in scena originale delle opere di Shakespeare o le opere barocche di Lully. (Il Messiah della mia giovinezza, trasmesso ogni Natale, non ha nulla in comune con le rappresentazioni “d’epoca” che si trovano oggi nei cataloghi). E non riesco a ricordare quante produzioni o adattamenti derivati delle opere di Shakespeare ho visto che si sono proclamati “rilevanti” e “contemporanei” per poi essere dimenticati immediatamente e mai più riproposti. In effetti, Shakespeare è una risorsa inesauribile, ed è per questo che esiste persino un’industria di derivati dedicata a sostenere che le opere non sono state scritte da Will di Stratford ma dalla regina Elisabetta I, o da un comitato presieduto da Francis Bacon. Gran parte della cultura moderna, infatti, è effettivamente parassitaria rispetto alla cultura tradizionale: il nouveau roman francese, ad esempio, sarebbe stato impensabile se non come reazione contro il romanzo tradizionale già esistente.

Si può sostenere, credo, che il vero sviluppo della letteratura si sia in gran parte arrestato nel decennio successivo alla prima guerra mondiale. Di certo, Joyce e Proust avevano portato il romanzo realista tradizionale al limite del possibile e, in The Waste Land, Eliot anticipa molti poeti successivi producendo un poema che è tanto un’antologia con campionamenti quanto un’opera nuova. Il passo logico successivo è quindi Finnegans Wake, in cui Joyce si ritira in una forma d’arte del tutto personale e solipsistica, producendo un testo che forse solo lui ha mai compreso appieno e che, francamente, non merita l’enorme sforzo richiesto per l’infinita decodificazione. Questo non vuol dire, naturalmente, che la grande letteratura innovativa non venisse ancora prodotta (le prime poesie di Auden, dopotutto, furono pubblicate nel 1929), ma quella che noi consideriamo la letteratura “moderna” da un secolo a questa parte ha sempre più utilizzato la letteratura del passato come materia prima. Si obietterà che la letteratura ha sempre guardato alle forme del passato, ma credo che ci sia una differenza tra lavorare all’interno di una tradizione consolidata ed esserne semplicemente parassiti. È interessante che alcune delle opere più innovative della letteratura recente (Salman Rushdie ne è un buon esempio) siano state prodotte da autori con forti influenze esterne al cuore dell’Occidente, proprio come il realismo magico di Marquez e altri.

La natura derivativa della cultura popolare occidentale moderna è diventata essa stessa un cliché, da sfruttare per profitto intellettuale e finanziario. Ma il punto è valido e mi sembra legato alla fine dell’idea di futuro, di cui ha scritto il compianto Mark Fisher. Non c’è nuovo sviluppo, ma solo sfruttamento infinito del passato. Perché investire quando si possono sfruttare le risorse esistenti? Perché sviluppare un suono proprio quando si può semplicemente inventare un suono con riferimenti furbi e consapevoli ai suoni di altri nel passato? Oggi è forse difficile immaginare che la musica popolare possa essere stata innovativa, ma lo è stata. La musica popolare del 1920 era molto diversa da quella del 1940 o del 1960, in parte perché molta musica era ancora dal vivo e quindi in continuo sviluppo. E tra l’inizio degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, la musica popolare ha attraversato un periodo esplosivo di innovazione, per una serie di ragioni sociali e tecnologiche che sarebbe troppo lungo approfondire in questa sede. Di certo, chiunque abbia ascoltato i Beatles o Bob Dylan per la prima volta deve aver avuto la stessa reazione da brivido: che diavolo è? A queste sonorità innovative ne seguirono rapidamente altre: l’elettronica, l’heavy rock, il reggae, il folk revival, il jazz rock, il progressive di qua e di là, e naturalmente un numero spropositato di cantautori. Gran parte di tutto questo era inevitabilmente spazzatura, ma c’era uno zoccolo duro di innovazione sfolgorante che ancora oggi sta dando i suoi frutti per l’industria del campionamento.

Come nel caso della finanza, è stata la tecnologia a permettere alla musica popolare di cannibalizzarsi. Quando i Beatles usarono per la prima volta il campionamento in Sergeant Pepper, fu emozionante e innovativo, ma divenne rapidamente un cliché e un sostituto della vera creatività. I Beatles sono stati anche pionieri nella realizzazione di dischi che non potevano essere riprodotti dal vivo – anche se le canzoni potevano essere cantate – e hanno aperto la strada all’ormai quasi totale abisso tra suono registrato e performance dal vivo. Questo ha avuto l’inevitabile effetto di scoraggiare l’innovazione. E ora vedo che ci minacciano con artisti riportati in vita e che suonano canzoni che non hanno mai registrato, il tutto fatto dalla cosiddetta intelligenza artificiale. Spariremo tutti in ghetti artistici unipersonali, ognuno con una versione diversa dell’album che i Doors avrebbero registrato se Morrison non fosse morto, assemblata secondo i nostri criteri. E voi pensavate che le tribute band fossero un passo indietro…`

Si può fare essenzialmente la stessa critica al cinema, e si può aggiungere che quasi tutti i film popolari al giorno d’oggi sembrano essere per i bambini, che notoriamente non amano l’originalità e vogliono sentirsi raccontare sempre le stesse storie. Il cinema moderno cannibalizza i film e la letteratura del passato a scopo di lucro, non limitandosi a trovare ispirazione diretta con adattamenti e remake, ma succhiando la creatività del passato, senza aggiungere nulla. (Guerre stellari, da cui è iniziato il marciume, era essenzialmente la presentazione incoerente di una mitologia spogliata degli asset e del tipo di serial di fantascienza che proiettavano al cinema ogni settimana quando ero giovane. Non c’era un briciolo di originalità, ed è per questo che i bambini amavano così tanto quelle storie). Naturalmente, il cinema popolare può utilizzare miti e archetipi a proprio vantaggio, se i registi sono abbastanza abili e le storie hanno sufficiente risonanza. Così Incontri ravvicinati del terzo tipo è un’allegoria della nascita, della morte e della resurrezione di Cristo, così come 1917 di Sam Mendes è un’allegoria della sofferenza e della redenzione, ma nessuno dei due è solo una riproposizione di una storia familiare. Forse il cinema è condannato a mangiare se stesso in una spirale infinita di autoreferenzialità e revival. Questo approccio può produrre grande arte (ad esempio, C’era una volta a Hollywood), ma richiede un grande regista per farlo.

Sospetto che anche la battaglia contro l’uso inutile ma redditizio della tecnologia sia stata persa. La storia è nota: i primi utilizzi della CGI in film come Il Gladiatore e Il Signore degli Anelli erano sorprendenti e originali, ma man mano che i computer diventavano capaci di fare tutto, lo spazio per le abilità tradizionali di recitazione, scrittura di scenari e regia iniziava a essere marginalizzato a favore di effetti sempre più grandi. Da tempo sostengo che l’azienda capitalista ideale non avrebbe alcun dipendente. Si limiterebbe a incassare automaticamente i soldi, a ricavare una percentuale per i proprietari e a trasferire il resto. Temo che nel cinema potremmo essere molto vicini a questo, dove la cosiddetta IA sarà, almeno in teoria, in grado di svolgere tutti i ruoli.

Ho già parlato molto di politica qualche settimana fa, ma spero che ne vedrete le implicazioni. I partiti politici sono diventati simili ad aziende private e sono gestiti a beneficio dei loro leader proprio come le aziende sono gestite per i loro azionisti e manager. Non producono nulla, ma pagano dividendi politici sotto forma di posti di lavoro e denaro. I partiti politici non hanno più responsabilità nei confronti degli elettori di quanto non ne abbiano le aziende private nei confronti della società. Concludo quindi questa serie di esempi con i ristoranti. (Riflettendoci, però, cosa c’è di più adatto per una discussione sulla società che mangia se stessa). Di recente, guardando una serie di ristoranti e cercando di sceglierne uno, mi è venuto in mente qualcosa che mi era già capitato: il modo derivativo e dipendente in cui il cibo veniva preparato e descritto. Ora, il vocabolario della cucina francese è spesso molto fiorito e si traduce male in inglese. Ma mi ha colpito ancora una volta come molti piatti e stili di cucina siano stati “rivisitati”, “ripensati” o addirittura “ri-guardati” (sì, temo che esista un verbo francese relooker). Tutto, in altre parole, deriva dal passato, anche quando viene presentato come nuovo, e persino i ristoranti tradizionali vengono presentati come un “ritorno” al passato. L’innovazione vera e propria è fuori discussione: la Nouvelle cuisine risale agli anni ’70, dopotutto. E cos’è la “cucina fusion” se non un tentativo postmodernista di mescolare i generi e un’analogia con una fusione sfortunata tra aziende diverse con culture diverse?

Beh, basta con la cucina. Ma se quanto ho esposto sopra è ampiamente convincente, come dare un senso a tutto questo? Come ho indicato, cercherò di farlo facendo riferimento a un paio di libri e dando un’occhiata a un terzo, e amplierò le loro argomentazioni per suggerire che sono rilevanti per una società che sta impazzendo a causa dell’estrapolazione meccanica della razionalità, generando processi che non hanno un interruttore di spegnimento.

Il primo scrittore è il pensatore tedesco, poi svizzero, Jean Gebser, che fino a poco tempo fa era poco conosciuto nel mondo anglosassone. La sua unica opera, Ursprung und Gegenwart (1949), finalmente tradotta come L’origine sempre presente, è una discussione magistrale sullo sviluppo della coscienza umana attraverso diverse fasi: l’arcaica, la magica, la mitica, la mentale-razionale e (in futuro) l’integrale. Gebser sosteneva che stavamo vivendo nella fase “mentale”, dominata dalla logica, dalla parola scritta, da un concetto lineare del tempo e da una chiara distinzione tra l’io individuale e il mondo esterno. Egli riteneva che quest’epoca fosse iniziata intorno al 1225 a.C. e che ora stessimo vivendo nella sua fase finale, quella che egli chiamava la fase “deficitaria”, quando i progressi e i vantaggi di questo modo di pensare si erano esauriti e cominciavano a prevalere i problemi e gli svantaggi. Queste fasi non sono assolutamente distinte l’una dall’altra e si fondono l’una nell’altra nel corso del tempo, raggiungendo la maturità in momenti come il Rinascimento, per poi iniziare il declino. Gebser riteneva che “noi” (intendeva l’Occidente, e questo è importante) stessimo probabilmente andando incontro a una sorta di catastrofe, a meno che non riuscissimo in qualche modo a passare a uno stadio finale, “integrale”, in cui le intuizioni e le virtù delle diverse fasi potessero essere combinate.

Il secondo è Iain McGilchrist, psichiatra e filosofo, noto soprattutto per il suo poderoso volume The Master and his Emissary (Il Maestro e il suo Emissario) e autore di un seguito ancora più poderoso, che devo confessare di non aver ancora letto. Il sottotitolo è “Il cervello diviso e la formazione del mondo occidentale” e McGilchrist ripercorre con affascinanti dettagli la costante ascesa del cervello sinistro al predominio su quello destro. Si preoccupa di non semplificare eccessivamente l’argomento, utilizzando le ultime scoperte della psicologia sul rapporto tra gli emisferi. Ma la sua tesi di fondo è che, comunque, l’emisfero sinistro, sviluppatosi come “emissario” del destro, negli ultimi tempi è arrivato a usurparne il ruolo. Il cervello destro vede il quadro generale e il cervello sinistro si occupa del lavoro dettagliato. In gran parte della storia umana, sostiene McGilchrist, c’è stata una proficua cooperazione mista a tensione tra i due emisferi, ma a partire dalla Rivoluzione industriale, e più in particolare nell’ultimo secolo, l’emisfero sinistro è arrivato a dominare. Il risultato è la frammentazione: tutti i dettagli e nessuna visione, tutti i processi e le procedure ma nessun contesto, tutte le regole ma nessuno scopo. Tuttavia, McGilchrist rimane ottimista sulla possibilità di ritrovare una combinazione fruttuosa.

È evidente che i due autori stavano pensando in modo simile (anche se McGilchrist non dà alcun segno di conoscere il libro di Gebser). Entrambi individuano i problemi dell’eccessivo affidamento alla razionalità priva di contesto ed entrambi credono che qualcosa sia andato storto nel modo in cui guardiamo il mondo. E per completare l’elenco, mi limiterò a citare Julian Jaynes, la cui opera solitaria, altrettanto ambiziosa, The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind (L’origine della coscienza nella rottura della mente bicamerale) sostiene ciò che il titolo suggerisce: la coscienza, così come la intendiamo noi, è un’invenzione recente (non si trova in Omero, per esempio) e le voci degli dei che i nostri antenati sentivano in realtà provenivano dalla loro stessa mente, i cui emisferi funzionavano in modo completamente indipendente l’uno dall’altro. L’invenzione della logica, o addirittura del pensiero razionale di qualsiasi tipo, è quindi uno sviluppo recente”.

Non cercherò di riassumere ulteriormente perché non c’è spazio. Vi invito solo a leggere i libri che ho citato, che sono i più noti, ma non gli unici utili sull’argomento. Ma cosa ne facciamo di queste idee? È banalmente vero che i nostri antenati non erano come noi e che più si va indietro nella storia più questo è vero. In un certo senso il problema è mascherato da quello che ho chiamato cronicismo, la tendenza a guardare il passato con occhi contemporanei, a dare un voto su dieci a chi sembra assomigliare a noi e a concentrarsi su quelle parti del passato che possiamo comprendere. Ma se siamo seri, ci rendiamo conto che le visioni del mondo, del nostro posto in esso e delle relazioni tra gli individui, sono cambiate in modo incomprensibile nel corso dei millenni. La lettura del Timeo di Platone, ad esempio, non come opera letteraria o filosofica, ma come resoconto pragmatico della creazione del mondo e degli esseri umani, ci fa girare la testa. Pianeti e stelle come esseri viventi? Quattro elementi, tutti formati da triangoli? L’acqua compressa in pietra?

Sembra quindi del tutto possibile che, con la crescente complessità della vita individuale e collettiva, la coscienza umana abbia effettivamente iniziato a cambiare, e che questo cambiamento sia stato fortemente accentuato dall’Illuminismo e dallo sviluppo del capitalismo, portando al trionfo di quella che Gebser ha definito la fase “mentale-razionale” della coscienza. Questo può essere associato a una crescente dominanza del cervello sinistro e allo sviluppo della coscienza individuale, ma non c’è spazio qui per discutere il rapporto tra le varie tesi. Consideriamo comunque il suggerimento di Gebser, secondo cui la società occidentale sta andando incontro a un crollo catastrofico. Dalla sua morte, avvenuta nel 1973, questo tipo di pensiero è passato dai margini al mainstream e molte persone ora temono proprio questo, ma perché? Ricordiamo che non stiamo parlando direttamente del cambiamento climatico o dell’Ucraina, ma del cambiamento delle abitudini di pensiero. Perché dovrebbero provocare una catastrofe?

Torniamo all’inizio di questo saggio, dove ho esposto la tesi secondo cui la nostra società, in tutti i suoi aspetti, ruota ormai intorno a versioni del concetto di derivato e ha esaurito la sua capacità di fare cose nuove. In linea di massima, possiamo dire che il pensiero razionale, o cervello sinistro, si occupa dei dettagli, mentre il cervello destro, o pensiero mitico, si occupa del quadro generale. L’uno crede che raccogliendo tanti piccoli pezzi si possa arrivare a una verità più grande, l’altro che si possa partire da una verità più grande e scendere verso il basso. Non c’è dubbio pragmatico che la seconda alternativa sia più efficace. Il pensiero sinistro produce regole dettagliate e le aggiunge, mentre il pensiero destro produce linee guida generali. Entrambi sono necessari, naturalmente, ma credo che possiamo dimostrare che il pensiero razionale/sinistro ci è sfuggito di mano. Consideriamo alcuni esempi.

Un aspetto del pensiero razionale/sinistro è l’applicazione insensata di regole, poiché il cervello sinistro non è in grado di esprimere giudizi qualitativi e quindi non sa quando fermarsi. Se le vostre istruzioni sono di massimizzare il valore dell’azienda per gli azionisti e i proprietari, alla fine smetterete di investire e inizierete a cannibalizzare i vostri beni e le vostre persone. Potreste rendervi conto che questo è un suicidio a lungo termine, ma il cervello sinistro, come è noto, non ha il concetto di tempo: continua ad andare avanti. Se i derivati sono redditizi, perché non provare i derivati dei derivati, e i derivati dei derivati dei derivati, e così via all’infinito? Se tutto può essere decostruito, anche il decostruzionismo, che senso ha la decostruzione stessa? Perché scomodarsi a scrivere? Se Actors in Funny Costumes 4 è stato un successo, perché non fare le parti 5, 6, 7 8 e così via per sempre? L’insegnamento universitario, e in generale la conoscenza e la ricerca, non seguono le regole del cervello sinistro. Perciò le università reagiscono cercando di imporre loro le regole del cervello sinistro – citazioni, valutazioni, impatto della ricerca, ecc.

Questo tipo di pensiero apprezza la novità superficiale come liberazione dalla noia, ma non è in grado di produrre nuove idee: si rivolge quindi ai derivati di quelle esistenti. Reagisce alle battute d’arresto rifacendo la stessa cosa, ma in misura maggiore. Il suo motto quando le cose vanno male è “fallo ancora”: non si chiede mai se dovrebbe fare qualcos’altro. Aggiunge controlli, sorveglianza, strati di supervisione e gestione, perché non riesce a concepire un quadro generale. È sempre la prossima riorganizzazione, il prossimo livello di supervisione, a risolvere il problema. E quello successivo e quello successivo ancora. Per esempio, la corruzione, di cui ho scritto di recente, viene affrontata producendo sempre più regolamenti e sempre più strati di controllo e supervisione. La soluzione vera e propria, una cultura dell’onestà, non può essere misurata e riportata, ed esiste solo come concetto generale del cervello destro.

Questo ci ricorda, forse, che l’approccio razionale del cervello sinistro è intrinsecamente sospettoso, persino paranoico, perché non riesce a fare il salto per vedere il quadro generale. Per questo motivo, oggi le organizzazioni spiano i loro dipendenti e cercano disperatamente di far rispettare regole sempre più severe. Ma è stato sostenuto da scrittori come Lous Sass che la cultura moderna è in effetti vicina alla schizofrenia, non nel senso popolare di sdoppiamento della personalità, ma piuttosto l’incapacità di integrare le cose e gli eventi e di comprenderne la relazione, e un rapporto sospettoso e ostile con la vita e con gli altri.

Credo che lo si possa vedere nella cultura politica di oggi, che è irrimediabilmente derivativa: la realtà non conta, si tratta solo dell’ultimo tweet, di apparire bene nei notiziari televisivi e di godere di una breve spinta nei sondaggi d’opinione. Il nostro sistema politico è come uno schizofrenico, che non riesce a relazionarsi correttamente con la vita reale e cerca di ritirarsi da essa. Purtroppo, i leader politici hanno responsabilità reali e la realtà non può essere tenuta a bada con le droghe. Il che ci porta, inevitabilmente, suppongo, all’Ucraina.

Alla domanda “i nostri leader sono impazziti?” che viene posta ripetutamente in questi giorni, la risposta è “sì, sono impazziti”. O più precisamente, operano in una cultura politica che è diventata essa stessa folle. In particolare, non c’è la capacità di vedere il quadro generale, e nemmeno l’interesse per esso. Se ci pensate, fino a poco tempo fa la politica si basava principalmente su storie in competizione, quelle che Gebser chiamerebbe “miti” nel senso neutro del termine. Per la destra era il mito di preservare gli aspetti migliori del presente e di guardare al passato. Per la sinistra era il mito della conservazione degli aspetti migliori del presente e dell’orientamento verso il futuro. La fine dell’ideologia è anche la fine dell’approccio mitico e destro alla politica e il trionfo del cervello sinistro, della ricerca razionale e tecnocratica del semplice potere. E rappresenta anche il trionfo dell'”io” sul “noi”, poiché perdiamo di vista il quadro generale e persino gli interessi degli altri.

Il comportamento dei leader occidentali e soprattutto europei durante la crisi è esattamente quello che ci aspetteremmo da questo tipo di cultura politica. In particolare, vi è una totale incapacità di mettere in relazione i vari elementi e le conseguenze tra loro. Quindi, a un certo livello, i politici occidentali devono capire che il gioco è finito e che presto dovranno fare i conti con una Russia forte e arrabbiata. Ma questo coesiste con la convinzione che in qualche modo l’Occidente vincerà, se solo continuiamo a fare le stesse cose, basandosi in gran parte sul pensiero derivativo: sicuramente tutti quegli esperti e tutti i leader nazionali che incontro non possono sbagliarsi? La loro mancanza di conoscenze effettive su qualsiasi cosa, comprese le banalità come le forniture energetiche, le catene di approvvigionamento globali, la produzione e l’approvvigionamento militare e, se vogliamo, la guerra stessa, fa sì che il “dibattito” stesso si svolga a livello derivativo, su chi ha detto cosa quando e se era abbastanza antirusso. Se il sistema politico sia effettivamente in grado di accettare la realtà, e cosa succederà se non ci riuscirà, sono cose su cui dobbiamo iniziare a riflettere ora.

Ironia della sorte, i critici della guerra e di avventure simili cadono negli stessi errori, nel disperato tentativo di imporre un’interpretazione razionale e di sinistra a qualcosa che è un pasticcio incoerente causato da un sistema politico impazzito. Una volta abbandonato il tentativo di interpretare il comportamento dei leader occidentali come se fosse basato sulla razionalità, non è più necessario costruire elaborati e complessi piani regolatori perseguiti per decenni, nel tentativo di imporre agli eventi un’unità che non possiedono. Né abbiamo bisogno di imitare il comportamento degli schizofrenici, per i quali ci sono significati nascosti e minacce ovunque.

Tutto questo suona piuttosto deprimente, ed è vero che non esiste un modo immediatamente evidente per tornare a un approccio più sano. Ma sia Gebser che McGilchrist sostengono che esiste almeno la possibilità di una nuova sintesi e di una proficua collaborazione tra diversi modi di coscienza o diversi lati del cervello, come avveniva in passato. Dopotutto, abbiamo bisogno della modalità mentale/razionale e del cervello sinistro, che devono solo rimanere sotto controllo. Verso la fine della sua vita, Gebser trovò conforto nei fiorenti movimenti di spiritualità alternativa e nel crescente interesse per il misticismo orientale. Gran parte di questo, ovviamente, è degenerato in un’attività derivativa per fare soldi, ma basta dare un’occhiata alle librerie, ai canali Youtube e ai podcast per vedere una popolazione occidentale inquieta, vagamente consapevole che qualcosa non va e che cerca di andare oltre i tentativi di ottimizzazione personale guidati dall’ego. Al di là delle sciocchezze dei costosi corsi di yoga online e delle lezioni di mindfulness per i trader obbligazionari, credo che negli ultimi cinquant’anni ci sia stato un graduale allontanamento dall’eccessiva concentrazione sull’egoismo razionale del cervello sinistro che, ammettiamolo, non ha fatto molto bene a molte persone, anche se ha portato benefici a una piccola minoranza. Concludo con due possibilità che mi danno un po’ di speranza, anche se la prima potrebbe non sembrare immediatamente molto promettente.

La mentalità razionale del cervello sinistro non è in grado di affrontare i cambiamenti fondamentali, quasi per definizione, perché si occupa di processi e non di contenuti, quindi quando i contenuti cambiano si perde. Questo è il motivo per cui i governi e le forze armate tendono a cambiare il personale quando iniziano le guerre, per esempio. Penso che sia abbastanza probabile che una combinazione di effetti collaterali dell’Ucraina, del cambiamento climatico e della continuazione di Covid o di un suo parente stretto, avrà un effetto cumulativamente traumatico sulle classi politiche e mediatiche. Non impareranno nulla, perché non possono, ma se vogliamo che le nostre società sopravvivano, i nostri attuali governanti dovranno andarsene. Non credo che ci saranno forconi per le strade (anche se non si sa mai), ma credo che assisteremo a qualcosa di simile a un esaurimento nervoso o a un episodio psicotico da parte della nostra classe dirigente, che si lamenterà che non posso farlo! E’ troppo difficile! Sospetto che assisteremo a una forte ri-nazionalizzazione delle economie, a una ri-localizzazione degli sforzi e a un maggior numero di organizzazioni basate sulle comunità (ve le ricordate?), se non altro perché l’alternativa è troppo orribile da contemplare.

In secondo luogo, l’aumento della posizione e dell’influenza culturale di Cina e India, e forse anche della Russia, costringerà l’Occidente a prendere sul serio società che non si basano sul perseguimento razionale dei desideri egoistici del cervello sinistro, ma hanno una coesione sociale e un’etica collettiva molto maggiori. In passato, l’Occidente ha potuto adottare un atteggiamento à la carte nei confronti della cultura asiatica (i manga e lo zen giapponesi, per esempio) e ignorare ciò che non trovava attraente o non poteva essere commercializzato. Ma a un certo punto ci si renderà conto che queste culture hanno punti di forza che noi non abbiamo e ci si chiederà se non ci siano idee da trasferire.

L’idea fondamentale, che noi avevamo ma che abbiamo perso, è il radicamento nella società, nella storia e nella cultura, e la conseguente capacità di comprendere ciò che l’altro sta dicendo. Se avete lavorato professionalmente in Asia, sarete rimasti colpiti dal modo in cui le persone si presentano e da quello che dicono i loro biglietti da visita. Un uomo d’affari occidentale potrebbe presentarsi dicendo: “Sono Darth J Vader, Chief Engulfment Officer della Megagreed Corporation”. Ma un uomo d’affari giapponese potrebbe dire qualcosa che si potrebbe tradurre come “Il Vice Direttore Generale Saito della Honshu Bank di Tokyo Ginza Branch è (qui)”. La seconda non solo è meno egoistica, ma è anche molto più utile e informativa, perché permette all’interlocutore di collocarsi immediatamente rispetto a voi. Naturalmente la nostra società non sarà mai come il Giappone e la Cina (il che può essere un bene), ma se vogliamo sopravvivere, dovremo prendere in considerazione la possibilità di far rivivere alcune idee e atteggiamenti del passato che erano più vicini al modo in cui funzionano queste società (e molte altre). Altrimenti temo che impazziremo tutti.

Questi saggi sono gratuiti e intendo mantenerli tali, anche se più avanti nel corso dell’anno introdurrò un sistema per cui le persone possono effettuare piccoli pagamenti, se lo desiderano. Ma ci sono anche altri modi per dimostrare il proprio apprezzamento. I “Mi piace” sono lusinghieri, ma mi aiutano anche a valutare quali argomenti interessano di più alle persone. Le condivisioni sono molto utili per portare nuovi lettori, ed è particolarmente utile se segnalate i post che ritenete meritevoli su altri siti che visitate o a cui contribuite, perché anche questo può portare nuovi lettori. E grazie per tutti i commenti molto interessanti: continuate a seguirli!

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La perdita della funzione esecutiva in Occidente, di Yves Smith

La perdita della funzione esecutiva in Occidente

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È una forzatura usare dati aneddotici per costruire una teoria… tranne quando le prove sono schiaccianti, come in questo caso, della diffusa erosione delle capacità esecutive. Non è controverso sottolineare che il calibro di ciò che passa per leadership in Occidente è ormai scadente, e c’è una carenza di promettenti nuovi arrivati ​​per sfidare la vecchia guardia. Quando Jamie Dimon è bravo come si arriva, sai che è brutto.

Il funzionamento di molte importanti istituzioni pubbliche e private è notevolmente peggiorato negli ultimi decenni. Probabilmente, la maggior parte di questi pesci è marcita dalla testa. E se è così, perché la funzione esecutiva, che in termini molto semplici sta valutando le situazioni, decidendo se e come agire, e portandole a termine, è decaduta così rapidamente che le scarse prestazioni di alto livello sono ampiamente visibili?

Questo è un fenomeno così vasto che spero che i lettori intervengano con esempi tratti dalle loro vite lavorative e personali. Per aiutare a stimolare la discussione, esporrò anche alcune possibili cause. Ma una patologia multisintomo che ha infestato organizzazioni già complesse può senza dubbio essere attribuita a molti driver. 1 E i driver possono differire a causa di condizioni preesistenti (strutture e norme sociali, focus istituzionale).

Alcuni dei tanti tanti esempi:

L’incapacità di chiunque nel governo federale con potere di presentarsi sulla scena dell’attentato al treno nella Palestina orientale . I funzionari federali dovrebbero apparire preoccupati, vedere in prima persona quali sono i bisogni più urgenti, promettere di aiutare e farlo.

Questo si distingue perché ci è voluto pochissimo sforzo per fingere che gli importasse, ma il Team Biden non poteva essere disturbato. È un lampante esempio di abbandono da parte del governo e dell’élite del marciume nel corpo pubblico: abuso di oppioidi, violenza armata (i suicidi sono ancora in cima agli omicidi), calo dell’aspettativa di vita. Quelli al vertice continuano come se questi problemi non fossero un loro problema, quando sono esposti a ripetuti danni causati dal Covid quanto gli ordini inferiori. 3

Il notevole declino del servizio civile britannico. I lettori ci dicono che è quasi del tutto svuotato, con (almeno fino a qualche anno fa) qualche vecchissimo scoreggia come Custodi della Conoscenza, e giovani non di grande caratura e non performanti a livelli storici. Questo decadimento è diventato evidente durante la Brexit, quando il Regno Unito ha spesso prodotto dichiarazioni di posizione sconclusionate e grandiose, in netto contrasto con le controparti europee scarne e accuratamente redatte. 2

Infrastrutture in decomposizione . La Volcker Alliance ha stimato che l’importo totale della manutenzione differita negli Stati Uniti fosse di oltre 1 trilione di dollari nel 2019 . Costruire strade e riparare ponti mette denaro nelle tasche locali e, grossolanamente, può comprare voti alle società nella catena di riparazione. È anche un vantaggio per gli affari, poiché strade più grandi e migliori significano un movimento più efficiente di merci e lavoratori. Nient’altro che il neoliberista hard core Larry Summers ha pompato proprio per questo tipo di spesa, dicendo che si ripagava da sola, che ogni dollaro di recupero delle infrastrutture poteva generare fino a 3 dollari di crescita aggiuntiva del PIL.

Promozione e allevamento di cattivi modelli di business . Solo di recente la stampa economica ha scoperto che la superstar aziendale Jack Welch era l’unico responsabile della distruzione di una società americana un tempo grande, la General Electric. 4 GE ha utilizzato il suo ramo finanziario per gestire i profitti a un livello che sapeva di frode. Gli analisti avrebbero dovuto sospettare, e non lo erano, della capacità simile a Madoff di GE di soddisfare i suoi numeri.

Intendiamoci, non è che Welch sia stato lodato. I media hanno una brutta tendenza a esagerare e poi attaccare. È che Welch è diventato l’archetipo di un nuovo cattivo prodotto americano, l’amministratore delegato come celebrità, e le sue nuove pratiche sono state adottate con tanto controllo quanto le diete di Hollywood, come licenziare il 10% del personale ogni anno.

E non era solo Welch, ma era un caso estremamente resistente. Considera gli S&L go-go. Enron. AI.G. Super. E per aggiungere la beffa al danno, molte società con performance solide come Toys’R’Us sono state stroncate dall’eccessivo indebitamento del private equity e dal sottoinvestimento.

Autocensura tra gli influentiUn contatto conservatore sostiene che gli Stati Uniti e l’Europa hanno leader inimmaginabilmente scadenti perché è quello che vogliono i ricchi e i potenti. Ma per quanto riguarda la Brexit? La comunità imprenditoriale non è riuscita a difendere i propri interessi, in particolare per quanto riguarda la necessità di una preparazione molto maggiore per un confine fisico. Mi è stato ripetutamente detto che erano stati costretti a tacere sulle imminenti interruzioni e sui costi per paura di rappresaglie del governo. Quindi chi è il responsabile, esattamente? Allo stesso modo, durante l’incessante gassma delle sanzioni dell’UE, i produttori tedeschi erano a bocca aperta su quanto l’energia più costosa avrebbe portato a tagli permanenti della produzione e persino alla chiusura degli impianti. Sicuramente ci sarebbe stato un modo accettabile per affrontare l’argomento, come il costo per le comunità che perderebbero il lavoro e come tale onere potrebbe essere condiviso.

Programmi inadeguati per il cambiamento climatico . Sì, è comprensibile, anche se disastroso, che l’azione per combattere il cambiamento climatico sia stata tristemente inadeguata. Troppe persone dovranno rinunciare alle comode abitudini e molte ciotole di riso saranno rotte. Ma la prova del funzionamento esecutivo danneggiato è la mancanza di piani arcobaleni e unicorni a piena noia, non a energia verde.

Il mondo sa che il cambiamento climatico si sta abbattendo su di noi almeno dai rapporti IPCC del 2007. Allora dov’è il mostruoso documento accademico/ONG che delinea una visione sistematica di come deve cambiare l’approvvigionamento per la società, in tutto il mondo? Potrebbero essere necessari a un team molto grande, diciamo 30 mesi, per produrre un rapporto con due scenari ben sviluppati. Sottolineare che l’esercito è una parte importante del problema sarebbe un motivo da solo per ingigantire questo tipo di documento. Un approccio sistematico, anche se i critici potessero bucarlo, eleverebbe il livello del pensiero e fisserebbe un livello più alto per altri piani.

Questi problemi sono così vasti e profondi che è molto improbabile che si prestino a spiegazioni riduzioniste. Ma lasciatemi suggerire alcuni possibili colpevoli:

L’erosione delle comunità locali e con esse la responsabilità. Quando ero bambino, negli Stati Uniti c’erano molte aziende con sede in città di medie dimensioni come Dayton, Ohio. Ciò, oltre al fatto che le città più piccole allora avevano regolarmente un giornale mattutino e serale, significava che c’era un gruppo di notabili locali che si preoccupavano della loro immagine e statura ed erano (rispetto a adesso) soggetti a essere imbarazzati nella loro città se colti in fallo. condotta di servizio. Al contrario, era anche relativamente economico guadagnare capitale culturale, ad esempio donando a un’importante organizzazione di beneficenza locale o sponsorizzando programmi di studio-lavoro presso l’università locale.

Certo, dati i costi di approvazione regolamentare, i farmaci non sono prodotti locali. Ma pensi che i Sackler avrebbero potuto farla franca creando quasi da soli la crisi degli oppioidi se fossero stati in prossimità delle comunità che stavano distruggendo? Erano usciti direttamente dalla sceneggiatura del Terzo Uomo:

Il relativo problema della complessità . Mentre le industrie americane ed europee si sono prima consolidate, spostando l’azione aziendale verso un numero minore e più grande di città e poi l’outsourcing e l’offshoring hanno preso piede, i dirigenti stanno gestendo operazioni molto più tentacolari, complesse ed esposte al rischio.

Gli esseri umani hanno una cattiva tendenza a voler fare affidamento su semplici regole decisionali e sul falso conforto delle metriche (vedi qui per una discussione di lunga durata… nel 2006!). Da un post di quest’anno :

Poiché le aziende e gli ambienti competitivi sono diventati più difficili da affrontare, molti capi aziendali sono ricaduti su semplici linee guida come “Massimizza il valore per gli azionisti”. Ma il principio di obliquità rileva che in sistemi altamente complessi non possiamo avere una comprensione sufficiente del loro comportamento per tracciare un semplice corso. Una breve introduzione di questa idea, dall’ex editorialista del Financial Times John Kay, che ha sottolineato che quando le aziende cercano di “massimizzare il valore per gli azionisti”, non ci riescono :

Gli approcci obliqui sono più efficaci su terreni difficili o dove i risultati dipendono dalle interazioni con altre persone. L’obliquità è l’idea che gli obiettivi spesso si raggiungono meglio se perseguiti indirettamente.

L’obliquità è caratteristica dei sistemi che sono complessi, imperfettamente compresi e cambiano la loro natura mentre ci impegniamo con loro…

L’obliquità dà origine al paradosso della ricerca del profitto: le aziende più redditizie non sono le più orientate al profitto. ICI e Boeing illustrano come una maggiore attenzione ai rendimenti per gli azionisti sia stata controproducente nei suoi termini ristretti. I confronti delle stesse aziende nel tempo si rispecchiano nei contrasti tra diverse aziende degli stessi settori. Nel loro libro del 2002, Built to Last: Successful Habits of Visionary Companies, Jim Collins e Jerry Porras hanno confrontato aziende eccezionali con aziende adeguate ma meno straordinarie con operazioni simili… in ogni caso: l’azienda che ha posto maggiore enfasi sul profitto nella sua dichiarazione di obiettivi era il meno redditizio nei suoi bilanci.

Ritorno al tribalismo e al clientelismo . Nelle società complesse, i partecipanti affrontano obblighi concorrenti e spesso contrastanti. Amo la saggezza del grande teorico sociale Jamie Lannister:

Tanti giuramenti… ti fanno giurare e giurare. Difendi il re. Obbedisci al re. Mantieni i suoi segreti. Fai i suoi ordini. La tua vita per la sua. Ma obbedisci a tuo padre. Ama tua sorella. Proteggi gli innocenti. Difendi i deboli. Rispetta gli dei. Rispetta le leggi. È troppo. Non importa quello che fai, stai abbandonando un voto o l’altro.

Quindi cosa succede quando quasi nessuno, anche in cima alla catena alimentare, aveva un trespolo sicuro? Pensa al destino di un dirigente che il CEO vede come una minaccia perché il suddetto dirigente sta mettendo in discussione alcuni tagli normativi? Gli alti ufficiali che vengono improvvisamente espulsi in genere hanno difficoltà ad atterrare bene. Addio non solo vacanze sulla neve e casa estiva, ma potenzialmente la cooperativa dell’Upper East Side e le lezioni alla Dalton.

Questa maggiore necessità percepita di concentrarsi sull’autoconservazione della carriera combacia con la tendenza negli Stati Uniti per l’istruzione superiore a diventare un esercizio di credenziali, non di apprendimento. 5 Il motivo per cui le ragazze ottengono risultati migliori in matematica in Iran e in altre parti del Medio Oriente rispetto ai ragazzi è, per la maggior parte, il livello di istruzione che non aiuta con le prospettive di carriera. Dipendono quasi interamente dalla connessione familiare/tribale. Per le ragazze, tuttavia, andare bene a scuola dà loro un vantaggio in un mercato del lavoro generalmente ostile alle donne.

Poiché il ruolo dell'”educazione d’élite come preservazione della classe” è diventato ovvio, 6 i suoi effetti corrosivi vengono persi. Significa che le prestazioni al college non contano poi così tanto. Ciò è coerente con l’abbattimento segnalato anche di programmi universitari apparentemente di alto livello.

Se gli studenti imparano a pattinare al college, non è difficile pensare che porteranno queste abitudini nella vita. Da qui l’eccessivo affidamento sulla disinvoltura e l’elusione delle controversie.

Mi fermo qui. Potrei facilmente scrivere un post quattro volte più lungo e graffiare a malapena la superficie. Quindi forse è meglio lasciare questo pezzo come un espediente di forzatura e cercare input e commenti dal nostro commentatore saggio.

_____

1 Sebbene molti siti Web medici contengano sezioni sulla compromissione delle funzioni esecutive, Medical News Today sottolinea :

Le abilità della funzione esecutiva aiutano le persone a completare le attività e interagire con gli altri. Includono una serie di abilità, come:

  • pianificazione e organizzazione
  • concentrare e gestire la concentrazione mentale
  • analizzare ed elaborare le informazioni
  • gestione delle emozioni e del comportamento
  • ricordare i dettagli
  • gestire il tempo
  • multitasking
  • risolvere problemi

Un disturbo della funzione esecutiva compromette alcune di queste abilità, che possono influire sulla capacità di una persona di gestire e organizzarsi per raggiungere gli obiettivi.

Tuttavia, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 5a edizione ( DSM-5 ) non riconosce il disturbo della funzione esecutiva come una specifica condizione di salute mentale. Invece, i problemi della funzione esecutiva sono sintomatici di altri disturbi neurologici, di salute mentale e comportamentali.

2 Alcuni potrebbero denigrare l’importanza di preparare solidi documenti di posizione: “Oh, l’UE è un disastro. Che importa se possono produrre bei documenti? Questo punto di vista rivela un grave malinteso su come funzionano le organizzazioni grandi e, in particolare, altamente politiche. Il processo di stesura delle dichiarazioni è un mezzo per (si spera) raggiungere un consenso. Una stesura migliore e più attenta generalmente significa che i partecipanti hanno riflettuto a lungo su ogni parola. Inoltre, essere in grado di produrre risultati di livello professionale è uno standard minimo per poter fornire il lavoro del personale completato. Ciò non significa che l’UE possa svolgere bene compiti di ordine superiore, ma almeno conserva alcune competenze di base che il Foreign Office del Regno Unito, in passato una delle sue operazioni più prestigiose, ha perso.

3 Le élite che pensano che Covid li lascerà andare facilmente è un’altra forma di autoillusione (prima di discutere, ricordi tutte le foto di presunti aiutanti sporchi che indossano maschere alle feste, servono ospiti senza maschera?) Forse perché la magrezza è un indicatore di status, credono che non essere grassi o diabetici significhi che Covid sarà gentile con loro. Ma i sopravvissuti al cancro sono ad alto rischio. E IM Doc e altri hanno osservato che il super fit è stato spesso duramente colpito da Covid. Il fanatismo del fitness ha un forte seguito tra i benestanti.

4 Un’amica ha iniziato la sua carriera lavorativa in una posizione di impiegato presso GE e si è fatta strada nella gestione delle operazioni. Ha imparato così tanto che in seguito è stata in grado di voltarsi e gestire un produttore di nicchia di successo che ora ha clienti come Mercedes e NASA. Molto prima che l’aureola di Welch fosse rimossa, stava raccontando capitolo, libro e versi di come Welch aveva ereditato un’azienda superbamente funzionante da Reg Jones e aveva rapidamente iniziato a farla crollare.

5 Per favore, non provare a dire che le educazioni della Ivy League sono inutili. Ho imparato molto ad Harvard, incluso l’equivalente della coordinazione occhio-mano nella scrittura (come fare in modo che una frase dica quello che intendevo dire, e non più o meno), sintetizzando grandi quantità di informazioni e scrivendo lunghi documenti (come nell’essere in grado di strutturare un argomento complesso con prove a sostegno).

6 Quando ero bambino, le ammissioni ereditarie non erano poi così importanti per Harvard o Yale. Ogni scuola avrebbe potuto accettare il quadruplo dei candidati da artisti del calibro di Andover, Exeter, Groton e St. Paul’s rispetto a quelli che hanno fatto, e molti dei respinti provenivano da famiglie ereditarie. Allo stesso modo, solo uno studente che ho incontrato da una vecchia famiglia non è riuscito nell’area dei risultati intellettuali / accademici. Gli altri, a parte qualche volta ostentare i loro modi particolarmente simpatici e ammettere di essere esperti sciatori e/o velisti, per il resto erano praticamente alla pari con gli altri studenti.

https://www.nakedcapitalism.com/2023/06/the-loss-of-executive-function-in-the-west.html

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AL CUORE DEL NARCISISMO OCCIDENTALE: IL PROTESTANTISMO ZOMBIE, di Emmanuel Todd

AL CUORE DEL NARCISISMO OCCIDENTALE: IL PROTESTANTISMO ZOMBIE

rifiutare di vedere il mondo esterno permette di conciliare sentimento interiore di superiorità (l’elezione divina) e discorso universalista ufficiale

Gli storici della guerra in Ucraina si sorprenderanno un giorno dell’incapacità dell’Occidente di percepire il proprio isolamento. La Cina, l’India, l’Iran, la Turchia, il Sud Africa, l’Arabia Saudita e tanti altri (il 75% del pianeta) rifiutano di seguirci senza che noi smettiamo per altro di autodesignarci come “comunità internazionale”. Noi siamo il mondo nel momento in cui il mondo è esasperato per quello che percepisce come un conflitto tra Europei Occidentali (noi) e Orientali (i Russi). Peggio, nella pratica, questo “noi” si restringe. Il suo cuore storico, la sfera protestante, riappare sconvolto. Per Max Weber l’ascesa dell’Occidente si identificava con quella del protestantesimo e dei suoi valori economici impliciti (l’etica protestante e lo spirito del capitalismo). Certo, la credenza calvinista o luterana ha finito per scomparire per raggiungere intorno al 2020, anche negli Stati Uniti, una sorta di punto zero. Sussistono tuttavia delle tracce mentali, essenziali per comprendere gli attuali rapporti internazionali. Il narcisismo culturale è uno degli elementi di questo protestantesimo zombie.

Osserviamo per cominciare il ribaltamento protestante dell’Europa. Il progetto europeo è stato ispirato per lungo tempo dalla democrazia cristiana, quindi cattolica, centrata sull’Italia, sulla Francia e su una Germania allora priva del suo Est luterano. La riunificazione ha restituito alla Repubblica Federale il proprio statuto di paese a maggioranza protestante. Chi sono, per tanto, oggi i fautori  più dinamici della “comunità internazionale” (accantonando la Polonia e la Lituania la cui rossofobia è ontologica)? L’Inghilterra, fornitrice di carri armati Challenger e di nissili Storm Shadow è stata calvinista. I Paesi Bassi, fornitori di F16, sono stati calvinisti. La Norvegia, che ha dato alla NATO il suo Segretario, Jens Stoltenberg e ha partecipato, secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, al sabotaggio del North Stream, è stata luterana. La Svedia, che ferve d’impazienza alle porte della NATO, altrettanto luterana, come d’altronde la Finlandia, già accolta. Estoni e Lettoni sono luterani.

Vediamo ora come questo protestantesimo zombi dominante consente alla “comunità internazionale, di ignorare il proprio isolamento.

Il protestantesimo era costituito da due componenti fondamentali.  La prima, terrestre, egalitaria, rivendicava l’accesso diretto di ciascuno a Dio e l’accesso di tutti alle Sacre Scritture per l’apprendimento della lettura. Una precoce alfabetizzazione di massa spiega (molto meglio che la tesi di Weber) il decollo dell’Europa del Nord e dell’anglosfera. La seconda componente, metafisica, era non egualitaria: la predestinazione, per quanto attenuata dai calvinisti olandesi, poi inglesi, stabiliva gli eletti e i dannati. Questo dogma dell’elezione divina ha nutrito un ideale nazionale precoce e feroce. L’adesione al protestantesimo fu d’altronde separazione dall’universale romano. I primi narcisismi nazionali furono protestanti nei Paesi Bassi sollevatisi contro la Spagna, nell’Inghilterra rivoluzionaria di Cromwell. L’eccezionalismo americano seguirà. L’inegualitarismo protestante è stato soprattutto il sostrato di due razzismi spettacolari. L’antisemitismo tedesco deve molto al luteranesimo correlazione geografica molto forte con il voto neonazista  nel 1932). La negrofobia americana è ancorata nell’inegualitarismo calvinista (che per altro immunizza contro l’antiseminitismo violento perché un lettore della Bibbia s’identifica con Israele). Cosa resta di queste componenti terrestri e metafisici con le chiese ormai vuote?

Il dinamismo educativo protestante sembra estinto (salvo forse in Finlandia). Si misura infatti in tante nazioni protestanti cadute di quoziente intellettuale medio (questo dubbio indicatore riflette la familiarità con lo scritto). Ma l’ideale di ineguaglianza degli uomini e dei popoli resta in vita. È stato preservato, ampliato senza dubbio, dall’educazione superiore che ha prodotto personale di basso livello ma dalla grande autostima. Nel dominio internazionale, Stati Uniti a parte, una nazione non ha più diritto di riconoscersi superiore. Ma rifiutare di vedere il mondo esterno permette di conciliare sentimento interiore di superiorità (l’elezione divina) e discorso universalista ufficiale. Questa non è che una ipotesi. Quale che sia il dettaglio della spiegazione, sono sicuro che l’etnocentrismo protestante zombie è al cuore del narcisismo occidentale.

https://www.marianne.net/agora/humeurs/emmanuel-todd-le-protestantisme-zombie-est-au-cour-du-narcissisme-occidental

UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2)_di Pierluigi Fagan

UNA CIVILTA’ IN CRISI (2/2). Le società animali e quelle umane più di altre, andrebbero intese come veicoli adattivi. Gli individui creano e si adattano alla società che aiuta ad adattarsi al mondo. Una civiltà è un meta-sistema, meno definito di quanto sia una società propriamente detta ma col vantaggio della massa. L’unità metodologica qui è la società, la società si adatta e partecipa della civiltà la quale aiuta ad adattarsi al mondo.
Lo stato di crisi precedentemente illustrato (precedente post, link sottostante) percorre tutti i livelli che vanno dalla civiltà alle società componenti, singole nazioni o gruppi di esse più omogenei, da queste alla loro composizione interna per strati, ceti, classi, funzioni, fino ai singoli individui. In una crisi adattiva, ognuno di questi soggetti, singoli o collettivi, si trova nella difficile situazione di esser, al contempo, “contro e con” qualcun altro.
Si può guadare con simpatia l’odierna emersione di nuove potenze interne altre sfere di civiltà, se non altro perché questo può muovere la struttura della nostra civiltà, aprire a possibili cambiamenti. Ma tali cambiamenti dovrebbero vederci pronti a farci carico della ridefinizione della nostra civiltà, non certo aspirare ingenuamente ad esser cambiati da altre civiltà. Ogni civiltà è aliena all’altra. Le civiltà possono e dovrebbero dialogare e scambiarsi idee, tratti e caratteri, ma rimangono soggetti con fini, scopi e modi integralmente diversi e di fondo, reciprocamente competitivi.
Così, la crisi della nostra civiltà ci riguarda integralmente tutti sebbene ognuno di noi abbia porzioni di distinguo e dissenso con la sua forma attuale. Ci riguarda come società che dovrebbe perseguire il proprio interesse nazionale ma “contro e con” altre società similari, il che vale anche per la dialettica tra ceti, classi e funzioni interne alla singola società, fino al livello individuale e nelle aspettative tra interessi teorici e pratici, financo dentro noi stessi.
Lo stato di crisi ontologica della civiltà occidentale e di ogni sua componente interna è certo la crisi dei suoi modi, strutture e dei suoi usuali processi di organizzazione, ma è anche la crisi del proprio mentale. Per gli umani, il mentale, è stata la principale e per altro molto potente arma adattativa. L’umano mostra una peculiarità cerebro-mentale che frappone tra intenzione ed azione uno spazio, in quello spazio c’è la simulazione degli effetti di ogni possibile azione, il pensiero. Il pensiero è una azione off line, una ipotesi di azione non ancora agita in attesa di diventare atto, soggetta a strategia, simulazione e valutazione. Tramite questa novità biologico-funzionale, abbiamo perso ogni tratto adattivo animale non più necessario (pelo, artigli, canini e potenti mascelle, agilità e muscoli etc), diventando al contempo uno degli animali più morfologicamente fragili a livello individuale quanto operativamente il più potente a livello collettivo o comunque sicuramente il più adattivo.
A questa dotazione mentale generale diamo il nome di “immagine di mondo”, ne sono dotate le civiltà, le società a gruppi o singolarmente prese, gli strati (ceti, classi e funzioni interne), gli individui. Oltre che nella scomoda situazione dell’esser al contempo “contro e con”, noi oggi ci troviamo con un mentale disallineato ai tempi. Il nostro mentale distilla i cinque secoli del moderno, anche se alcune strutture di pensiero che hanno funzione profonda, architettonica e fondazionale, risalgono a secoli e millenni addietro (greco-romani, cristianesimo). A seconda di quanta epocalità vogliamo riconoscere al passaggio storico nel quale siamo capitati, verificheremo anche la più o meno profonda inadeguatezza di ampie parti del nostro mentale. Siamo in una epoca nuova con una mentalità vecchia.
Quello che preoccupa più di ogni altra cosa di questa fase storica è proprio la mancanza di coraggio mentale. In Occidente, i complessi ideologici vanno irrigidendosi in tristi scolastiche, non si nota alcuna primavera del pensiero, in nessun campo che non sia attuativo-strumentale (tecnica). L’assenza di creatività del nostro pensiero è pari all’impressione di inoltrata anzianità delle nostre società alla fine di più di un ciclo storico.
La mentalità occidentale ha due problemi principali. Il primo è di forma. Una civiltà e viepiù la sua crisi adattiva, è un problema eminentemente complesso ovvero dotato di molte parti, molte interrelazioni tra queste parti, processi non lineari ovvero non-meccanici, un sistema posto in un contesto turbolento. Che si usino discipline scientifiche o storico-sociali o pensiero riflessivo, nel moderno abbiamo sviluppato singoli tagli, singoli sguardi, singole metodologie disciplinari. Ancorché proficuo spezzettare oggetti o fenomeni per ridurne la dimensione alle nostre limitate facoltà mentali, tutto ciò non torna mai alla visione completa, non arriva mai al “com-prendere”, al prendere assieme. L’intero in rapporto al suo contesto ci sfugge sistematicamente e con esso la facoltà di poterlo maneggiare.
Il secondo problema è dato dal fatto che ognuna di queste discipline è ingombra di teorie, per lo più locali, ma non solo. Il paesaggio teorico è una intricata foresta di legami e rimandi tessuti nel tempo storico proprio, periodi storici in cui la nostra civiltà si trovava in un punto ben diverso della sua curva adattiva ed altrettanto il contesto-mondo. In molte discipline cruciali per la comprensione allargata vige un paradigma meccanico-atemporale che governa l’indagine ed il pensiero su cose che però sono storico-biologiche. Sono quattro secoli che la nostra foga di fare ha portato a tipo ideale macchine idrauliche, fontane, orologi, il modello sistemico del primo moderno. Poi è stata la volta della macchina a vapore, oggi il computer. Ma niente del nostro essere umani, bio-sociali e mentali, ha a che fare con queste infondate analogie, è proprio la logica di comprensione che è disallineata. Infine, questo paesaggio teorico ha una sua propria consistenza interna che, nel tempo, si è allontanata dalla natura del proprio oggetto producendo una ingombrante selva di problemi fittizi e mal posti, stratificati in quadri polemici alimentati dalla competizione ideologica ed accademica, sempre più alla deriva di realtà.
Quello che manca per muoversi dentro lo stato di crisi in cerca dell’uscita non è un altro modello di società col suo immancabile lungo elenco di “vorrei che così fosse” qualora ci venisse concesso il ruolo di “legislatore del mondo”, ma un metodo per pensarla, discuterla e condividerla, tentarla, farla evolvere assieme ad altri.
In effetti il problema millenario del potere sociale è semplice. Di volta in volta, ristretti gruppi segnati da qualche specialità sociale (anagrafica, di genere, militare, religiosa, etnica, politica, oggi economica o forse più finanziaria), pur competendo tra loro per la quota di potere effettivo, sono stati strettamente solidali nella difesa del principio strutturale per cui Pochi dominano i Molti prendendosi la gran parte dei vantaggi adattivi del vivere in forma associata. Quando si è vissuto fasi di relativa abbondanza i Pochi hanno condiviso qualche briciola, quando si sono vissute fasi restrittive i Pochi hanno semplicemente scaricato tutta la contrazione sui Molti. Ai Molti questo principio pratico primo del potere sfugge, discutono di questa o quella miglior forma di società ed immagine di mondo come fosse loro permesso di decidere di questo o di quella versione quando il problema è proprio come rispondere alla domanda fondamentale “chi decide?”. Non “cosa” decidere, questo dovrebbe venire dopo, prima si deve porre il soggetto, il “chi?” ed il modo, il “come?”.
Quella che ci sembra essere una imprescindibile transizione adattativa, ha il duplice carattere del mentale e del reale, ma per costruire il secondo va trovato e condiviso il modo politico nel primo.
Quanto al mentale, la nuova era storica ci chiede di conoscere gli interi, il “penoso elenco di severe problematiche” cui abbiamo accennato (1/2), richiede conoscenze geo-storiche, culturali, ambientali, economiche, sociali, politiche, intrecciate tra loro, a valle di una nuova definizione di umano che non sarà più l’animale che fa, ma l’animale che pensa prima di fare. C’è da sviluppare un nuovo corso della conoscenza parallelo a quello sin qui svolto, un corso integrato, sistemico-olistico, che possa dare anche nuove condizioni di possibilità al pensiero per superare i pantani forestali di intrecci teorici non più utili poiché limitati e non più corrispondenti alla realtà. Un certo ritorno “ritorno alla realtà” s’impone date le caratteristiche del passaggio storico.
Quanto al reale sociale, è evidente che le società della civiltà occidentale, quantomeno quelle che non ne sono state il centro propulsore ovvero quelle anglosassoni, non possono più esser ordinate dal fatto economico. S’impone un ordinamento politico strutturato da una teoria forte della democrazia. Le civiltà, sino ad oggi, sono stati oggetti che abbiamo considerato dopo che si erano formate e sviluppate, nessuno le ha progettate ex-post. Se, come pare necessario, ci troviamo nella necessità di modificare le nostre forme di vita associata nel profondo e nel loro intreccio multidimensionale, non possiamo non presupporre una partecipazione ampia e costante di una ben vasta massa critica di associati, è la società intera che deve auto-trasformarsi.
Il processo di adattamento ad un mondo così inedito, mutato e mutante nel profondo, oltretutto con tempi accelerati, a livello di società-civiltà, sembra ci porti a dover diluire il potere sociale a quante più sue componenti di modo che il sistema di cui facciamo parte mostri agilità e prontezza coordinata al cambiamento deciso dalla massa critica. Il cambiamento dei fondamenti impone il ritorno ai fondamentali del nostro pensiero politico, all’eterna battaglia tra il potere dei Pochi e quello dei Molti. Nel mondo dei viventi, i sistemi complessi più adattivi sono autorganizzati. La forma politica del principio di autorganizzazione è la democrazia reale. Ci manca una teoria forte della democrazia.
Questo, a mio avviso, il più urgente compito per un pensiero che abbia a traguardo l’azione trasformativa ed adattativa.

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NOTTE FONDA, MA SOLO IN OCCIDENTE_di FF

NOTTE FONDA, MA SOLO IN OCCIDENTE
Come sempre in tempi di insicurezza politica e sociale e di grave crisi economica si diffondono le peggiori forme di irrazionalismo, che, lasciando spazio a ciarlatani e demagoghi di ogni risma, sembrano offrire non solo una “immagine del mondo” che non richiede particolare “ingegno” o cultura per essere compresa dai “semplici”, ma pure un facile rimedio ai mali che affliggono le “moltitudini”.
Capacità di organizzazione, lucidità di pensiero e ordine mentale non vengono così neppure presi in considerazione, quasi che bastasse una folla inferocita per “cambiare il mondo”. Eppure è noto che se nei secoli passati le “moltitudini” potevano uccidere qualche nobile o incendiare qualche castello, poi tutto tornava come prima. Bastava cioè una “decisa” carica di cavalleria e mozzare qualche “testa calda” per calmare i bollenti spiriti delle “moltitudini”.
In politica centomila teste, sempre pronte ad azzuffarsi tra di loro perché ciascuna vuole difendere solo il proprio “bene” anche a scapito di quello degli altri, valgono assai meno di mille teste che vedono il bosco oltre agli alberi, ossia hanno uno scopo comune e soprattutto sanno come perseguirlo, senza anteporre il proprio interesse a quello del gruppo cui appartengono.
D’altronde, miseria, rabbia e disperazione hanno sempre contraddistinto la vita delle “moltitudini” nei secoli passati, ma non hanno mai abbattuto i muri della prigione in cui le “moltitudini” erano rinchiuse, tranne quando, nel cosiddetto “secolo breve”, le “moltitudini” sono diventate dei veri eserciti, guidati da “rivoluzionari di professione” o comunque era il “moderno principe” a guidarle. Anche il “secolo breve” però è finito, perlomeno in Occidente in cui le “moltitudini” sembrano tornate ad essere quel che sono state nel corso dei millenni.
E con i “nuovi tempi”, non più diversi da quelli “vecchi”, i “signori” sono tornati a comandare e le “moltitudini” ad ubbidire anche se ancora pronte a seguire l’arruffapopolo di turno, sia che si tratti di qualche “signore” che vuole fare le scarpe ad altri “signori” carpendo la fiducia delle “moltitudini”, sia che si tratti del solito cieco che vuol guidare degli altri ciechi, scambiando la propria immagine fasulla del mondo per la realtà. Sotto questo aspetto, conta relativamente poco pure che oggi sia la destra a pretendere o a far finta di rappresentare gli interessi delle “moltitudini” mentre la sinistra difende a spada tratta quelli dei nuovi “signori”, giacché quel che conta davvero è che le “moltitudini” pensino e si comportino come vogliono i “signori”, e che gli “eunuchi”, di destra o di sinistra che siano, facciano bene il loro mestiere.
Dunque, tutto come prima o perfino peggio di prima?
No. E non solo perché i nuovi “signori” non sono dei “signori” ma in buona misura sono solo “plebaglia” arricchita e volgare, ovverosia non tanto perché considerino dei maestri di pensiero e di morale saltimbanchi, pagliacci e ballerine, o perché siano privi di quel senso estetico che una volta caratterizzava il mondo indubbiamente “feroce” dei “signori” ma che ha lasciato opere che “impreziosiscono” tuttora la vita delle stesse “moltitudini”, quanto piuttosto perché pensano di potere governare il mondo grazie all’aiuto (certo non disinteressato) degli “eunuchi” e di quella sorta di “liberti” che sono i cosiddetti “tecnici”, mentre è solo il “loro mondo” che governano.
Nuove “moltitudini”, infatti, sono comparse sul palcoscenico della storia, anch’esse guidate se non da “rivoluzionari di professione” da capi capaci e soprattutto decisi a non servire più coloro che ancora credono di essere i “padroni del mondo”. Sicché, chi pensa che ormai sia possibile soltanto una continua “variazione” o “ricapitolazione” di quel che in Occidente già esiste, ignora che i confini dell’Occidente non sono (ancora?) i confini del mondo. Vale a dire che ignora che non esiste solo la storia dell’Occidente e che pertanto pure la storia dell’Occidente, comunque la si pensi, è ben lungi dall’essere terminata.

 

L’OGGI GUARDA A IERI PER PENSARE IL DOMANI, di Pierluigi Fagan

L’intervista di Putin apparsa significativamente sulla rivista americana National Interest e da noi recentemente pubblicata https://italiaeilmondo.com/2020/06/19/vladimir-putin-le-vere-lezioni-del-75-anniversario-della-seconda-guerra-mondiale/ non ha suscitato particolare attenzione. Segno del provincialismo nel quale annaspano le nostre classi dirigenti e il nostro ceto intellettuale. Con qualche eccezione_Buona lettura_Giuseppe Germinario

L’OGGI GUARDA A IERI PER PENSARE IL DOMANI. Nell’articolo scritto da V. Putin sulla IIWW e pubblicato da una rivista americana oggetto di un precedente post, c’è un invito a costituire una convenzione di storici che riesaminino la storia anche in base a molti nuovi documenti desegretati dal Cremlino che invita le cancellerie occidentali a fare altrettanto, supponendo che forse nei cassetti ci siano ancora cose da tirar fuori. Ma al di là della revisione documentale, Putin sostiene che la causa della IIWW fu nella cattiva pace della IWW e questa è ormai idea ampiamente diffusa presso gli storici. Molti ormai, parlano di una Guerra dei trent’anni (format ben conosciuto nella storia europea) tra 1915 e 1945 con una lunga pausa interna. Del resto, la stessa Guerra dei Trent’anni e quella dei Cent’anni, ebbero lunghe pause interne. Queste “durate” si leggono quando si prende una certa distanza dagli eventi che a livello granulare mostrano significati di un certo tipo mentre quando li si osservano da più lontano, ne prendono un altro. E’ un po’ la differenza che c’è tra grana grossa e grana fine, quella che fa di una macedonia incoerente di pixel, una immagine, come da esempio allegato.

Dal punto di vista storico, stante che non si può pensare che la IIWW sia capitata per caso appena venti anni dopo la IWW, rimane però da spiegare da dove viene questa Prima guerra mondiale. E qui non c’è dialettica tra grana fine e grossa, qui c’è un punto cieco, nessuno sa dire con precisione perché scoppiò la IWW. Quindi l’intero conflitto trentennale, rimane lì appeso ad un punto interrogativo.

Nei miei studi, da tempo mi sono convinto che noi, quel conflitto trentennale, ancora non l’abbiamo ben capito, collocato, spiegato nella cause. Mi si aprì una posizione di distacco epistemico da cui osservare le cose con sguardo nuovo, quando lessi un libricino di un intellettuale asiatico, il quale, pur avendo forti interessi per la filosofia occidentale ed amando molto alcuni pensatori europei, tra cui il Machiavelli, anzi forse proprio per questo, mostrava sincero sconcerto per quello che era successo in quel del primo Novecento in Europa. Essendo asiatico, era immune dalla distorsione etnica ed in fondo anche ideologica, era un vero osservatore (quasi) disinteressato ed in più abbastanza simpatetico con la cultura occidentale nel suo complesso e mi colpì il suo sguardo che in sostanza diceva: come ha potuto la più complessa ed articolata forma di civiltà degli ultimi cinque secoli, suicidarsi ed inghiottirsi da sé in un tale primitivo massacro?

A grana fine, tra libri, documentari, film, noi l’argomento l’abbiamo “normalizzato” anche quando ne abbiamo evidenziato l’immane tragedia. Ma a grana grossa credo che noi l’argomento non lo abbiamo spiegato e capito davvero, proprio per niente. Il che sarebbe anche ovvio visto che solo oggi siamo a settanta anni di distanza dalla fine della Seconda ed ad un secolo dalla fine della Prima.

Volendo accennare oltre, credo che il problema europeo abbia ovviamente lunghi natali ed un clinamen, uno di quegli eventi che disturbano il solito fluire accendendo la scintilla di una carambola impazzita, nel 1870, con la unificazione dei germani. Ma questo ci porterebbe a dover parlare di molte altre cose che non sono nell’oggetto del post. L’oggetto del post era -l’insidioso- invito di Putin a ragionare assieme sulla memoria perché non si può costruire futuro assieme se non si ha una memoria assieme e se non ci si mette nella condizione di voler costruire assieme un futuro, si rischia di ripetere il passato.

Per via di una mia distrazione nella breve ricerca fatta per scrivere quel post sull’articolo di Putin, sono finito su molte riviste americane da American Interest a Foreign Affairs o Policy, in cui non si parlava di questo ultimo articolo del russo, ma della sua ambizione revisionista, basata poi su un presuntuoso atteggiamento da storico “amatoriale” con una davvero sprezzante sequenza di unanime vero “odio umano” nei suoi confronti. Colpiva tale sentimento e chiariva anche quanta nebbia di guerra ancora alberghi nei cervelli che pure vantano qualche cattedra di storia nella Ivy League. Alla faccia dell’avalutatività weberiana! Ora, Putin o Xi Jinping o Modi possono piacere o dispiacere, ma è abbastanza ininfluente il nostro sentimento, visto che sono “fatti”, fatti coi quali si dovrebbe trovare regime di convivenza planetaria, poiché tra le poche cose certe del futuro c’è il piccolo particolare che non possiamo più regolare i problemi di convivenza nello spazio comune con la guerra. Una bella discontinuità sul piano della dinamica storica degli ultimi cinquemila anni, regalataci per sbaglio dalla fisica tedesca del Novecento, che ci converrebbe tener tutti più a mente.

L’argomento del post ha oggi anche una ulteriore attualità nel fenomeno delle statue. Simboli di un certo tipo di memoria, sono oggi in molti casi oggetto di violento revisionismo e violento contro-revisionismo. Certo, fare revisione storica dell’immagine di mondo a colpi di statua sì e statua no è deprimente, ma rivedere la storia di per sé non è sbagliato ove il nostro presente si trovi ad un certo punto su traiettorie diverse da quelle generate ai tempi in cui si eresse una statua. Non è tanto l’aggiornamento del nostro presente il punto, è questo in funzione del futuro. Lì dove vogliamo portare il futuro, implica darci una passato a cui vogliamo dar compiti di fondazione.

In tutto ciò, una cosa pare certa: il nostro futuro occidentale implica fare i conti con i lunghi cinque secoli del moderno perché il futuro sarà qualcosa di molto verso dal moderno, sarà un’altra epoca storica. Ancora non sappiamo dire, ovviamente, che caratteristiche avrà. Ma l’invito di Putin e il movimento delle statue, sembrano almeno invocare l’inclusività.

Fare i conti col colonialismo e l’imperialismo, con le varie oppressioni di etnia, sesso, genere, anagrafe e perché no, di classe o ceto (sebbene il pallino del movimento culturale essendo in mani anglosassoni preferisce le categorie orizzontali diritto-civiliste del progressismo liberale a quelle verticali dell’analisi sociale), non è molto diverso dall’invito del russo a ricostruire un passato comune in Europa per darci un futuro competitivo ma non conflittuale. Non si tratta di far pace nel pensiero, si tratta di condividere i requisiti minimi di una immagine di mondo dentro cui poi ognuno riprenderà le sue posizioni seguendo la sua ideologia nel nuovo contesto. Si sa, il contesto cambia il testo. Ormai nessuno è più dentro la foga delle posizioni che dividevano i medioevali, siamo tutti transitati al moderno, pur poi all’interno di questo assumere nuove posizioni diverse. Si tratta forse di far la stessa cosa, chiudere il capitolo passato per passare a quello nuovo.

Se mentre qualcuno butta giù ed imbratta statue che altri vogliono pulire e restaurare e qualcun altro tira fuori carte d’archivio che raccontano storie meno nobili di quelle che ci siamo raccontati per la buonanotte, qualcun altro provasse ad aprire capitoli di riflessione, potremmo almeno tranquillizzarci sul fatto che questa volta ci sarà un pensiero ad accompagnare la transizione storica. Fossi un intellettuale ne vedrei della opportunità, il problema è semmai esserne all’altezza è in quel “il proprio tempo appreso con il pensiero” che oggi facciamo fatica a coltivare, pare …

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, di Pierluigi Fagan

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO. Esistono diverse definizioni e letture del “sistema totalitario”, un termine -pare- inventato nel 1923 dall’italiano G. Amendola. Quasi tutte però, si riferiscono a sistemi socio-politici del Novecento, come se il “totalitarismo” fosse una invenzione recente. Amendola, ne dava questa definizione: “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato –del sistema totalitario- nel campo della vita politica ed amministrativa”.

Lasciando il campo della sintetica ovvero della forma con contenuto e retrocedendo a quello dell’analitica, ovvero della forma pura, il totalitarismo è un irrigidimento del potere politico e sociale (economico e culturale). Tale irrigidimento è evidentemente chiamato da minacce di disordine a cui si risponde con più ordine. Quando dosi incrementali di ordine non riescono a mettere ordine, la forma ordinante diventa sempre più rigida ed imperativa. Questa è l’origine del totalitarismo, origine che nulla a che fare in esclusiva col Novecento e che si ripete in vari modi e forme sin da quando sono nate le società complesse, cinquemila anni fa. Naturalmente poi la forma pura, avrà diverse applicazioni storiche in cui variano sia le società, sia i loro contesti, ma ha scarsissima utilità se non negli studi storici del Novecento dare sproporzionata attenzione a questa declinazione, dimenticandosi che essa è appunto una declinazione di un tipo ideale che ha storicità millenaria.
Ma quali sono le fonti del disordine a cui il totalitarismo reagisce?

Primo, il disordine può provenire da un ben individuato esterno di una data società. Un contesto geo-storico, presenta attori in competizione le cui azioni premono contro l’ordine di una certa specifica società o civiltà, nella quale si formano risposte ordinative sempre più rigide com’è in ogni strategia di sopravvivenza biologica.

Ma, secondo, il disordine può provenire da un esterno non ben individuato e precisato. Si tratta in questo caso di una sorta di incipiente dis-adattamento. Le società umane sono veicoli adattivi, strategia socio-biologica di lunghissima data che ha trovato utile unire individui in gruppi perché “l’unione fa la forza”. La “forza” di tale unione, ha scopi adattativi, ci si adatta meglio e si resiste meglio alla selezione naturale (quindi ci sono ragioni di “difesa” e di “offesa” nella relazione gruppo-mondo), laddove gli individui si uniscono in “individui di ordine superiore” quali i gruppi. I gruppi o società animali e quindi umane, hanno finalità adattive. Quando questo adattamento è non problematico, le forme interne ai gruppi di rilassano e diversificano in varie possibilità, quando questo adattamento è problematico, le forme si irrigidiscono unificandosi. Lì, compare la coazione totalitaria.

Terzo, specificatamente alle società tra umani, nei cinquemila anni di società complesse, l’unica forma di ordine sociale, estesa nello spazio e nel tempo, è stata quella per cui Pochi comandano su Molti. Questi Pochi potranno essere anche un bel po’ quando l’adattamento è facile e positivo, mentre tenderanno ad Uno quando l’adattamento è più problematico. Qui allora, la nozione di “ordine” prende un duplice significato. Non si tratta solo di una astratto “ordine” nel novero di quelli possibili relativo al corpo sociale, si tratta più spesso di quella precisa ed unica forma di “ordine” che determina il potere di una precisa élite. A dire che il totalitarismo può anche essere una reazione di una élite che a fronte di una non decisiva pressione di forze esterne disordinanti o a fronte di semplici accenni di dis-adattamento o non più totalmente positivo adattamento, reagiscono irrigidendo le forme del proprio potere sull’intero sistema che vogliono dominare.

Ci sono dunque due tipi di pressioni esterne, quelle portate da forze concorrenti e quelle di contesto a cui ci si deve adattare ed una interna che può esser la reazione alla pressione esterna in una o entrambe le forze pressanti, ma anche la semplice reazione di una élite al rischio venga posto in dubbio la legittimità della sua interpretazione del potere sociale ovvero del suo “diritto di poter dare l’ordine”.

Nell’Occidente contemporaneo, a partire dalla società guida del sistema ovvero gli Stati Uniti d’America, si contano tutte e tre queste dinamiche che precedono irrigidimenti totalitari.

Ci sono pressioni portate da società concorrenti, quella cinese in sé ma anche a nome di una sorta di possibile fronte dei secondi livelli geopolitici che vorrebbero aprire il tavolo da gioco a dinamiche multipolari per giocarsela con, per loro, maggior condizioni di possibilità (unione spalleggiata dalla Russia con forza ma anche dall’India sebbene con più ambiguità che è poi strategia di bilanciamento). Si tenga conto che il peso percentuale degli occidentali sul totale mondo, negli ultimi centoventi anni di forte inflazione demografica, è sceso da più del 30% a meno della metà. Anche il loro potere qualitativo si sta -tendenzialmente- livellando.

Ci sono poi anche diversi segnali di dis-adattamento al contesto a partire dalle questioni ambientali, per proseguire con quelle demografiche, quelle economiche e finanziarie (ad esempio ruolo del dollaro ma non solo), quelle militari (relativa impotenza non di distruzione bellica ma di successivo potere amministrativo del “conquistato”). Financo quelle culturali che attengono ai sistemi di pensiero che riflettono forme concrete della vita associata, che ereditiamo da tempi del tutto diversi e verso i quali si mostra una pronunciata difficoltà alla revisione ma forse necessaria, sostituzione integrale.

Quanto all’ordine sociale interno alle varie società, ci sono evidenti segnali di fallimento ordinativo delle élite che da cinquanta anni, sembrano per alcuni non aver capito, per altri aver invece capito benissimo, a che tipo di molteplice dis-adattamento andava incontro la forma occidentale di vita associata, reagendo con un lento ma costante ed inizialmente sottile accentramento di potere nelle loro sempre più ristrette mani. Qui, quello che alcuni leggono come “recente”, altri leggono come relativa “lunga durata”, io tra questi.

La dinamica di fondo del potere occidentale, tanto quello delle società occidentali nei loro rapporti di gerarchia di sistema (ordine interno alla civilizzazione occidentale), che quello del rapporto Occidente vs Resto del mondo (West vs the Rest), che quello ordinativo di una ben precisa élite che corrisponde ad un ben precisa forma sociale internamente ad ogni singola declinazione di società occidentale, disegna scenari tipici dell’approssimarsi di una fenomenologia totalitaria.

Dannarsi dopo non ha alcuna utilità, pensarci prima sarebbe meglio.

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Biagio De Giovanni, Libertà e vitalità_Una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Biagio De Giovanni, Libertà e vitalità. Benedetto Croce e la crisi della coscienza europea, Il Mulino, Bologna 2018, € 14,00, pp. 140.

Il perché di questo saggio è esposto dall’autore nelle prime pagine “La ragione è sotto i nostri occhi, il nostro è un tempo scisso, diviso, incerto, carico di alternative e di nuove inquietudini, di conflitti…Hegel, che, più di tutti, ha rappresentato l’immagine della coscienza europea moderna….aveva argomentato, nei suoi primi scritti, l’idea che i tempi di scissione richiamano la necessità della filosofia, che scissione immanente nella realtà e filosofia sono l’una la controfaccia dell’altra, che dunque la filosofia ritrova le sue ragioni più profonde non in tempo di conciliazione e di bonaccia, ma di crisi e di conflitto…Croce, da questo punto di vista, non la pensa diversamente”.

Per Croce, interpretato prevalentemente come pensatore “irenico e erasmiano”, da questo punto di vista “la filosofia è il momento della malattia”, necessario “quando il mondo si è stancato di camminare nella continuità, e dal suo fondo emerge il negativo, la realtà scissa. Ed emerge anche la necessità di trovare il punto dell’unione in cui gli opposti plachino la loro conflittualità che, non pensata, appare senza fondo e senza risposta all’interno di una traccia che il nichilismo ha posto al centro della crisi moderna. La potenza del negativo impedisce ogni irenismo”.

Quando emerge non si tratta di trovare la conciliazione definitiva “il che in Croce non è affatto possibile che avvenga”. Infatti sarebbe “la fine della storia”; ed “il filosofo napoletano essendo meno sistematico e ‘teutonico’ di quel sommo filosofo della storia che fu Hegel, e assai aspro critico di quella dimensione epifanica che lui giudicava invadente e addirittura anacronistica nel filosofo di Stoccarda”.

Così negli anni tempestosi della prima metà del secolo passato “Croce rivela il punto cruciale: la necessità di una teoria ‘speculativa’ della libertà, ossia del ritorno della filosofia”. Sul finire degli anni ’30 “Croce parla di “vitale o utile” quasi a voler affermare, del vitale, il carattere categoriale, ma la parola sfugge da ogni parte, si colloca tra abisso della libertà costituente e soglia indistinta tra vita e storia…La vitalità, lo dicevo, è frangiata nei suoi confini, si sporge oltre, sformata; in embrione è l’irrompere disordinato della libertà che deve prender forma, mentre l’utile è da sempre già ‘formato’, già chiuso nella sua logica”. Così l’autore ritiene che la concezione crociana della vitalità non è altro che il costituirsi della libertà “se la vitalità è tutta interna alla dialettica della libertà, come non vedere che dentro di essa c’è il soffio dell’eterno?”.

Conclude l’autore che oggi il dibattito su Croce si svolge “alla luce di una ripresa viva dei problemi che egli pose alla coscienza del mondo”.

In particolare occorre sottolineare “che la produttività filosofica dell’Europa finiva con l’esaltarsi nella crisi, … La crisi faceva parte della produttività geofilosofica dell’Europa”. Nella crisi odierna sarebbe necessario un’analoga purezza di pensiero “nei tempi della nuova scissione che il mondo attraversa e che l’Europa vive sulla pelle del proprio progetto di unificazione” e dare risposte  agli impellenti interrogativi “quale è, e sarà, la fisionomia del rapporto Europa-mondo dopo la fine dei centri del mondo e soprattutto dell’Europa centro del mondo?.. quale ruolo si può riservare a un pensiero che ha avuto nell’universalismo il suo tratto dominante?”,

Alle risposte la filosofia può contribuire “con l’urgenza che indicano i tempi di una ‘malattia’, la quale sembra chiedere lo sforzo della speculazione, anzi dello ‘speculativo’”.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE. 1. LO SPAZIO, di Pierluigi Fagan

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE. 1. LO SPAZIO.

Kant, iniziava la sua indagine sulla ragione umana[1], premettendo l’analisi sulle forme della mente entro le quali si ambientano poi tutte le altre funzioni. Le chiamò -estetica-, dal greco àisthesis che significava “sensazione” e -trascendentale- ovvero che si danno prima ancora di farne esperienza, sono apriori, sono condizioni di possibilità per tutto il resto. L’ET quindi indagava proprio le forme a priori che permettono la collocazione mentale di quegli oggetti e fenomeni di cui poi facciamo esperienza sensibile. Queste forme, secondo il nostro, erano due: la spazio ed il tempo. Queste due forme sono nella nostra mente. Kant visse mezzo secolo prima di Darwin e quindi non poteva dedurre che queste forme fossero il portato dell’evoluzione, ma oggi sappiamo che sono presenti in noi perché ci danno la possibilità di entrare in relazione con ciò nel quale siamo immersi. Ai fini pratici, poco importa disquisire se queste forme esistono oggettivamente fuori di noi o meno, se esiste davvero lo spazio e proprio così come ci sembra che sia -sappiamo ad esempio, con la fisica quantistica, che dello spazio si danno altre forme oltre a quella che sperimentiamo sensibilmente- o se esiste il tempo, tema su cui molti fisici si appassionano in seguito ai portati della relatività einsteniana. Prendiamo atto che così funziona la nostra mente, “come se” davvero la realtà in cui siamo immersi rispondesse a queste forme che ci aiutano a percepirla per poi -in essa- orizzontarci ed agire.

Detto ciò sul piano generale ed impersonale, trasferiamoci al piano sociale ovvero storico e culturale. A priori le forme di spazio e tempo sono scenari del possibile, a posteriori queste forme pluri-possibili, hanno preso alcune inclinazioni discriminanti, alcune forme determinate dalla storia e dalla cultura che, cumulandosi, fanno la nostra mentalità. E’ quindi una corruzione del trascendentale puro, è un apriori in cui la forma pura si declina con quella acquisita nella storia. La nostra indagine tende a verificare come sono fatte e se risultano idonee ai tempi che viviamo in particolare relativamente alla società, come pensiamo lo spazio in cui si ambientano le nostre società, come pensiamo il loro tempo. Il nostro sospetto è che esse non solo non siano idonee ma pregiudichino ogni altra successiva forme di elaborazione del pensiero che possa aiutarci a cambiare le forme sociali in cui viviamo, stante che sono questi “veicoli adattativi” che usiamo da sempre per vivere nel mondo.  L’indagine quindi, tende e segnalare punti di riforma del pensiero o meglio delle forme in background da cui poi traiamo pensiero, pensiero che precede l’azione sul mondo, il fare cose.

LO SPAZIO.

Per l’occidentale[2], lo spazio è sempre stato un ritaglio più o meno esteso del mondo. Una stretta minoranza in genere facente parte dell’èlite delle varie società storiche, ha sempre avuto un concetto di spazio più grande rispetto alla massa legata al proprio circostante. Gli antichi navigatori cartaginesi, ad esempio, c’è chi sostiene siano addirittura arrivati in America. Sappiamo per certo che quelli fenici e greci conoscevano bene l’intero spazio mediterraneo e forse anche oltre. Gli storici come Erodoto e i geografi come Strabone e prima di loro Anassimandro ed Ecateo di Mileto, avevano conoscenza di grandi spazi. Gli stoici elaborarono il concetto di cosmopolitismo in uno spazio allargato e vasto detto ecumene. Alessandro si spinse fino all’India mentre le élite romane presidiavano buona parte dell’Europa e non solo, commerciando -via arabi e persiani- coi cinesi. Col Medioevo, inizialmente l’idea di spazio collassò di nuovo al circostante, poi riprese ad aprirsi prima all’ecumene cristiano che si espandeva all’Europa occidentale, poi alle coste musulmane del Mediterraneo. La fine del Medioevo è anche l’inizio delle grandi navigazioni con la “scoperta” del continente americano, il periplo dell’Africa e quindi l’accesso all’oceano Indiano ed all’Asia estrema per la via marina e per via terrestre prima con gli scopritori come Marco Polo, poi con lo sciame commerciale lungo le vie della seta. In seguito, colonie ed imperi hanno portato alcuni occidentali non solo ad avere percezione o conoscenza del vasto mondo, ma a viverlo. Nel moderno, se alcune élite cominciavano ad avere concezione spaziale del vasto mondo, altre rimanevano legate al nuovo spazio nazionale, mentre i più rimanevano legati al loro locale. Più o meno, questo primo assetto tripartito della concezione spaziale  della modernità, mondiale – nazionale – locale,  che corrisponde a tre precise fasce di popolazione, è quello che è rimasto sino ad oggi sebbene con qualificazioni diverse da quelle del XV-XVI° secolo.

Oggi abbiamo una élite pienamente cosmopolita ed anche ideologicamente mondialista. Questa élite però è in un certo senso figlia di quella del passato nel senso che nonostante Internet, i viaggi aerei, le vacanze esotiche e il funzionariato in qualche multinazionale o organizzazione internazionale, piuttosto che una salgariana e libresca conoscenza del mondo ad uso degli studiosi di varie discipline tra loro sempre rigidamente separate, considera il mondo ancora un territorio provvidenziale in cui andare sostanzialmente a far caccia e raccolta, sotto forma di “affari”. Pochissimi son coloro che hanno una più corretta percezione problematica di quanto il mondo sia diventato frazionato, denso e complesso, di quanto nuove siano per noi le dinamiche di feedback derivate dalla raggiunta finitezza dello spazio planetario,  dalla incombente finitezza di alcune risorse, dalle prime avvisaglie di una pronunciata sregolazione ambientale. Questa élite entusiasta del globale, ha quindi la più ampia percezione dello spazio ma con una risoluzione molto bassa e spesso, assai distorta. A partire dal non aver forse ancor ben compreso quali saranno i rapporti di massa, peso e forza tra l’Occidente precedentemente aristocrazia del mondo e questo Resto del Mondo che già lo sopravanza di quasi dieci volte demograficamente (erano solo tre volte, appena un secolo fa). Una distanza quantitativa molto più ampia che nel recente passato ed una distanza qualitativa in termini di performance di economia moderna che si è di molto ridotta, in alcuni casi annullata, in altri addirittura invertita.

A raggio più limitato abbiamo poi l’élite intermedia che verte sullo spazio nazionale/continentale ed essendo più politica dell’altra che è economica, rimane la più importante. Diversa è questa condizione intermedia per l’occidentale americano che è ambientato in uno stato molto grande e massivo che ha stabili rapporti di dominanza con il suo continente e nessun vicino competitivo e l’occidentale europeo. Questo è legato ad uno spazio storico di relativa omogeneità (la nazione è un concetto tipicamente europeo e che gli europei hanno imposto al tempo degli imperi e delle colonie al resto del mondo, con esiti assai problematici come in Africa, Asia e Medio Oriente), che già da tempo deve fare i conti con tre fatti.

Il primo è il tentativo di trovare una forma stabile di convivenza pacifica tra le nazioni europee storicamente dedite all’offesa/difesa reciproca. Questo primo fatto ha spinto gli europei a trovare un loro regolamento di relazione reciproca nel fatto economico -mercato comune- che ha poi portato al regolatore monetario -l’euro-. Tale soluzione apparve la migliore in tempi in cui l’Occidente sembrava aver davanti a sé un lungo periodo di egemonia mondiale e sostenute prospettive di crescita e buona salute economica, prospettiva che oggi non si dà più. Erano state provate altre vie inizialmente, come il progetto di difesa comune ma l’egoismo nazionale francese aveva fatto naufragare il tentativo come poi gli stessi francesi ed olandesi fecero nei referendum sulla ipotesi costituzionale comune. In pratica, nessuno mai si è sognato una vera evoluzione di fusione sovra-statale nel modello federale di cui si è più scritto che creduto, ognuno rimaneva nel suo spazio storico ma al contempo, faceva sistema economico comune con tutti gli altri. Se lo scambio economico tesse la trama interna al sistema nazional-europeista, il fattore geopolitico pone questioni diverse, ad esempio,  al fronte meridionale e orientale d’Europa. Il primo deve fare i conti di vicinato con gli afro-vicino asiatici,  il secondo con i russi un po’ euro-slavi ed un po’ asiatici. Il modello unionista era e rimane confederale con uno spazio politico nazionale per quanto attiene l’interno ed europeo per quanto attiene alle politiche confederali che sono solo politiche economiche, una moneta senza stato basata su un trattato (quindi a gestione rigida) ed una economia decisamente intrecciata. Tutti rimangono poi subalterni sul piano militare al capobranco occidentale americano nella NATO, la costruzione europea che ha esclusivo senso economico, è del tutto estranea ai problemi geopolitici. Ogni volta che si pongono questioni di politica estera, riemerge la natura nazionale di questo sistema indeciso a tutto che si spacca com’è ovvio che sia visto che non “un” soggetto, né sembra abbia seria intenzione ed anche possibilità di diventarlo.

Il secondo fatto discende da questa imperfetta costruzione in cui invero, le nazioni europee sembrano aver voluto superare von Clausewitz che leggeva la guerra come una continuazione in altre forme della politica, facendo dell’economia una sorta di guerra regolata che, dopo secoli, gli europei non possono o non vogliono più combattere in quanto tale. Questa postura tutta economicista e perdurantemente competitiva al suo interno porta le nazioni europee  ad orizzontarsi nel limitato raggio del sub-continente, laddove oggi il raggio  per tutti, su molte questioni, dovrebbe essere tendenzialmente il mondo. Così le nazioni europee, alcune nazioni europee con pedigree ex imperiale ed ex coloniale, nel Medio Oriente sono andate passivamente appresso al capobranco americano e in Africa hanno continuato a rubare e sfruttare salvo aprire interi corsi di studi che avrebbero dovuto analizzare la nuova condizione post-coloniale quando più che “post”, si era in una condizione “neo” coloniale. Com’è noto, se l’impero almeno obbliga il dominante a farsi carico dei problemi che tramano lo spazio che si domina, se la colonia obbliga almeno ad una presenza responsabile e partecipata dei problemi locali anche in ragione degli interessi locali dei propri coloni, l’atteggiamento neo-coloniale è puramente di caccia e raccolta, si va, si prende, ruba e sfrutta, si lascia la mancetta al corrotto guardiano locale e tanti saluti. Quindi, non solo non esiste una politica estera europea, non solo l’Europa rimane un sistema ibrido più a competizione interna regolata che cooperativo, ma le singole nazioni alimentano la propria forza continuando ad attingere con stile di rapina da un esterno che però non è più quello di un secolo fa.

Il terzo fatto, è più recente ed è relativo alla confusione che si sta ingenerando tra globale ed internazionale.  Dal momento che gli Stati Uniti sembrano voler dare il “rompete le fila” ovvero l’ognun per sé che tende a disintegrare il precedente sistema occidentale detto “atlantico”, i nani europei rimangono un po’ disorientati dal doversi prendere carico ognuno delle proprie responsabilità di relazione a cotanta complessità. Interessi, cultura e mentalità che son rimaste radicatamente nazionali per ogni stato europeo, mentalità che ha mosso ognuno a cercar di coltivare il proprio unilaterale interesse, pone i singoli stati di nuovo in competizione tra loro nel mentre scoprono le difficoltà della nuova competizione a spazio mondiale. Così gli euro-orientali sono tutti presi dai problemi di relazione duplice con i cugini occidentali tedeschi e con i russi, i tedeschi seguono la metrica mercantilista tanto in Europa che nel mondo curando il proprio “grande spazio” germano-scandinavo, i francesi curano le loro colonie africane, i britannici salutano la compagine per volgersi al loro ex Commonwealth, al Pacifico ed ovunque si possa piazzare il loro vantaggio comparato ormai ridotto alla banco-finanza e servizi annessi, gli scandinavi si preoccupano dei russi anche in visione del prossimo e già ampiamente annunciato conflitto dell’Artico, i mediterranei vanno in ordine sparso a fronteggiare i flussi migratori africani cercando si scaricare l’un sull’altro le incombenze. Qualcuno va a promuovere il proprio interesse nazionale a Mosca o a Pechino ma quasi di nascosto perché ufficialmente l’istituzione comune è ufficialmente allineata alla politica estera americana che vieta queste relazioni. Presi nella schizofrenica morsa bipolare della “sovranità liberista” (in cui l’un termine è politico e l’altro economico, da cui la natura contraddittoria della convivenza tra i due concetti), le nazioni europee navigano a vista osservando preoccupati la perdita del “benevolo” governatore americano, il ritorno dei loro mai sedati egoismi nazionali e la rottura della mai davvero creduta e praticata solidarietà europea, nonché la problematica torma di nuovi attori in esuberante crescita nel circostante mondo “grande e terribile”. In più, gli euro-occidentali invecchiano e presi singolarmente come stati, nessuno sembra aver sufficiente massa e quindi potenza per competere con l’ex amico americano, per non parlare dei giganti asiatici o con la pletora dei vivaci Paesi in via di emersione se non già sviluppati. Problemi sistemici come il collegamento est-ovest o sud-nord, rimangono fuori portata dello spazio trascendentale delle mentalità europee. Le élite nazionali dei vari paesi europei quindi, non solo vengono prese nella tenaglia tra un globale che il precedente sponsor americano sta ripudiando e il risorgente interno sovranismo nazionale, ma vedono anche la nuova problematica forma delle relazioni bilaterali alle quali non sanno come accedere partendo dalla base della loro eterogenea e litigiosa unione incompiuta (e non componibile) e la consistenza ormai poco più che relativa del loro singolo stato-nazione.

Se dunque i primi sono ancora convinti con entusiasta leggerezza che “tutto il Mondo è paese” ed i secondi si stanno rendendo conto che al di là dell’ubriacatura ideologica, ogni Paese è rimasto un mondo a sé, la maggioranza degli occidentali europei, i locali, è drammaticamente lontana da tutto ciò e rimane legata al proprio stretto specifico. Un locale sempre più strattonato dal continentale, dal geopolitico, dal geoeconomico e dal globale che non mostra più la faccia sorridente e ricca di doni della globalizzazione ingenua ma il volto rabbuiato ed a volte minaccioso della competizione planetaria, delle migrazioni indotte e naturali al contempo, delle ripercussioni del disordine ambientale ed ecologico, dell’erosione del lavoro e del potere d’acquisto, del problematico islam, della rottura dei quadri multilaterali, della pirateria banco-finanziaria, della imperscrutabile dinamica dei grandi player del gioco di tutti i giochi e della sostanziale impotenza della convenzione politica democratica. I locali hanno paura anche perché persi i vantaggi della posizione occidentale otto-novecentesca, in via di abbandono dalla tutorship americana, abbandonati a loro stessi dalle élite globaliste e da quelle nazionali ambiguamente poste un po’ di qui (per i necessari voti elettorali) ed un po’ di là (gli interessi del mercato europeo), si sentono soli là dove “la diritta via era smarrita”, il bosco si fa fitto e sta pure calando la notte.

Questi tre gruppi di occidentali hanno tre diverse visioni dello spazio, che accettano o rifiutano vicendevolmente e che abitano con divergenti visioni del mondo non sempre attinenti alle reali e concrete condizioni di possibilità. Il prematuro annuncio della fine delle ideologie, ha oscurato il fatto che ovviamente le ideologie come sistemi organizzati di pensiero (magari dette “visioni del mondo”) non possono morire perché sono consustanziali al funzionamento della mente umana. Ed hanno oscurato quanto siano forti quelle oggi presenti e quanto muovano da presupposti realistici o del tutto idealistici. Il conflitto quindi tra parti sociali (si sarebbero chiamate “classi” nel passato ancora recente), si riflette nel conflitto tra le loro ideologie e visioni del mondo di riferimento, ma è tutto da vedere quanto queste attengano alle reali condizioni del mondo o quanto si strutturino nel tentativo di prevalere le une sulle altre, conformandosi in opposizione negativa o critica a quelle avversarie. I richiami all’ineluttabilità della globalizzazione, l’idea degli utopici Stati Uniti d’Europa, il neo-sovranismo, il neo-nazionalismo, il vago cosmopolitismo, sembrano più conformarsi le une idee rispetto alle altre che rispetto a soggetti non precisati (individui? classi? nazioni? popoli? civiltà?) che debbono adattarsi ad un preciso spazio (regionale? nazionale? continentale? mondiale?), discendono tutti da presupposti che vengono discussi per i loro effetti non per la legittimità della loro fondazione.  In più non si capisce mai con chiarezza se stiamo parlando dell’economico, del politico o del culturale, se l’una dimensione che fa bene all’economico fa bene anche al politico o viceversa. Per l’occidentale, il concetto di spazio è fratturato, di una pluralità troppo eterogenea, legato a visioni del mondo costruite sull’interesse personale o di classe e non su quello di tipo sistemico sociale e comune, nonché difese le une contro le altre, più che basate su una realistica analisi della condizioni di possibilità e necessità adattiva.

L’elenco diagnostico quindi segna quattro punti: 1) stiamo perdendo lucidità sul concetto di sistema politico. Proveniamo dalla sequenza  poleis, comuni, città-stato, principati, regni, poi stati e poi stati-nazioni con qualche impero qui e là. Forse, come europei, dovremmo pensare a più grandi stati con più nazioni prima di saltare da 27 a 1, ma una nube confusiva fatta di vago cosmopolitismo, mondialismo, internazionalismo, europeismo fortemente idealistico ed assai poco pragmatico e realistico, idee che discendono da precise immagini di mondo (liberalismo mercatistico, internazionalismo comunista, universalismo cristiano che a volte convergono in un europeismo formale), sostituisce il cosa ci converrebbe e ci è possibile fare con il cosa è idealmente prescritto dalle stesse immagini di mondo; 2) tutti i passaggi storici precedentemente elencati si sono affermati in modo impersonale. A ritroso ci sembrano una sequenza ordinata, progressiva e logica ma nessuno invero ha deciso ex ante queste forme. Non abbiamo quindi tradizione di costruzione storica intenzionale, a partire dal fatto che pensiamo queste forme ignorando la relazione tra la demografia e lo stile di vita del sistema originario e le condizioni date da ambiente e vicini. Ora siamo a stato-nazione ma lo stato-nazione europeo ha senso adattivo oggi e domani visto che nasce cinque secoli fa in tutt’altro contesto? Non sapendo bene come la storia si è fatta, certo non sappiamo bene neanche come eventualmente farla ed inoltre siamo respinti da varie ideologia passivizzanti dall’idea di fare noi la storia; 3) il tutto prende la forma di una divaricazione irrisolvibile tra gli interessi economici delle singole parti che anelano al globale, gli interessi economici e politici sistemici che dovrebbero convergere nel sistema europeo post-nazionale che sembra impantanato in un irrisolvibile transizione tra la pletora degli stati nazionali e l’ipotesi federale che viene in aiuto logico ma che di per sé non ha sufficiente teorizzazione con destino pratico e l’interesse politico di tipo -debolmente- democratico che rimane ancorato alla dimensione nazionale stante che in linea teorica la democrazia presupporrebbe spazi ancora più ristretti; 4) dopo il doppio cataclisma novecentesco l’Europa sta per esser abbandonata dal tutor americano, ma se ciò richiederebbe di aver  maggiori responsabilità sul proprio destino, queste responsabilità -gli europei- non sono pronti a prendersele.

Il tutto può esser riassunto nella diagnosi stretta che sarebbe necessario ridiscutere che tipo di spazio ci servirebbe per adattarci al mondo che viene e che tipo di contratto sociale lo debba ordinare, una domanda che, per varie ragioni, tutti sembrano voler eludere.

Ma se la concezione dello spazio presenta problemi, cosa ne è dell’altra coordinata, il tempo?

(1/2)

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[1] I. Kant, Critica della Ragion Pura, Bompiani, Milano, 2004 (o varie altre edizioni)

[2] Specifichiamo l’”occidentale”  perché è di esso che ci vogliamo occupare. L’orientale è un’altra generalizzazione con cui di solito s’intende il cinese (ma non l’indiano o il mongolo delle steppe o l’isolano nipponico). Brevemente, il cinese è convinto di essere lo spazio centrale del tutto e sul tempo coltiva tanto la profondità passata che l’ipotesi su un futuro che sente di dover prevedere e pianificare.

BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE, a cura di Luigi Longo

BISOGNA CAMBIARE IL MONDO REALE.

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco la lettura dello scritto di Paul Craig Roberts, L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva apparso su www.megachip.globalist.it il 23 giugno 2018, come riflessione per capire la potenza dell’ideologia sia per nascondere (accezione negativa) il mondo reale sia per aderire (accezione positiva) al modello di legame sociale proposto dalla potenza mondiale egemone degli USA. Per capire perché gli statunitensi vedono le brutture che commettono solo quando succedono in casa propria e non quando le consumano nelle case degli altri sparse in tutto il mondo bisogna andare alla storia del Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene che è il titolo del bel libro dello storico Anders Stephanson pubblicato dalla Feltrinelli (2004). Riproduco alcuni passi tratti dal Prologo dell’autore (pp.11-15).

<< […] Tuttavia, è proprio a John O’Sullivan che siamo debitori dell’espressione “destino manifesto”: la coniò nel 1845 per definire la missione degli Stati Uniti di “espandersi nel continente assegnato dalla provvidenza al libero sviluppo delle crescenti moltitudini  del nostro popolo”. In tutto il Nord America era in corso una gigantesca espansione in nome della libertà, una libertà spessa definita anche di carattere “anglosassone” in termini culturali o razziali […] Essa divenne, così, lo slogan dell’idea di un diritto provvidenzialmente o storicamente fondato all’espansionismo continentale. Da questo punto di vista, non si trattava affatto di una novità, dal momento che già nel 1616, rivolgendosi al pubblico inglese, un agente della campagna di colonizzazione aveva pomposamente concluso la sua presentazione delle meraviglie delle verdi distese americane con queste parole: “Quale timore allora dovrebbe trattenerci dal partire immediatamente , essendo noi un popolo speciale indicato ed eletto dal dito di Dio a prendere possesso di quella terra?”.

In questo libro, “destino manifesto” verrà utilizzato anche in un’accezione più ampia, vicina a quella adoperata da Woodrow Wilson per sottolineare il ruolo assegnato dalla provvidenza agli Stati Uniti di guidare il mondo verso un futuro nuovo e migliore. Per Wilson, ciò che definiva l’”America” era proprio questa particolare vocazione o missione. La nazione, alla quale era stata concessa di vedere la luce, era destinata a mostrare il cammino ai paesi storicamente retrogradi, poiché aveva il compito di svilupparsi ed espandersi in tutta la sua potenzialità grazie al dono divino della più alta perfezione morale inimmaginabile. Questa idea è stata un elemento costante della storia americana, ma, storicamente, ha prodotto due atteggiamenti molto diversi nei confronti del mondo esterno. Il primo mirava a fare degli Stati Uniti un modello esemplare, separato dal mondo corrotto e perverso, lasciando che le altre nazioni lo imitassero come meglio potevano. Il secondo, corrispondente alla visione di Wilson, consisteva nel far progredire il mondo, intervenendo per rigenerarlo. Tra i due atteggiamenti quello di distacco, tuttavia, è stato quello generalmente dominante.

Gli Stati Uniti non sono stati l’unico paese ad attribuire un carattere esemplare alla propria identità nazionale. Ogni stato-nazione sostiene in qualche modo la propria unicità e, nel corso della storia, alcune nazioni e alcuni imperi si sono considerati consacrati da un’autorità superiore a centro del mondo o della storia universale. Tuttavia, per fare un esempio, il “mandato” dinastico sul quale si fondava la legittimazione del potere in Cina confuciana non contemplò mai che una radicale trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza potesse condurre a una “fine” trascendente della storia (corsivo mio). La “Cina” era un’idea aristocratica di civiltà superiore. Per prendere un esempio a noi più vicino, il Sacro romano impero, se anche può avere sposato l’idea di una trasformazione celeste del mondo terreno, si accontentava, nell’attesa della fine stabilita, di sospendere il progetto messianico (corsivo mio) per dedicarsi alla costruzione delle istituzioni politiche >>.

 

Non basta, come sostiene Paul Craig Roberts, << far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale >>, bisogna cambiare il mondo reale.

 

Per motivi di chiarezza ho evidenziato le tre maggiori notizie correnti utilizzate dall’autore per illustrare la sconnessione mentale mondiale.

 

 

L’intero mondo occidentale vive in una dissonanza cognitiva

 

 

di Paul Craig Roberts

 

[Traduzione per Megachip di Piotr]

 

 

In questo editoriale mi accingo a utilizzare tre delle maggiori notizie correnti per illustrare la sconnessione che alligna ovunque nella mente occidentale.

Iniziamo con la questione della separazione delle famiglie.

 

La separazione dei bambini dai genitori immigrati o rifugiati o richiedenti asilo ha suscitato così tante proteste che il Presidente Trump ha indietreggiato e firmato un ordine esecutivo per far finire la separazione delle famiglie.
L’orrore dei bambini rinchiusi in magazzini gestiti da privati che si arricchiscono coi soldi dei contribuenti, mentre i genitori sono perseguiti per ingresso illegale, ha risvegliato dal loro torpore persino gli Americani autocompiaciuti di essere “eccezionali e indispensabili” [fa riferimento alla nota affermazione dei presidenti statunitensi che gli USA sono una nazione eccezionale e l’unica indispensabile nel mondo (sic!) – NdT].
Rimane un mistero perché il regime di Trump abbia scelto di gettare discredito sulla sua politica di rafforzamento delle frontiere separando le famiglie.
Forse la politica era quella di scoraggiare l’immigrazione illegale lanciando il messaggio che se venite in America i vostri bambini vi saranno strappati.
La domanda è: come mai gli Americani riescono a vedere e rifiutare l’inumana politica di controllo delle frontiere e non vedono e rifiutano l’inumanità della distruzione delle famiglie che è stato il costante risultato della distruzione da parte di Washington in tutto o in parte di sette o otto Paesi nel XXI secolo?
Milioni di persone sono state separate dalla famiglia dalla morte inflitta da Washington e per quasi due decenni non ci sono state praticamente proteste. Nessun grido di protesta ha fermato George W. Bush, Obama e Trump dal perpetrare atti chiaramente e senza possibilità di smentita illegali, definiti dalla legge internazionale stabilita dagli USA stessi, come crimini di guerra contro, gli abitanti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, dello Yemen e della Somalia. Possiamo aggiungere un ottavo esempio: gli attacchi militari dello stato fantoccio ucraino neo-nazista e armato e finanziato dagli USA contro le province russe separatiste.
Le morti in massa, la distruzione delle città, dei paesi, delle infrastrutture, le menomazioni, fisiche e mentali, lo sradicamento che ha inviato milioni di rifugiati i fuga dalle guerre di Washington a invadere l’Europa, dove i governi sono fatti da una collezione di lacchè idioti che hanno sostenuto gli enormi crimini di guerra di Washington in Medio Oriente e Nord Africa, non hanno prodotto nessun grido di dolore paragonabile a quello contro la politica di Trump sull’immigrazione.
Stiamo vivendo una forma psicotica di massa di dissonanza cognitiva?

Spostiamoci adesso sul secondo esempio: il ritiro di Washington dal Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani.

Il 2 di novembre del 2017 (1917, mia correzione del refuso tecnico), due decenni prima dell’olocausto imputato alla Germania nazionalsocialista, il ministro degli Esteri britannico, James Balfour, scrisse a Lord Rothschild che la Gran Bretagna favoriva la trasformazione della Palestina in un focolare nazionale ebraico. In altre parole, il corrotto Balfour mandò al diavolo i diritti e le vite di milioni di Palestinesi che stavano in Palestina da duemila e più anni. Che era sta gente a confronto col denaro dei Rothschild? Non erano niente per il ministro degli Esteri britannico.
L’atteggiamento di Balfour verso i legittimi abitanti della Palestina è il medesimo atteggiamento britannico verso i popoli di ogni colonia o territorio su cui la forza britannica aveva prevalso. Washington ha imparato questo modo di fare e lo ha coerentemente ripetuto.
Proprio l’altro giorno l’ambasciatrice all’ONU di Trump, Nikki Haley, la cagnolina pazza furiosa di Israele, ha annunciato che Washington si ritirava dal Consiglio per i Diritti Umani perché è “una fogna di pregiudizi politici” contro Israele.
Cosa aveva mai fatto il Consiglio per guadagnarsi questo rimprovero dall’agente israeliano Nikki Haley? Il Consiglio aveva denunciato la politica israeliana di assassinio dei Palestinesi: medici, bambini, madri, anziane e anziani, padri, adolescenti.
Criticare Israele, non importa quanto grande ed evidente sia il suo crimine, significa essere antisemiti e un negazionista dell’olocausto. Per Nikki Haley e Israele, ciò relega il Consiglio per i Diritti Umani nei ranghi dei nazisti fanatici di Hitler.
L’assurdità di ciò è evidente, ma pochi, se non nessuno, riescono a rilevarla. Certo, il resto del mondo, con l’eccezione d’Israele, ha denunciato la decisione di Washington, non solo i nemici e i Palestinesi, ma anche i burattini e i vassalli di Washington.
Per vedere la sconnessione è necessario fare attenzione alle parole delle denunce della decisione.
Un portavoce dell’Unione Europea ha detto che il ritiro di Washington dal Consiglio per i Diritti Umani “rischia di minare il ruolo degli USA come campioni e sostenitori della democrazia nel teatro mondiale”. Si può immaginare un’affermazione più idiota?
Washington è nota come sostenitrice di tutte le dittature che aderiscono alla sua volontà. Washington è nota per aver distrutto ogni democrazia in America Latina che abbia eletto un presidente rappresentante degli interessi del popolo di quella nazione e non degli interessi delle banche di New York, di quelli commerciali statunitensi e della politica estera statunitense.
Fate il nome di un posto dove Washington abbia sostenuto la democrazia. Solo per parlare degli ultimi anni, il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Honduras e ha imposto il suo burattino. Il regime di Obama ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina e imposto un regime neo-nazista. Washington ha rovesciato i governi dell’Argentina e del Basile, sta cercando di rovesciare quello del Venezuela e ha nel suo mirino la Bolivia così come la Russia e l’Iran.
Margot Wallstrom, la ministra degli Esteri svedese, ha dichiarato: “Mi rattrista che gli USA abbiano deciso di ritirarsi dal Consiglio per i Diritti Umani. Arriva in un momento in cui il mondo ha bisogno di più diritti umani e di un ONU più forte, non l’opposto”. Perché diamine Wallstrom pensa che la presenza di Washington, un noto distruttore di diritti umani, (basta chiedere ai milioni di rifugiati dai crimini di guerra di Washington che si riversano in Europa e in Svezia), pensa che questa presenza nel Consiglio per i Diritti Umani rafforzerebbe il Consiglio invece che minarlo. La disconnessione della Wallstrom è fantastica. E’ talmente estrema da essere incredibile.
Il Primo Ministro australiano, Julie Bishop, ha parlato per il più adulatore dei vassalli di Washington quando ha detto che era preoccupata per i “pregiudizi antisraeliani” del Consiglio. Avete qui una persona che ha subito un lavaggio del cervello talmente totale da essere impossibilitata di mettersi in connessione con una qualsiasi cosa che sia reale.

Il terzo esempio è la “guerra commerciale” che Trump ha lanciato contro la Cina.

 

La tesi del regime di Trump è che a causa di pratiche sleali la Cina ha un surplus con gli USA di quasi 400 miliardi di dollari. Questa grande cifra è si suppone che sia dovuta, appunto, a “pratiche sleali” da parte cinese. Nella realtà il deficit commerciale con la Cina è dovuto alla Apple, alla Nike, la Levi e a un gran numero di corporation americane che producono offshore in Cina i prodotti che poi vendono agli Americani. Quando le produzioni delocalizzate delle corporation statunitensi entrano negli USA, sono contate come importazioni.
Ho detto e ripetuto questo da molti anni a partire della mia testimonianza davanti alla Commissione per la Cina del Congresso USA. Ho scritto numerosi articoli pubblicati quasi ovunque. Sono sintetizzati nel mio libro The Failure of Laissez Faire Capitalism del 2013.
La presstitute dei media economici, i lobbisti delle corporation, che include molti “nomi” accademici, e gli sfigati politici americani il cui intelletto in pratica non esiste, non riescono a riconoscere che l’enorme deficit commerciale USA è il risultato delle delocalizzazioni. Questo è il livello di completa stupidità che governa l’America.
In The Failure of Laissez Faire Capitalism ho discusso il madornale errore fatto da Matthew J. Slaughter, un membro del Consiglio Economico di George W. Bush, che ha affermato in modo incompetente che per ogni posto di lavoro delocalizzato si creavano due posti di lavoro negli USA. Ho anche denunciato come una truffa lo “studio” del professore di Harvard, Michael Porter, per il cosiddetto Consiglio per la Competitività (una lobby per le delocalizzazioni), che ha fatto la straordinaria affermazione che la forza-lavoro statunitense traeva beneficio dalla delocalizzazione dei loro lavori a più alto valore aggiunto e a più alta produttività.
Gli idioti economisti americani, gli idioti media finanziari americani, e gli idioti politici americani non riescono a capire nemmeno adesso che la delocalizzazione ha distrutto le prospettive dell’economia americana e ha sospinto la Cina più avanti di 45 anni delle aspettative americane.

Per concludere.

 

La mente occidentale e le menti degli “integrazionisti atlanticisti” russi [i fautori di un’integrazione della Russia nel circuito economico, finanziario, politico e militare occidentale, persone che spesso occupano posti di grande responsabilità anche nei governi di Putin, NdT] e della gioventù cinese pro-americana, sono così piene di assurdità propagandistiche che non hanno connessione con la realtà.
C’è il mondo reale e c’è il mondo costruito dalla propaganda che nasconde il mondo reale e serve interessi specifici. Il mio compito è far uscire le persone dal mondo propagandistico e farla entrare in quello reale. Sostenetemi in questo sforzo.

 

 

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