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Continuiamo la nostra serie sulla “rivoluzione globale” e sul riordino di Trump, con un aggiornamento su come stanno andando le cose e, in particolare, sulle prospettive di “rinascita” dell’America come una sorta di potenza economica e manifatturiera.
Il più grande segnale in questo senso è stato l’annuncio di questa settimana che Trump avrebbe improvvisamente fatto marcia indietro rispetto al suo bluff di tariffe punitive “estreme” contro la Cina.
BREAKING: Il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Bessent ha dichiarato che lo stallo tariffario con la Cina è insostenibile e si aspetta un’escalation, secondo Bloomberg. Il Dow ha esteso il suo guadagno a +1.000 punti in giornata.
In un’intervista Trump è tornato indietro dall’orlo del precipizio, spiegando che i dazi saranno “sostanzialmente” ridotti:
La Cina ha fatto una silenziosa rappresaglia speculare, almeno secondo le fonti della CNN, annullando molti dei suoi dazi sui semiconduttori statunitensi con una serie di “deroghe” non ufficiali:
Chen Shaoling, manager dell’agenzia di importazione Zhengnenliang Supply Chain, ha dichiarato alla CNN di aver scoperto giovedì che i dazi su otto tipi di circuiti integrati, che coprono la maggior parte dei semiconduttori ad eccezione dei chip di memoria, sono stati azzerati. La scoperta è stata fatta durante uno sdoganamento di routine per i suoi clienti, ha aggiunto.
In molti aspetti il teatro di Trump è facile da vedere: ha ripetutamente affermato di aver parlato personalmente con Xi e che i membri del team di Trump sono in “costante contatto” con le controparti cinesi, cosa che i cinesi stessi hanno negato. Quando viene interrogato su questo punto, Trump si ritira immediatamente su una deviazione: tangenti provate su come l’America era grande sotto le tariffe, e ora il mondo ne sta approfittando. Ciò che le esibizioni sembrano nascondere è l’approccio improvvisato di Trump, in cui non viene impiegata una vera e propria strategia, ma piuttosto l’obiettivo finale di sottomettere il mondo alla volontà degli Stati Uniti, come un cieco inseguimento avvolto nella bandiera dello stesso tipo di eccezionalismo americano che un tempo fioriva in un’epoca in cui il Paese era una vera e propria superpotenza, piuttosto che l’egemone decaduto e decrepito che è ora.
La spinta tariffaria di Trump è animata da buone intenzioni, ma il problema rimane la scarsa capacità di giudizio di Trump nel mettere insieme un’amministrazione così piena di giocatori della palude in settori chiave, in modo da consegnarsi nuovamente alla paralisi in un mandato inefficace.
Proprio la settimana scorsa Trump ha nominato un altro arci-sionista in una posizione di alto livello: Mark Levin al Consiglio Consultivo del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. E secondo le indiscrezioni, Trump starebbe puntando su Ezra Cohen per la posizione di vicedirettore dell’NSA – lo stesso Cohen che ha sostenuto la necessità di un colpo di stato in Iran.
E questo oltre ad avere già un personaggio del calibro di Howard Lutnick come suo Svengali personale.
Questo è solo un esempio del tipo di persone con cui Trump si sta fortificando, che si ripercuote sul suo giudizio e sulle sue capacità di discernimento nella scelta dei consiglieri per affrontare la questione economica.
Al di sotto del fumo e degli specchi, tuttavia, si stanno svolgendo tutti i tipi di trattative urgenti “dietro le quinte” per alleviare la tensione e far scendere tutti dal cornicione. Un giornale coreano sostiene, ad esempio, che funzionari di alto livello del Ministero delle Finanze cinese sono stati visti entrare nell’edificio del Tesoro degli Stati Uniti a Washington
Una fonte diplomatica ha dichiarato al JoongAng Ilbo: “Il fatto che i canali del Tesoro sia degli Stati Uniti che della Cina stiano effettivamente operando significa che entrambi i Paesi hanno raggiunto un punto critico sotto la pressione interna e internazionale a causa delle attuali tariffe di ritorsione” e ha previsto che “i risultati delle trattative in segreto tra le due parti potrebbero rappresentare un importante punto di svolta nella guerra tariffaria”.
Secondo loro, la “segretezza” che circonda l’incontro ha a che fare con la guerra di volontà, d’immagine e d’orgoglio che è il prodotto naturale di questi scontri titanici. La Cina deve mantenere il volto della forza, mentre Trump vuole essere visto come un “uomo forte” che ha piegato le ginocchia alla Cina. In realtà, entrambi sono molto più pragmatici.
Ma la descrizione della politica tariffaria di Trump come approssimativa o improvvisata potrebbe non essere completamente accurata: diventa sempre più chiaro che c’è un po’ di metodo nella follia, ma proviene dal “genio” lungimirante di Scott Bessent. Un nuovo articolo di Bloomberg fornisce una foto molto eloquente, oltre ai contorni del piano:
Si tratta essenzialmente di sottomettere prima l’Europa attraverso la morsa dei dazi, poi di piegare gli sfortunati europei in un “accerchiamento della Cina”; in breve, gli Stati Uniti potrebbero non essere in grado di scalfire il gigante orientale da soli, ma l’Occidente unito potrebbe avere una possibilità. In questo caso, però, si tratta di paesi orientali “allineati all’Occidente”:
Le nazioni a cui Bessent ha detto di guardare – Giappone, Corea del Sud, Vietnam e India – sono vicine alla Cina. Sono Paesi con cui gli Stati Uniti potrebbero lavorare per isolare la Cina, cosa che è stata definita una strategia di “grande accerchiamento”.
E, sorpresa, sorpresa, il Giappone ha già reagito, rifiutando di allearsi con la Cina, secondo Bloomberg:
Il problema è che chiunque abbia sentito parlare Bessent può testimoniare il suo basso quoziente intellettivo. Ci sono molti membri della squadra di Trump, subdoli o meno, che possiedono chiaramente un’arguzia o un’acutezza tagliente, tra cui Howard Lutnick. Il signor Bessent, purtroppo, non rientra affatto in questo gruppo.
Invece, Bessent ha detto di sperare in un “grande, bellissimo riequilibrio” dell’economia cinese verso un maggior consumo e dell’economia statunitense verso un maggior numero di attività manifatturiere, ma non è chiaro se Pechino sia pronta a farlo, ha detto la fonte.
Bessent ha parlato a Washington a una conferenza sugli investimenti privati tenuta da JP Morgan Chase (JPM.N), a margine degli incontri di primavera del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Bloomberg ha riportato per primo alcune delle sue osservazioni da fonti presenti in sala.
Questo è esattamente il modo in cui Janet Yellen ha precedentemente espresso le sue preoccupazioni nei confronti della Cina: che ha iniziato a sconvolgere il sistema delicatamente equilibrato dello sfruttamento occidentale “infrangendo le regole” – sapete, quelle regole non dette (e arbitrarie) che riguardano la “sovraccapacità”.
Come funziona, l’Impero coloniale occidentale deve essere in grado di controllare in ogni momento le leve del consumo e della produzione per trarre invariabilmente vantaggio da se stesso e truffare il mondo attraverso un arbitraggio criminale. Ora Bessent ci ha regalato la prossima perla di intuizione dalle tane nascoste di queste élite: è ora di costringere i cinesi a consumare la nostra robaccia per risollevare i nostri settori manifatturieri in crisi e le nostre economie in generale. Ma questi non sono i “liberi mercati” di vostro nonno, bensì l’esatto contrario: dirigismo su scala globale.
Opinione: Gli Stati Uniti non hanno gli aiuti, la tecnologia o l’accesso al mercato per esercitare il controllo sul commercio globale come un tempo, e il comportamento erratico di Trump sta rapidamente aumentando la probabilità che non lo faranno mai.
Ovviamente, la strategia di Trump è terribile: non è nemmeno chiaro cosa voglia. Ma anche un’amministrazione meno inetta sarebbe in difficoltà. Nel corso dei decenni, l’influenza degli Stati Uniti per il rifacimento del sistema commerciale globale – flussi di capitale, tecnologia avanzata e accesso al suo vasto mercato di consumo – si è indebolita rispetto alla Cina. Barack Obama era solito definire gli Stati Uniti la “nazione indispensabile”. In termini commerciali e tecnologici ciò è sempre meno vero.
L’articolo prosegue descrivendo come la portata e l’influenza degli Stati Uniti si sia indebolita in molti settori chiave, dalla tecnologia verde globale ai bilanci degli aiuti, ora tutti dominati dalla Cina.
Un grande thread che riassume l’esegesi del ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis sullo scontro globale è rivelatore:
L’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis ha appena detto alcune dure verità sul vero motivo della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. E no, non si tratta di “commercio equo” – è una questione di sopravvivenza.
1/ Gli Stati Uniti non temono la Cina a causa della “manodopera a basso costo” o del “furto di proprietà intellettuale”. Ciò che teme veramente è la capacità della Cina di minare l’ordine finanziario globale guidato dagli Stati Uniti, lo stesso sistema che permette all’America di stampare dollari e comprare il mondo.
2/ La vecchia architettura finanziaria di Wall Street sta perdendo la sua presa. Non riesce a controllare i flussi di criptovalute. Non riesce a tenere il passo con i nuovi ecosistemi finanziari. La Cina – con il suo yuan digitale, la sua vasta base industriale e la sua crescente influenza globale – è la prima vera minaccia a questo sistema.
3/ Le “tariffe reciproche” di Trump non hanno mai avuto lo scopo di bilanciare il commercio. Erano un tentativo disperato di rallentare l’ascesa della Cina e di proteggere il sistema del dollaro dal collasso. Perché se la Cina ha successo, gli Stati Uniti perdono la loro arma magica: il dominio monetario.
4/ Oggi Trump si concentra sul cuore finanziario dell’America: – Il mercato dei titoli del Tesoro (l’ancora di salvezza dell’America) – Il mercato azionario (il portafoglio dell’America) Entrambi sono fragili. E qualsiasi pressione esterna potrebbe innescare una reazione a catena.
5/ Gli Stati Uniti sono ora nel panico per chi sta vendendo i Treasury americani. La Cina? Giappone? Altri? Secondo quanto riferito, Trump vuole punire qualsiasi paese in eccedenza che scarica i Treasury, ovviamente con tariffe. Non si tratta di commercio. Si tratta di un impero morente che cerca di fermare l’emorragia.
6/ In breve, l’America non è più sicura della propria fortezza finanziaria. E la Cina non gioca più secondo le vecchie regole. Non si tratta solo di una guerra commerciale, ma di una guerra per il futuro della finanza globale.
Il problema è che gli Stati Uniti vogliono disperatamente mantenere le vestigia di questa architettura finanziaria globale così vantaggiosa per loro, retaggio di un’epoca in cui la potenza degli Stati Uniti poteva effettivamente “imporre” tale sistema, sia attraverso un “soft power” di prima classe che attraverso una varietà militare “dura”. Ora entrambi sono diventati obsoleti: gli Stati Uniti sono regolarmente umiliati dalla loro incapacità di sopprimere militarmente Ansar Allah nel Mar Rosso, mentre sono altrettanto dispiaciuti per i molti rimproveri da parte dell’Ucraina e della Russia, Paesi che l’ex “soft power” degli Stati Uniti avrebbe avuto il peso necessario per spingere.
Allo stesso modo, la guerra economica non è sempre più “sostenuta” da alcun peso reale, poiché le capacità produttive degli Stati Uniti sono da tempo soffocate dall’osso di pollo del “globalismo”. Recenti post virali hanno evidenziato quanto sia arretrata la “manodopera qualificata” statunitense rispetto a quella cinese. Ad esempio, un imprenditore americano ha sfogato la sua frustrazione per l’impossibilità di far lavorare a macchina CNC un semplice progetto di contenitore per la sua azienda da parte di aziende americane. Ha riferito che le numerose aziende di lavorazione con cui ha tentato di lavorare hanno tutte dimostrato vari livelli di incomprensione su come dare vita ai suoi semplici schemi disegnati al CAD. Quando ha inviato gli stessi progetti in Cina, ha ricevuto un prodotto magistralmente eseguito senza alcun feedback: gli abili macchinisti erano semplicemente più bravi e competenti nel loro mestiere.
Catene di fornitura complesse: Mentre alcuni componenti o fasi della produzione di beni di lusso possono avvenire in Cina, la maggior parte dei marchi di lusso sostiene che l’assemblaggio finale e la finitura avvengono in Europa per soddisfare i requisiti di etichettatura “Made in Italy/Francia”. L’effettivo grado di coinvolgimento cinese rimane opaco a causa della natura segreta delle catene di fornitura del lusso.
A quasi cento giorni dall’inizio della sua amministrazione, è difficile dare un vero e proprio voto alle prestazioni di Trump, anche se la parola “incerto” è d’obbligo. La rivoluzione globale che molti attribuiscono a Trump era in realtà già da tempo accesa dalla resistenza del “Sud globale”, con il movimento BRICS guidato da Russia e Cina, tra gli altri.
“Il sistema economico globale sotto il quale la maggior parte dei paesi ha operato negli ultimi 80 anni sta per essere resettato, inaugurando il mondo in una nuova era”il capo economista del FMI Pierre-Olivier Gourinchas ha detto.
Trump è semplicemente arrivato al bivio che gli si è presentato davanti e sta cercando di tracciare una nuova rotta, avendo visto le scritte sul muro. Ma, come già detto, sembra che sia troppo poco e troppo tardi, perché l’etica del lavoro e la cultura americana sono state sventrate da diversi decenni di implosione. Recenti sondaggi come il seguente indicano un’ipocrisia ormai radicata nel Paese quando si tratta di lavorare nei campi o nelle linee di produzione:
L’80% degli americani pensa che staremmo meglio se riportassimo l’industria manifatturiera, ma solo il 25% degli americani pensa che personalmente starebbe meglio se lavorasse nell’industria manifatturiera (CATO).
Sono sicuro che tutti hanno visto i meme ormai prodotti, come tutto il resto, in Cina:
Nel frattempo, i dati economici specifici del settore manifatturiero sono tra i più bassi mai registrati:
SCIOCCANTE: L’indice manifatturiero Empire State di New York è sceso a -8,1 punti in aprile, registrando la terza lettura negativa di quest’anno. Ancora più importante, le prospettive a 6 mesi per le condizioni generali di business sono crollate a -7,4, il valore più basso degli ultimi 24 anni. Inoltre, le prospettive a 6 mesi per i nuovi ordini sono scese a -6,6, il minimo storico. Nemmeno la crisi finanziaria del 2008 ha visto prospettive così negative. Il tutto mentre le prospettive sui prezzi pagati sono schizzate a 65,6, il valore più alto dalla metà del 2022. La stagflazione è qui.
Un servizio di notizie sul trasporto merci segnala:
Volumi di trasporto in calo dell’8,3% mese su mese… Ci stiamo avvicinando ai livelli minimi COVID nel settore degli autotrasporti. Il mercato continua a essere in stallo.
La linea blu nel grafico qui sopra rappresenta il punto di minimo del COVID, mentre la linea bianca mostra gli attuali ordini di autotrasporto.
Certo, alcune delle cifre sopra riportate potrebbero forse rimbalzare dopo che l’esperimento tariffario di Trump sarà terminato o si sarà riconciliato positivamente tra i vari partner commerciali globali. Ma la domanda più grande rimane ancora: gli Stati Uniti hanno effettivamente la capacità grezza – che comprende il pool di talenti, la cultura del lavoro e il personale – di competere veramente nel mondo moderno anti-globalista delle grandi potenze autosufficienti? Potrebbe benissimo essere così: non abbiamo ancora la risposta.
Ma soprattutto nell’era che sta per arrivare, in cui l’IA sostituirà ampiamente il lavoro umano, è difficile immaginare come Trump o qualsiasi altro presidente riuscirà a riaccendere il sogno di una popolazione completamente occupata, che produce beni di alta qualità richiesti in tutto il mondo. Sembra più probabile che abbiamo già visto l’apogeo e che da questo momento in poi tutto sia in discesa, almeno se dobbiamo credere alle promesse degli ottimisti dell’IA, che sostengono che la stragrande maggioranza del lavoro manifatturiero umano sarà presto appannaggio di robot come il Tesla Optimus.
Crooke ha abilmente trasformato quanto sopra in un punto più ampio sul declino della civiltà, un decadimento culturale che è assolutamente inimicato al tipo di rinascita patriottica su cui Trump ha basato la sua intera visione. Ma può Trump riconquistare questo settore vitale della società con le sue vittorie nella guerra culturale? Certamente l’abbattimento della tirannia “liberale”, l’abbattimento delle istituzioni censorie, ecc. avranno un effetto rianimatore, ma fino a che punto? Sarà sufficiente a risvegliare una popolazione diseredata e disaffezionata che ha storicamente una bassa opinione delle proprie istituzioni politiche?
Per far sì che la gente lavori con il tipo di atteggiamento energico che ricorda l’era del dopoguerra, è necessario darle speranza; e per ora, nonostante le spacconate di Trump, i teaser non meritati della “campagna 2028” e altri espedienti di partito, nel cuore pulsante della società, tra l’aumento dei prezzi e le minacce di guerra incombenti, non c’è ancora molta di quella speranza.
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OGGETTO: Politica di investimento America First
Per l’autorità conferitami in qualità di Presidente dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti d’America, ordino quanto segue:
Section 1. Principi e obiettivi.Accogliere gli investimenti stranieri e rafforzare i mercati dei capitali pubblici e privati degli Stati Uniti, leader a livello mondiale, sarà una parte fondamentale dell’età dell’oro americana. Gli Stati Uniti hanno le risorse più attraenti al mondo, nella tecnologia e in tutta la nostra economia, e renderemo più facile per i nostri alleati d’oltreoceano sostenere i posti di lavoro degli Stati Uniti, gli innovatori degli Stati Uniti e la crescita economica degli Stati Uniti con i loro capitali.
Gli investimenti degli alleati e dei partner degli Stati Uniti possono creare centinaia di migliaia di posti di lavoro e una ricchezza significativa per gli Stati Uniti.La nostra nazione è impegnata a mantenere un ambiente forte e aperto per gli investimenti, che va a vantaggio della nostra economia e del nostro popolo, migliorando al contempo la nostra capacità di proteggere gli Stati Uniti dalle minacce nuove e in evoluzione che possono accompagnare gli investimenti stranieri.
Gli investimenti a tutti i costi non sono sempre nell’interesse nazionale, tuttavia.Alcuni avversari stranieri, tra cui la Repubblica Popolare Cinese (RPC), dirigono e facilitano sistematicamente gli investimenti in aziende e beni degli Stati Uniti per ottenere tecnologie all’avanguardia, proprietà intellettuale e influenza in settori strategici. La RPC persegue queste strategie in modi diversi, sia visibili che nascosti, e spesso attraverso società partner o fondi di investimento in Paesi terzi.
La sicurezza economica è sicurezza nazionale. La RPC non permette alle aziende statunitensi di appropriarsi delle proprie infrastrutture critiche e gli Stati Uniti non dovrebbero permettere alla RPC di appropriarsi delle infrastrutture critiche statunitensi. Gli investitori affiliati alla RPC stanno prendendo di mira i gioielli della corona della tecnologia statunitense, le forniture alimentari, i terreni agricoli, i minerali, le risorse naturali, i porti e i terminali di spedizione.
La RPC sta inoltre sfruttando sempre più i capitali degli Stati Uniti per sviluppare e modernizzare i propri apparati militari, di intelligence e di sicurezza, il che rappresenta un rischio significativo per la patria e le forze armate degli Stati Uniti nel mondo.Le azioni correlate includono lo sviluppo e il dispiegamento di tecnologie a duplice uso, armi di distruzione di massa, armi convenzionali avanzate e azioni malevole di tipo informatico contro gli Stati Uniti e il loro popolo. Attraverso la strategia nazionale di fusione militare-civile, la RPC aumenta le dimensioni del suo complesso militare-industriale costringendo le aziende e gli istituti di ricerca civili cinesi a sostenere le sue attività militari e di intelligence.
Queste società cinesi raccolgono anche capitali: vendendo agli investitori americani titoli che scambiano nelle borse pubbliche americane e straniere; facendo pressione sui fornitori di indici e sui fondi statunitensi affinché includano questi titoli nelle offerte di mercato; e impegnandosi in altre azioni per assicurarsi l’accesso ai capitali statunitensi e ai benefici immateriali che li accompagnano. In questo modo, la RPC sfrutta gli investitori statunitensi per finanziare e far progredire lo sviluppo e la modernizzazione delle proprie forze armate.
Sec. 2. Politica.(a) È politica degli Stati Uniti preservare un ambiente di investimento aperto per contribuire a garantire che l’intelligenza artificiale e altre tecnologie emergenti del futuro siano costruite, create e coltivate proprio qui negli Stati Uniti. Gli investimenti nella nostra economia da parte dei nostri alleati e partner, alcuni dei quali dispongono di enormi fondi sovrani, sostengono l’interesse nazionale. La mia amministrazione farà degli Stati Uniti la più grande destinazione al mondo per gli investimenti in dollari, a beneficio di tutti noi.
b) Tuttavia, per quanto riguarda gli investimenti nelle imprese statunitensi che operano nel settore delle tecnologie critiche, delle infrastrutture critiche, dei dati personali e di altri settori sensibili, le restrizioni all’accesso degli investitori stranieri alle attività degli Stati Uniti si attenueranno in proporzione alla loro distanza e indipendenza verificabile dalle pratiche predatorie di investimento e di acquisizione di tecnologie della RPC e di altri avversari stranieri o attori di minaccia.
c) Gli Stati Uniti creeranno un processo accelerato “fast-track”, basato su standard oggettivi, per facilitare maggiori investimenti da parte di specifiche fonti alleate e partner in imprese statunitensi coinvolte nella tecnologia avanzata degli Stati Uniti e in altri settori importanti. Questo processo consentirà un aumento degli investimenti stranieri subordinato ad adeguate disposizioni di sicurezza, compresi i requisiti che gli investitori stranieri specificati evitino di collaborare con gli avversari stranieri degli Stati Uniti.
d) La mia Amministrazione accelererà anche le revisioni ambientali per qualsiasi investimento superiore a 1 miliardo di dollari negli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti ridurranno lo sfruttamento dei capitali, della tecnologia e delle conoscenze tecniche del settore pubblico e privato da parte di avversari stranieri come la RPC. Gli Stati Uniti stabiliranno nuove regole per impedire alle aziende e agli investitori statunitensi di investire in industrie che promuovono la strategia nazionale di fusione militare-civile della RPC e impediranno alle persone affiliate alla RPC di acquistare aziende e beni americani critici, consentendo solo gli investimenti che servono gli interessi americani.La mia amministrazione proteggerà i terreni agricoli e le proprietà immobiliari degli Stati Uniti in prossimità di strutture sensibili. Cercherà inoltre, anche in consultazione con il Congresso, di rafforzare l’autorità del CFIUS sugli investimenti “greenfield”, di limitare l’accesso degli avversari stranieri ai talenti e alle operazioni degli Stati Uniti nel campo delle tecnologie sensibili (in particolare l’intelligenza artificiale) e di ampliare l’ambito delle tecnologie “emergenti e fondamentali” che possono essere trattate dal CFIUS.
g) Per ridurre l’incertezza per gli investitori, ridurre l’onere amministrativo e aumentare l’efficienza del Governo, la mia Amministrazione cesserà l’uso di accordi di “mitigazione” eccessivamente burocratici, complessi e aperti per gli investimenti negli Stati Uniti da parte di Paesi stranieri avversari. In generale, gli accordi di mitigazione dovrebbero consistere in azioni concrete che le aziende possono completare entro un tempo specifico, piuttosto che in obblighi di conformità perpetui e costosi.
h) Gli Stati Uniti continueranno ad accogliere e incoraggiare gli investimenti passivi di tutti i soggetti stranieri. Questi includono partecipazioni non di controllo e azioni senza diritti di voto, di consiglio o altri diritti di governance e che non conferiscono alcuna influenza manageriale, decisioni sostanziali o accesso non pubblico alle tecnologie o alle informazioni tecniche, ai prodotti o ai servizi.
Gli Stati Uniti utilizzeranno inoltre tutti gli strumenti legali necessari per dissuadere ulteriormente le persone statunitensi dall’investire nel settore militare-industriale della RPC. Queste possono includere l’imposizione di sanzioni ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) attraverso il blocco dei beni o altre azioni, comprese le azioni ai sensi dell’Ordine Esecutivo 13959 del 12 novembre 2020 (affrontare la minaccia degli investimenti in titoli che finanziano le società militari comuniste cinesi), come modificato dall’Ordine Esecutivo 13974 del 13 gennaio 2021 (modificare l’Ordine Esecutivo 13959 – affrontare la minaccia degli investimenti in titoli che finanziano le società militari comuniste cinesi) e dall’Ordine Esecutivo 14032 del 3 giugno 2021 (affrontare la minaccia degli investimenti in titoli che finanziano le società comuniste cinesi), 2021 (che modifica l’Ordine Esecutivo 13959 – affrontare la minaccia degli investimenti in titoli che finanziano società militari comuniste cinesi) e dall’Ordine Esecutivo 14032 del 3 giugno 2021 (affrontare la minaccia degli investimenti in titoli che finanziano alcune società della Repubblica Popolare Cinese), e le azioni ai sensi dell’Ordine Esecutivo 14105 del 9 agosto 2023 (affrontare gli investimenti degli Stati Uniti in alcune tecnologie e prodotti per la sicurezza nazionale in Paesi a rischio). L’Ordine Esecutivo 14105 è in fase di revisione da parte della mia Amministrazione, in base al Memorandum presidenziale del 20 gennaio 2025 (America First Trade Policy), per valutare se include controlli sufficienti per affrontare le minacce alla sicurezza nazionale.
j) Questa revisione si baserà sulle misure adottate sotto la mia autorità nel 2020 e 2021 e prenderà in considerazione restrizioni nuove o ampliate sugli investimenti in uscita degli Stati Uniti nella RPC in settori come i semiconduttori, l’intelligenza artificiale, la quantistica, le biotecnologie, l’ipersonica, l’aerospaziale, la manifattura avanzata, l’energia diretta e altre aree coinvolte nella strategia nazionale di fusione militare-civile della RPC. Nell’ambito della revisione, la mia Amministrazione prenderà in considerazione l’applicazione di restrizioni su tipi di investimenti quali private equity, venture capital, investimenti greenfield, espansioni aziendali e investimenti in titoli quotati in borsa, da fonti quali fondi pensione, fondi universitari e altri investitori a partecipazione limitata. È ora che le università americane smettano di sostenere gli avversari stranieri con le loro decisioni di investimento, così come dovrebbero smettere di concedere l’accesso all’università ai sostenitori del terrorismo.
k) Per ridurre ulteriormente gli incentivi per le persone statunitensi a investire nei nostri avversari stranieri, valuteremo se sospendere o terminare la Convenzione sull’imposta sul reddito tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese del 1984. Questo trattato fiscale, insieme all’ammissione della Repubblica Popolare Cinese all’Organizzazione Mondiale del Commercio e al relativo impegno da parte degli Stati Uniti di accordare il trattamento incondizionato della nazione più favorita ai beni e ai servizi della Repubblica Popolare Cinese, ha portato alla deindustrializzazione degli Stati Uniti e alla modernizzazione tecnologica delle forze armate della Repubblica Popolare Cinese.
Per proteggere i risparmi degli investitori statunitensi e incanalarli verso la crescita e la prosperità americane, la mia Amministrazione si impegnerà anche:
(i) determinare se vengono rispettati adeguati standard di revisione finanziaria per le società che rientrano nel Holding Foreign Companies Accountable Act;
esaminare le strutture delle entità a interesse variabile e delle filiali utilizzate dalle società estere per operare nelle borse degli Stati Uniti, che limitano i diritti di proprietà e le tutele per gli investitori statunitensi, nonché le accuse di comportamento fraudolento da parte di queste società;
Sec. 3. Implementazione. La politica esposta nella sezione 2 del presente memorandum sarà attuata, nella misura consentita dalla legge e dagli stanziamenti disponibili, e soggetta ai processi programmatici e di bilancio interni, come segue:
(a) Per quanto riguarda le sezioni da 2(a) a 2(k) del presente memorandum, il Segretario del Tesoro, in consultazione con il Segretario di Stato, il Segretario della Difesa, il Segretario del Commercio, il Rappresentante Commerciale degli Stati Uniti e i capi di altri dipartimenti e agenzie esecutive (agenzie), come ritenuto opportuno dal Segretario del Tesoro, e per quanto riguarda le autorità del CFIUS, in coordinamento con i suoi membri, adotterà le azioni, compresa la promulgazione di norme e regolamenti, per sostenere tutti i poteri concessi al Presidente dall’IEEPA, dalla sezione 721 del Defense Production Act del 1950, e successive modifiche, e da altri statuti per realizzare gli scopi del presente memorandum.
b) Per quanto riguarda la sezione 2(d) del presente memorandum, l’ Amministratore dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, in consultazione con i capi di altre agenzie, come appropriato, realizzerà gli scopi del presente memorandum.
c) Per quanto riguarda la sezione 2(l)(i) del presente memorandum, il Segretario del Tesoro si impegnerà come opportuno con la Securities and Exchange Commission e il Public Company Accounting Oversight Board; per quanto riguarda la sezione 2(l)(ii) del presente memorandum, il Procuratore Generale, in coordinamento con il Direttore del Federal Bureau of Investigation, fornirà una raccomandazione scritta sul rischio posto agli investitori statunitensi in base alla verificabilità, alla supervisione aziendale e all’evidenza di comportamenti fraudolenti penali o civili per tutte le società estere avversarie attualmente quotate nelle borse nazionali; e per quanto riguarda la sezione 2(l)(iii) del presente memorandum, il Segretario del Lavoro pubblicherà standard fiduciari aggiornati ai sensi dell’Employee Retirement Income Security Act del 1974 per gli investimenti in titoli del mercato pubblico di società estere avversarie.
Sec. 4. Definizione.Ai fini del presente memorandum, il termine “avversari stranieri” include la RPC, compresa la Regione amministrativa speciale di Hong Kong e la Regione amministrativa speciale di Macao, la Repubblica di Cuba, la Repubblica islamica dell’Iran, la Repubblica popolare democratica di Corea, la Federazione russa e il regime del politico venezuelano Nicolás Maduro.
Sec. 5. Disposizioni generali. (a) Nessuna disposizione del presente memorandum potrà essere interpretata in modo da pregiudicare o influenzare in altro modo:
(i.) l’autorità concessa dalla legge a un dipartimento o a un’agenzia esecutiva, o al suo capo; o
(ii.) le funzioni del direttore dell’Ufficio di gestione e bilancio relative a proposte di bilancio, amministrative o legislative.
(b) Il presente memorandum sarà attuato in conformità con la legge applicabile e subordinatamente alla disponibilità di stanziamenti.
c) Il presente memorandum non è inteso a creare, e non crea, alcun diritto o beneficio, sostanziale o procedurale, azionabile per legge o in via equitativa da qualsiasi parte nei confronti degli Stati Uniti, dei suoi dipartimenti, agenzie o enti, dei suoi funzionari, dipendenti o agenti, o di qualsiasi altra persona.
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Le persone che cercano di “correggere” i nomi geografici sono in genere quelle che, in un determinato momento storico, sono state soggette all’egemonia o la temono attualmente. La decisione di Donald Trump di rinominare il Golfo del Messico Golfo d’America e di restituire il nome Denali al Monte McKinley riflette la narrativa opposta: non si tratta di una sfida all’egemonia, ma della sua diretta affermazione, scrive il direttore del programma del Valdai Club Anton Bespalov.
Il discorso inaugurale di Donald Trump del 20 gennaio 2025 era pieno di promesse audaci e iniziative rivoluzionarie, tutte riconducibili a un’unica idea: riportare l’America alla grandezza. Resta da vedere quanto siano realizzabili questi impegni nell’arco di un solo mandato presidenziale, che includono il rilancio della potenza industriale degli Stati Uniti, la lotta all’immigrazione clandestina e, più in generale, il ripristino dell’unità nazionale. Ma una promessa è stata mantenuta quasi immediatamente: lo stesso giorno, Trump ha firmato un ordine esecutivo che rinomina il Golfo del Messico Golfo d’America e restituisce il nome del presidente McKinley alla montagna che fino ad allora era stata ufficialmente chiamata Denali.
Questa mossa è stata derisa dai critici e ha persino lasciato perplessi molti sostenitori di Trump. In effetti, emanare un ordine intitolato “Restoring Names That Honor American Greatness” (Restituire i nomi che onorano la grandezza americana) è una cosa, ma ripristinare effettivamente quella grandezza, comunque la si definisca, è un’altra. Tuttavia, questo evento segna una tappa importante nelle guerre culturali che infuriano da anni in America, oltre a rappresentare un curioso caso di politica simbolica che si estende alla geografia.
Per contestualizzare, il nome Denali era stato ufficialmente adottato a livello federale dal presidente Obama nel 2015, ma l’Alaska lo utilizzava già dal 1975, quando il legislatore statale aveva presentato una petizione alla Commissione statunitense per i nomi geografici per ottenere il cambiamento.
Restituire il nome indigeno Athabaskan alla vetta più alta degli Stati Uniti era stata una questione politica fondamentale per l’Alaska. Durante tutto questo processo, i legislatori dell’Alaska che spingevano per il cambiamento hanno dovuto affrontare l’opposizione dei membri del Congresso che rappresentavano l’Ohio, lo Stato natale del presidente McKinley. Il dibattito non riguardava solo la giustizia storica o il rispetto per i popoli nativi, ma anche il prestigio dell’Alaska. Un recente sondaggio ha mostrato che gli abitanti dell’Alaska preferiscono “Denali” a “McKinley” con un margine di due a uno, anche tra gli elettori di Trump. I critici sottolineano che molti di coloro che sostengono il nome “McKinley” non sono mai stati in Alaska (proprio come lo stesso McKinley). Per alcuni abitanti dell’Alaska, la decisione di Washington di rinominare la “loro” montagna è una violazione dei principi federalisti.
La rinominazione di questi due punti di riferimento geografici riflette la visione personale di Trump della grandezza dell’America e l’importanza del marchio nel mondo degli affari e della politica.
“Trump è prima di tutto un esperto di branding”, afferma Ethan Porter, professore alla George Washington University, citato dal Washington Post, ‘e il branding riguarda prima di tutto i nomi. Ora ha il controllo su più nomi e vede il suo dominio come l’intero Paese’.
Perché immortalare il nome di McKinley è importante per Trump? Il 25° presidente degli Stati Uniti è un modello per il 47° sotto almeno due aspetti fondamentali. In primo luogo, William McKinley, sostenitore delle tariffe protezionistiche, vedeva nelle barriere commerciali una via verso la prosperità. In secondo luogo, ampliò il controllo territoriale degli Stati Uniti, supervisionando l’annessione delle Hawaii e, dopo la vittoria nella guerra ispano-americana, l’acquisizione di Guam, Porto Rico, delle Filippine e di Cuba.
La politica estera del presidente degli Stati Uniti Donald Trump è diventata uno dei fattori chiave che influenzano la revisione dei principi tradizionali nelle relazioni internazionali. Il suo approccio, basato sullo slogan “Make America Great Again”, ha portato a cambiamenti significativi nell’equilibrio globale del potere, riformattando le alleanze e rafforzando le tendenze verso la deglobalizzazione.
Se McKinley simboleggia la “grandezza” per Trump, il Messico incarna molti dei problemi del Paese. Già nel 2015, quando annunciò la sua prima campagna presidenziale, Trump dichiarò:
“Quando il Messico manda la sua gente, non manda il meglio… Porta droga. Porta criminalità. Sono stupratori. E alcuni, presumo, sono brave persone”.
Sebbene l’idea di rinominare il Golfo sia stata avanzata per la prima volta durante la conferenza stampa di Trump del 7 gennaio 2025, è probabile che il presidente fosse da tempo infastidito dal riferimento a un Paese che “manda gente del genere” nel nome di uno specchio d’acqua cruciale per la ricchezza petrolifera degli Stati Uniti. Le connotazioni dell’«appartenenza» del Golfo al Messico si riflettevano nei commenti della deputata Marjorie Taylor Greene, che il 9 gennaio ha presentato un disegno di legge per rinominarlo: «È il nostro golfo. Il nome giusto è Golfo d’America ed è così che tutto il mondo dovrebbe chiamarlo».
Resta da vedere se gli Stati Uniti chiederanno il riconoscimento globale del nuovo nome, ma sembra improbabile. Una campagna diplomatica per imporre il nome “Golfo d’America” sottrarrebbe risorse a questioni molto più urgenti. Inoltre, tali sforzi sono solitamente intrapresi da nazioni di piccole e medie dimensioni che affermano la propria narrativa.
Gli Stati arabi chiamano il Golfo Persico “Golfo Arabico”, la Corea del Sud si riferisce al Mar del Giappone come “Mar Orientale”, mentre la Corea del Nord lo chiama “Mar Orientale Coreano”; i paesi che si contendono il Mar Cinese Meridionale promuovono i propri nomi (Vietnam: “Mar Orientale”; Filippine: “Mar delle Filippine Occidentali”; Indonesia: “Mar di Natuna Settentrionale”).
Ciò che accomuna questi casi è una resistenza simbolica all’“egemonia”. Storicamente, la Persia, la Cina e il Giappone erano potenze regionali che dominavano i loro vicini, plasmando gli spazi politici, militari, economici e culturali che li circondavano. Coloro che cercano di “correggere” i nomi sono spesso nazioni che sono state soggette all’egemonia o che ora la temono.
La rinominazione del Golfo del Messico da parte di Trump riflette la narrativa opposta: non una sfida all’egemonia, ma la sua diretta affermazione, almeno nell’emisfero occidentale. La sua logica (che si ritrova anche nelle riflessioni sull’annessione della Groenlandia, l’ammissione del Canada negli Stati Uniti o la rivendicazione del Canale di Panama) non cerca l’approvazione globale. Si aspetta invece che il mondo lo accetti come un fatto compiuto, come hanno già fatto le aziende. Google, Microsoft e Apple ora visualizzano “Golfo d’America” per gli utenti statunitensi, mentre i giganti petroliferi BP e Chevron, che operano nel Golfo, si sono adeguati senza protestare.
Per quanto riguarda coloro che hanno rifiutato di accettare il nuovo nome, la reazione dell’amministrazione Trump alla posizione dell’Associated Press è stata eloquente. L’AP, citando il suo ruolo di agenzia di stampa globale, ha dichiarato che avrebbe continuato a utilizzare “Golfo del Messico” per il pubblico internazionale, pur riconoscendo il nuovo nome a livello nazionale. In risposta, la Casa Bianca ha revocato ai giornalisti dell’AP l’accesso agli eventi presidenziali.
L’Associated Press non è stato l’unico media statunitense a opporsi al rebranding dell’amministrazione, ma è stato scelto come esempio da punire. Il motivo probabile? Lo Stylebook dell’AP, la guida definitiva per i giornalisti di tutta l’America e di gran parte del mondo, esercita un’influenza senza pari. Più che un semplice manuale di formattazione e nomenclatura, stabilisce le norme per un “giornalismo inclusivo” e inquadra il dibattito su razza, genere e religione. Questo allineamento con l’agenda liberal-sinistra a cui si oppone la Casa Bianca di Trump ha reso l’AP un bersaglio privilegiato.
È in questo contesto che vanno viste le mosse di rebranding di Trump. Rinominare in America non è una novità, ma ciò che è senza precedenti è il significato dei luoghi geografici che vengono rinominati. Solo nel 2022, 650 toponimi contenenti la parola “squaw” (considerata offensiva per le donne native) sono stati rinominati. Nel 2020, le proteste del Black Lives Matter hanno portato alla rinominazione di centinaia di scuole, strade e basi militari per eliminare ogni riferimento alla Confederazione o alla “supremazia bianca”.
Mosse simboliche come la rinominazione di oggetti geografici suscitano sempre critiche quando si confrontano con la realtà. Oggi, l’impennata dei prezzi delle uova negli Stati Uniti ha dato origine a meme come: “Golfo di Come questo abbassa i prezzi dei generi alimentari”.
Ma ci si potrebbe anche chiedere quali disuguaglianze razziali siano state risolte cancellando i monumenti confederati.
La politica simbolica di Trump trova riscontro in una parte della società a lungo emarginata dai media mainstream. La guerra interna americana delle narrazioni contrappone due visioni di “grandezza”: una radicata nel patriottismo e nella tradizione, l’altra nei diritti delle minoranze e nella resa dei conti con la storia. Queste due Americhe parlano lingue diverse e si allontanano sempre più.
Una rivoluzione conservatrice – o, come l’ha definita Trump nel suo discorso inaugurale, una “rivoluzione del buon senso” – potrebbe rimodellare il Paese e avere un’importanza molto maggiore per il mondo rispetto al rebranding dei nomi dei luoghi e dei segnali che esso invia. Ma per questo, le vittorie devono andare oltre le battaglie simboliche.
L’Europa sta tornando ad essere la principale fonte di pericolo per l’intera umanità. Ma questo non significa che noi in Russia dovremmo recintarci dai nostri vicini occidentali e non prestare loro alcuna attenzione, scrive il direttore del programma del Valdai Club Timofei Bordachev.
L’Europa è sempre stata una fonte di preoccupazione per il resto del mondo, da quando i pirati greci scatenarono la loro aggressione sull’antica civiltà della Valle del Nilo agli ultimi tentativi degli europei di interferire negli affari africani o di comportarsi in modo aggressivo in Ucraina. Il crollo degli imperi coloniali nella seconda metà del XXsecolo e la graduale caduta dell’Europa sotto il dominio degli Stati Uniti hanno in qualche modo migliorato la situazione: L’Europa non rappresenta più un pericolo così grande. Tuttavia, si sforza ancora di portare avanti le sue politiche tradizionali, basate sulla divisione del mondo circostante e sulla scelta della forza rispetto alla diplomazia.
Gli incantesimi dei politici europei possono ora sembrare comici: hanno risorse economiche, politiche e demografiche estremamente limitate per rendere pericolose le loro minacce. Tuttavia, il vicolo cieco dello sviluppo in cui l’Europa si è trovata grazie ai suoi inutili leader potrebbe riservare molte altre spiacevoli sorprese al mondo circostante. Paradossalmente, l’Europa ha smesso da tempo di essere il centro della politica mondiale, ma rimane al centro della politica perché è qui che esiste la più alta probabilità di motivi per uno scontro diretto tra le più potenti potenze militari del pianeta.
Per uno di loro, la Russia, l’Europa è una vecchia conoscenza e un nemico storico che ha iniziato la sua aggressione contro Mosca nei giorni più bui della nostra storia nazionale. Per secoli, la Russia ha affrontato i tentativi degli europei di sottometterla o di costringerla ad agire sotto la loro dettatura. Questi tentativi hanno sempre incontrato una resistenza decisa, che è venuta a sottolineare le relazioni tra Russia ed Europa. Ora, come risposta ai problemi di sviluppo accumulati, i politici europei promuovono idee folli di militarizzazione dell’Europa in risposta alla presunta “minaccia russa”. Nonostante il fatto che oggettivamente l’attuazione di questi piani sia ostacolata da una serie di fattori evidenti, essi stessi possono causare una giustificata diffidenza in Russia.
Il concetto stesso di “ombrello di sicurezza” è assurdo quando si tratta di una minaccia fisica da parte di un nemico di forza comparabile. Poiché siamo lontani dal pensare che una minaccia all’Europa possa provenire dai Paesi del Nord Africa, dalla Cina o dal Medio Oriente, l’unico nemico di questo tipo è la Russia. Tuttavia, essa è legata agli Stati Uniti da un rapporto di deterrenza strategica, basato sulla minaccia diretta e immediata di causare danni inaccettabili al territorio e alla popolazione dell’altro. Qualsiasi Stato, soprattutto se forte e potente, è responsabile solo nei confronti dei propri cittadini in questioni di tale importanza fondamentale, scrive Timofei Bordachev.
Innanzitutto perché storicamente l’Europa ha sempre cercato una soluzione ai suoi problemi interni nelle guerre con i suoi vicini. Questi problemi sono davvero grandi. In primo luogo, il modello della struttura socio-economica della maggior parte dei grandi Paesi europei è in crisi. La Gran Bretagna, che ha lasciato l’Unione Europea non molto tempo fa, non fa eccezione. L’esaurimento delle possibilità di condurre un’esistenza parassitaria rispetto al resto del mondo minaccia ora i politici europei di perdere potere a causa delle crescenti difficoltà economiche della popolazione. La situazione demografica si sta aggravando: l’invecchiamento ha portato a una maggiore pressione sui sistemi sociali e la perdita di controllo della regione sulle migrazioni ha causato la crescita della popolarità delle forze di destra e l’indurimento della retorica e delle azioni delle élite tradizionali. Un grande esempio è la piccola Finlandia, dove i problemi economici e sociali hanno portato alla crescita del militarismo e ai tentativi di nascondere le difficoltà dietro la cortina del confronto con la Russia.
In secondo luogo, quella che siamo soliti chiamare integrazione europea è da tempo in crisi. Nata in un periodo in cui la situazione mondiale era eccezionalmente favorevole, l’unione dei Paesi europei e le sue istituzioni di Bruxelles stanno vivendo il momento peggiore della loro storia. L’autorità degli organi comuni dell’UE sta diminuendo e i governi nazionali non hanno fretta di condividere con loro i poteri in campo economico e politico. Da oltre 15 anni, i leader dell’UE stabiliscono chi occuperà i posti di vertice a Bruxelles in base a due criteri fondamentali: incompetenza e corruzione. Il motivo è che, dopo la crisi economica del 2009-2013, i Paesi dell’UE hanno perso completamente la voglia di fare qualcosa per rafforzarla e continuare l’apertura reciproca dei mercati chiave. Figure indipendenti con idee proprie non sarebbero più richieste a Bruxelles.
L’Europa ha da tempo dimenticato politici come Jacques Delors o persino Romano Prodi, che, tra l’altro, comprendevano perfettamente la necessità di negoziare con la Russia, piuttosto che litigare. Tuttavia, l’incompetenza non è mai una polizza assicurativa contro l’ambizione: questo è esattamente ciò che accade con politici come Ursula von der Leyen o la nuova rappresentante dell’UE per la politica estera, Kaja Kallas. Ora i burocrati europei sono completamente privi dell’opportunità di realizzare le loro ambizioni all’interno dell’Europa e utilizzano ciò che è a loro disposizione: un conflitto con la Russia. Sono ormai diversi anni che Bruxelles cerca di spremere il massimo dei risultati di carriera. Il motivo per cui Bruxelles sta diventando il centro mondiale della russofobia nelle sue manifestazioni più strane è l’incapacità della burocrazia europea di svilupparsi in altre direzioni, le sue limitazioni da parte degli stessi Stati membri dell’Unione Europea.
In terzo luogo, l’autorità dell’Europa sulla scena mondiale è in costante declino. La ragione principale è l’incapacità degli stessi europei di pensare almeno un po’ a come il loro comportamento appare dall’esterno. Per non parlare della capacità di tenere conto degli interessi dei propri partner. L’Europa è completamente priva di empatia e guarda al mondo che la circonda con l’indifferenza di un pazzo che non vede altri che se stesso.
Le opportunità economiche creano ancora alcuni vantaggi per gli europei. Tuttavia, convertirli in influenza politica sta diventando sempre più difficile: i Paesi e i popoli non sono semplicemente pronti a trattare con l’attuale “malato” della politica mondiale.
L’esempio più eclatante è l’allontanamento della Francia da quei Paesi africani in cui Parigi era riuscita a mantenere un certo livello di influenza dopo il crollo del suo impero coloniale. Ora queste posizioni si stanno riducendo, lasciando il posto al desiderio dei regimi locali di determinare in modo più indipendente il proprio futuro, affidandosi alle forze della Russia, degli Stati Uniti o addirittura della Cina.
Infine, le relazioni dell’Europa con il suo principale partner strategico e patrono – gli Stati Uniti – sono entrate in un periodo di incertezza. Non sappiamo ancora come si svilupperanno i processi politici interni in America. Tuttavia, essi stanno già causando molta ansia alle élite europee, abituate a crogiolarsi nella totale assenza di responsabilità per le loro decisioni di politica estera. Questo è in parte il motivo della crescente aggressività dell’Europa nei confronti della Russia: gli europei cercano di attirare l’attenzione degli Stati Uniti, di dimostrare la loro utilità gonfiando un conflitto del tutto inverosimile. Inoltre, i rappresentanti del nuovo governo americano hanno ripetutamente parlato della mancanza di motivi di contraddizione oggettiva tra Russia e Stati Uniti. In Europa, tali dichiarazioni provocano solo panico. Capiscono che gli americani non permetteranno loro di raggiungere un accordo con la Russia in modo completamente indipendente, ma condivideranno meno dei benefici che estraggono dall’intera economia mondiale.
In altre parole, l’Europa sta tornando ad essere la principale fonte di pericolo per l’intera umanità. Questo significa che noi in Russia dovremmo recintarci dai nostri vicini occidentali e non prestare loro attenzione?
Questa è la conclusione a cui si può giungere se si guarda, ad esempio, alle dinamiche del commercio estero russo, dove i Paesi asiatici stanno occupando sempre più spazio.
Sembra che questa non sia la strategia giusta. Nel caso in cui il comportamento avventuroso di élite europee incompetenti non diventi la causa di una tragedia militare su larga scala nei prossimi anni, noi in Russia dovremo comunque fare i conti con l’Europa. Pertanto, ha senso pensare a possibili scenari per il suo sviluppo, per cercare di ampliare le conoscenze sullo stato dei nostri vicini occidentali. Il che, naturalmente, non significa dare per scontato il loro comportamento sulla scena mondiale e, soprattutto, in relazione alla Russia. Finché il “malato” della politica mondiale non morirà o non si avvierà verso la guarigione, dovremo monitorare attentamente il suo stato di salute.
Riceviamo e pubblichiamo una breve rassegna di articoli di Michele Rallo, incentrati sull’impronta data da Papa Bergoglio alla conduzione della chiesa cattolica_Giuseppe Germinario
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Quanto è probabile che una Germania potenzialmente ultranazionalista “riconsideri la questione dei suoi confini o rinunci alle deliberazioni in stile UE in favore del ricatto militare”?
All’inizio di questo mese, il Ministero degli Esteri ha avvertito che una Germania rinfrancata e rimilitarizzata potrebbe rappresentare un’ulteriore sfida per la stabilità europea. Sono convinti che la ” Zeitenwende ” dell’ex cancelliere Olaf Scholz, ovvero la svolta storica, “questa volta sia reale”, nel senso che il suo successore Friedrich Merz ora gode del sostegno parlamentare e popolare per trasformare il loro Paese in una grande potenza . Sebbene ciò andrebbe a beneficio dell’Europa e dell’Ucraina, non sarebbe esente da tre gravi rischi.
Secondo i due autori dell’articolo, ciò comporta: la Russia che intraprende una guerra ibrida contro la Germania; l’ascesa della Germania che potrebbe provocare un aumento del nazionalismo nei paesi limitrofi; e questo potrebbe portare a un’esplosione di ultranazionalismo in Germania. Il catalizzatore di tutto ciò è il graduale disimpegno degli Stati Uniti dalla NATO, causato dalla ridefinizione delle priorità dell’Asia-Pacifico da parte dell’amministrazione Trump. Con il venir meno dell’influenza americana, si creeranno vuoti politici e di sicurezza che altri si contenderanno il compito di colmare.
Certo, l’articolo in sé mira piuttosto a promuovere i presunti vantaggi dell’attuazione tardiva da parte della Germania della “Zeitenwende” di Scholz, che gli autori elogiano come attesa da tempo e naturale risposta al suddetto catalizzatore, visto che la Germania è già di fatto leader dell’UE. Allo stesso tempo, menzionare i rischi rafforza la loro credibilità agli occhi di alcuni lettori, consente loro di gettare un’ombra discreta su Trump e presenta gli autori come lungimiranti nel caso in cui una delle situazioni sopra menzionate si verifichi.
A partire dal primo dei tre, è prevedibile che Germania e Russia conducano più operazioni di intelligence l’una contro l’altra se la prima svolgesse il ruolo guida del continente nel contenere la seconda, che quest’ultima considererebbe ovviamente una minaccia latente per ovvie ragioni storiche. L’articolo omette qualsiasi accenno al modo in cui il suo nuovo ruolo tedesco danneggerebbe gli interessi russi e travisa qualsiasi risposta di Mosca, definendola un’aggressione immotivata.
Sono più equi riguardo al secondo rischio, ovvero che i paesi limitrofi diventino più nazionalisti come reazione a una Germania rinvigorita e rimilitarizzata, ma non approfondiscono. La Polonia è probabilmente il candidato più probabile, dato che tali sentimenti stanno già emergendo nella società. Questa è una reazione alla coalizione liberal-globalista al potere in generale, alla sua percepita sottomissione alla Germania e al timore che una Germania eventualmente guidata dall’AfD possa tentare di rivendicare quelli che la Polonia considera i suoi “Territori Riconquistati”.
L’ultimo rischio si basa su quello che gli autori hanno definito come lo scenario peggiore: “un esercito tedesco inizialmente rafforzato da governi politicamente centristi e filo-europei [che] cade nelle mani di leader disposti a ridiscutere i confini della Germania o a rinunciare a deliberazioni in stile UE in favore del ricatto militare”. È questa potenziale conseguenza la più importante da valutare, poiché si prevede che le prime due siano caratteristiche durature di questa nuova era geopolitica in Europa, mentre l’ultima è incerta.
Si prevede che l’esito delle elezioni presidenziali polacche del mese prossimo determinerà in larga misura le future dinamiche delle relazioni polacco-tedesche. Se il candidato conservatore uscente venisse sostituito dal candidato liberale, la Polonia probabilmente si subordinerebbe ulteriormente alla Germania, farebbe affidamento sulla Francia per bilanciare il suo potere con quello degli Stati Uniti, o si orienterebbe verso la Francia . Una vittoria dei candidati conservatori o populisti, tuttavia, ridurrebbe la dipendenza dalla Germania, bilanciandola con la Francia o ristabilirebbe la priorità degli Stati Uniti .
Si prevede che la Francia avrà un ruolo più importante nella politica estera polacca in entrambi i casi, grazie alla loro storica alleanza sin dall’epoca napoleonica e alle preoccupazioni contemporanee condivise circa la minaccia che una Germania rinvigorita e rimilitarizzata potrebbe rappresentare per loro. I francesi in generale sono meno preoccupati di alcuni polacchi che la Germania ridiscutesse i loro confini e sono molto più preoccupati di perdere, in tutto o in parte, la loro opportunità di guidare l’Europa dopo la conclusione definitiva del conflitto ucraino .
Francia, Germania e Polonia sono in competizione tra loro in questo ambito, con esiti molto probabili: l’egemonia tedesca attraverso la visione della “Zeitenwende”, con Francia e Polonia che insieme la ostacolano nell’Europa centro-orientale (PECO), oppure un rinnovato “Triangolo di Weimar” per un governo tripartito sull’Europa. Finché verrà preservata la libera circolazione di persone e capitali nell’UE, cosa che ovviamente non può essere data per scontata ma è probabile, le probabilità che una Germania guidata dall’AfD riapra la discussione sui suoi confini con la Polonia sono basse.
Questo perché i tedeschi che la pensano allo stesso modo potrebbero semplicemente acquistare terreni in Polonia e trasferirsi lì, se lo desiderassero, pur essendo soggetti alle leggi polacche, che non sono sostanzialmente diverse da quelle tedesche a tutti gli effetti per quanto riguarda la loro vita quotidiana. Inoltre, mentre la Germania prevede effettivamente di intraprendere un rafforzamento militare senza precedenti, la Polonia è già nel mezzo del suo rafforzamento e lo sta facendo con maggior successo dopo essere diventata la terza forza militare della NATO la scorsa estate.
È anche improbabile che gli Stati Uniti si ritirino completamente dalla Polonia, per non parlare di tutta l’Europa centro-orientale, quindi le loro forze rimarranno probabilmente sempre lì come deterrente reciproco contro Russia e Germania. Nessuna delle due ha tuttavia alcuna intenzione di invadere la Polonia, quindi questa presenza sarebbe per lo più simbolica e finalizzata a rassicurare psicologicamente la popolazione polacca, storicamente traumatizzata, sulla propria sicurezza. In ogni caso, il punto è che lo scenario peggiore a cui gli autori hanno accennato è molto improbabile che si materializzi.
In sintesi, questo perché: la Polonia si subordini alla Germania dopo le prossime elezioni o faccia maggiore affidamento sulla Francia per bilanciare la situazione (se non addirittura ripristinerà la priorità degli Stati Uniti rispetto a entrambe); la libera circolazione di persone e capitali nell’UE probabilmente rimarrà almeno per un po’ di tempo; e gli Stati Uniti non abbandoneranno l’Europa centro-orientale. Di conseguenza, queste misure: placheranno o bilanceranno una Germania potenzialmente ultranazionalista (ad esempio, guidata dall’AfD); idem; e scoraggeranno qualsiasi potenziale revisionismo territoriale tedesco (sia con mezzi legali che militari).
In conclusione, si può quindi concludere che il nuovo ordine che si sta delineando in Europa probabilmente non porterà a un ripristino dei rischi interbellici, come Foreign Affairs ha avvertito essere lo scenario peggiore, ma alla creazione di sfere di influenza prive di tensioni militari. Che la Polonia rimanga saldamente da sola, si allei con la Francia o si subordini alla Germania, non si prevedono modifiche dei confini né in direzione occidentale né in direzione orientale , e tutte le forme di futura competizione tedesco-polacca rimarranno gestibili.
Se in Ucraina si raggiungesse un cessate il fuoco e non venissero schierate truppe occidentali, si prevede che i colloqui con gli Stati Uniti sul controllo strategico degli armamenti potrebbero riprendere poco dopo.
L’ex Ministro della Difesa russo e attuale Segretario del Consiglio di Sicurezza, Sergej Šojgu, ha rilasciato un’intervista molto dettagliata alla TASS sugli interessi di sicurezza del suo Paese. Si tratta di un testo lungo, quindi alcuni potrebbero non avere il tempo di leggerlo integralmente. Per questo motivo, il presente articolo si limiterà a concentrare l’attenzione sui cinque punti principali relativi alle possibilità di un cessate il fuoco , allo scenario delle forze di peacekeeping occidentali in Ucraina, alle minacce della NATO, alla sicurezza strategica e all’iniziativa di sicurezza eurasiatica della Russia:
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1. La Russia è pronta per un cessate il fuoco a determinate condizioni
Shoigu ha confermato che “Un cessate il fuoco è possibile se è l’inizio di una pace a lungo termine, e non un tentativo di organizzare un’altra tregua e un raggruppamento delle formazioni armate ucraine… siamo pronti per un cessate il fuoco, una tregua e colloqui di pace, ma solo se i nostri interessi e le realtà ‘sul campo’ saranno pienamente presi in considerazione”. Il problema è che l’UE continua a sostenere l’Ucraina, comprese le sue numerose violazioni del ” cessate il fuoco energetico ” e della precedente tregua di Pasqua , che complicano le prospettive di un cessate il fuoco.
2. Le truppe occidentali in Ucraina potrebbero portare alla Terza Guerra Mondiale
Shoigu ha anche ricordato al suo interlocutore come la Russia si sia sempre opposta alla presenza militare dei paesi NATO “sul nostro territorio storico”, anche prima dell’operazione speciale , e la stia conducendo anche per rimuovere tale influenza. Per questo motivo, ha avvertito che gli sforzi dei paesi occidentali di inviare truppe in Ucraina sotto le mentite spoglie di forze di peacekeeping, ma con il vero scopo di controllarne le risorse e mantenere al potere il suo governo estremista anti-russo, potrebbero portare alla Terza Guerra Mondiale e pertanto non dovrebbero essere tentati.
3. La NATO continua a rappresentare una minaccia molto seria per la Russia
Secondo Shoigu, “Nell’ultimo anno, il numero di contingenti militari dei paesi NATO schierati vicino ai confini occidentali della Federazione Russa è aumentato di quasi 2,5 volte”, e l’Unione ha già sperimentato lo schieramento di 100.000 soldati in più entro 30 giorni in caso di crisi. Inoltre, “la leadership dell’UE sta cercando di trasformare l’UE in un’organizzazione militare contro la Russia” attraverso il suo ” Piano ReArm Europe ” da 800 miliardi di euro, che la trasforma essenzialmente in un’appendice della NATO.
4. Il controllo strategico degli armamenti rimane tra le priorità della Russia
Shoigu ha affermato che la Russia intende negoziare un altro patto strategico per il controllo degli armamenti con gli Stati Uniti, ma che sarà più difficile da raggiungere rispetto a prima. Questo perché lo spettro di interessi ora include l’espansione della NATO, la difesa missilistica, il dispiegamento di missili a corto e medio raggio basati a terra e la necessità della partecipazione di Francia e Regno Unito. Ha tuttavia lasciato aperta la possibilità di ritirare gli Oreshnik dalla Bielorussia se gli Stati Uniti abbandonassero i loro piani missilistici in Germania e le minacce della NATO diminuissero .
5. La cooperazione interorganizzativa è la chiave per la sicurezza eurasiatica
L’ultimo spunto di riflessione dell’intervista di Shoigu è che egli ha sottolineato l’importanza della cooperazione interorganizzativa per garantire la sicurezza in Eurasia. Ha menzionato come la CSI, la CSTO, l’UEE e la SCO stiano collaborando in questo ambito, invitando anche l’UE a partecipare. Uno degli obiettivi è che loro, gli stati dell’ASEAN e tutti gli altri paesi e organizzazioni del supercontinente aderiscano all’iniziativa della Bielorussia per una Carta Eurasiatica della Diversità e della Multipolarità nel XXI secolo .
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Mettendo insieme questi punti, se si raggiunge un cessate il fuoco in Ucraina e non vengono schierate truppe occidentali, è prevedibile che i colloqui con gli Stati Uniti sul controllo strategico degli armamenti riprendano poco dopo. Questi potrebbero anche includere soluzioni per ridurre la minaccia della NATO alla Russia e quindi, in ultima analisi, aprire la strada alla partecipazione dell’UE all’iniziativa di sicurezza eurasiatica russa. Di conseguenza, se gli Stati Uniti non riusciranno a costringere l’Ucraina ad accettare un cessate il fuoco, la sicurezza globale nel suo complesso continuerà a peggiorare.
Dal punto di vista dell’India, l’attacco terroristico di Pahalgam porta con sé le impronte digitali del Pakistan, motivo per cui il Paese sta prendendo in considerazione almeno un attacco chirurgico oltre confine.
Terroristi hanno massacrato 26 turisti che si rilassavano nella valle di Baisaran, vicino a Pahalgam, nello stato indiano del Jammu e Kashmir (J&K). Hanno preso di mira specificamente gli indù , controllando i documenti d’identità delle vittime e chiedendo loro persino di abbassarsi i pantaloni per verificare se fossero circoncisi. I terroristi appartenevano al ” Fronte della Resistenza “, un gruppo terroristico designato dall’India, associato al Lashkar-e-Taiba, con base in Pakistan, a sua volta designato come gruppo terroristico da India, Russia, Stati Uniti e diversi altri.
Una delle risposte dell’India è stata quella di sospendere il Trattato sulle acque dell’Indo del 1960 , spingendo il Pakistan a minacciare che qualsiasi riduzione delle sue acque sarebbe stata considerata un atto di guerra. Il Pakistan ha anche sospeso l’Accordo di Simla del 1972, che pose fine alla terza guerra indo-pakistana. Gli osservatori ora si aspettano che il cessate il fuoco del 2021 venga presto annullato. Attacchi chirurgici dell’India contro il Pakistan potrebbero presto seguire, dopo che il Primo Ministro Narendra Modi ha promesso di “inseguire [i terroristi] fino ai confini del mondo”.
Nell’incertezza su cosa potrebbe accadere in seguito e sulla possibilità che ciò possa innescare un’escalation potenzialmente incontrollabile che alla fine porterà a uno scontro nucleare, si può sostenere che il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito pakistano Asim Munir sia quello che ha più da guadagnare e da perdere dalle ultime tensioni. A partire da come potrebbe trarne beneficio, il modo più ovvio è cercare di mobilitare l’intera nazione al suo fianco, soprattutto in caso di attacchi “occhio per occhio” o peggio con l’India.
La giunta militare di fatto da lui guidata è molto impopolare dopo che molti pakistani credono che abbia approvato il postmodernismo dell’aprile 2022. colpo di stato contro l’ex Primo Ministro Imran Khan, che ha portato a crisi politiche, economiche e di sicurezza, quest’ultima in relazione alla recrudescenza del terrorismo afghano . L’ultimo punto si collega all’altro modo in cui Munir potrebbe trarre vantaggio, ovvero presentando tacitamente l’attacco terroristico di Pahalgam come una risposta “plausibilmente negabile” all’attacco terroristico del Jaffar Express del mese scorso .
Il responsabile era l'”Esercito di Liberazione del Baloch”, definito terrorista e storicamente impegnato a colpire specificamente i Punjabi. Il Pakistan ha accusato l’India di sostenerlo, cosa che tradizionalmente fa ogni volta che il gruppo compie un attacco, ma l’India ha respinto l’accusa come sempre. Ciononostante, molti pakistani potrebbero ancora credere fermamente al coinvolgimento dell’India, motivo per cui Munir potrebbe far sì che i media e gli influencer al soldo del suo establishment presentino Pahalgam come un ibrido “occhio per occhio”. Risposta alla guerra .
Infine, Munir potrebbe anche aver calcolato che quest’ultimo attacco terroristico avrebbe catalizzato una reazione a catena in Jammu e Kashmir, che avrebbe potuto portare a un’altra ondata di disordini, destabilizzando a sua volta l’India. Parallelamente, gli attacchi di rappresaglia controllati di cui sopra, così come quelli che lui potrebbe scommettere, potrebbero essere manipolati dai media anti-indiani di tutto il mondo per minare la sua percezione di grande potenza emergente, per non parlare del terrorismo psicologico che lo considera un luogo pericoloso per gli investimenti stranieri.
D’altro canto, Pahalgam potrebbe anche ritorcersi contro Munir, soprattutto in termini di reputazione, se l’India riuscisse a mobilitare gran parte del mondo contro il Pakistan. I suoi stretti partner cinesi e sauditi hanno già condannato Pahalgam, sebbene potrebbero non partecipare a nessun tentativo indiano di isolare il Pakistan. Putin e Trump , tuttavia, hanno promesso pieno sostegno all’India, quindi i loro Paesi potrebbero concretamente prendere le distanze dal Pakistan in un modo o nell’altro, per solidarietà con l’India.
Il secondo modo in cui Munir potrebbe essere penalizzato in seguito a questo attacco è se le presunte divergenze tra i vertici dello Stato americano sul Pakistan , in cui la CIA lo sosterrebbe mentre il Dipartimento di Stato e il Pentagono vorrebbero un governo democratico guidato dai civili, spingessero gli Stati Uniti a cercare con più forza la sua estromissione. Dopotutto, l’attacco è avvenuto mentre Vance era in visita in India, cosa che i funzionari statunitensi potrebbero non ritenere una coincidenza. È quindi possibile che i già tesi rapporti tra Pakistan e Stati Uniti possano presto peggiorare ulteriormente.
Infine, la previsione precedente potrebbe avverarsi se Trump proponesse di formalizzare la Linea di Controllo come confine internazionale, al fine di scongiurare in modo sostenibile una guerra nucleare in un contesto di possibili attacchi reciproci, cosa che Munir sarebbe riluttante a fare. Questo perché mantenere irrisolto il conflitto del Kashmirserve a legittimare il dominio di fatto dell’esercito sul Pakistan. La prevista sfida di Munir a Trump potrebbe quindi servire da pretesto per cercare di rimuoverlo o quantomeno per esercitare maggiori pressioni statunitensi sul Pakistan.
Nessuno può prevedere cosa potrebbe accadere a breve e come si concluderà l’ultima crisi indo-pakistana, ma gli osservatori non dovrebbero perdere di vista il fatto che è stata innescata dall’attacco terroristico di Pahalgam, uno dei peggiori degli ultimi anni. È stato particolarmente atroce il fatto che i terroristi abbiano preso di mira specificamente anche i turisti indù, nel chiaro tentativo di provocare attacchi di ritorsione contro i musulmani che, se ciò accadesse, potrebbero far precipitare l’intera India in un circolo vizioso di violenza.
Dal punto di vista dell’India, l’attacco terroristico di Pahalgam ha quindi le impronte digitali del Pakistan ovunque, motivo per cui sta prendendo in considerazione almeno un attacco chirurgico oltre confine. Qualsiasi azione cinetica probabilmente provocherà almeno una reazione simmetrica da parte del Pakistan, se non addirittura un’escalation che potrebbe anche manifestarsi in modo non convenzionale, come se gruppi schierati organizzassero un altro attacco terroristico. Lo scenario migliore per la pace mondiale è uno o due round di attacchi controllabili, ma questo non può essere dato per scontato.
Gli scenari da loro ipotizzati si escludono a vicenda e sono intellettualmente offensivi, e il fatto che i ministri degli Esteri e della Difesa del Pakistan non riescano a ricostruire la loro storia suggerisce che stiano disperatamente cercando di nascondere la complicità della loro parte.
L’attacco terroristico di Pahalgam della scorsa settimana , in cui alcuni terroristi hanno massacrato 26 turisti, presi di mira solo perché indù, ha immediatamente scatenato un’altra crisi indo-pakistana. L’India ha accusato il Pakistan di aver avuto un ruolo nell’attacco, dato il suo tradizionale patrocinio ai gruppi terroristici separatisti designati da Delhi in Kashmir. Non solo il Pakistan ha negato le accuse dell’India, cosa prevedibile, ma alti funzionari hanno sorprendentemente rilasciato due affermazioni autodistruttive che saranno analizzate in questo articolo.
Ishaq Dar, che ricopre anche la carica di Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri, ha osservato che “Coloro che hanno compiuto gli attacchi nel distretto di Pahalgam, in Jammu e Kashmir, il 22 aprile potrebbero essere combattenti per la libertà”. Qualunque sia la propria opinione sul conflitto in Kashmir , massacrare i turisti è un atto di terrorismo indiscutibile, per non parlare della loro religione. Ipotizzare che gli autori “potrebbero essere combattenti per la libertà” scredita i veri combattenti per la libertà in tutto il mondo e giustifica tacitamente il terrorismo.
Questo perché i veri membri dei veri movimenti di liberazione dovrebbero attaccare solo obiettivi militari, non civili. Condurre una guerra sporca contro i civili non avvicina la propria causa alla realizzazione. L’unica ragione per cui alcuni autoproclamatisi “combattenti per la libertà” lo hanno fatto in passato è stata per scopi di pulizia etnica e per provocare attacchi di ritorsione, sia da parte dei servizi segreti che dei civili infuriati, al fine di radicalizzare il gruppo di persone in nome del quale veniva condotta la loro guerra sporca.
Il conseguente ciclo di violenza mira a destabilizzare al massimo l’area delle operazioni e persino a estendersi oltre, aprendo un vaso di Pandora di problemi per lo stato contro cui si sta combattendo. Qualunque obiettivo strategico si aspettino di raggiungere con mezzi così letteralmente terroristici è oscurato dalla carneficina che questo provoca ai civili. È per questo motivo che i combattenti per la libertà autentici dei veri movimenti di liberazione hanno imparato a non ricorrere a queste tattiche autodistruttive.
La seconda affermazione autolesionista di un alto funzionario pakistano sull’attacco terroristico di Pahalgam è arrivata dal Ministro della Difesa Khawaja Asif, che ha dichiarato ad Al Jazeera che quanto accaduto in quel giorno buio potrebbe essere una ” operazione sotto falsa bandiera “. Si tratta di una teoria del complotto infondata che presuppone che l’India abbia orchestrato in modo assurdo un attacco terroristico contro il proprio popolo nel territorio dell’Unione, in cui ha investito così tanto nel corso dei decenni per stabilizzare o almeno lasciare deliberatamente che un attacco scoperto si verificasse.
Entrambe le varianti dello scenario “false flag” sarebbero controproducenti per gli interessi indiani. Ad esempio, l’attacco terroristico di Pahalgam avrebbe causato una forte cancellazione di prenotazioni alberghiere e tour, con un impatto previsto sull’economia regionale, vanificando così gran parte dei progressi ottenuti a fatica dal governo nella riabilitazione di questo territorio dell’Unione, in precedenza instabile. Anche gli abitanti del luogo che si ritrovano senza lavoro e in povertà potrebbero essere manipolati per disperazione e indotti a unirsi a gruppi proibiti.
In un contesto più ampio, le rinnovate tensioni con il Pakistan potrebbero portare a una perdita di fiducia degli investitori stranieri nell’economia indiana in rapida crescita, un evento che Delhi vuole evitare. Inoltre, il rischio che una guerra su larga scala scoppi a causa di un errore di calcolo potrebbe vanificare la traiettoria di Grande Potenza dell’India, quindi non ha senso che l’India sfrutti questo rischio minacciando il Pakistan. L’India, quindi, non darebbe inizio a tensioni, tanto meno tramite un’operazione sotto falsa bandiera, ma salirebbe sulla scala dell’escalation solo dopo un vero attacco terroristico.
Riflettendo ulteriormente su quanto detto da Dar e Asif, gli osservatori noteranno una palese contraddizione: il primo ha insinuato con forza l’approvazione dell’attacco di Pahalgam, ipotizzando che gli autori “potrebbero essere combattenti per la libertà”, mentre il secondo disapprova fermamente l’attacco e ne attribuisce la colpa all’India. Questi scenari si escludono a vicenda e sono intellettualmente offensivi, e il fatto che alti funzionari pakistani non riescano a ricostruire la loro versione dei fatti suggerisce che stiano goffamente cercando di nascondere la complicità della loro parte.
Come era prevedibile, ha condannato le uccisioni e, cosa prevedibile, ha ribadito la neutralità americana nei confronti di India e Pakistan, in modo da posizionare gli Stati Uniti come mediatori nel caso in cui le tensioni tra i due Paesi dovessero sfuggire al controllo.
India e Pakistan tornano sull’orlo della guerra dopo l’attacco terroristico di Pahalgam della scorsa settimana L’attacco , in cui presunti terroristi affiliati al Pakistan hanno massacrato 26 turisti indiani in Kashmir, presi di mira a causa della loro fede indù, ha spinto molti a interrogarsi sulla posizione degli Stati Uniti in questa crisi. La posizione dell’America è importante, poiché è ancora il Paese più importante al mondo e sta attualmente “tornando (di nuovo) in Asia”. Ecco cosa ha detto Trump venerdì, quando gli è stato chiesto al riguardo:
Sono molto legato all’India e sono molto legato al Pakistan, come sapete. E in Kashmir si combatte da 1.000 anni. Il Kashmir va avanti da 1.000 anni, probabilmente da più. E ieri è stata una brutta giornata, è stata una brutta giornata. Più di 30 persone.
Ci sono tensioni su quel confine da 1.500 anni. Quindi, sapete, le stesse di sempre, ma in un modo o nell’altro riusciranno a risolvere la situazione. Sono sicuro… conosco entrambi i leader. C’è una grande tensione tra Pakistan e India. Ma c’è sempre stata.
La prima parte della sua risposta può essere interpretata come un segnale di neutralità degli Stati Uniti, data la loro tradizionale partnership strategica con il Pakistan e quella relativamente più recente con l’India. Il Pakistan è un “principale alleato non NATO” dal 2004 , mentre l’India è stata designata come il primo “principale partner di difesa” degli Stati Uniti nel 2016. Questo stato di cose spiega perché Trump si sia offerto di mediare nel conflitto del Kashmir nel luglio 2019, su quella che ha affermato essere una richiesta di Modi, richiesta che l’India ha respinto , per poi ribadire la sua intenzione a settembre.
Di conseguenza, la prima parte della sua risposta può essere vista come una riaffermazione di questa politica, che potrebbe portarlo a offrirsi nuovamente di mediare. In tale scenario, dato il precedente del suo tentativo di formalizzare lo status quo tra Israele e Palestina attraverso l'” accordo del secolo ” proposto nel 2020 e del suo presunto tentativo di replicare quello tra Russia e Ucraina, ci si aspetterebbe che proponesse lo stesso tra India e Pakistan. Ciò si tradurrebbe nella trasformazione della Linea di Controllo in un confine internazionale.
Proseguendo, la sua analisi storica del conflitto del Kashmir è grossolanamente imprecisa, poiché deriva dalla spartizione dell’ex Raj britannico, non da una disputa durata più di un millennio. Ciononostante, potrebbe aver voluto sottolineare che la sua dimensione religiosa trae le sue origini dall’invasione musulmana dell’India, fino ad allora quasi interamente indù, secoli fa, e a tal fine ha ampiamente abbellito la questione, come è noto a lui. Questa parte della sua risposta può quindi essere interpretata come un promemoria per tutti sul fatto che non si tratta di un conflitto nuovo.
L’ultima parte della sua risposta suggerisce che al momento non sia interessato a mediare, visto che ha ironicamente affermato che “in un modo o nell’altro si risolverà la questione”. Detto questo, non esclude nemmeno un suo coinvolgimento personale nella questione, dato che ha anche ricordato a tutti di “conosco entrambi i leader”, ovvero il Primo Ministro indiano Narendra Modi e il suo omologo pakistano Shehbaz Sharif. Dovrebbe quindi già sapere che l’India rifiuta la mediazione, mentre il Pakistan è sempre stato aperto ad essa.
Tutto sommato, la reazione di Trump all’attacco terroristico di Pahalgam può essere interpretata come una prevedibile condanna delle uccisioni e una prevedibile riaffermazione della neutralità americana nei confronti di India e Pakistan, che mira a posizionare gli Stati Uniti in una posizione di mediazione in caso di peggioramento delle tensioni. Per ora, Trump non vuole essere coinvolto e preferisce che quest’ultima crisi si risolva da sola, ma non esclude un intervento diplomatico se lo scenario di attacchi “occhio per occhio” dovesse rapidamente sfuggire di mano e trasformarsi in una situazione di stallo nucleare.
Se giocassero bene le loro carte, gli Stati Uniti potrebbero riuscire a sostituire le aziende cinesi nel loro ruolo dominante nell’enorme industria mineraria della RDC, ma devono evitare di essere trascinati in un pantano a causa dell’aumento incontrollabile delle missioni.
La settimana scorsa Reuters ha riferito che Erik Prince aveva già raggiunto un accordo con la Repubblica Democratica del Congo (RDC) qualche tempo prima della sua ultimacrisi per migliorare la riscossione delle imposte, ridurre il contrabbando transfrontaliero di minerali e proteggere le miniere nella sua regione storica, il Katanga, ricca di minerali. Questa notizia fa seguito alla ricerca da parte della RDC di un accordo correlato con gli Stati Uniti, che consentirebbe loro di fornire alle aziende americane un accesso privilegiato ai suoi giacimenti minerari critici in cambio di equipaggiamento militare e addestramento.
Il contesto regionale riguarda l’invasione della RDC orientale, ricca di minerali, da parte dei ribelli dell’M23, sostenuti dal Ruanda, con il pretesto di costringere Kinshasa a rispettare i precedenti accordi politico-militari e di sradicare i gruppi ribelli hutu, che a loro dire sono in parte composti da genocidi fuggitivi. Reuters ha affermato che le PMC del Principe non sarebbero state dispiegate in aree di conflitto attivo, sebbene originariamente avrebbero dovuto operare a Goma, la capitale del Kivu settentrionale, ora occupata dall’M23.
Sono emersi scarsi dettagli sui termini di sicurezza dell’accordo tra Congo e Stati Uniti in discussione, ma è improbabile che Trump, avverso alle insidie, impegni truppe americane nel conflitto. Piuttosto, è più probabile che le dispieghi nella regione storica del Katanga, ricca di minerali, per scopi addestrativi o addirittura che esternalizzi queste responsabilità alle PMC del Principe, molte delle quali sono veterani. In ogni caso, Trump è probabilmente molto serio nel raggiungere un accordo, dato il contesto globale, che ora verrà descritto.
La sua guerra commerciale globale / ” rivoluzione economica ” è rivolta principalmente contro la Cina, come spiegato nelle analisi precedenti con link. Non si tratta solo di competere per i mercati esteri o di riequilibrare il deficit commerciale bilaterale, ma di contenere la Cina, il che potrebbe concretizzarsi, in questo caso, nella richiesta degli Stati Uniti alla RDC di limitare l’accesso della Cina ai suoi minerali essenziali. Le aziende cinesi controllano già la maggior parte dei giacimenti minerari della RDC, quindi sarebbe un colpo di stato strategico se la RDC le sostituisse con aziende americane.
Qui risiede la sfida principale, poiché il sostegno degli Stati Uniti, sia da parte del PMC del Principe che del Pentagono, deve soddisfare in misura sufficiente gli interessi della RDC affinché quest’ultima possa assumersi i rischi economici e legali che la sostituzione delle aziende cinesi con quelle americane comporterebbe, senza però rischiare di ritrovarsi in un altro pantano. La RDC, sotto la sua attuale leadership, vuole ripristinare il potere statale sulla sua periferia orientale, ricca di risorse e occupata dalla M23, invece di concedere a quella regione un’ampia autonomia di tipo bosniaco o cederla al Ruanda.
È qui che entra in gioco una diplomazia magistrale, altrimenti il Ruanda potrebbe attuare un altro cambio di regime nella RDC, come fece nell’ex Zaire , insediando un leader, forse l’ex presidente Joseph Kabila, nonostante il padre si sia rivoltato contro gli alleati ruandesi , che concederà queste concessioni. In uno scenario del genere, gli Stati Uniti potrebbero non solo perdere questa cruciale opportunità mineraria, ma anche la Cina potrebbe rafforzare ulteriormente la sua influenza e quindi contrastare in parte la pressione di Trump.
Massad Boulos , suocero di Tiffany, figlia di Trump, è stato incaricato da quest’ultimo di gettare le basi per questo complesso accordo diplomatico-minerario-di sicurezza, ma è prematuro prevedere se avrà successo. L’unica cosa certa è che la posta in gioco è significativa nel contesto della dimensione sino-americana della Nuova Guerra Fredda, che si sta intensificando , poiché l’America potrebbe infliggere un duro colpo strategico alla Repubblica Popolare se sostituisse il suo rivale nel settore minerario cruciale della RDC.
Dopo essere rimasta ingenuamente in disparte per tutti questi anni, anche la Polonia si unisce finalmente alla corsa per l’Ucraina.
Il Primo Ministro polacco Donald Tusk è stato sorprendentemente schietto all’inizio di questo mese, parlando di come la Polonia intenda trarre profitto dall’Ucraina . Nelle sue parole, “Aiuteremo [l’Ucraina] – la Polonia è solidale, siamo un simbolo di solidarietà – ma mai più in modo ingenuo. Non accadrà che la Polonia esprima solidarietà mentre altri traggono profitto, ad esempio, dalla ricostruzione dell’Ucraina. Saremo solidali e ne ricaveremo profitti”. Le sue parole hanno importanti implicazioni politiche.
Tanto per cominciare, sta indirettamente dando credito a quanto rivelato la scorsa primavera dal presidente uscente Andrzej Duda su come le aziende straniere avessero già acquisito la proprietà di gran parte dell’agricoltura industriale ucraina. La Polonia ha perso l’opportunità di partecipare alla corsa all’agricoltura ucraina a causa della sua ingenuità nel rifiutarsi di vincolare gli aiuti che ha donato, che alla fine ammontavano a più carri armati, IFV e aerei di qualsiasi altro Paese, secondo il sito web ufficiale di Duda .
Il Ministro della Difesa Władysław Kośiniak-Kamysz ha ammesso la scorsa estate che la Polonia aveva ormai raggiunto il massimo del suo sostegno militare all’Ucraina, il che ha preceduto la proposta del Ministro degli Esteri Radek Sikorski di consentire all’Ucraina di ordinare a credito ulteriori equipaggiamenti militari. Un modo in cui l’Ucraina in bancarotta potrebbe ripagare la Polonia potrebbe essere quello di affittarle terreni e porti, come suggerito di recente dal Vice Ministro dell’Agricoltura Michal Kolodziejczak , ma gratuitamente o con un forte sconto in cambio della cancellazione del debito.
Proprio come l’ ultima versione dell’accordo minerario di Trump con l’Ucraina considera retroattivamente tutti gli aiuti donati come prestiti, anche la Polonia potrebbe prendere in considerazione la stessa tattica nel tentativo di recuperare l’occasione persa nella corsa all’agricoltura ucraina, come già detto. Ciò potrebbe ulteriormente peggiorare i già difficili rapporti politici tra i due Paesi, causati dalla ripresa della Volinia.Genocidiodisputa , tuttavia, l’asso nella manica della Polonia è che rappresenta la porta geoeconomica tra l’UE e l’Ucraina l’una verso l’altra.
Se esiste la volontà politica, la Polonia potrebbe complicare i propri scambi commerciali attraverso il suo territorio come leva a tal fine, anche attraverso mezzi creativi per scopi di plausibile negazione, come incoraggiare gli agricoltori a bloccare nuovamente il confine. Le crescenti esportazioni polacche verso l’Ucraina verrebbero temporaneamente ridotte, ma l’obiettivo più ampio di affittare terreni e porti per massimizzare i profitti potrebbe essere portato avanti, il che aiuterebbe anche la Polonia nella sua competizione con Francia e Germania per la leadership nell’Europa postbellica.
Il Servizio polacco per la ricostruzione dell’Ucraina, di cui i lettori possono approfondire l’argomento qui , potrebbe quindi funzionare in modo più efficace una volta che le aziende polacche avranno ottenuto l’accesso ai terreni e ai porti suggeriti da Kolodziejczak. Ciò consentirebbe inoltre a Polonia e Ucraina di attuare rapidamente i rispettivi obiettivi di cooperazione economica concordati nel patto di sicurezza della scorsa estate . Anche se la Polonia acquisisse interessi economici e influenza più tangibili in Ucraina, tuttavia, è improbabile che invii forze di peacekeeping o tenti di rivedere i confini .
Il primo scenario potrebbe portare la Polonia a fare il grosso del lavoro, mentre i suoi concorrenti europei ne traggono ancora una volta profitto a sue spese, mentre il secondo comporterebbe enormi costi economici, politici e di sicurezza che potrebbero anche ritorcersi contro di essa, portando alla perdita totale dell’influenza polacca in Ucraina. Tornando a quanto dichiarato candidamente da Tusk la scorsa settimana, saranno le considerazioni di profitto a plasmare l’approccio della Polonia nei confronti dell’Ucraina in futuro, non un’ingenua solidarietà che continua a sacrificare così tanto in cambio di nulla.
Gli ultimi sviluppi socio-politici e di sicurezza suggeriscono che il Paese gradisce il ruolo di Stato in prima linea.
L’Estonia è tornata alla ribalta internazionale dopo aver recentemente sequestrato una presunta nave appartenente alla cosiddetta “flotta ombra” russa, evento al quale la Russia ha reagito con moderazione per le ragioni pragmatiche spiegate qui , ma che ha anche creato problemi con la Russia in altri modi. La provocazione di cui sopra coincide con l’ approvazione di una legge che consente all’Estonia di affondare navi straniere che ritiene rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale. È possibile che questa possa essere la prossima escalation regionale pianificata.
Sul fronte della sicurezza, l’Estonia vorrebbe anche schierare parte delle sue truppe in Ucraina nell’ambito di una missione di mantenimento della pace guidata congiuntamente da Francia e Regno Unito. Inoltre, c’è sempre la possibilità che il Regno Unito decida di trasformare la sua presenza militare a rotazione di circa 1.000 soldati in Estonia in una presenza permanente. Ciò lo renderebbe il terzo membro della NATO a farlo nella regione, dopo gli Stati Uniti (in Polonia e Romania ) e la Germania ( in Lituania ). Questa mossa potrebbe essere spacciata per una copertura contro il ritiro di parte delle truppe statunitensi .
Anche la situazione interna dell’Estonia sta diventando sempre più tesa a causa di tre sviluppi interconnessi. Il primo riguarda l’ultima legge che nega il diritto di voto locale agli stranieri, tra cui rientra anche il 22,5% di russi residenti nel Paese che non soddisfano i criteri di cittadinanza post-indipendenza e sono quindi legalmente classificati come “apolidi”. Per contestualizzare, l’Estonia li considera discendenti di “occupanti sovietici”, e questa è la base su cui ha limitato i loro diritti.
Approfondendo l’ultimo punto sulla percezione storica, l’Estonia sta anche intensificando la sua lunga campagna di smantellamento dei monumenti sovietici della Seconda Guerra Mondiale , che lo Stato considera simboli dell’occupazione sovietica. La Russia, tuttavia, ritiene che questa mossa equivalga a revisionismo storico. A tal proposito, i lettori dovrebbero essere consapevoli che la Russia ha costantemente accusato l’Estonia di glorificare i collaborazionisti nazisti , con l’esempio più lampante delle marce annuali in onore delle SS.
Come se queste mosse non fossero già abbastanza provocatorie, l’Estonia ha appena approvato una legge che impone alla Chiesa ortodossa cristiana estone di recidere i legami canonici con la Chiesa ortodossa russa. La portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharov, ha reagito denunciando che “ la sistematica distruzione dei diritti umani e delle libertà fondamentali continua sotto la maschera di slogan cosiddetti democratici, forzati e forzati. Ancora una volta, è stato inferto un colpo a uno degli ambiti più delicati: i diritti e le libertà religiose”.
L’Estonia è in grado di minacciare gli interessi diretti e indiretti della Russia, in relazione alla sua sicurezza nazionale e ai diritti dei suoi connazionali in quel Paese, con impunità grazie alla sua appartenenza alla NATO. Gli unici scenari realistici in cui la Russia potrebbe tollerare l’uso della forza militare sono la partecipazione dell’Estonia al blocco del Golfo di Finlandia, l’uso della forza contro navi russe (siano esse navi da guerra o navi civili battenti bandiera russa) o attacchi attraverso la ” Linea di difesa del Baltico ” che sta costruendo lungo il suo confine.
Questa non è altro che una ricorrente operazione di guerra dell’informazione condotta dalle élite contro il loro popolo.
Il Corridoio di Suwalki è di nuovo al centro di un presunto piano d’invasione russo, dopo che l’esperto del Royal United Services Institute, Ed Arnold, ne ha parlato alla stampa tedesca . Non c’è nulla di nuovo in ciò che ha affermato, dato che se ne parla da anni, soprattutto negli ultimi tre dall’inizio dell’operazione speciale , ma è l’occasione giusta per condividere cinque argomenti che smentiscono questa affermazione. Ecco perché la Russia non attaccherà la Polonia e/o la Lituania nell’ambito di un complotto per collegare Kaliningrad alla Bielorussia:
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1. Il precedente di Rzeszow dissipa la propaganda occidentale
Le sensazionalistiche affermazioni occidentali secondo cui Putin sarebbe un mostro, un pazzo o una mente geniale determinata a conquistare l’Europa vengono screditate dal suo rifiuto di attaccare il centro logistico militare della NATO a Rzeszow, in Polonia, attraverso il quale è passato il 90% delle attrezzature fornite all’Ucraina per uccidere i russi. Il precedente del suo rifiuto di rischiare la Terza Guerra Mondiale per fermare il flusso di armi occidentali in una zona di conflitto attivo in cui i russi vengono uccisi quotidianamente dissipa le speculazioni secondo cui lo farebbe in tempo di pace.
2. Non c’è alcun pretesto plausibile per prendere il controllo di quel corridoio
Allo stesso modo, il Corridoio di Suwalki è abitato da polacchi e lituani, non da russi o bielorussi che potrebbero ipoteticamente essere oppressi e la cui situazione potrebbe quindi fungere da pretesto per un’invasione. Non c’è quindi alcun motivo per cui Putin debba rischiare la Terza Guerra Mondiale per questo lembo di territorio che storicamente non è mai stato abitato da russi o dai loro parenti bielorussi a livelli significativi. Senza nemmeno un pretesto etno-territoriale semi-plausibile, qualsiasi invasione sarebbe considerata una vera e propria aggressione.
3. Qualsiasi tentativo in tal senso potrebbe anche rivelarsi molto difficile
Supponendo, per amor di discussione, che invada, allora probabilmente non sarebbe una passeggiata, visto quanto Polonia e Lituania stanno militarizzando i loro confini . La Polonia ha anche il terzo esercito più grande della NATO e truppe americane sono stabilmente schierate lì, mentre quelle tedesche sono stabilmente dispiegate in Lituania , fungendo così da innesco per il loro intervento diretto e l’espansione del conflitto. Questi fattori aumenterebbero notevolmente il rischio di una Terza Guerra Mondiale, che Putin ha fatto del suo meglio per evitare.
4. La Russia rovinerebbe i legami strategici sperati con gli Stati Uniti
La Russia prevede di entrare in un accordo strategicopartnership con gli Stati Uniti per dare forma all’era post-conflitto, che si baserebbe su una serie di accordi strategici sulle risorse, ma questi grandiosi piani verrebbero rovinati se invadesse il Corridoio di Suwalki della NATO. Pertanto, non avrebbe senso per la Russia buttare via tutto per niente, né per gli Stati Uniti non fare pressione sui partner NATO affinché rimuovano qualsiasi minaccia credibile che potrebbero rappresentare per provocare un’invasione russa che rovinerebbe questo accordo reciprocamente vantaggioso.
5. Lo scenario della “NATO canaglia” è altamente improbabile
L’unico scenario in cui la Russia rischierebbe la Terza Guerra Mondiale, o quantomeno rovinerebbe i suoi sperati legami strategici con gli Stati Uniti invadendo il Corridoio di Suwalki, è che i membri europei della NATO si ribellassero, magari con l’incoraggiamento del Regno Unito , e bloccassero Kaliningrad, nonostante le pressioni degli Stati Uniti. È altamente improbabile, tuttavia non potrebbero contare sul supporto militare degli Stati Uniti né sulla loro politica del rischio calcolato sul nucleare, di cui avrebbero bisogno per avere una possibilità concreta di sopravvivere, rendendolo quindi uno scenario suicida per loro.
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Considerando i cinque punti sopra, le speculazioni di Arnold e dei suoi simili su un’invasione russa del Corridoio di Suwalki si rivelano allarmismi infondati, volti a mobilitare l’Europa contro la Russia nell’era postbellica, allo scopo di precondizionare l’opinione pubblica ad accettare maggiori spese per la difesa . Si tratta quindi di una ricorrente operazione di guerra dell’informazione condotta dalle élite contro il loro popolo, ma che è stata smentita in modo convincente e che quindi scredita coloro che ancora la promuovono.
Questa possibilità esiste, ma dovrebbe essere incentrata su interessi economici duraturi, che hanno meno probabilità di cambiare con un cambio di governo rispetto a quelli politici e di sicurezza.
Il presidente del Comitato per la diaspora e i serbi nella regione, Dragan Stanojević, ha dichiarato a Izvestia alla fine del mese scorso che la Serbia desidera allearsi con Ungheria e Slovacchia, il che ha preceduto la firma di un nuovo patto di cooperazione militare tra Belgrado e Budapest all’inizio di aprile. Questa analisi sostiene che qualsiasi alleanza serbo-ungherese del tipo di quella proclamata dal presidente Aleksandar Vučić avrebbe dei limiti concreti, poiché è improbabile che l’Ungheria entri in guerra con la Croazia in difesa della Serbia.
Lo stesso vale per la Slovacchia, qualora firmasse un patto simile con la Serbia, ma la convergenza trilaterale tra i due Paesi e l’Ungheria potrebbe gettare le basi per una nuova piattaforma di integrazione centroeuropea. Prima di approfondirne i contorni, vorremmo soffermarci sulle ragioni del suo interesse. La piattaforma di integrazione regionale di gran lunga più efficace è il Gruppo di Visegrad, composto da Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia, ma le controversie interne sul conflitto ucraino l’hanno resa disfunzionale.
I funzionari polacchi hanno attaccato in modo poco diplomatico il Primo Ministro Viktor Orbán per il suo approccio pragmatico nei confronti della Russia, mentre loro e le loro controparti ceche nutrono una forte diffidenza nei confronti del Primo Ministro populista-nazionalista slovacco Robert Fico, le cui opinioni su gran parte delle questioni sono strettamente allineate a quelle di Orbán. Ciò ha di fatto diviso il Gruppo di Visegrad in blocchi incentrati sui rispettivi approcci al conflitto ucraino, con conseguente rafforzamento della cooperazione tra le due parti.
Le politiche di Ungheria e Slovacchia nei confronti di questo conflitto rispecchiano in gran parte quelle della Serbia, in quanto hanno votato contro la Russia all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ma sono favorevoli a una rapida risoluzione politica di questa guerra per procura tra NATO e Russia. La differenza principale, tuttavia, è che le prime due si sono conformate alle sanzioni dell’UE contro la Russia, mentre la Serbia si rifiuta di seguire l’esempio del blocco su questo tema. Inoltre, la Slovacchia ha armato l’Ucraina prima del ritorno di Fico al potere; la Serbia è sospettata di averlo fatto indirettamente, ma lo nega ufficialmente , mentre l’Ungheria non l’ha mai fatto .
In ogni caso, la loro posizione ampiamente condivisa nei confronti della Russia e il potenziale per una cooperazione militare trilaterale costituiscono il terreno su cui costruire una nuova piattaforma di integrazione centroeuropea. La ferrovia ad alta velocità che la Cina sta costruendo tra il porto greco del Pireo e Budapest, passando per la capitale macedone Skopje e quella serba Belgrado, dovrebbe espandere gli scambi commerciali tra Ungheria e Serbia e apportare benefici economici residui anche alla Slovacchia. Potrebbe diventare la spina dorsale economica della piattaforma.
Nel frattempo, il fondamento di sicurezza di questa piattaforma potrebbe risiedere nel loro interesse comune nella lotta all’immigrazione illegale , che è molto più inclusivo della valutazione della minaccia da parte della Serbia dell’accordo di cooperazione militare croato-albanese-“kosovaro” del mese scorso , non condiviso né dall’Ungheria né dalla Slovacchia. Per quanto riguarda la base politica della loro piattaforma, ovvero il loro approccio pragmatico nei confronti della Russia, questa è solida per ora, ma richiede la continuità del governo per essere mantenuta, il che ovviamente non può essere dato per scontato.
Pertanto, qualsiasi nuova piattaforma di integrazione centroeuropea di cui potrebbero essere pionieri dovrebbe essere incentrata su interessi duraturi, l’unico dei quali è quello economico, poiché gli interessi politici e di sicurezza potrebbero cambiare con un cambio di governo. In caso contrario, avrebbero maggiori possibilità di costruire qualcosa di significativo, che potrebbe replicare le funzioni del Gruppo di Visegrad e potenzialmente espandersi per includere nuovi membri se le politiche dei paesi limitrofi cambiassero dopo le elezioni per allinearsi a quelle dei fondatori.
Il viaggio di Vucic dovrebbe essere visto meno come una sfida all’UE e più come un modo per promuovere i suoi interessi personali.
Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha confermato che sfiderà l’UE recandosi a Mosca per il Giorno della Vittoria, dopo che l’Unione ha intimato ai funzionari dei paesi candidati come il suo di non partecipare a quell’evento. Si tratta di una mossa coraggiosa per la quale merita un applauso, ma non compensa la rimozione del vice primo ministro Aleksandar Vulin dal governo, sotto quella che, secondo una fonte della TASS , è stata una pressione occidentale. Vulin si era recentemente scontrato con Bruxelles più che mai a causa di alcuni dei suoi discorsi retorici.
Il mese scorso ha visitato Mosca per incontrare il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov, durante la quale ha accusato il deep state statunitense e le agenzie di intelligence europee non identificate di aver orchestrato le ultime proteste , da lui definite una ” Rivoluzione Colorata” . Ha inoltre accusato l’Unione di alimentare conflitti regionali nel tentativo di ripristinare l’influenza perduta e ha ribadito che la Serbia non sanzionerà la Russia. Queste e altre dichiarazioni correlate hanno spinto l’UE a tentare, senza successo, di imporgli sanzioni.
Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha reagito al suddetto tentativo accusando il blocco di “allontanarsi dagli stessi standard di democrazia che ha a lungo proclamato e cercato di trasmettere ad altre nazioni, noi compresi”. Dopo la rimozione di Vulin dal governo durante l’ultimo rimpasto, la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha condannato l’ingerenza del blocco negli affari interni della Serbia, ma ha anche suggerito che la cooperazione reciprocamente vantaggiosa continuerà nonostante ciò.
La Russia aveva anche dato credito alle affermazioni di Vučić e Vulin secondo cui le ultime proteste erano una “Rivoluzione Colorata”, che Vulin ha affermato di aver aiutato la Serbia a sventare, oltre ad aver inviato esperti dell’FSB a indagare sulle accuse dell’opposizione secondo cui le autorità avrebbero utilizzato una cosiddetta “arma sonica” per sedare i disordini. Dal punto di vista del Cremlino, la Serbia è un paese slavo fraterno con una storia comune di combattimenti dalla stessa parte nelle due guerre mondiali, e Mosca apprezza anche il suo rifiuto delle sanzioni occidentali.
A questo proposito, è improbabile che la Serbia sanzioni mai la Russia, poiché ciò equivarrebbe a un grave danno autoinflitto alla propria economia e potrebbe scatenare proteste spontanee da parte della popolazione del Paese, in maggioranza filo-russa, sia per il danno economico che ne deriverebbe, sia per motivi di principio. Tuttavia, con Vulin improvvisamente rimosso dal governo serbo, nonostante i suoi quasi 13 anni consecutivi di servizio in una varietà di incarichi, i legami politici potrebbero inevitabilmente indebolirsi .
Questo perché è un sincero russofilo, di cui Mosca si fidava per garantire la tenuta del loro partenariato strategico sotto la pressione occidentale. Questo era ben compreso da Vučić, che ha promosso Vulin nei suoi numerosi governi anche a questo scopo, eppure Vučić ha appena ceduto alle pressioni occidentali rimuovendo completamente Vulin dal suo ultimo governo, ponendo così fine alla sua carriera politica. Nonostante la retorica di Zakharova, prevedibile da una diplomatica del suo calibro, il Cremlino non è certo contento.
Putin probabilmente intende quindi discuterne con Vucic durante il suo viaggio a Mosca per commemorare il Giorno della Vittoria, al fine di capire come vede il futuro della loro partnership. Questi colloqui potrebbero essere uno dei veri motivi per cui Vucic si sta recando lì insieme, per adempiere al suo obbligo morale di leader serbo e guadagnare punti politici in patria. Considerando ciò, il viaggio di Vucic dovrebbe essere visto meno come una sfida all’UE e più come un modo per promuovere i suoi interessi personali, ma è comunque importante che ci vada.
Hanno un costo contenuto e potrebbero rivelarsi politicamente vantaggiosi, ma per ora la loro qualità è discutibile.
La scorsa settimana Reuters ha pubblicato un rapporto dettagliato su come ” l’India offra prestiti a basso costo per le armi, prendendo di mira i clienti tradizionali della Russia “, spiegando come i suoi piani per consentire all’Export-Import Bank di concedere prestiti a lungo termine e a basso costo ai clienti potrebbero incrementare le vendite militari all’estero. La seconda parte del titolo del rapporto è però sensazionale, poiché la Russia prevede di esportare le sue attrezzature prodotte congiuntamente in più paesi, seguendo l’esempio delle Filippine dello scorso anno.
La maggior parte degli osservatori occasionali non lo sa, ma la Russia ha dato il via libera all’esportazione da parte dell’India di missili da crociera supersonici BrahMos, prodotti congiuntamente, verso le Filippine, uno degli alleati di difesa reciproca degli Stati Uniti, all’inizio del 2024. La logica strategica è stata discussa qui e riguarda l’elusione delle sanzioni statunitensi da parte delle esportazioni di armi russe grazie alla produzione congiunta con l’India. L’articolo menziona anche come gli Stati Uniti abbiano chiuso un occhio su questo, poiché contribuisce indirettamente a bilanciare la Cina, aumentando così le probabilità che facciano lo stesso con l’Indonesia .
Qualunque cosa accada, è anche indiscutibile che il complesso militare-industriale indiano voglia entrare nel mercato in modo autonomo, esportando più prodotti puramente nazionali, il che potrebbe effettivamente intaccare parte della quota di fornitura russa in altri Paesi. Tali opportunità potrebbero presentarsi tra quei clienti le cui esigenze tecnico-militari non sono state pienamente soddisfatte negli ultimi tre anni, poiché la Russia ha naturalmente dato priorità alla produzione di armi per la sua operazione speciale in corso rispetto all’adempimento dei suoi contratti esteri.
Entrando in nuovi mercati attraverso questi canali, l’India potrebbe espandere la propria presenza promuovendo il vantaggio politico di importazioni continue, ovvero l’argomentazione secondo cui affidarsi maggiormente alle attrezzature indiane rispetto a quelle russe potrebbe ridurre la pressione occidentale su questi paesi. Lo stesso punto è rilevante per coloro che importano più attrezzature cinesi e può persino essere adattato per attrarre i clienti occidentali, suggerendo che ciò porterà anche a una minore pressione da parte russa e/o cinese su di loro.
In altre parole, la reputazione dell’India come Paese realmente neutrale nella Nuova Guerra Fredda, unita alla sua nuova immagine di Voce del Sud del Mondo, potrebbe combinarsi per apportare benefici politici a coloro che ampliano la cooperazione tecnico-militare con essa, ma resta da vedere se ciò si realizzerà o meno. Dopotutto, per quanto economiche e politicamente vantaggiose possano essere queste importazioni, la maggior parte di esse non è mai stata testata in condizioni di battaglia reali, quindi la loro qualità rimane discutibile.
Pertanto, solo i paesi più poveri potrebbero inizialmente prendere in considerazione ingenti acquisti di equipaggiamento militare indiano prodotto esclusivamente a livello nazionale, e solo dopo aver ottenuto successi in battaglia contro (molto probabilmente) attori non statali o aver ricevuto valutazioni positive la gamma di clienti potrebbe ampliarsi. Paesi come le Filippine che importano beni prodotti congiuntamente rimarrebbero probabilmente in quell’ecosistema per un po’, grazie alla reputazione della Russia nel settore, invece di passare rapidamente a beni di produzione esclusivamente nazionale.
Tuttavia, nonostante queste sfide, l’India ha effettivamente buone possibilità di espandere le sue esportazioni tecnico-militari grazie ai costi competitivi e ai vantaggi politici. Una solida campagna di marketing da parte dei suoi addetti alla difesa in tutto il Sud del mondo, che includa eventualmente un programma di premi per i Paesi le cui segnalazioni portano alla firma di accordi, contribuirebbe notevolmente a diffondere questi vantaggi. L’India non diventerà un grande esportatore, almeno non nell’immediato, ma potrebbe comunque occupare una nicchia importante.
Su Italia e il Mondo: il confronto prosegue tra una Russia, con la sua classe dirigente, che mantiene saldamente i propri punti fermi e un Occidente che, ormai, deve badare sempre più alla propria condizione e alle proprie lacerazioni. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Adam Smith ha definito il nostro modo di concepire il libero mercato. Il suo principio guida era, notoriamente, la mano invisibile: una forza mistica o la mano di Dio, ma l’idea che il perseguimento degli interessi individuali nella vita economica avrebbe inevitabilmente prodotto un’economia ottimizzata e prevedibile. La teoria si basava sul presupposto che gli individui fossero razionali nella comprensione dei loro bisogni e quindi nelle loro azioni economiche. L’intervento del governo, quindi, avrebbe disturbato il funzionamento del naturale rapporto economico. Per Smith, nessun intervento generale o ben intenzionato nel libero mercato potrebbe ottimizzare il risultato dell’economia; l’ottimizzazione si ottiene solo attraverso la libertà di azione. Collettivamente, le azioni individuali razionalizzavano il sistema, spingevano la società in avanti e, cosa fondamentale, fornivano una prevedibilità tale che i capricci irrazionali di pochi avevano un impatto minimo sull’insieme.
Il problema – di cui Smith era ben consapevole – era che gli esseri umani facevano parte delle nazioni e che le economie dipendevano dalla vitalità delle nazioni. Il desiderio dei cittadini di massimizzare la propria ricchezza guida le nazioni, ma la ricchezza è solo una delle dimensioni di una nazione. Le passioni interne alle nazioni – le differenze tra regioni geografiche, valori culturali o livelli di istruzione – innescano tensioni all’interno delle nazioni che indeboliscono la mano invisibile, perché la ricchezza potrebbe essere accumulata in modo tale da formare classi che userebbero il potere politico per disturbare il libero mercato. Ma Smith era consapevole che la disuguaglianza nei risultati economici poteva destabilizzare la nazione e quindi indebolire l’economia. Non ha mai affrontato il problema di come stabilizzare un sistema se la ricchezza delle nazioni è concentrata nelle mani di pochi. Le nazioni potevano essere ricche, ma i loro cittadini potevano essere poveri. L’economia mista funzionava quindi con lo Stato che manipolava l’economia, accettando un’interruzione della mano invisibile a favore del mantenimento della stabilità dello Stato.
Smith era consapevole di un secondo problema: La vita economica, per quanto critica, era solo una dimensione della ricchezza delle nazioni. L’altra dimensione era la sicurezza nazionale. Il singolo cittadino desidera ricchezza e sicurezza e, sebbene non voglia rinunciare a nessuna delle due, sono in effetti la stessa cosa. Le guerre e i conflitti minori imperversavano durante la vita di Smith, così come i disaccordi meno violenti. La capacità delle nazioni di proteggersi dalla predazione di altre nazioni faceva parte della condizione umana tanto quanto il benessere economico. In effetti, la sicurezza nazionale era il fondamento dell’economia e quindi della mano invisibile interna. La sicurezza nazionale era un’intrusione inevitabile nel libero mercato; le risorse economiche dovevano essere estratte dall’economia per costruire eserciti in grado di proteggere il libero mercato. A sua volta, l’economia era il fondamento della sicurezza nazionale perché forniva le risorse per un esercito armato, anche se la ricchezza stessa è la vera arma. Questo era, come riconosceva Smith, il paradosso del libero mercato. La mano invisibile massimizzava la ricchezza delle nazioni, ma la nazione dipendeva dal governo che interferiva nel libero mercato per garantire la sicurezza nazionale e costruire la ricchezza delle nazioni dominando o conquistando altri Paesi. Come in tutte le teorie, la realtà è una presenza sgradevole.
Possiamo applicare questo concetto alla geopolitica. In geopolitica, gli attori principali sono le nazioni, non gli individui, anche se ogni nazione contiene individui che hanno interessi diversi con risultati diversi. Ciò crea tensioni politiche interne, alimentate in parte da interessi economici divergenti. Il grado di gestione di queste forze politiche da parte della nazione contribuisce alla forza delle nazioni nelle relazioni internazionali.
Anche la geopolitica è governata da una mano invisibile. Ogni nazione cerca sicurezza e ricchezza, e ogni nazione usa armi militari ed economiche per raggiungere la sicurezza. In questo senso, ogni nazione ha i propri interessi e, nel perseguirli, le nazioni si scontrano e cooperano proprio come fanno le imprese o gli individui. Il processo è efficiente per la nazione come per gli individui. L’intensa ricerca della ricchezza da parte degli individui accresce la loro sicurezza indebolendo gli altri ma, nel complesso, costruisce la ricchezza delle nazioni. La competizione tra le nazioni passa attraverso fasi di cooperazione e di guerra. C’è una differenza fondamentale nella natura del perseguimento dell’interesse e delle sue agonie, ma il principio è lo stesso. Le nazioni possono cooperare per avarizia e possono far sì che altre nazioni si spaventino a vicenda, come fanno gli individui, ma la portata e le conseguenze dei destini nazionali determinano la ricchezza delle nazioni e la ricchezza degli individui in quelle nazioni.
Così come l’economia può essere meglio compresa spersonalizzandola, lo stesso vale per la geopolitica, a parte il fatto che in un’economia ci sono molte più persone che nazioni nei sistemi geopolitici. Questo rende le relazioni internazionali più prevedibili perché ci sono meno attori e interessi da modellare e perché i loro bisogni e le loro paure sono più trasparenti di quelli di milioni di cittadini. Ma il punto cruciale è che l’economia e la finanza sono componenti della sicurezza nazionale, essenziali ma non sempre al momento il cui benessere è prioritario. In ogni caso, è prevedibile.
Il modello di economia internazionale a cui siamo abituati è emerso dalla Guerra Fredda. La componente economica ha avvantaggiato Washington. La Russia era povera e aveva perso molto di più degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, mentre gli Stati Uniti erano ricchi e si erano ulteriormente arricchiti grazie alla guerra. Il potere militare era importante, ma il potere economico era nelle mani degli Stati Uniti, che modellarono la loro sicurezza economica nazionale per ottenere un potere globale. Utilizzarono le relazioni commerciali per ricostruire l’Europa a proprio vantaggio e, nella conseguente battaglia per procura per il cosiddetto Terzo Mondo, si appropriarono di gran parte dei territori imperiali precedentemente detenuti dall’Europa. Si trattava di uno strumento potente, reso necessario dalla mano invisibile della geopolitica e anche prevedibile.
La fine della Guerra Fredda, convalidata dall’esito della guerra in Ucraina, ha cambiato lo status quo. La sollecitudine degli Stati Uniti verso l’Europa sta finendo, così come la loro preoccupazione per il Terzo Mondo. Questo crea un forte disagio all’interno degli Stati Uniti; la componente economica della mano invisibile era stata plasmata dalla logica di un’epoca geopolitica ormai obsoleta. E quando le realtà geopolitiche cambiano, cambiano anche le realtà economiche. Il declino dell’interesse per l’economia come arma, prevedibilmente, rimodella la realtà economica degli Stati Uniti, provocando il caos politico. Il sistema economico dipende da regole. I cambiamenti geopolitici cambiano le regole.
Adam Smith non era interessato alle singole personalità e molti grandi imprenditori erano strani e imprevedibili. Hanno prosperato in tempi caotici. Così anche i politici nelle congiunture geopolitiche sembrano violare le norme, poiché anche le vecchie norme sono superate.
La nozione di mano invisibile di Smith è applicabile non solo all’economia ma anche alla geopolitica, con tempi di profondi cambiamenti che generano disagio e rabbia tra le nazioni e al loro interno. Il modello di Smith funziona per l’economia all’interno delle nazioni e assume una forma diversa rispetto all’economia tra le nazioni. Ma i principi dell’interesse e della mano invisibile restano una guida utile.
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Domanda: Signor Presidente, la tregua di Pasqua è finita? Come lo valuterebbe? Qual è lo stato attuale? Sono riprese le ostilità?
Presidente della Russia Vladimir Putin: Le ostilità sono riprese, come abbiamo detto all’inizio quando abbiamo annunciato il cessate il fuoco. Siamo sempre favorevoli a un cessate il fuoco, ed è per questo che è stata proposta questa iniziativa. Soprattutto in occasione della Santa Pasqua. È successo che questa era una festa per tutte le confessioni cristiane: Cattolici, protestanti e ortodossi.
Per questo abbiamo sempre detto che trattiamo positivamente qualsiasi iniziativa di pace. Ci auguriamo che i rappresentanti del regime di Kiev la trattino allo stesso modo. Anche se abbiamo visto la reazione iniziale. Credo che tutti se ne siano accorti. È stata pubblicata una dichiarazione secondo la quale la nostra proposta era considerata un gioco che coinvolgeva il destino delle persone, le loro vite e così via. Tuttavia, ci sono state persone apparentemente più intelligenti – probabilmente curatori stranieri – che hanno suggerito che rifiutare tali iniziative è una posizione perdente per il regime di Kiev, quindi hanno rapidamente accettato.
Ora vediamo che il regime di Kiev sta cercando di rubare la scena e inizia a parlare di ampliare il quadro sia in termini di tempo che di obiettivi. Naturalmente, prima dobbiamo riflettere e valutare attentamente tutto e vedere i risultati. Dopotutto, se ci fate caso, all’inizio, quando ho incontrato il Capo di Stato Maggiore, ho detto che avremmo visto come sarebbe andata a finire la dichiarazione del cessate il fuoco di Pasqua.
Che cosa significa? Nel complesso, possiamo notare che l’attività di combattimento del nemico si sta riducendo. Questo è vero. Queste sono le valutazioni, comprese quelle date dai comandanti dei nostri gruppi. Tuttavia, ci sono state 4900, quasi cinquemila, violazioni. Di queste, ci sono stati sei attacchi e 90 tentativi di attacco da parte di droni ad ala fissa (UAV), e credo 400 casi di bombardamenti di artiglieria. Ma in generale, c’è stato comunque un calo delle attività. Ne siamo lieti e siamo pronti a rifletterci in futuro.
Per quanto riguarda la proposta di astenersi dal colpire obiettivi di infrastrutture civili, la questione richiede un esame approfondito.
Prendiamo, ad esempio, l’attacco delle nostre Forze Armate al centro congressi dell’Università di Sumy, di cui si parla diffusamente. Si tratta di una struttura civile o no? È civile. Tuttavia, lì si è tenuta una cerimonia di premiazione per coloro che hanno commesso crimini nella regione di Kursk – sia unità dell’AFU (le Forze Armate dell’Ucraina) che formazioni nazionaliste. Si tratta di individui che consideriamo criminali, che meritavano una punizione per le loro azioni nelle zone di confine, compresa la regione di Kursk. Quella punizione l’hanno avuta. L’attacco è stato effettuato proprio per punirli. Quindi, si tratta di una struttura civile o no? Eppure il regime sfrutta questi siti civili.
Oppure l’attacco sferrato dalle nostre Forze Armate nella regione di Odessa pochi giorni fa. L’obiettivo era una piccola area residenziale a circa 82 chilometri da Odessa. Che cos’era questo sito? Una struttura agricola, degli hangar agricoli. Tuttavia, le autorità di Kiev, insieme a supervisori e assistenti stranieri, avevano organizzato – anzi, tentato di organizzare – non solo la produzione ma anche il collaudo di un nuovo sistema missilistico. Per questo motivo è stato sferrato l’attacco. È una struttura civile? È civile. Ma è stato usato per scopi militari.
Allo stesso modo, nei ristoranti sono state organizzate riunioni da parte di individui che meritano la punizione più severa per i loro crimini. Anche questi casi si sono verificati. I ristoranti ospitano riunioni, assemblee, festeggiamenti – brindisi a base di vodka e simili. I colpi sono stati sferrati anche contro questi locali. È una struttura civile? È civile. Ma la funzione? Militare.
La questione richiede un esame approfondito. Tutti i casi di questo tipo richiedono un’indagine meticolosa, eventualmente anche su base bilaterale attraverso il dialogo. Non lo escludiamo.
Analizzeremo tutti questi casi e prenderemo decisioni appropriate per il futuro.
Domanda: Una triste notizia dal Vaticano: Papa Francesco è morto. Vi siete incontrati molte volte, vi siete rispettati a vicenda e lui ha proposto numerose iniziative.
Avete inviato un messaggio di condoglianze, ma può dire ancora qualche parola sul Pontefice?
Vladimir Putin: Ha ragione. Aveva un atteggiamento molto positivo nei confronti della Russia. Posso dirlo con certezza.
L’ho incontrato personalmente in molte occasioni e abbiamo mantenuto i rapporti attraverso vari canali. Voglio sottolineare ancora una volta che aveva un atteggiamento estremamente positivo nei confronti della Russia. Lo ricorderemo.
Non sono sicuro dei cattolici, ma gli ortodossi hanno una tale comprensione, una tale tradizione interna, una comprensione tradizionale che se Dio chiama una persona in cielo durante il periodo pasquale, è un segno speciale che quella persona non ha vissuto la sua vita invano, ha fatto molto bene per la gente, e Dio la chiama in cielo in questi giorni di festa di Pasqua.
Credo che sia questo il caso. Voglio dire che il Papa ha fatto molto bene non solo al suo gregge, ma anche al mondo intero. Facciamo le nostre più sentite condoglianze a tutto il mondo cristiano e prima di tutto, naturalmente, ai cattolici.
Domanda: Signor Presidente, cosa pensa del fatto che i funzionari europei stiano lanciando minacce ai leader europei che intendono venire a Mosca il 9 maggio?
Vladimir Putin: Per lanciare minacce, bisogna avere gli strumenti adeguati per agire di conseguenza. Questo è il primo punto. Numero due: bisogna essere pronti a usare queste forze e questi mezzi. Qualche funzionario europeo ne è a conoscenza? Non ne sono sicuro. Se il potenziale dei Paesi che li sostengono si limita a un milione, o a 1,3 milioni di persone, e loro chiedono di continuare la guerra fino all’ultimo ucraino, c’è da chiedersi se lo pensino davvero e se siano nel pieno delle loro facoltà mentali quando propongono una cosa del genere.
Tuttavia, penso che coloro che hanno intenzione di venire in Russia abbiano molto più coraggio di coloro che si nascondono alle spalle di qualcuno cercando di minacciare altre persone, soprattutto coloro che stanno per celebrare le gesta storiche delle persone che hanno dato la loro vita nella lotta contro il nazismo.
Di Cesare Semovigo & Giuseppe “The Director” Germinario
Mentre il conflitto in Ucraina si trascina, inquietanti sussulti scuotono l’agone politico a stelle e strisce. Per chi ancora non lo avesse capito, la vecchia Europa ha ceduto lo scettro di reginetta delle supposte élites intellettuali, filosofiche e politiche, per incamminarsi, senza possibilità di salvezza, verso l’epilogo di questo conflitto cercato e perduto e, in direzione ostinata e contraria, verso tutto quello che la vecchia Europa pensava e riteneva di essere.
Il confronto con quell’Iran, appena sportosi sul balcone della trattativa, sembra dirigersi verso uno scenario tutt’altro che rassicurante, purtroppo denso di toni drammatici. Alle aperture di Witkoff, il plenipotenziario per il Medio Oriente di Donald Trump, colui che ha accettato il criterio della separazione tra il nucleare civile e quello militare iraniano, si giustappongono posizioni inequivocabilmente ostili, per emanazione oggettivamente scontata, della componente neoconservatrice, inclusa nella maggioranza del governo MAGA di D. Trump. L’amministrazione statunitense, indotta e spalleggiata dalla stampa amica della sua componente più faziosa e accompagnata dall’avventurismo intransigente del governo israeliano di Netanyahu, dalle indiscrezioni che vi stiamo celermente riportando, potrebbe finire risucchiata dall’istinto autoconservativo della guerra infinita e permanentemente spietata del premier israeliano.
Non si tratta di un mero confronto in una delle solite operazioni tattiche di Trump, “il provocatore”, tese a bilanciare gli umori di MAGA con quelli della minoranza neoconservatrice interna all’amministrazione. Ci auguriamo ancora esistano opzioni alternative all’intervento militare. Il cammino verso la trattativa, tra la leadership di Israele di fatto insofferente nella sua finta disponibilità e una pragmatica e orgogliosa, a volte troppo spavalda, dirigenza iraniana rischia di interrompersi già agli albori. Uno dei probabili epiloghi rischia di trascinare con sé tutto e tutti in un buco nero di irresponsabilità.
I segnali parlano chiaro: lo schieramento massiccio, con la relativa complessa logistica, di stormi pesanti, tra i più sofisticati, dell’aviazione di profondità, di radar d’alta quota (AWACS) e, cosa ancora più inquietante, da qualunque quadrante geografico lo si guardi, di ulteriori due sistemi completi AA antiaerei trasferiti dal loro naturale dispiegamento storico nella zona centro-est europea, completano un quadro che si fa, di ora in ora, più incerto, poi presagio, per terminare infine in monito impossibile da sottovalutare o fingere illusoriamente di minimizzare. Una macchina troppo complessa per essere ricondotta inequivocabilmente ad una mera forma di pressione sulle trattative.
Nonostante questo non sia nello specifico un articolo dalle sfumature tecnico-militari, si devono produrre alcune considerazioni per onorare la consequenzialità e attendibilità dialettica che da qui in poi cercheremo di presentarvi all’interno della “Big Picture” del complesso. Senza dilungarci inutilmente, il contesto logistico e il dispiegamento tattico nelle basi israeliane in primis, e giordane poi, soprattutto se inseriti cronologicamente a latere di una maldestra e incerta trattativa, sono un segnale inequivocabile e tetro. Una incertezza acuita dall’acceso e sordo confronto interno agli schieramenti, in particolare quello statunitense, ostaggio e mallevadore dei suoi stessi legami internazionali.
Dislocamento Tattico e Proiezione Operativa: Basi Israeliane e Giordane nella Sfida Iraniana
Le basi aeree israeliane di Nevatim e Ramon, nel deserto del Negev, insieme a quelle giordane di Al-Jafr e Al-Azraq, costituiscono i principali hub per operazioni congiunte contro obiettivi iraniani. Nevatim ospita squadroni di F-35I Adir e F-15I Ra’am, supportati da tanker KC-707 per estendere il raggio operativo fino a 2.000 km, coprendo Teheran e siti nucleari come Natanz o Fordow. Ramon, più vicina al confine giordano, schiera F-16I Sufa e droni Hermes 900 per missioni di sorveglianza e attacco di precisione. Le basi giordane, pur meno avanzate, fungono da piattaforme logistiche per caccia americani F-15E e F-22, con tanker KC-135 Stratotanker dislocati ad Al-Azraq per rifornimenti in volo, essenziali per missioni a lungo raggio. La proiezione congiunta si concentrerebbe su obiettivi militari iraniani: basi missilistiche (es. Kermanshah, Tabriz), centri di comando dei Pasdaran e infrastrutture sotterranee come Oghab 44. Tuttavia, un’incursione profonda in Iran, rispetto a lanci al confine come nell’aprile 2024, presenta sfide significative. I sistemi di difesa aerea iraniani, tra cui gli S-300PMU-2 russi e i più recenti S-400 (con voci di possibili S-500 in fase di acquisizione), a dispetto dei danni subiti dai renti attacchi, offrono una copertura multistrato con radar a lungo raggio e missili capaci di ingaggiare bersagli a 400 km. I sistemi autoctoni Bavar-373 e 15th Khordad, pur meno sofisticati, integrano capacità di disturbo elettronico e intercettazione a corto raggio, rendendo vulnerabili i caccia non stealth in avvicinamento. Penetrare lo spazio aereo iraniano richiederebbe una massiccia campagna di soppressione delle difese aeree (SEAD), con rischi di perdite elevate a causa della densità di radar e batterie antiaeree intorno a Teheran e Isfahan. Inoltre, la distanza di 1.000-1.500 km da Israele e Giordania limita il tempo di permanenza sul bersaglio, esponendo i tanker a minacce missilistiche iraniane come il Khaibar Shakan (gittata 1.450 km). Un attacco congiunto dovrebbe quindi coordinare strike di precisione con munizioni stand-off (es. missili Delilah o Popeye Turbo) e guerra elettronica per accecare i radar; la resilienza delle difese iraniane, però e la possibilità di ritorsioni balistiche su basi regionali rappresentano un pericolo concreto, amplificato dalla crescente precisione dei missili ipersonici Fattah-1.
Tensioni Interne e Reazioni Neo-Conservatrici
Un po’ troppo, verosimilmente, per essere interpretati come mera forma di pressione sulle trattative. La recente defenestrazione e relativo ridimensionamento di Kellogg in quel quadrante non sono bastati a placare i bollenti spiriti; tutt’altro! Ha scatenato la reazione allarmata dei neocon, sino a provocare il licenziamento di tre dei collaboratori più fidati di Hegseth, capo del dipartimento della difesa, e a mettere a rischio la sua stessa posizione con una forsennata campagna di denunce strumentali ed illazioni. La vittima più illustre è stata Cadwell, immediatamente precipitatosi in una intervista rivelatrice da Tucker Carlson.
Qui sotto la registrazione, tutta da ascoltare, con i sottotitoli in italiano. (cliccate sulla rotella delle impostazioni-sottotitoli-traduzione-italiano). In calce al commento la trascrizione dell’intervista. Giuseppe Germinario
Capitoli: 0:00 Introduzione 1:10 Cosa succederebbe se gli Stati Uniti entrassero in guerra con l’Iran? 9:13 Il vero motivo per cui gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq 15:38 La potenza militare dell’Iran 22:25 La coalizione globale che l’Iran ha formato a causa degli Stati Uniti 26:37 È malvagità o stupidità? 31:10 Come Trump ha smascherato le guerre per il cambio di regime 41:37 L’esperienza di Caldwell nel Corpo dei Marines 50:31 L’impatto della guerra in Iraq sui veterani 1:00:59 Come Caldwell ha aiutato Pete Hegseth a diventare Segretario della Difesa 1:08:21 Il vero motivo per cui Caldwell è stato licenziato 1:11:30 Caldwell era la fonte delle fughe di notizie? 1:22:09 Come Caldwell è stato scortato fuori 1:23:41 Chi sono i veri colpevoli delle fughe di notizie del Pentagono? 1:28:58 La reazione di Caldwell alla sua estromissione
L’artefice di questa orchestrazione è verosimilmente Mike Waltz, consigliere presidenziale, in un confronto dal sapore di una resa dei conti interna, drammatica, dai tempi accelerati e convulsi. L’evidenza di come un confronto politico interno agli schieramenti politici statunitensi si intrecci con le dinamiche e le pulsioni internazionali, attualmente focalizzate sull’Europa e sul Medio Oriente, quest’ultimo rivelatosi al momento il vero punto debole e incerto, per vari motivi in parte indipendenti dallo stesso, della politica estera di Trump.
È, forse, il motivo che ha dettato, ancora una volta, l’apertura prudente di Putin sul fronte ucraino. Prudenza che, altresì, non sembra albergare nei giudizi del variegato mondo sovranista italico, ormai vittima del riflesso condizionato di accomunare comodamente nel calderone a stelle e strisce i vari contendenti, seguendo un percorso parallelo, ma nella identica direzione delle componenti più reazionarie e codine che detengono le redini dell’Unione Europea e dei paesi più importanti del nostro disgraziato continente.
Il fatto che, mentre stiamo ultimando l’articolo, Trump, il quale per vie indirette deve aver, per una qualche sensibilità telepatica, per forza di cose letto la bozza dell’analisi mia e di Giuseppe, abbia riconsiderato la decisione e reintegrato Cadwell, ci riempie di orgoglio e di speranza, soprattutto dimostrando che il nostro modulo analitico di redigere proiezioni, tra le mille incertezze di questo nuovo mondo nascente, oltre che funzionare, dovrebbe spingerci una buona volta a dedicarci alle scommesse. Buoni propositi.
Note
Steven Witkoff è stato nominato inviato speciale per il Medio Oriente da Donald Trump nel 2025, con un focus sulla stabilizzazione regionale e la gestione delle tensioni con l’Iran. Cfr. Haaretz, “Trump’s Middle East Envoy Visits Moscow to Discuss Hostage Release,” 10 febbraio 2025.
L’attacco iraniano del 13-14 aprile 2024 contro Israele, denominato “Operazione Vera Promessa,” è stato una rappresaglia per il bombardamento del consolato iraniano a Damasco. Cfr. Wikipedia, “Attacco iraniano contro Israele,” 14 aprile 2024.
La base aerea di Nevatim, situata nel deserto del Negev, è un hub chiave per l’aviazione israeliana, ospitando F-35I Adir e F-15I Ra’am. È stata colpita da missili iraniani nell’ottobre 2024, con danni limitati. Cfr. Dagospia, “Israele prepara l’attacco contro l’Iran,” 6 ottobre 2024.
La base di Ramon, nel Negev, supporta operazioni di sorveglianza e attacco con F-16I Sufa e droni Hermes 900. Cfr. The Times of Israel, “Israel’s Air Force: Key Bases and Capabilities,” 15 settembre 2023.
Le basi giordane di Al-Jafr e Al-Azraq sono piattaforme logistiche per operazioni congiunte USA-Giordania, con tanker KC-135 e caccia F-15E. Cfr. Air Force Magazine, “U.S. Air Operations in Jordan: Strategic Basing,” 20 marzo 2024.
I tanker KC-707 e KC-135 Stratotanker sono essenziali per missioni a lungo raggio, estendendo il raggio operativo fino a 2.000 km. Cfr. Jane’s Defence Weekly, “Aerial Refueling: Capabilities and Limitations,” 12 gennaio 2024.
I siti nucleari iraniani di Natanz e Fordow sono obiettivi strategici per Israele, protetti da difese aeree avanzate. Cfr. ISPI, “Iran’s Nuclear Program: Current Status and Risks,” 10 novembre 2024.
Le basi missilistiche iraniane di Kermanshah e Tabriz ospitano sistemi balistici come il Khaibarshekan. Cfr. Sky TG24, “Gli arsenali di Iran e Israele a confronto,” 3 ottobre 2024.
L’infrastruttura sotterranea Oghab 44 è un deposito strategico dei Pasdaran per missili balistici. Cfr. Middle East Institute, “Iran’s Missile Infrastructure: A Growing Threat,” 25 agosto 2024.
I sistemi di difesa aerea iraniani S-300PMU-2 e S-400 offrono una copertura multistrato, con radar a lungo raggio. Voci sull’acquisizione di S-500 non sono confermate. Cfr. Open, “L’Iran e l’arma mai vista prima,” 16 aprile 2024.
I sistemi iraniani Bavar-373 e 15th Khordad integrano capacità di disturbo elettronico e intercettazione a corto raggio. Cfr. Sky TG24, “Gli arsenali di Iran e Israele a confronto,” 3 ottobre 2024.
Il missile ipersonico Fattah-1, con una gittata di 1.400 km, rappresenta una minaccia crescente per le basi regionali. Cfr. Corriere della Sera, “Iran contro Israele, sparati anche missili ipersonici,” 2 ottobre 2024.
Le munizioni stand-off israeliane, come i missili Delilah e Popeye Turbo, sono progettate per attacchi di precisione a lunga distanza. Cfr. Jane’s Defence Weekly, “Israel’s Precision-Guided Munitions,” 5 febbraio 2024.
Keith Kellogg, ex consigliere per la sicurezza nazionale, è stato rimosso da ruoli chiave nell’amministrazione Trump nel 2024. Cfr. Axios, “Trump’s Internal Power Struggles,” 18 dicembre 2024.
Brian Hegseth, nominato capo del Dipartimento della Difesa, ha affrontato critiche interne dai neoconservatori. Cfr. The Hill, “Hegseth’s Defense Nomination Sparks Controversy,” 10 gennaio 2025.
Cadwell, collaboratore di Hegseth, è stato licenziato e ha rilasciato un’intervista a Tucker Carlson. Cfr. Fox News, “Cadwell Speaks Out on Tucker Carlson Tonight,” 15 gennaio 2025.
Mike Waltz, consigliere presidenziale, è considerato una figura centrale nelle tensioni interne all’amministrazione Trump. Cfr. Politico, “Waltz’s Role in Trump’s Foreign Policy,” 20 febbraio 2025.
Ecco la trascrizione completa dell’intervista al consulente di politica pubblica Dan Caldwell al The Tucker Carlson Show, intitolata “Il Pentagono non ha licenziato Dan Caldwell per aver divulgato informazioni riservate. L’hanno licenziato perché si opponeva alla guerra con l’Iran”, in onda il 21 aprile 2025.
L’intervista inizia qui:
Tucker presenta Dan Caldwell
TUCKER CARLSON: Dan Caldwell è un veterano del Corpo dei Marines che fino a tre giorni fa era consigliere del Segretario alla Difesa Pete Hegseth in materia di politica militare. Era una delle voci più forti del governo Trump contro la guerra con l’Iran. E la sua motivazione era semplice. Non è nell’interesse dell’America, molti americani moriranno e miliardi saranno spesi per una guerra che non dobbiamo combattere. E come persona che ha combattuto in Iraq, è stato in grado di portare questo argomento all’attenzione dei vertici con una certa forza.
Tre giorni fa è stato licenziato dal Pentagono, ma non per le sue opinioni sull’Iran. No. Dan Caldwell è stato licenziato perché ai giornalisti è stato detto, in via ufficiosa, che aveva divulgato documenti riservati ai media. Ma quali erano esattamente questi documenti riservati? Beh, nessuno al Pentagono poteva saperlo, perché il telefono di Dan Caldwell non è mai stato esaminato, né gli è stato fatto il test della macchina della verità. Quindi, in realtà, dietro i titoli dei giornali non c’era altro che una falsa accusa.
Dan Caldwell è stato licenziato perché si opponeva alla spinta alla guerra con l’Iran? Decidete voi. Ecco Dan Caldwell.
C’è un’enorme pressione su questa amministrazione affinché partecipi all’azione militare contro l’Iran. E la posizione del presidente è stata, credo, molto chiara per molto tempo, ovvero che non vogliamo che l’Iran ottenga armi nucleari. Sarebbe un male per tutti. Sì, lo crede sinceramente. È contrario alla proliferazione. Credo che sia molto preoccupato per le armi nucleari in generale. Ma noi preferiremmo, preferiremmo fortemente una soluzione diplomatica. E lui viene attaccato da tutte le parti, anche da molte persone all’interno dell’amministrazione, in privato, che stanno cercando di spingerlo verso un’azione militare.
Lasciando da parte tutte le lotte intestine in corso, solo dal punto di vista pratico, cosa succederebbe se gli Stati Uniti partecipassero a un attacco militare contro i siti nucleari iraniani?
Il ruolo delle opzioni militari nella diplomazia
DAN CALDWELL: Credo fermamente che, affinché la diplomazia funzioni, sia necessaria un’opzione militare credibile.
TUCKER CARLSON: Sì.
DAN CALDWELL: E il presidente ne ha bisogno. Il Pentagono, dove lavoravo, deve fornirla. Questo è il loro ruolo nella politica estera americana: fornire quella leva affinché le soluzioni diplomatiche funzionino. Ora, è così che dovrebbe funzionare. Funziona spesso in questo modo? Purtroppo, gli ultimi 30 anni ci hanno dimostrato che in realtà non è così. Ma l’amministrazione Trump sta cercando di farlo funzionare come dovrebbe.
TUCKER CARLSON: Stiamo perseguendo la diplomazia con la leva di una potenziale azione militare.
DAN CALDWELL: Esatto. È così che dovrebbe funzionare. Ora, ci sono dei rischi. Si potrebbe creare un dilemma di sicurezza, una spirale. Quindi bisogna stare attenti. Ma questo è essenzialmente il motivo per cui esiste il Dipartimento della Difesa. Detto questo, ci sono ovviamente dei dettagli su cui non posso entrare. Ma penso che sia giusto dire che una guerra con l’Iran rischia di essere incredibilmente costosa in termini di vite umane, dollari e instabilità in Medio Oriente.
TUCKER CARLSON: Vite umane e dollari, vite americane, dollari americani.
Il vero costo della guerra con l’Iran
DAN CALDWELL: Le vite degli americani, degli iracheni, dei sauditi, degli iraniani, degli israeliani, degli emiratini, sì, degli israeliani e naturalmente degli iraniani. Potrebbe essere una guerra incredibilmente costosa. E penso che questo sia molto ovvio per chiunque abbia osservato la regione per un po’ di tempo. E penso che sia per questo che negli ultimi anni alcuni paesi della regione hanno cambiato alcune delle loro posizioni su come vogliono rapportarsi con l’Iran.
Ci sono molti paesi arabi del Golfo, ad esempio, che non considerano affatto l’Iran una forza benevola nella regione. Sono molto consapevoli delle minacce che potrebbe rappresentare, ma riconoscono anche che una guerra sarebbe estremamente costosa per loro. E quindi stanno cercando di adottare una posizione diversa. Questo è un riconoscimento da parte loro dei costi che potrebbe comportare una potenziale guerra totale con l’Iran.
E penso che il presidente e il vicepresidente lo sappiano, ed è per questo che stanno dando priorità alla diplomazia. E lasciatemi dire che, grazie a Dio, abbiamo Steve Witkoff nell’amministrazione. Sta davvero facendo il lavoro del Signore e sta cercando di fermare questa guerra attraverso la diplomazia e anche di porre fine a un’altra guerra in corso in Russia e Ucraina. E stanno facendo in modo che il suo impegno sia l’impegno principale, non quello militare, almeno per il momento.
Cambiamento di atteggiamento nei paesi del Golfo
TUCKER CARLSON: Per chi non ha seguito la questione, quando lei parla dei paesi del Golfo, ce ne sono sei, ma i due più grandi e più vicini agli Stati Uniti sono gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, che sono principalmente Stati sunniti governati da sunniti. Sono ostili all’Iran per una serie di ragioni diverse che risalgono a molto tempo fa. Le forze proxy dell’Iran nei paesi vicini sono numerose, ma sono state fondamentalmente nemiche dell’Iran o percepite come tali. Quindi si pensava che avrebbero appoggiato un’azione militare contro l’Iran. Ma lei sta dicendo che all’improvviso ci si è svegliati e ci si è resi conto che non è così.
DAN CALDWELL: Non vogliono una guerra su vasta scala in Medio Oriente in questo momento perché stanno cercando di sviluppare economicamente i loro paesi, perché stanno cercando di dare una vita migliore alla loro gente. Vale la pena notare che Khalid bin Salman, il ministro della Difesa saudita, era a Teheran, credo, pochi giorni fa, ed è il fratello di Mohammed Bin Salman, il principe ereditario.
TUCKER CARLSON: Sì.
DAN CALDWELL: E riconoscono pienamente la minaccia che l’Iran rappresenta e la prendono sul serio. Ma proprio come l’amministrazione Trump, stanno dando la priorità alla diplomazia nel tentativo di raggiungere una sorta di distensione. E questo non significa disarmarsi, unirsi e trasformare il Medio Oriente in una sorta di circo hippie. Significa che le persone riconoscono che non è nell’interesse di nessuno avere una guerra su vasta scala in Medio Oriente.
Il rischio di una guerra regionale su vasta scala
TUCKER CARLSON: Quindi l’idea che possa scoppiare una guerra su vasta scala è praticamente assente dai resoconti dei media americani. Quindi l’idea è che gli Stati Uniti, probabilmente in collaborazione con Israele, o viceversa, Israele in collaborazione con gli Stati Uniti, distruggerebbero, credo sei siti nucleari iraniani e questo sarebbe più o meno la fine, non si arriverebbe a una guerra su vasta scala. Insomma, non credo di aver mai letto alcun resoconto che suggerisca che potrebbe diventare una guerra su vasta scala. Ma lei sta dicendo che potrebbe.
DAN CALDWELL: Senti, nel momento in cui iniziano a volare bombe o proiettili, non si può mai dire con certezza cosa succederà esattamente. Ma penso che, dato che l’Iran è stato messo alle strette ed è indebolito, ha subito molti fallimenti nella regione. Credo che questo crei effettivamente un’opportunità per una diplomazia migliore e più intensa. Ma c’è chi sostiene che crei un’opportunità per ulteriori azioni militari.
E ancora una volta, forse è vero, ma tutto indica che qualsiasi tipo di attacco provocherebbe probabilmente una guerra su vasta scala in Medio Oriente. E ancora una volta, non entrerò nei dettagli di ciò che ciò potrebbe comportare, ma questo è il probabile esito di qualsiasi serie di attacchi prolungati contro alcune parti dell’Iran.
Gli americani a rischio nella regione
TUCKER CARLSON: L’altro giorno ho visto un grafico che mostrava il numero di installazioni militari statunitensi in quella regione intorno al Golfo Persico-Arabico. Non so se fosse un elenco completo, ma ce ne sono molte e le informazioni sono di dominio pubblico. Ci sono molti militari americani di stanza in quella regione e in diversi luoghi. In alcuni luoghi non sono molti. Non sono basi enormi e ben difese. Sembrano piccole basi, anche in Iraq e Siria. Ma altre, voglio dire, perché quelle persone non dovrebbero essere a rischio?
DAN CALDWELL: Non si tratta solo dei militari. Si tratta dei diplomatici nelle grandi ambasciate in luoghi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait. In alcuni luoghi ci sono anche familiari che vivono in Medio Oriente. Quindi non sono solo i militari ad essere a rischio. Sono i dipendenti del governo americano, principalmente il personale diplomatico. Sono anche molti i lavoratori americani nella regione, che lavorano nell’industria petrolifera, nell’industria finanziaria. Ci sono molti americani che sarebbero a rischio, non solo i militari. E questo è, ancora una volta, qualcosa che, come lei sottolinea molto bene, viene spesso trascurato in qualsiasi discussione sull’azione militare.
Il rischio per la sicurezza interna
TUCKER CARLSON: Beh, non viene nemmeno menzionato. Non viene nemmeno menzionato. La minaccia alla vita degli americani non viene nemmeno menzionata. E questo, ovviamente, senza nemmeno considerare il potenziale terrorismo. Voglio dire, l’11 settembre è successo perché gli estremisti non erano d’accordo con la politica estera americana. Lo hanno ripetuto più e più volte. Dovremmo ignorarlo e pensare che l’hanno fatto perché odiavano la nostra libertà. Quello che hanno fatto è stato malvagio. Ovviamente non lo giustifico in alcun modo, ma hanno detto perché l’hanno fatto. Non siamo d’accordo con quello che state facendo. E hanno attaccato il territorio degli Stati Uniti e ucciso 3.000 americani. Quindi, voglio dire, c’è da preoccuparsi, visto quanti iraniani sono entrati illegalmente nel Paese sotto l’amministrazione Biden, che probabilmente ci sono agenti del governo iraniano qui e che potrebbero esserci atti di terrorismo se lo facessimo.
Come gli errori della politica estera del passato hanno portato alle sfide attuali
DAN CALDWELL: Voglio dire, questo è un rischio che si corre con qualsiasi operazione militare all’estero. Penso che questo sia un altro motivo per cui dobbiamo prendere più sul serio la difesa e la sicurezza interna. Ma sì, è un rischio reale.
Tornando al paragone con l’11 settembre, direi che una serie di errori nella politica estera e nella politica di sicurezza americana hanno spianato la strada all’11 settembre. Mi riferisco all’incapacità dell’FBI e della CIA di collaborare, alla decisione di finanziare, attraverso nazioni amiche, alcuni gruppi per consentire la crescita di determinate forze per combattere il comunismo, che all’epoca era probabilmente la decisione giusta vista la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica. Ma la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
E uno dei motivi per cui ci troviamo nella situazione in cui siamo in Medio Oriente con l’Iran è, dobbiamo essere onesti, la guerra in Iraq. Saddam Hussein era un freno all’Iran, in quanto costringeva l’Iran a dedicare risorse per scoraggiare l’Iraq, che ora l’Iran non ha bisogno di impiegare per scoraggiare l’Iraq in modo convenzionale o attraverso i propri proxy. Ora possono investire quei soldi in gruppi come Hezbollah, gli Houthi e anche dedicare più risorse al loro programma missilistico e potenzialmente anche al loro programma nucleare.
Questo è, secondo me, uno degli aspetti che non si può trascurare quando si discute di politica estera e che troppo pochi affrontano: come siamo arrivati a questo punto? È come se la gente non volesse parlare di come siamo arrivati alla situazione attuale in Ucraina. Sai, l’espansione della NATO ha giocato un ruolo importante in questo. Sai, 30 anni di politica estera americana fallimentare nei confronti dell’Europa orientale. Il sostegno a certe rivoluzioni, il sostegno a certe figure politiche.
C’erano persone intelligenti, da George Kennan fino all’ex direttore della CIA, Bill Burns, che la pensasse come pensasse, che avevano avvertito che sarebbe successo. E ancora una volta, queste decisioni che prendiamo in un determinato momento, molto concentrate su una cosa, hanno conseguenze di secondo e terzo ordine che a volte sono molto facili da vedere, che sono abbastanza ovvie. Se qualcuno avesse avuto una minima comprensione della regione e delle dinamiche di potere nella regione nel 2003, lo avrebbe saputo. Cavolo. Rimuovere Saddam Hussein, per quanto terribile fosse, avrebbe inevitabilmente avvantaggiato l’Iran. Non se ne è quasi parlato nel periodo precedente al…
TUCKER CARLSON: Beh, no, io ero nel Paese quando è successo tutto questo e non ne sapevo nulla, ma mi sembrava ovvio. Se hai un Paese a maggioranza sciita e imponi la democrazia, qualunque cosa essa sia, a quel Paese e all’improvviso ti ritrovi con un governo sciita, è probabile che si allinei con l’Iran. Giusto. È passato dall’essere un baluardo contro l’Iran a un alleato dell’Iran, cosa che rimane, credo, di fatto.
DAN CALDWELL: Il governo iracheno è di fatto un proxy iraniano.
TUCKER CARLSON: Ok, ma perché farlo? Io non lo capisco. Voglio dire, era questo? Stiamo andando troppo lontano, ma è direttamente rilevante per ciò che sta accadendo in questo momento. Sì, anche io, che sono un giornalista di 35 anni, potevo capire che avrebbe avuto questo effetto. Perché i geni responsabili della nostra politica non ci hanno pensato? O forse ci hanno pensato. Forse c’era qualcuno più grande che…
Le capacità militari dell’Iran
DAN CALDWELL: Potrebbe essere una conversazione di tre ore. Penso che ci siano molte ragioni per cui abbiamo invaso l’Iraq, nessuna delle quali valida. Ma l’unica cosa che va riconosciuta è che anche prima dell’11 settembre c’era un tentativo di creare le condizioni affinché gli Stati Uniti potessero invadere l’Iraq. Pensavano che rovesciando Saddam si sarebbe scatenata una pace e una democrazia in tutto il Medio Oriente, cosa che precedeva l’11 settembre.
C’erano iniziative come il Progetto per un Nuovo Secolo Americano, c’era Paul Wolfowitz alla fine dell’amministrazione Bush, molto arrabbiato perché George H.W. Bush non era arrivato fino a Baghdad. E poi c’era questo momento post-guerra fredda in cui gli Stati Uniti non erano semplicemente una superpotenza, erano una iperpotenza e non c’era nessuno che potesse sfidarci efficacemente.
La Russia era un disastro. La Cina era ancora in ascesa, alcuni potevano prevedere cosa stava per succedere, ma l’ipotesi era che, una volta entrati nell’OMC e instaurato il libero scambio, la Cina sarebbe diventata una democrazia. E quando non hai nessuno al mondo che possa sfidarti o controllarti efficacemente, questo può creare condizioni politiche interne che portano la gente a pensare che non ci saranno conseguenze per la politica estera americana.
Penso anche che la nostra esperienza nei Balcani e il modo in cui sono andate quelle guerre abbiano convinto gran parte dell’establishment americano della sicurezza che avremmo potuto affrontare l’Iraq in modo piuttosto economico e rapido e che non sarebbe stato un grosso problema. Lo si è visto molto nei primi giorni della guerra in Iraq. La gente gongolava, pensava che una volta abbattuta la statua di Saddam in piazza Firdos, che tra l’altro è stata abbattuta dai marines della 1ª Divisione, saremmo usciti abbastanza rapidamente. E la storia ha dimostrato che non è stato così.
TUCKER CARLSON: No, certamente no. Beh, qualunque fosse il motivo, le azioni del governo statunitense sotto George W. Bush hanno notevolmente rafforzato l’Iran. Hanno rimosso il principale baluardo contro la loro espansione e liberato un sacco di denaro, come hai appena detto. Quindi eccoci qui. Stiamo affrontando un’enorme pressione per entrare in guerra con un Paese che non è l’Iraq, che in realtà è più potente dell’Iraq. Molte di queste informazioni sono di dominio pubblico, ma per quanto ne so stai facendo del tuo meglio per non rivelare nulla di riservato, ma per quanto puoi caratterizzarlo utilizzando informazioni disponibili pubblicamente. Qual è l’attuale forza dell’Iran, secondo te, come potenza militare?
DAN CALDWELL: Ripeto, sono chiaramente in difficoltà. Chiunque abbia seguito ciò che è successo loro nella regione negli ultimi sette, otto mesi può rendersene conto. Sì, Hezbollah ha subito sconfitte significative. L’Iran ha perso quello che era probabilmente il suo alleato più stretto nella regione, Bashar Al-Assad, e ha perso un importante canale di approvvigionamento di armi e rifornimenti per il Libano, il che limita la sua capacità di aiutare Hezbollah a ricostruirsi.
Ha subito alcune battute d’arresto a causa dei primi attacchi aerei israeliani alla fine dello scorso anno. E vorrei chiarire che si è trattato di attacchi molto limitati e mirati. La risposta iraniana era stata effettivamente preannunciata. E, ancora una volta, non ho alcuna informazione al riguardo, ma sembra che gli israeliani sapessero che sarebbe arrivata. Erano preparati. Avevano il sostegno degli Stati Uniti per respingerla.
TUCKER CARLSON: A me è sembrato simbolico.
DAN CALDWELL: Sì, così sembra. Quindi, ribadisco, non possiamo negare che abbiano subito alcune battute d’arresto significative. Tuttavia, conservano ancora notevoli capacità militari convenzionali, una forza missilistica efficace, dispongono di proxy efficaci in Iraq e hanno un programma di droni molto efficace.
Penso che la forza missilistica iraniana, più ancora di un potenziale programma nucleare, sia la garanzia ultima della sopravvivenza del regime e della nazione. E questo ci riporta alla loro esperienza nella guerra Iran-Iraq, quando Saddam Hussein, a volte con il sostegno indiretto o diretto degli Stati Uniti, utilizzava i suoi missili Scud e i bombardieri Tupolev per bombardare e attaccare efficacemente le città iraniane. Gli iraniani non avevano una difesa efficace contro di loro, né un modo efficace per contrattaccare l’Iraq.
Riuscirono a procurarsi alcuni missili Scud dalla Libia e da altre fonti. È una storia interessante. Gheddafi e Saddam avevano questo tipo di rivalità, quindi la Libia, pur essendo uno Stato arabo, laico e socialista, un po’ come l’Iraq, finì per appoggiare l’Iran, ma non fu mai in grado di eguagliare le capacità di attacco a lungo raggio dell’Iraq. Questo è uno dei motivi principali per cui hanno investito così tanto nello sviluppo di missili, droni, missili da crociera e cose simili in grado di colpire tutta la regione. E questa è la vera minaccia.
La vera minaccia iraniana
TUCKER CARLSON: Le armi convenzionali iraniane, i missili, giusto?
DAN CALDWELL: Al momento sì.
TUCKER CARLSON: Giusto. Quindi, quando sentiamo dire che sono indeboliti, ci riferiamo principalmente alle loro difese aeree.
DAN CALDWELL: Non mi addentrerò necessariamente in questo argomento. Ma parte delle loro capacità convenzionali sono state indebolite, ma non sconfitte, e conservano ancora capacità significative.
TUCKER CARLSON: Mi sembra che chi ha riflettuto a lungo su questo argomento sia giunto alla conclusione che se partecipassimo a un attacco contro i loro impianti nucleari, morirebbero molti americani.
DAN CALDWELL: C’è una possibilità concreta che ciò accada. Come si dice in gergo militare, nessun piano sopravvive al primo contatto. E in gran parte è vero che nessuna ipotesi sopravvive al primo contatto. Ma c’è comunque un rischio significativo che ciò accada. E penso sia giusto dire che questo sta pesando nelle valutazioni di molte persone all’interno dell’amministrazione.
TUCKER CARLSON: Quindi il punto nevralgico per gran parte del commercio mondiale di petrolio è proprio la parte finale, il terminale dell’ingresso nel Golfo Arabico, nel Golfo Persico, nello Stretto di Hormuz, come è noto. E lei pensa che l’Iran sia in grado di chiuderlo?
DAN CALDWELL: Penso che sia un rischio reale, se non quello di ridurre in modo significativo la capacità di trasportare energia attraverso quella via marittima vitale.
TUCKER CARLSON: Cosa succederebbe ai prezzi globali del petrolio?
DAN CALDWELL: Ci sarebbe un aumento catastrofico. Ora, col tempo, il mercato del petrolio potrebbe sicuramente risolversi da solo. Ci sarebbe una maggiore produzione qui a livello nazionale e altrove. Il petrolio è fungibile, ma inizialmente avrebbe un impatto piuttosto catastrofico sui mercati petroliferi globali in un momento in cui gli Stati Uniti stanno affrontando alcune difficoltà economiche.
La coalizione globale contro gli Stati Uniti
TUCKER CARLSON: Quindi si potrebbe assistere a una catastrofe sia sotto forma di una potenziale depressione globale che di morte di molti americani in quella regione e qui, a seguito di una guerra con l’Iran. Il terzo punto che non credo sia mai stato menzionato in nessuno dei resoconti che ho letto su questi piani per bombardare l’Iran e liberarlo dal suo programma nucleare è il fatto che l’Iran fa ora parte di una coalizione globale di grandi paesi che si oppongono a noi.
DAN CALDWELL: Ora, vedi, questo è molto interessante, Tucker. Perché fanno parte di quella coalizione? È a causa della nostra stupidità che costringiamo questi paesi, che non hanno interessi naturalmente allineati, a unirsi. L’Iran è una teocrazia sciita. La Russia è un paese autoritario governato da Vladimir Putin e da un gruppo di oligarchi. La Cina è uno Stato quasi comunista e quasi capitalista. La Corea del Nord è uno degli ultimi veri paesi comunisti autoritari sulla faccia della terra.
Molti di questi paesi dovrebbero avere tensioni naturali. E ci sono stati momenti nel dopoguerra fredda in cui un paese come la Russia era disposto a fare cose come non vendere armi all’Iran perché non voleva causare instabilità in Medio Oriente. Inoltre, nonostante abbia sostenuto alcuni nemici di Israele, la Russia ha sempre avuto buoni rapporti con questo Paese.
Così gli israeliani, insieme agli Stati Uniti, sono riusciti a convincere i russi in momenti cruciali a non vendere armi all’Iran o a non compiere determinate azioni. E così, mentre si avvicinavano, c’erano ancora delle divergenze tra loro. E siamo onesti, la Russia ha avuto problemi significativi con il radicalismo islamico nel proprio Paese. E non vuole sostenere un regime che in passato ha sostenuto i radicali islamici, sia sunniti che sciiti, in tutto il Medio Oriente e in altre parti del mondo.
Perché sono stati spinti l’uno verso l’altro? Beh, perché abbiamo adottato questa mentalità di autarchia contro democrazia. E ancora una volta, prima non era ben definito, ma abbiamo iniziato a raggruppare questi paesi. Ecco un ottimo esempio: l’Asse del Male. Quando hanno detto che esisteva questo asse del male composto da Iran, Iraq e Corea del Nord, ne abbiamo semplicemente parlato. L’Iran e l’Iraq si odiavano. Erano nemici naturali. E tra l’altro, la Corea del Nord, cosa…
TUCKER CARLSON: Cosa c’entra la Corea del Nord?
DAN CALDWELL: Ecco una cosa interessante. L’Iran, l’Iraq e la Corea del Nord hanno interrotto le relazioni durante la guerra Iran-Iraq perché erano molto vicini agli iraniani. E sembra che i nordcoreani abbiano fregato gli iracheni negli anni ’90. Non è stato confermato, ma potrebbero averli fregati quando i nordcoreani hanno offerto loro di vendere loro delle armi. E i nordcoreani sono piuttosto famosi per questo. Hanno preso i soldi e hanno detto: “Sì, non possiamo darveli”.
In realtà ci hanno provato una volta all’inizio degli anni ’90 – ancora una volta, non posso dire se questa storia sia vera, ma l’ho letta su un blog militare – hanno cercato di pagare alcune attrezzature militari russe con parti di auto usate.
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Russia e Cina sono due paesi con antagonismi storici. Hanno un confine comune per cui hanno combattuto guerre durante il periodo sovietico. I cinesi considerano la Siberia e le sue risorse come proprie. La sua popolazione, non credo stia crescendo in questo momento perché hanno ucciso 100 milioni di bambine. Ma questa è un’area con risorse di cui hanno bisogno e che è stata oggetto di conflitti in passato.
Ci dovrebbe essere tensione tra questi due paesi. Ma la nostra politica estera di metterli tutti nello stesso calderone, sanzionarli, trattarli come un fronte unito, ha in qualche modo voluto…
TUCKER CARLSON: L’ha reso reale, li ha resi un fronte unito.
DAN CALDWELL: Sì. E non dovrebbe essere così. Dovremmo essere in grado di separarli perché hanno interessi che non coincidono. Dovremmo essere in grado di lavorare di più con i russi. E spero che se Steve Witkoff avrà successo e altri membri dell’amministrazione – ci sono molte persone in gamba nell’amministrazione che stanno lavorando sulla Russia e sull’Ucraina in questo momento – se avranno successo, forse potremo arrivare a un punto migliore con la Russia e loro potranno aiutarci con l’Iran.
Incompetenza o malizia?
TUCKER CARLSON: Mi permetta di interromperla. Tutto quello che sta dicendo è, tra l’altro, di dominio pubblico. Non sta facendo supposizioni. È ovvio. Nessuna persona onesta lo negherebbe. E queste politiche sono così folli che sembrano quasi formulate da persone che stanno cercando di affondare gli Stati Uniti. Sono politiche ostili agli interessi americani, non indifferenti.
DAN CALDWELL: Sai, penso che forse sia una possibilità. Ma più ho interagito con alcune di queste persone e le ho viste da vicino, più mi sembra di aver dato loro troppo credito.
TUCKER CARLSON: Voglio dire, non attribuire mai alla cospirazione ciò che può essere spiegato con la stupidità. È questo che stai dicendo?
DAN CALDWELL: Ci sono sicuramente forze malvagie in gioco, ma gran parte di questo è stupidità e pigrizia. Nel mio breve periodo al Pentagono, come con l’Ucraina, molte persone al Pentagono volevano continuare a fare quello che stavamo facendo in Ucraina. Alcuni di loro avevano davvero un impegno ideologico nei confronti del progetto ucraino. Penso che molti degli ufficiali…
TUCKER CARLSON: Un’Europa orientale più transgender.
DAN CALDWELL: Sai, Zelensky come salvatore del liberalismo globale.
TUCKER CARLSON: La guerra contro il cristianesimo. Ci sono tutti dentro. Sì.
Il punto di vista del Pentagono sull’Ucraina
DAN CALDWELL: Quindi penso che, data la loro esperienza, in un certo senso si possa in qualche modo simpatizzare con loro, perché hanno simpatizzato con l’Ucraina. Ma ho visto molto, e molto era dovuto al fatto che è più facile dire che dovremmo continuare a fare quello che stiamo facendo piuttosto che ammettere che abbiamo sbagliato e pensare a un modo diverso di fare le cose. Penso che più che l’ideologia, e l’ideologia gioca un ruolo importante, sia la convinzione che l’America debba essere l’egemone globale per imporre l’egemonia liberale. Ma in realtà per molte persone, e penso che lo stesso valga per il Dipartimento di Stato, è più facile dire di no. È semplicemente più facile dire di no.
TUCKER CARLSON: Lo credo anch’io. Ho trascorso molto tempo a contatto con la burocrazia. Penso che sia vero. È proprio come un principio della fisica. Gli oggetti in movimento tendono a rimanere tali. Ne sono completamente convinto. Ma guardando il quadro generale, allargando un po’ lo sguardo. Un’altra guerra in Medio Oriente. Penso che la stragrande maggioranza degli americani e sicuramente la stragrande maggioranza degli elettori di Trump stiano dicendo: “Aspettate un attimo. No”. Infatti, il presidente è stato eletto in gran parte grazie alla promessa di non coinvolgerci in un’altra guerra senza fine. Quindi sono davvero colpito, ma tu sei l’esperto, dalla pressione esercitata sull’amministrazione affinché lo faccia, affinché ci coinvolga in un’altra guerra in Medio Oriente. L’hai percepita?
La spinta alla guerra con l’Iran
DAN CALDWELL: Penso che ci sia chiaramente una coalizione molto forte all’interno degli Stati Uniti che vuole che ci sia un’altra guerra in Medio Oriente. E questo va oltre i partiti, solo per precisare. Ne ho scritto su Foreign Affairs con un mio amico, Reed Smith.
Durante la campagna elettorale, i democratici hanno attaccato Trump per essere troppo conciliante con l’Iran. E lo hanno attaccato per non aver fatto di più dopo l’uccisione di Soleimani, per non aver fatto di più dopo alcuni attacchi con droni iraniani contro l’Arabia Saudita nel 2019. Lo hanno accusato di essere troppo debole con l’Iran. E il Partito Democratico ha tirato fuori Liz Cheney, tra tutti, e con l’appoggio di suo padre lei è andata negli Stati chiave, parlando dell’importanza di rimanere, cito, forti in Medio Oriente e di continuare a finanziare una guerra impossibile da vincere in Ucraina. E questa è stata la posizione che hanno adottato.
Quindi è qualcosa che va oltre il tradizionale modo di pensare alla politica estera americana, basato sulla contrapposizione tra destra e sinistra, che è nato alla fine della Guerra Fredda o anche prima. In realtà è antecedente alla fine della Guerra Fredda. Risale alla Guerra Fredda, quando, nell’era post-Vietnam, i Democratici erano i pacifisti e i Repubblicani i falchi. È qualcosa che va davvero oltre. E c’è questo movimento trasversale che vuole mantenere l’America impegnata nel mondo. E penso che sia positivo per l’America essere impegnata nel mondo, ma impegnata in modo che il suo obiettivo primario non sia quello di proteggere gli interessi americani o la sicurezza o le condizioni di prosperità americana, ma quello di garantire che l’America imponga l’egemonia liberale.
Tornando all’Iran, ci sono molte ragioni per cui la gente vuole la guerra con l’Iran. Penso che, in fin dei conti, molte persone credono ancora che sia possibile portare a termine con successo guerre di cambio di regime in Medio Oriente.
TUCKER CARLSON: Guerre di cambio di regime. Pensavo che si trattasse solo di eliminare una mezza dozzina di siti nucleari iraniani perché non vogliamo che l’Iran abbia armi nucleari.
Il vero obiettivo: il cambio di regime
DAN CALDWELL: Beh, penso che Donald Trump li abbia smascherati perché in sostanza sono alcuni dei più grandi sostenitori della guerra con l’Iran, che si tratti di gruppi come la Foundation for Defense and Democracy o di scrittori di certe testate. In sostanza, stanno dicendo che il problema della diplomazia è che non porta al cambio di regime, che la politica dovrebbe essere il cambio di regime. È quasi come se la questione nucleare servisse in realtà a creare un percorso verso il cambio di regime. E in realtà si torna sempre a questa idea che molti di loro credono profondamente, e alcuni lo dicono apertamente, che avremmo potuto avere successo in Iraq. E invece l’Iraq è un disastro. È un caos assoluto.
TUCKER CARLSON: Beh, è un proxy dell’Iran.
DAN CALDWELL: Sì.
TUCKER CARLSON: Il Paese che odiano.
DAN CALDWELL: Vorrei solo fare una precisazione. Le forze più letali in Medio Oriente. Le forze che rappresentano il rischio maggiore per le forze armate statunitensi sono le Forze di Mobilitazione Popolare in Iraq. Si tratta di un braccio armato ufficiale del governo iracheno che abbiamo creato dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, che finanziamo con aiuti e le cui truppe continuiamo ad addestrare con un paio di migliaia di soldati ancora presenti in Iraq.
Quindi le truppe americane in Iraq in questo momento vengono attaccate da persone che fanno parte dello stesso governo che le truppe americane stanno aiutando a sostenere e le cui forze di sicurezza stanno aiutando ad addestrare. È la missione di politica estera più controproducente e folle del mondo in questo momento. E spero che l’amministrazione apporti dei cambiamenti in tal senso. Ma è così che stanno le cose.
TUCKER CARLSON: Voglio dire, negli ultimi, non so, 22 anni, 24 anni, credo, dall’11 settembre. Incredibile. Il nostro record con il cambio di regime in Medio Oriente è stato del 100% di fallimenti.
DAN CALDWELL: Sì. E se vai in Libia, vai in Siria.
TUCKER CARLSON: Sì, ma fallimenti a tutti i livelli.
DAN CALDWELL: Nemmeno lo Yemen. Puoi includere lo Yemen perché abbiamo sostenuto il vecchio governo prima che crollasse e lo Yemen precipitasse in una guerra civile.
Il disastroso bilancio dei cambiamenti di regime
TUCKER CARLSON: Non ha reso gli Stati Uniti più sicuri o più ricchi. A proposito, direi che non ha nemmeno reso più sicuri i nostri alleati, per quanto lo desiderassero. Non è stato un bene nemmeno per loro, per quanto posso vedere. Ed è stato un disastro per milioni di persone, esseri umani in quei paesi. Ma soprattutto non ha aiutato gli Stati Uniti. Quindi come potete, con la faccia seria, sostenere un’altra guerra di cambio di regime contro un paese reale che non è la Libia, non è l’Iraq, è l’Iran, è l’Impero Persiano? Come potete dirlo ad alta voce? Lo stanno davvero dicendo ad alta voce?
DAN CALDWELL: Sì. Alcuni lo dicono ad alta voce. Sì. Pensano che il figlio dello Scià sia riapparso. Secondo me questo tizio è il figlio più fallito che esista. E poi ci sono gruppi come il MEK, i Mujaheddin del Popolo Iraniano, che pagano molti politici americani per difenderli e sostenere un cambio di regime. In sostanza stanno dicendo: “Ehi, abbiamo dei governi in attesa che possono semplicemente piombare lì e tutto andrà bene se vi liberate dei mullah”. Dove l’abbiamo già sentita questa?
TUCKER CARLSON: Sai, è difficile credere che sia tutto vero.
DAN CALDWELL: So che lo è.
TUCKER CARLSON: È difficile da credere, ignorando i fatti più evidenti degli ultimi 30 anni.
DAN CALDWELL: Si torna a quello che dicevo riguardo a ciò che ho osservato al Pentagono. Penso che sia più facile sostenere sempre le stesse cose piuttosto che dire che dovremmo fare qualcosa di diverso.
Pressioni del Congresso per la guerra
TUCKER CARLSON: Cosa ne pensi del senatore? Forse hai un’esperienza diversa, ma io sento continuamente parlare dei senatori repubblicani. Sono sicuro che ci siano anche democratici, ma sento parlare dei repubblicani, Lindsey Graham è il più evidente, ma molti altri esercitano costantemente pressioni sull’amministrazione affinché intraprenda una guerra di regime change contro l’Iran. Non confermerò i tuoi candidati. Faremo pressioni, intendo dire minacce, minacce all’amministrazione Trump per costringerla a condurre una guerra di regime change contro l’Iran. Quale potrebbe essere il loro motivo? Qual è?
DAN CALDWELL: Guarda lì? Penso, e ne ho già parlato in passato, che a Washington D.C. ci sia una disconnessione tra i repubblicani eletti, ad eccezione di quelli attualmente alla Casa Bianca, e la base, ovvero ciò che la base crede realmente in materia di politica estera. E quindi la base non vuole nuove guerre, proprio come gli elettori.
TUCKER CARLSON: Stai parlando delle persone che li hanno messi lì.
Il divario tra elettori e politici
DAN CALDWELL: E più volte abbiamo visto la maggioranza degli elettori repubblicani in molte di queste primarie dire che volevano meno guerre. In molti casi i repubblicani erano ora meno bellicosi nel complesso. E, sai, i sondaggi non raccontano sempre tutta la storia, ma si è visto che in generale gli elettori democratici stanno diventando più bellicosi, soprattutto a causa dell’Ucraina, mentre gli elettori repubblicani e indipendenti stanno diventando sempre più diffidenti nei confronti delle guerre all’estero.
Tuttavia, poiché la politica estera spesso non è una questione di primaria importanza per molti elettori, non rientra tra le loro tre priorità principali. Molti repubblicani e democratici riescono a farsi eleggere nonostante abbiano un pessimo curriculum in materia di politica estera. Ora ci sono elezioni in cui questo fa la differenza. Nel 2016, ad esempio, ci sono prove concrete che il fatto che Donald Trump fosse considerato meno aggressivo di Hillary Clinton ha giocato un ruolo decisivo nella sua vittoria in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, contee che sono passate da Obama a Trump e che avevano livelli più alti di quello che si definisce sacrificio militare, ovvero soldati schierati, feriti o uccisi, rispetto ad alcune contee adiacenti. Questo ha probabilmente contribuito sia alla sua vittoria del 2016 che, forse, a quella del 2024.
Ora, ho dei cari amici che sono molto più esperti di me in materia di sondaggi e scienze sociali, e potrebbero non essere d’accordo con me. Ma ci sono stati momenti in cui gli incentivi politici erano effettivamente quelli di essere meno aggressivi, ma questo non si è visto nella maggior parte delle elezioni. Quindi ci sono molti leader repubblicani, in particolare, che sono semplicemente scollegati dalla base.
Ora, penso che la buona notizia sia che si sta iniziando a vedere un cambiamento, e lo si è visto con gli aiuti all’Ucraina, dove penso che l’ultimo voto importante sugli aiuti all’Ucraina, e potrebbe effettivamente essere l’ultimo voto importante sugli aiuti all’Ucraina di sempre, abbia visto più della metà dei repubblicani al Senato votare contro e più della metà del Senato, o, mi scusi, dei membri della Camera votare contro. E questo è passato da soli sei repubblicani che hanno votato contro il primo grande pacchetto di aiuti all’Ucraina nel 2022 e solo 40 repubblicani alla Camera, ad oggi circa 26, 27 senatori e poi quasi 110, 113, più o meno in quel range, repubblicani alla Camera che hanno votato contro. Quindi hai visto dei cambiamenti e sicuramente i repubblicani eletti dal 2018 sia alla Camera che al Senato sono molto meno falchi di quelli eletti prima di loro. Questo è indiscutibile.
TUCKER CARLSON: Beh, non ha funzionato. Non ha funzionato. E non credo che chiunque metta al primo posto gli interessi degli Stati Uniti possa davvero arrivare a un altro cambio di regime, a una guerra in Iran. È quasi una prova evidente che non si stanno mettendo al primo posto gli interessi del proprio Paese. È così che la vedo io. Forse sono troppo severo.
Politica estera America First
DAN CALDWELL: No. E penso che questo ci riporti a una semplice convinzione su quale sia lo scopo della politica estera americana. Credo, e penso che il presidente Trump, il vicepresidente Vance, credo persino il segretario Rubio, il segretario Hagseff e altri membri dell’amministrazione credano fondamentalmente che lo scopo della politica estera americana sia garantire la sicurezza americana e le condizioni della nostra prosperità.
Questo non significa che garantiremo una crescita del PIL del 3%. Sono le cose che ci permettono di essere prosperi. Quindi, ad esempio, dare priorità alla difesa del Canale di Panama rispetto alla questione irrilevante di quale oligarca dell’Europa orientale possa saccheggiare il Donbas come credono loro. Credono che questo sia più importante perché il Canale di Panama è indiscutibilmente più importante per noi di chi controlla il Donbas o chi controlla un pezzo di deserto desolato in Medio Oriente.
TUCKER CARLSON: Ben detto. Beh, finalmente è arrivata la Pasqua, e non c’è modo migliore per ricordare la storia di Gesù Cristo. Morire per i propri peccati è la cosa più potente che sia mai accaduta nella storia. È davvero l’inizio della storia e vale la pena celebrarlo. La Pasqua ha abbracciato la libertà della resurrezione su Hallow, l’app di preghiera numero uno al mondo. Unisciti a Liz Tabish, che interpreta Maria Maddalena nella serie Chosen, all’attore Kevin James e ad altri in un’esperienza di preghiera coinvolgente e gioiosa, degna della Pasqua stessa. Ogni singolo giorno imparerai a camminare in libertà nonostante le circostanze, spesso opprimenti, della tua vita quotidiana e a lasciar andare le cose a cui sei attaccato e che ti causano sofferenza. E invece abbraccia la pace e la libertà che derivano dal riporre la tua fiducia in Dio, l’unico posto in cui riporre la tua fiducia. Entra quindi nella gioia della Pasqua con una breve preghiera, una riflessione, una meditazione ogni singolo giorno che ti aiuteranno a continuare le abitudini che cambieranno tutto, quelle che stabilisci durante la Quaresima. Noi qui amiamo Hallow. Amiamo l’app. Sappiamo che piacerà anche a te. Contiene migliaia di preghiere, meditazioni, musica, ti aiuta a costruire un’abitudine quotidiana di preghiera e ad avvicinarti a Dio. Scaricate Hallow oggi stesso su hallow.com/Tucker. Avrete tre mesi gratis. Ne sarete sinceramente grati. Lo sarete. Come sei stato coinvolto in tutto questo? Qual è la tua storia? E posso dire che avrei dovuto chiedertelo nel saggio. Qual era la tua… Hai lasciato il Pentagono in circostanze di cui spero potremo parlare. Cosa facevi quando te ne sei andato?
Il ruolo di Dan Caldwell al Pentagono
DAN CALDWELL: Ero un consulente senior del Segretario alla Difesa. Mi occupavo di politica. Ero il consulente senior dell’ufficio politico. Il mio lavoro quotidiano consisteva nel consigliare il segretario in materia di politica, assicurarmi che fosse preparato per le riunioni, assicurarmi che fosse preparato per determinati discorsi e colloqui e fornirgli consulenza politica quando necessario.
Avevamo un team politico molto competente. Il sottosegretario alla Difesa per le politiche è appena stato confermato. Grazie a Dio. Bridge Colby sta facendo un ottimo lavoro. Al Pentagono è necessario avere qualcuno nell’ufficio di presidenza che sia in grado di collegare efficacemente il segretario alle politiche. E la politica ha così tanti compiti e così tante cose su cui concentrarsi che è necessario qualcuno in prima linea che possa aiutare, che sia un consulente politico immediato in grado di entrare e parlare subito con il segretario.
TUCKER CARLSON: Giusto. Ok. È questo il lavoro che sognavi da bambino? Come sei finito qui?
Infanzia e servizio militare
DAN CALDWELL: Sai, è buffo, una parte di me non voleva nemmeno andare al Pentagono. Non era necessariamente qualcosa che sognavo. Voglio dire, penso che il mio primo lavoro fosse quello che mi appassionava davvero, come molti ragazzini: il pompiere.
TUCKER CARLSON: Dove sei cresciuto?
DAN CALDWELL: Sono cresciuto… Sono nato in California, ho vissuto per un po’ in Massachusetts, ma la mia casa è a Scottsdale, in Arizona. È lì che considero casa mia. I miei figli sono nati lì. I miei genitori vivono ancora lì. Mia nonna vive ancora lì. Ho ancora molti familiari lì, e quella sarà sempre casa mia.
TUCKER CARLSON: Quindi come hai… Eri nell’esercito?
DAN CALDWELL: Sì, nel Corpo dei Marines.
TUCKER CARLSON: Eri nei Marines? Come sei finito lì?
DAN CALDWELL: Ho frequentato una scuola gesuita per soli ragazzi. Gli ultimi due anni sono stati molto intensi. L’aspettativa era che tutti andassero all’università. Alla fine del liceo, però, non volevo più studiare. Non volevo andare all’università, ma era una cosa che dovevo fare.
Così mi sono trascinato a Tucson per frequentare l’Università dell’Arizona. E, sinceramente, ero infelice. Non avevo alcuna motivazione per andare a lezione o fare qualsiasi cosa, odiavo la mia vita. Poi un giorno, il mio migliore amico, un caro amico che amo da morire, James O’Connor. Era un mio compagno di liceo. Aveva lasciato l’Arizona State University e si era arruolato nell’esercito come paracadutista, come suo padre, ed era stato assegnato alla 101ª divisione come membro dell’unità Pathfinder.
È andato in Iraq nell’autunno del 2005. Ricordo che mi mandò un messaggio su AOL Instant Messenger dicendo: “La mia squadra è stata quasi colpita da un ordigno esplosivo improvvisato”. E io pensai: “Cosa ci faccio qui? Devo andare a combattere”. Da bambino ero molto interessato alla storia militare. E mio nonno, che è molto importante per me, era un paracadutista. Ma io ero ossessionato dal Corpo dei Marines. Mi fece leggere due libri. The Nightingale Song, che parla di…
TUCKER CARLSON: Un libro fantastico.
DAN CALDWELL: È un libro fantastico. Onestamente, lo rileggo ogni due anni.
TUCKER CARLSON: E lui ha pubblicato… Credo che sia morto ormai, era un giornalista del Baltimore Sun, ma ha pubblicato una versione più lunga, una sorta di versione integrale, che è fantastica.
DAN CALDWELL: E poi mi ha fatto leggere Fields of Fire di Jim Webb.
TUCKER CARLSON: Oh, mio Dio.
DAN CALDWELL: E Jim Webb è uno dei miei…
TUCKER CARLSON: Sono entrambi libri sul Vietnam.
DAN CALDWELL: Sì. E quindi avevano una visione senza veli del Corpo dei Marines, ma io volevo comunque farne parte. Così ho ricevuto il messaggio di James e ho detto: “Devo andarmene da qui”. Ho mollato tutto. L’ho detto ai miei genitori, che erano furiosi, non erano affatto contenti.
TUCKER CARLSON: Sì. Erano spaventati.
DAN CALDWELL: E mi dispiace ancora per la paura che ho causato loro, perché alla fine mi sono arruolato nella fanteria.
TUCKER CARLSON: Ti sei arruolato?
DAN CALDWELL: Sì, come 0311 nel Corpo dei Marines. I miei primi due anni nel Corpo dei Marines…
TUCKER CARLSON: È una delle cose meno affascinanti che si possano fare.
DAN CALDWELL: Sai una cosa? Per alcune persone sì. E so che alcuni dei tuoi collaboratori sono marines.
TUCKER CARLSON: Sì. Ma marines arruolati.
DAN CALDWELL: Sì. E con tutto il rispetto per loro, ma nella fanteria c’era un detto che diceva: “Se non sei nella fanteria, non sei un cazzo”.
TUCKER CARLSON: Sì.
DAN CALDWELL: E tutto ciò che faceva il Corpo dei Marines, dalle squadriglie di caccia all’artiglieria ai carri armati, era a sostegno dei fucilieri arruolati, che individuavano e distruggevano il nemico e respingevano i suoi attacchi con il fuoco e le manovre. Quindi tutto era a sostegno del 0311 che faceva il suo lavoro. E quindi adoro stare nella fanteria. E c’era una sorta di convinzione che, se eri nella fanteria, ti sentivi superiore agli altri, che fosse vero o no. La tua vita era più dura. Ma era un motivo di orgoglio, e questo mi piaceva.
TUCKER CARLSON: Quindi tu… In sostanza, hai lasciato l’università e ti sei arruolato nel Corpo dei Marines durante una guerra.
Carriera militare e dispiegamento
DAN CALDWELL: Sì. Era il 2005. Le cose andavano a gonfie vele in Iraq. L’Afghanistan era in fermento, ma la situazione era già grave prima di peggiorare ulteriormente.
Durante i miei primi due anni al campo di addestramento, sono stato selezionato per un programma chiamato Yankee White. Si tratta del programma di supporto presidenziale. Se hai mai visto i marines salutare davanti alla Casa Bianca, loro fanno parte del programma di supporto presidenziale. Come parte di questo programma, sono entrato a far parte della Marine Security Force a Camp David. Ho trascorso lì quasi due anni, credo, durante la presidenza di Bush. È stata una destinazione fantastica. Mi è piaciuta moltissimo. Alcuni dei miei amici più cari, con cui ho prestato servizio lì, sono ancora miei amici oggi. Era un comando fantastico, avevo un ottimo sergente maggiore, un ottimo comandante e un ottimo sergente di plotone.
Ho trascorso due anni lì, poi, una volta terminato il mio periodo, sono stato assegnato al 2° Battaglione, 1° Marines, il che è stata una grande fortuna. Sono stato assegnato a un’altra compagnia fantastica, la Fox Co. 2:1. Abbiamo fatto un addestramento e siamo stati dispiegati in Iraq. Era la fine del 2008, l’inizio del 2009.
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Sarò onesto, non era così male come a Ramadi e Fallujah qualche anno prima. È stato un dispiegamento per lo più tranquillo, con alcune eccezioni. Ci sono stati alcuni incidenti e cose del genere. Ma quando hai lasciato l’Iraq in quel momento, pensavi: “Ok, non sarà come Scottsdale, in Arizona, ma potrebbe funzionare. Potrebbe essere un po’ come Tijuana, in Messico”. Ma cinque anni dopo, ad eccezione di Al Assad, tutti i luoghi in cui ero stato in Iraq erano sotto il controllo dell’ISIS.
TUCKER CARLSON: I luoghi in cui ti trovavi personalmente?
DAN CALDWELL: Sì. Dalla città di Hit al Sinjar meridionale, la montagna dove erano intrappolati gli yazidi, dove ci sono stati quei massacri e dove hanno ridotto in schiavitù tutte le donne. Io ero… Eravamo tutti intorno al monte Sinjar. Abbiamo trascorso molto tempo con gli yazidi. Sono persone molto interessanti. La loro religione è molto interessante. Adorano quello che l’Occidente, molti occidentali, chiamerebbero il diavolo. Non credo che sia molto accurato. Ma erano molto filoamericani. Erano sempre vestiti con abiti colorati e venivano a salutarci. Mentre quando eri nelle zone sunnite, ti ignoravano e ti guardavano come per dire: “Quando ve ne andate?”. E così, cinque anni dopo, tutto era andato in pezzi.
TUCKER CARLSON: E molte di quelle persone che ti salutavano erano morte o schiave sessuali.
DAN CALDWELL: Sì. Ho una foto su Twitter con due giovani ragazzi yazidi, che ora sono morti o in un campo dell’ISIS. Forse sono riusciti a tornare, ma probabilmente questa è la realtà, purtroppo.
Carriera post-militare e riflessioni
TUCKER CARLSON: Dove ti trovavi cinque anni dopo, quando hai visto questo?
DAN CALDWELL: Lavoravo alla Concerned Veterans for America. È lì che ho incontrato Pete Hegseth. Una cosa che è successa in quei cinque anni e che ha continuato a succedere è che ho visto… Ho fatto due cose. Ho imparato molto sul perché è iniziata la guerra, ho imparato quali decisioni ci hanno portato lì, e non ho avuto una transizione dall’oggi al domani. Ci è voluto un po’ di tempo, ma ho visto l’impatto sulla mia comunità di veterani e da allora la situazione è solo peggiorata.
TUCKER CARLSON: Qual è stato… Sono sicuro che potresti parlarne per ore. Ma se dovessi riassumere l’effetto della guerra in Iraq sui ragazzi che conoscevi, quale sarebbe?
DAN CALDWELL: Tre marines con cui ho prestato servizio, sia nel 2/1 che a Camp David, sono stati uccisi in azione. Una mezza dozzina sono rimasti gravemente feriti, alcuni con doppia amputazione. Tutti in Afghanistan. Beh, alcuni in Iraq. Mentre siamo qui, circa 20 si sono suicidati o sono morti a causa di ferite riportate in servizio.
TUCKER CARLSON: 20?
DAN CALDWELL: Questo riguarda chi ha prestato servizio nella fanteria. È molto comune. Ci sono state unità di fanteria che hanno combattuto nella battaglia di Fallujah e Ramadi e in altri conflitti molto intensi che hanno causato più suicidi tra i marines che morti in azione.
Riflessioni sulla guerra in Iraq
TUCKER CARLSON: Lei cerca davvero di affrontare questo argomento senza lasciarsi sopraffare dall’odio. Non vuole diventare un odiatore, ma è difficile quando si sentono cose del genere e si pensa a qualcuno come David Frum, che non è nemmeno americano, che urla contro le persone, definendole bigotte perché non vogliono partecipare a un’altra guerra per cambiare regime. Insomma, è difficile.
DAN CALDWELL: È una vergogna che gli sia permesso di frequentare persone rispettabili. Penso che la guerra in Iraq sia stata un crimine mostruoso. È l’unico modo in cui posso descriverla. È stato innanzitutto un crimine contro il popolo iracheno e poi contro il popolo siriano, perché queste due guerre sono chiaramente collegate.
Sai, l’ISIS è stato essenzialmente formato nelle prigioni americane. Beh, l’ISIS è nato dal gruppo di Zarqawi, ma i leader come Baghdadi, e persino il nuovo presidente della Siria, Jelani, erano nelle prigioni americane e hanno incontrato persone che alla fine avrebbero contribuito a formare il nucleo della leadership di Al Nusra, che è la branca di Al Qaeda. E poi l’ISIS. Baghdadi ha incontrato in prigione, in una prigione americana, dei leader militari iracheni e ha iniziato a imparare di più sulle tattiche militari. E molte delle persone con cui era in prigione sarebbero state quelle che lo avrebbero aiutato a conquistare gran parte dell’Iraq e della Siria.
TUCKER CARLSON: Cosa ha significato… Non sei la prima persona a cui lo chiedo, ma come ci si sente ad essere qualcuno che ha effettivamente prestato servizio lì, che voleva prestare servizio, che ha abbandonato l’università per arruolarsi, non per entrare nel ROTC, ma per arruolarsi nel Corpo dei Marines. Cosa ha significato… Hai dedicato tutta la tua vita a questo. E poi vedere la carneficina, gli americani le cui vite sono state distrutte, e poi rendersi conto che era tutto falso. Che effetto ha avuto su di te?
DAN CALDWELL: Ha iniziato a spingermi verso la posizione che ho ora in materia di politica estera. Dobbiamo fare qualcosa di diverso. E in un certo senso mi ha radicalizzato su questo tema.
E in realtà c’è chi sostiene che bisogna essere… Quando si parla di politica estera, bisogna essere freddi e distaccati. Alcuni dicono che i realisti devono essere freddi e distaccati. Non sono necessariamente d’accordo. Ma, sai, quando sento parlare di una nuova operazione militare o qualcuno parla di qualcosa, il mio primo pensiero è: come sarà per i ragazzi? Come sarà per i ragazzi che saranno in prima linea? E per gli uomini, ma anche per le donne. È solo che, è un po’ come se non potessi fare a meno di guardare attraverso quel prisma e a volte devi distaccarti da esso. Ma la cosa importante è che dobbiamo impedire che questo accada di nuovo. Non può succedere di nuovo.
TUCKER CARLSON: Non potrei essere più d’accordo con te e vorrei che più persone esprimessero questo punto di vista. Penso che sia… Quindi, tra i ragazzi con cui hai prestato servizio nel Corpo dei Marines in Iraq, diresti che molti sono d’accordo con te?
DAN CALDWELL: Sì, sì. Di destra, di sinistra, la maggior parte di loro è ferocemente anti-interventista. Alcuni di loro mi fanno sembrare Paul Wolfowitz.
TUCKER CARLSON: E stai parlando dei ragazzi che hanno prestato servizio e hanno portato i fucili in Iraq?
DAN CALDWELL: Sì, esatto. E lo abbiamo fatto anche noi di Concerned Veterans for America. Abbiamo condotto molti sondaggi quando ero lì e abbiamo costantemente riscontrato che i veterani e le famiglie dei militari erano più contrari alle nuove guerre con margini piuttosto evidenti rispetto alla popolazione generale nel suo complesso.
Il costo umano della guerra
TUCKER CARLSON: È interessante. Hai parlato di morte, di caduti in azione, di feriti, di feriti gravi, di suicidi, di traumi psicologici.
DAN CALDWELL: Mi dispiace, non ho nemmeno menzionato le famiglie distrutte.
TUCKER CARLSON: Beh, è proprio quello che stavo per chiederti. Continua.
DAN CALDWELL: Intendo dire l’alto tasso di divorzi.
TUCKER CARLSON: Alti tassi di divorzio. Ne parlavamo prima di andare in onda. Conosco molti marines arruolati. Mio padre era uno di loro. Non lo so. Non credo di conoscere nessun ragazzo che si sia arruolato nei Marines durante la guerra al terrorismo che non sia divorziato. Sono sicuro che ce ne sono, ma forse me lo sto immaginando?
DAN CALDWELL: Ci sono alcune comunità di forze armate e forze speciali che hanno tassi di divorzio del 90%.
TUCKER CARLSON: Il 90%, sì. Lo sottovalutiamo. È un disastro per le persone coinvolte e per i loro figli. È una vera tragedia. Una vera tragedia. Il divorzio è una morte. E quindi, se si ha un tasso di divorzi del 90%, non capisco perché nessuno si fermi a riflettere su come non si possa fare questo alle persone.
DAN CALDWELL: Sì.
TUCKER CARLSON: Sei d’accordo?
DAN CALDWELL: Sì. Ora, guarda, voglio dire, il divorzio è sempre stato un problema nell’esercito. Ci sono molti ragazzi che si sposano troppo giovani per uscire dalla caserma. Ne abbiamo parlato prima. Ma è lo stress delle missioni in queste unità specifiche che fa aumentare il tasso di divorzi in alcune unità. E quando hai ragazzi che passano il 70, 80% del loro tempo lontano da casa, in addestramento o in missione, è difficile. Il servizio militare sarà sempre difficile. Ma l’aumento del ritmo delle missioni che abbiamo avuto, in particolare dopo l’11 settembre, ha esacerbato la situazione.
TUCKER CARLSON: Beh, è la prima cosa che ho notato quando ho iniziato a occuparmi di queste cose o ad andare lì. Questi ragazzi facevano un numero incredibile di dispiegamenti. E penso semplicemente che se continui a mandare un uomo in guerra, col tempo lo distruggi. No.
DAN CALDWELL: Sì.
TUCKER CARLSON: Come potresti non farlo?
DAN CALDWELL: Sì. Penso che tutti abbiano un punto di rottura. E ci sono persone che sono in grado di farlo. Ci sono persone nelle unità Ranger che sono al loro 15°, 16° dispiegamento, persone che sono in servizio da oltre 20 anni.
TUCKER CARLSON: Che effetto ha su di te?
DAN CALDWELL: Beh, può avere tantissimi effetti. Voglio dire, ci sono persone che riescono semplicemente ad accendere e spegnere e a metterlo in una scatola. Ma direi che per tutti, fisicamente, ti distrugge. Sai, ci sono ragazzi di 38 anni che hanno il corpo di sessantenni. Anche mentalmente può logorarti.
Il prezzo della guerra per i veterani
TUCKER CARLSON: Ho discusso spesso in pubblico con Dan Crenshaw e l’ho preso in giro molto. E lo dico con sincerità. Lo guardo e penso: sei stato danneggiato dalla guerra. Mi dispiace. Insomma, non conosco Dan Crenshaw, ma conosco molte persone che sono state danneggiate dalla loro esperienza, davvero danneggiate.
DAN CALDWELL: Sai, direi che anche lui è un po’ un caso anomalo nella comunità, dove continua, per qualche motivo, a sostenere la supremazia americana e lo status quo. E sempre più spesso, la maggior parte dei suoi compagni veterani repubblicani stanno in realtà rifiutando questa posizione.
TUCKER CARLSON: Beh, lo odiano. E capisco, capisco perfettamente perché, ma è squilibrato come quel tipo. Non è che abbiamo un disaccordo sulle politiche come quel tipo. C’è qualcosa che non va in lui. E forse sono troppo generoso, ma non posso fare a meno di sospettarlo, conoscendo molti tipi come lui.
DAN CALDWELL: Capisco perché lo dici. Insomma, ha minacciato di ucciderti, giusto?
TUCKER CARLSON: Ha minacciato di uccidermi. Ma non mi preoccupo. Sto solo cercando di essere cristiano e generoso al riguardo. È una persona molto ferita, e forse lo è sempre stata, ma conosco un sacco di persone ferite che hanno vissuto esperienze simili. Immagino che anche tu ne conosca alcune.
DAN CALDWELL: È stato devastante per la nostra comunità. Davvero. E c’è chi dice: “Oh, la parola ‘danno’, cercano di ammorbidirla. Oh, non dovresti usare la parola ‘danno’. Questo è il modo corretto per descriverlo”.
TUCKER CARLSON: Lo dico con amore, compassione e gratitudine per tutto quello che hanno fatto per noi, per il loro patriottismo e la loro dignità. E non lo dico per criticarli. Lo dico come si direbbe di qualcuno a cui si vuole bene e che si odia vedere soffrire. Capisci?
DAN CALDWELL: Sì, sì, sono d’accordo.
La vita dopo il servizio militare
TUCKER CARLSON: Quindi esci dal Corpo dei Marines. Cosa fai?
DAN CALDWELL: Finisco l’università. Non volevo davvero andare all’università, ma l’ho finita in due anni, due anni e mezzo. Ho lavorato per un membro del Congresso per un paio d’anni.
TUCKER CARLSON: Come ti sentivi quando sei uscito? Ha avuto effetti duraturi su di te?
DAN CALDWELL: Sai, i primi mesi dopo aver lasciato il Corpo dei Marines sono stati difficili. Stavano succedendo alcune cose nella mia vita privata. Mio padre, in un periodo in cui l’economia era davvero in crisi, è morto per overdose. E poi lasciare il Corpo dei Marines, lasciare un gruppo di ragazzi che consideravi tuoi fratelli e vivere da solo in un appartamento… non è stato un periodo divertente.
Pensavo che sarebbe stato fantastico. Avevo un bel po’ di soldi da parte grazie alle missioni. Avrei usufruito del GI Bill. Avrei frequentato un’università famosa per le feste. Ma alla fine mi sono detto: “Ehi, mi laureo e basta. Voglio trovare un lavoro”. Mi sono sposato e ho buttato al vento l’università.
Poi ho trovato lavoro per un membro del Congresso in Arizona. All’inizio mi occupavo principalmente dei veterani, ed era davvero gratificante aiutare i veterani a ottenere i benefici a cui avevano diritto. Ho imparato molto su quanto fossero disfunzionali il Dipartimento degli Affari dei Veterani e il Dipartimento della Difesa, perché aiutavo persone che avevano problemi con quest’ultimo.
Dopo due anni e mezzo lì, ad essere sincero, avevo bisogno di guadagnare di più. A quel punto avevo un figlio. Così un mio amico mi ha presentato Concerned Veterans for America, che all’epoca era gestita da Pete Hegseth, e sono stato assunto prima come addetto al lavoro sul campo, poi come responsabile legislativo e infine come uno dei direttori politici.
TUCKER CARLSON: Quanto tempo è rimasto lì?
DAN CALDWELL: Sono stato affiliato a Concerned Veterans for America in un modo o nell’altro per quasi nove anni.
TUCKER CARLSON: Wow.
DAN CALDWELL: Alla fine sono diventato direttore esecutivo e anche quando ho cambiato lavoro ho mantenuto il ruolo di consulente senior.
TUCKER CARLSON: Huh. E sei stato vicino a Pete per tutto il tempo?
DAN CALDWELL: Quando era con Concerned Veterans for America? Sì, abbiamo lavorato a stretto contatto, insieme a Darin Selnick, un altro membro che ha lasciato il Pentagono la settimana scorsa. Io lavoravo principalmente con lui sulle politiche e sulla comunicazione, concentrandomi soprattutto sui nostri sforzi per riformare il Dipartimento degli Affari dei Veterani.
Il passaggio all’amministrazione Trump
TUCKER CARLSON: Facciamo un salto in avanti alla campagna del 2024. Trump vince a novembre e c’è una corsa frenetica per formare l’amministrazione. Che ruolo ha avuto in questo?
DAN CALDWELL: All’inizio, anche prima delle elezioni, era tutto molto informale perché il presidente Trump inizialmente non ha fatto una transizione formale come quelle che si erano viste in precedenza, il che, in realtà, credo che in un certo senso fosse una buona idea in quel momento. Forse non capivo il perché, ma a causa di tutte le fughe di notizie e altre cose che lo avevano danneggiato nella prima campagna, alla fine la transizione è stata gestita molto meglio. E penso che gran parte del merito vada, ovviamente, al presidente stesso, ma anche a Susie Wiles e, credo, a Sergio Gore, che era a capo del personale.
Quindi all’inizio ho lavorato con un gruppo di persone per individuare persone che potessero lavorare al Dipartimento della Difesa. Un giorno ho ricevuto una telefonata da qualcuno che mi ha chiesto: “Ehi, cosa sai di Pete Hegseth?” Ho fornito alcune informazioni su di lui, poi ho chiamato Pete. Eravamo rimasti in contatto, ma non lavoravamo più a stretto contatto come prima. Gli ho detto: “Ehi, solo per tua informazione, la commissione di transizione ha chiesto di te”. E lui mi ha risposto: “Sì, lo so, sto per essere preso in considerazione per il ruolo di Segretario alla Difesa”. E io: “Wow, ok, fantastico”.
Così, pochi giorni dopo, durante il weekend del Veterans Day, ha ottenuto il lavoro. Ho iniziato a lavorare con lui durante la fase di conferma. L’ho aiutato a difendersi da molti attacchi che gli venivano rivolti e l’ho aiutato con la strategia. Ma alla fine ho assunto il ruolo di suo principale collegamento con il personale, aiutandolo a selezionare e collocare il personale all’interno del Dipartimento della Difesa. Quindi volavo spesso in Florida e lavoravo con persone davvero fantastiche del team PPO.
TUCKER CARLSON: Quindi a quel punto non lavoravi per il governo?
DAN CALDWELL: No, lo facevo su base volontaria e pagavo i voli di tasca mia.
TUCKER CARLSON: Davvero. Ti hanno rimborsato?
DAN CALDWELL: Per ora no.
TUCKER CARLSON: Quindi sta pagando di tasca sua per aiutare Pete Hegseth. È ovviamente un forte sostenitore di Pete Hegseth. È così?
DAN CALDWELL: Sì, ho sostenuto con forza la sua candidatura a Segretario alla Difesa.
TUCKER CARLSON: Sì. Sì, lo conosco. Lo conosco molto bene, ovviamente. Lavoro con lui. È un brav’uomo.
DAN CALDWELL: E vorrei solo dire che, sai, alla fine sono state scritte molte storie su di me e sul personale, che io fossi il burattinaio e che avessi il potere decisionale finale e che stessi cercando di bloccare le persone che sostenevano questo o quello o che si opponevano a questo e quello. Erano tutte sciocchezze. Voglio dire, lascia che te lo ripeta, c’erano persone nel team PPO che erano molto più radicali di me in materia di politica estera. E quindi in molti casi non avevo nemmeno bisogno di bloccare le persone non allineate. Venivano già bloccate da altre persone nelle fasi precedenti del processo.
TUCKER CARLSON: Beh, devo dire che non credo che un ascoltatore imparziale possa accusarla di essere radicale in alcun senso. Mi sembra assolutamente mainstream. Nulla di ciò che ha detto mi sembra ideologico, folle, marginale o qualcosa del genere. Hai prestato servizio nel Corpo dei Marines durante una guerra. Non pensavi che la nostra politica servisse il Paese o le persone che lo difendono. E stai solo cercando di tenerlo bene a mente mentre contribuisci a creare la politica per la prossima generazione.
DAN CALDWELL: Sì.
TUCKER CARLSON: È una valutazione corretta…
L’esperienza di Dan Caldwell nell’amministrazione Trump
DAN CALDWELL: Penso che sia assolutamente corretto. E vorrei solo sottolineare che una cosa straordinaria del lavoro durante la transizione – a volte difficile, a volte frustrante – e poi nell’amministrazione è stata la presenza di tante persone valide in questa amministrazione.
Ricordo di aver lavorato molto con la prima amministrazione Trump. Potete vedermi su Internet. Ero in piedi dietro al presidente mentre firmava i disegni di legge sui veterani. Il presidente ha twittato una volta su una mia apparizione sui media. Ricordo che c’erano persone della Casa Bianca e del Dipartimento degli Affari dei Veterani che cercavano di dissuadere me e Concerned Veterans for America dal sostenere qualcosa che il presidente voleva, in particolare la scelta del Dipartimento degli Affari dei Veterani, ovvero dare la possibilità di scegliere ai veterani o rendere più facile licenziare i dipendenti del Dipartimento degli Affari dei Veterani che non facevano bene il loro lavoro. Si trattava di funzionari politici che dicevano: “Perché volete farlo? È troppo radicale. Sapete, dobbiamo solo sistemare questo o quello”.
E questa volta, credo che, come in ogni amministrazione, ci siano persone che non sono d’accordo con il presidente. Ma una delle cose più belle del lavorare nell’amministrazione è stata avere amici e persone che condividono il tuo modo di pensare in tutta l’agenzia.
TUCKER CARLSON: Sì.
DAN CALDWELL: E poterli chiamare e scambiarsi idee. È stata un’esperienza davvero positiva, devo dire. E anche tu hai assistito a questa transizione.
Preoccupazioni sulla direzione della politica estera
TUCKER CARLSON: Beh. E tu lo senti. Lo senti. E io non sono coinvolto affatto. Sto solo osservando. Ma sembra che il modo più veloce per far deragliare l’intero progetto – l’amministrazione Trump e gli Stati Uniti d’America – sia una guerra con l’Iran. Ed è per questo che sto osservando la situazione con la massima attenzione possibile, perché ho la sensazione che, ancora una volta, se odiassi Donald Trump e odiassi ciò che l’amministrazione sta facendo in materia di immigrazione, commercio, anti-wokeness, o qualsiasi altra cosa, e volessi fermarla, la prima cosa che faresti sarebbe esercitare pressioni affinché l’esercito americano entrasse in guerra con l’Iran. Insomma, questa è la mia opinione al riguardo.
DAN CALDWELL: Lo penso anch’io. E anche continuare a fare quello che abbiamo fatto in precedenza in Russia e Ucraina, questo è certo.
TUCKER CARLSON: Certamente. Anche se non capisco perché. Beh, vi chiederò tutto questo, ma sembra che Wyckoff stia dando un grande aiuto in questo senso. Dio lo benedica.
DAN CALDWELL: Insomma, ho già detto che è una manna dal cielo.
TUCKER CARLSON: Dio benedica Steve Wyckoff. Non potrei essere più d’accordo. Come uomo, come strumento di pace e come figura ormai fuori dalla storia.
Ok, quindi, da un punto di vista esterno, hai commesso forse un errore professionale concedendo interviste prima di entrare in carica, descrivendo le tue opinioni in materia di politica estera, che secondo me sono perfettamente in linea con il pensiero dominante negli Stati Uniti, ma fuori dal mainstream dei guerrafondai di Washington. Quindi, in pratica, la gente sapeva che non eri completamente d’accordo con il programma di cambio di regime. È corretto?
DAN CALDWELL: Sì, ero molto aperto al riguardo. Ne ho parlato apertamente. E la maggior parte delle volte in cui dicevo che non dovevamo farlo, era in realtà a sostegno delle preferenze dichiarate dal presidente. Il presidente chiaramente non vuole questo nel suo primo mandato. C’erano persone nella sua amministrazione che lo volevano. Lui chiaramente non lo voleva. Quindi era un sostegno a chi non voleva la guerra.
TUCKER CARLSON: Ma Donald Trump ha detto – e ora le sue azioni lo dimostrano chiaramente – che preferirebbe di gran lunga una soluzione diplomatica. Giusto?
DAN CALDWELL: Non voglio parlare a nome del presidente, ma è abbastanza ovvio che è quello che vuole.
TUCKER CARLSON: Beh, l’ha detto. Voglio dire, l’ha detto di nuovo e ci ha basato la sua campagna, quindi non è una posizione folle. E ora le cose stanno diventando così assurde in questo Paese che dire questo ti rende un bigotto o qualcosa del genere, un nazista. È come se volessi ignorare tutto questo e tornare alla tua esperienza.
Quindi sto solo guardando da fuori e penso, avendo passato la mia vita a Washington, che Dan Caldwell ha un bersaglio sulla schiena. Non so se lui lo sa.
DAN CALDWELL: Sì.
Accuse di fuga di informazioni riservate
TUCKER CARLSON: E poi all’improvviso leggo che sei un traditore. Sei stato praticamente cacciato dal Pentagono per aver divulgato informazioni riservate. Per aver divulgato informazioni riservate. Giusto. E poi è iniziata la campagna diffamatoria, la campagna per screditare la tua reputazione, ed ecco come si è svolta. Non voglio turbarti. Forse non ne sei nemmeno a conoscenza. Dan Caldwell ha divulgato informazioni riservate ai media liberali, ai media, alla NBC News, per esempio. Quindi voglio essere completamente sincero con te. Hai divulgato informazioni riservate contro il volere dei tuoi superiori ai media?
DAN CALDWELL: Assolutamente no.
TUCKER CARLSON: Hai fotografato materiale riservato e poi hai inviato le foto di quel materiale a un giornalista della NBC News?
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DAN CALDWELL: Assolutamente no. E non ho parlato con nessun giornalista della NBC mentre ero al Pentagono.
TUCKER CARLSON: Lei… Sa di cosa è stato accusato?
DAN CALDWELL: No, non lo so. Seduti qui in questo momento, io, Darin Selnick e Colin Carroll, le altre due persone che sono state accompagnate fuori dal Pentagono, inizialmente sospese dal servizio e poi licenziate venerdì, non ci è stato detto, al momento della registrazione: primo, per cosa siamo stati indagati. Due, se l’indagine è ancora in corso. E tre, se c’è stata davvero un’indagine. Perché ci sono molte prove che dimostrano che non c’è stata un’indagine vera e propria. Ma, ripeto, in questo momento ci sono molte incognite. Come direbbe un ex Segretario alla Difesa, ci sono molte incognite. Alcune cose sono abbastanza chiare, ma non abbiamo idea di cosa stiamo indagando nello specifico.
TUCKER CARLSON: Possiamo sapere alcune cose solo dai dettagli. Eccone un paio. È stato sottoposto al poligrafo?
DAN CALDWELL: No, non sono mai stato collegato a un poligrafo da quando sono entrato nel Dipartimento della Difesa.
TUCKER CARLSON: Ok. Ha rinunciato ai suoi dispositivi di comunicazione privati? Al suo telefono privato?
DAN CALDWELL: No.
TUCKER CARLSON: A nessuno?
DAN CALDWELL: No.
TUCKER CARLSON: Ok, questo solleva una domanda ovvia. Sto cercando di non usare la parola con la F perché le bugie mi stanno facendo impazzire. Lei è accusato di aver divulgato informazioni riservate, ma le persone che la accusano non hanno modo di sapere se l’ha fatto o meno perché non l’hanno sottoposto al poligrafo né le hanno sequestrato i dispositivi. I tuoi dispositivi privati. Esatto.
DAN CALDWELL: Voglio dire, ci sono…
TUCKER CARLSON: Non puoi nemmeno fare questa accusa perché…
DAN CALDWELL: Non c’è modo di farlo. Ci sono così tante cose che mi impedirebbero di fare ciò che hai descritto. E, ripeto, non so nemmeno se è davvero questo il motivo per cui sono indagato, ammesso che ci sia un’indagine vera e propria.
Ma il punto è che a chi mi ha chiesto cosa sta succedendo ho risposto ripetendo qualcosa che ho sentito nei Marine Corps durante la nostra preparazione per l’Iraq. Credo fosse in un corso chiamato “combattimento da cacciatore”, che non è quello che sembra. In realtà si tratta di osservare meglio le cose. Ricordo molto chiaramente un istruttore che diceva: “Quando vi trovate in questo ambiente, non credete a nulla di ciò che sentite e solo alla metà di ciò che dite”. E penso che questo debba applicarsi anche a questa situazione.
TUCKER CARLSON: Sì. Il problema è che si tratta di un’accusa molto grave: lei avrebbe tradito il suo capo e amico Pete Hegseth, con cui ha lavorato per oltre un decennio e che ha sostenuto fin dall’inizio. Penso che sia tutto. Non voglio parlare per lei, ma lei è accusato di aver tradito Hegseth, che è sotto attacco da parte di persone che vogliono la guerra con l’Iran. Siamo sinceri. Lei è accusato di averlo tradito, di aver tradito il presidente e di aver commesso un reato. È un reato. Non si tratta semplicemente di dire: “Ehi, Dan Caldwell ha cattivo gusto in fatto di cravatte”. Si tratta di dire: “Dan Caldwell è un criminale”.
Gli altri funzionari licenziati
DAN CALDWELL: Sì. È solo che, sapete, a volte penso che non ho ancora capito bene cosa sta succedendo. E vorrei parlare degli altri due signori che stanno vivendo la mia stessa situazione. Quello che sta succedendo a loro è in un certo senso più irritante perché, come avete detto, io ho un profilo pubblico. Ho preso alcune posizioni che non dovrebbero essere controverse, ma lo sono. E mi sono esposto per promuovere cose che molti esponenti dell’establishment della politica estera non volevano. Questo non giustifica ciò che mi sta succedendo. Ma, siamo onesti, questa è la natura dei giochi che si fanno a Washington.
Darin Selnick e Colin Carroll sono patrioti. Lasciatemi parlare un po’ di Darin. Darin è un’altra persona che ha lavorato con il segretario Hegseth per oltre un decennio. È qualcuno che ha trascorso decenni lavorando con i veterani e sulle questioni sanitarie dei militari. Ha servito nella prima amministrazione Bush al Dipartimento degli Affari dei Veterani. Ha ricoperto un ruolo fondamentale nella prima amministrazione Trump. È stato una figura chiave nel promuovere il VA Mission Act, uno dei più grandi successi della prima amministrazione Trump, che ha riformato radicalmente il modo in cui il Dipartimento degli Affari dei Veterani fornisce assistenza sanitaria.
Darin, credo, può andare a dormire ogni sera sapendo di aver salvato la vita a migliaia di veterani grazie alle riforme che ha contribuito a promuovere. È un veterano dell’Air Force. Tra un incarico e l’altro nel governo, ha lavorato con me e Pete alla Concerned Veterans for America, contribuendo a sviluppare riforme rivoluzionarie per il VA che sono state in gran parte attuate dalla prima amministrazione Trump.
Per tornare, ha lasciato la sua bella vita a Oceanside, in California. Sua moglie è rimasta lì e lui ha preso un appartamento squallido ad Arlington, in Virginia, e ha lavorato a volte 16, 16 ore al giorno per portare avanti il programma del segretario. Ha svolto un ruolo chiave nell’eliminare dall’amministrazione le sciocchezze woke e DEI. Darin è stato uno dei principali promotori di questo cambiamento.
TUCKER CARLSON: Da come lo descrivi, Darin Selnick non sembra una persona coinvolta nelle lotte politiche o un ideologo fanatico.
DAN CALDWELL: Prima di parlare di Colin, devo dire che non so cosa pensino Darin Selnick e Colin Carroll dell’Iran. Per quanto ne so, Darin potrebbe essere un segreto sciita duodecimano. Colin Carroll potrebbe voler bombardare l’Iran fino a far brillare la sabbia. Darin era un vice capo di gabinetto che si occupava delle operazioni di back-office, del personale e della politica sanitaria militare.
Colin Carroll, lasciatemi parlare di Colin perché anche lui è una persona incredibile. Colin si è laureato all’Accademia Navale. Ha prestato servizio come marine di ricognizione in combattimento. Poi è diventato letteralmente un ingegnere missilistico lavorando nel settore tecnologico, in aziende come Anduril. Ed era il capo di gabinetto di Steve Feinberg. Colin si occupava di scienza, ricerca e sviluppo e bilancio. Era molto coinvolto. Questi signori erano patrioti e non meritavano – nessuno di noi merita – di essere trattati in questo modo. Ma in un certo senso, quello che sta succedendo loro mi fa arrabbiare ancora di più.
Il complesso ambiente del Pentagono
TUCKER CARLSON: E non è nemmeno chiaro, dovrei dire fin dall’inizio che il Dipartimento della Difesa del Pentagono è la più grande organizzazione umana al mondo, ha più persone di qualsiasi altra, credo nella storia del mondo. E la posta in gioco è alta. È in gioco il futuro del mondo. È il Dipartimento della Difesa. Hanno armi nucleari. E quindi la pressione esercitata su quell’agenzia dall’esterno, ma anche le lotte al suo interno, la rendono uno degli ambienti di lavoro più complicati e insidiosi mai creati. È giusto?
DAN CALDWELL: È giusto. E direi che l’unica cosa che avevamo in comune, anzi, un paio di cose che avevamo in comune, era che stavamo minacciando molti interessi consolidati, ognuno a modo suo, e avevamo persone che nutrivano vendette personali contro di noi.
TUCKER CARLSON: Sì.
DAN CALDWELL: E penso che abbiano usato le indagini contro di noi come arma. Penso che sia parte di ciò che sta succedendo qui. Ma guarda, Colin, e lasciami dire che Steve Feinberg, che non conoscevo prima, ha tutta la mia stima.
TUCKER CARLSON: Anch’io.
DAN CALDWELL: Penso che sarà un fantastico vice segretario. Steve Feinberg e Colin avrebbero rivoluzionato il modo in cui vengono effettuate le acquisizioni, il modo in cui viene fatto il bilancio, il modo in cui facciamo scienza e ricerca. E Colin ha una sola velocità, quella di andare avanti. E non aveva paura di sfidare le persone quando si comportavano in modo stupido e volevano continuare a fare le stesse cose. Darin è uguale. Darin ha fatto arrabbiare molte persone che vogliono continuare a usare l’esercito come un gigantesco esperimento di scienze sociali.
TUCKER CARLSON: Giusto.
DAN CALDWELL: Quindi noi, e ovviamente ho alcune opinioni sul ruolo dell’America nel mondo, come abbiamo discusso, siamo un po’ controversi. Tutti noi, a modo nostro, abbiamo minacciato interessi davvero consolidati.
TUCKER CARLSON: Le tue opinioni sono controverse solo a Washington D.C., giusto? Lascia che te lo dica. Giusto? In realtà, è così. Non sono controverse in nessun altro posto di questo Paese o del mondo.
I conflitti interni al Pentagono
DAN CALDWELL: Abbiamo minacciato molti interessi consolidati all’interno e all’esterno dell’edificio.
TUCKER CARLSON: Vorrei solo ribadire questo punto perché è il nocciolo della questione, è il motivo per cui lei è qui. Perché è stato licenziato e accusato di aver tradito il suo capo, il suo presidente, la sua nazione. Lei, non voglio parlare per lei, non ha divulgato informazioni riservate ai media. Non è mai stato sottoposto al test del poligrafo e non ha mai consegnato il suo telefono personale. Tutte queste affermazioni sono vere?
DAN CALDWELL: È tutto corretto al 100%. E lasciami dire che, in realtà, il mio primo istinto quando sono venuti a scortarmi fuori dal mio ufficio è stato quello di pensare che volessero costringermi a testimoniare contro il segretario, perché il segretario è sotto indagine dell’ispettore generale per tutta la faccenda del Signal Gate. Il mio primo istinto è stato quello di pensare che facesse parte di tutto questo.
TUCKER CARLSON: Quindi c’era un’indagine su una fuga di notizie. Penso che il presidente, come tutti i presidenti, non voglia fughe di notizie. Voglio dire, nessuno vuole fughe di notizie, giusto? Se sei al comando, non vuoi che i tuoi dipendenti facciano fughe di notizie contro di te. Quindi c’era questa indagine sulle fughe di notizie che andava avanti da settimane. Giusto. Lei era… il suo accesso alle informazioni riservate era limitato durante quel periodo?
DAN CALDWELL: Assolutamente no. Infatti, il giorno in cui sono stato scortato fuori dall’edificio, sono entrato, non entrerò nei dettagli, nella sala più alta dei briefing dell’intelligence e fino al momento in cui sono stato portato fuori dal mio ufficio, stavo lavorando su sistemi altamente riservati.
TUCKER CARLSON: Quindi stavi esaminando informazioni altamente riservate fino al momento in cui ti hanno portato fuori e separato con l’accusa di aver divulgato informazioni riservate?
DAN CALDWELL: Stavo facendo il mio lavoro. Parte del mio lavoro consisteva nell’esaminare le informazioni di intelligence, aiutare a formulare raccomandazioni al Segretario, dare la mia opinione, lavorare con il team politico. E la maggior parte del nostro lavoro veniva svolto su sistemi riservati.
TUCKER CARLSON: Il motivo per cui insisto su questo punto è che non ha alcun senso.
DAN CALDWELL: Non ha alcun senso per me.
TUCKER CARLSON: Giusto. Quindi, se lei… Perché, giusto per chiarire, lei non vuole che qualcuno divulghi informazioni riservate dal Pentagono.
DAN CALDWELL: Mi faccia capire bene, questo è un problema del Dipartimento della Difesa. Ci sono state cose che sono state condivise con i media, in particolare, direi, la questione Panama. Questo è inaccettabile.
TUCKER CARLSON: Sono stato destinatario di informazioni riservate per decenni, anche dal Pentagono sotto forma di fughe di notizie. E tutti i giornalisti che fanno il loro lavoro sanno bene che ci sono molte fughe di informazioni riservate, te lo posso garantire.
La vera fonte delle fughe di notizie dal Pentagono
DAN CALDWELL: Ma siamo onesti, tutti sanno da dove provengono. Provengono dai funzionari di carriera che non apprezzano ciò che il presidente, il segretario e il vicepresidente intendono fare. Ci sono persone nello staff congiunto che ho imparato a rispettare, ma molte di loro sono incredibilmente ostili al segretario, al presidente e alla visione del mondo del vicepresidente. È abbastanza ovvio che è da lì che proviene la maggior parte delle fughe di notizie. C’è un altro posto meno ovvio. Vorrei solo sottolineare una cosa mentre siamo qui oggi, Tucker, e questo potrebbe cambiare prima che il programma vada in onda. Ma mentre siamo qui oggi, Susan Rice, Michelle Flournoy ed Eric Edelman sono ancora in buoni rapporti con il Dipartimento della Difesa.
TUCKER CARLSON: Cosa?
DAN CALDWELL: Esatto.
TUCKER CARLSON: Sono ancora Susan Rice. Susan Rice, Obama, Susan Rice.
DAN CALDWELL: Sì. Susan Rice è ancora membro del Consiglio di politica di difesa proprio mentre siamo qui seduti oggi. Quando questo programma andrà in onda, la situazione potrebbe cambiare. Ma mentre siamo qui oggi, lei fa ancora parte del Consiglio per la politica di difesa. Ora, questo non significa che possa entrare nell’edificio e avere accesso a tutto ciò che vuole, ma significa che lavora con i dipendenti del Dipartimento della Difesa, può interagire con loro e ha le credenziali e l’affiliazione con il Dipartimento della Difesa.
TUCKER CARLSON: Ma Susan Rice non ha alcuna esperienza rilevante per un lavoro del genere. È una politicante di basso livello.
DAN CALDWELL: Esatto. Eppure, mentre siamo qui nell’aprile del 2025, a circa 100 giorni dall’inizio del primo mandato del presidente, lei e un gruppo di altre persone incredibilmente ostili al presidente e alla sua visione del mondo rimangono nella politica di difesa.
TUCKER CARLSON: Ne sei sicuro?
DAN CALDWELL: Puoi andare sul sito web e controllare subito. Ho verificato con Colin e Darin e anche loro lo hanno confermato.
TUCKER CARLSON: Beh, è scioccante.
DAN CALDWELL: E ancora una volta, direi che se vuoi capire da dove potrebbero provenire le fughe di notizie, quello sarebbe un punto di partenza.
Le incongruenze dell’indagine
TUCKER CARLSON: Quindi. Ma torniamo alla tua storia, non mi dilungherò oltre. Ogni volta che ne parlo, ti irrigidisci. Percepisco la tua frustrazione e io…
DAN CALDWELL: Dovresti dire che sei frustrato tu.
TUCKER CARLSON: Beh, sono completamente convinto che si tratti di sciocchezze e di sciocchezze sinistre. Ma se lei è oggetto di un’indagine, un’indagine sulle fughe di notizie, se gli investigatori avessero stabilito che lei stava divulgando informazioni riservate ai media, probabilmente non avrebbe continuato ad avere accesso a informazioni riservate, giusto?
DAN CALDWELL: Esatto. E probabilmente oggi non sarei qui.
TUCKER CARLSON: Saresti in prigione, amico. Ti avrebbero ammanettato. Giusto.
DAN CALDWELL: Se avessi divulgato informazioni riservate. Beh, ripeto, voglio solo chiarire questo punto. Ancora non so se il termine che hanno usato sia quello corretto. E quello che usa il Dipartimento della Difesa è divulgazione non autorizzata di informazioni. Se penso che ci sono molte voci e che la gente sta sfruttando questa cosa, possiamo parlarne. Se avessi davvero fatto alcune delle cose che persone anonime su Internet e al Pentagono dicono che ho fatto, sarei in manette.
TUCKER CARLSON: E non lo sei.
DAN CALDWELL: No, non lo sono. Sarei come Reality Winner o Bradley Manning o Edward Snowden o una di quelle persone.
TUCKER CARLSON: Mi sembra molto ovvio, pur avendo molti meno dettagli di lei, che lei sia una delle persone percepite come un ostacolo alla guerra per il cambio di regime in Iran e che questo sia stato il suo crimine. Mi sembra ovvio.
DAN CALDWELL: Penso che sia complicato. Ci sono altri livelli. Ma sulla base di ciò che è successo da allora, penso che sia un fattore, e che venga usato contro di me perché penso che vogliano perseguire anche me. E penso che sia successo. Non posso dirlo con certezza, ma solo ipotizzare che se qualcuno alla Casa Bianca non avesse detto: “Ok, dobbiamo fermare questa cosa”, probabilmente ci sarebbero state altre persone trattate allo stesso modo in cui sono stati trattati Colin, Darin Selnick e me.
TUCKER CARLSON: Quindi il modo più veloce per mettere fuori gioco qualcuno ed eliminare la sua influenza, e nel tuo caso il suo lavoro, è dire alla persona per cui lavora che quella persona ti sta tradendo. Quella persona ti sta tradendo. E quindi, voglio dire, mi sembra, ancora una volta, sto mettendo parole nella tua bocca, ma mi sembra che tu abbia provato questo. Sembra che tu senta ancora che le tue opinioni sono allineate con quelle del presidente, al 100%.
DAN CALDWELL: Non sarei entrato in questa amministrazione se non la pensassi così. Ripeto, non parlo a nome del presidente, ma c’è anche un’altra cosa. Avevo questo atteggiamento al Pentagono e forse era perché, vedeva, vedevo questo atteggiamento che avevo ancora, sa, quando ero nei Marine, del tipo: “Ehi, quando viene presa una decisione, quando abbiamo deciso una linea d’azione, ci assicuriamo che venga eseguita correttamente”.
TUCKER CARLSON: Sì.
DAN CALDWELL: E lei continua a sollevare preoccupazioni. Continua a farlo. Se vede qualcosa che non va, può farlo. Ma se è così disgustato da ciò che sta accadendo, allora dovrebbe dimettersi.
TUCKER CARLSON: Quindi, secondo me, lei sta dicendo che ha servito il suo capo, i suoi capi, anche quando non era d’accordo.
DAN CALDWELL: Esatto.
TUCKER CARLSON: Come hai fatto nel Corpo dei Marines degli Stati Uniti.
DAN CALDWELL: Esatto.
TUCKER CARLSON: Ok. Come ti fa sentire? Non vorrei nemmeno chiedertelo, ma lo farò. Come ti fa sentire? Voglio dire, devi sentirti come se stessi vivendo in un sogno, un incubo.
Impatto personale e leadership del Pentagono
DAN CALDWELL: Come ho detto prima, a volte mi sembra che non sia ancora del tutto reale, perché sembra proprio un sogno. È come se mi aspettassi di svegliarmi alle 4:30, prepararmi per andare al lavoro, portare a spasso il cane, lasciarlo all’asilo per cani e poi tornare al Pentagono. In un certo senso mi sembra che stia succedendo davvero e mi sembra che non mi sia ancora entrato bene in testa, ma è stato terribile. Intendo dire, l’impatto sulla mia famiglia. Sai, volevo cercare di nasconderlo a mia madre il più a lungo possibile perché ero preoccupato. È una persona molto ansiosa. Le voglio un bene dell’anima. È una santa. Non volevo dirglielo. Poi, un’ora dopo, qualcuno ha fatto trapelare alla Reuters esattamente quello che mi era successo. E sei ore dopo hanno fatto lo stesso con Darin. E poi, 12 ore dopo, hanno fatto lo stesso con Colin.
Quindi, sapete, è stato devastante e ha causato molto stress alla mia famiglia. L’unica cosa che voglio dire è che sono amico e sostenitore di Pete Hegseth da molto tempo e sono personalmente devastato da tutto questo. È semplicemente orribile e tutto il resto. Ma alla fine dei conti, mettendo da parte tutto questo, Pete Hegseth deve essere un Segretario alla Difesa di successo. E l’intero Dipartimento della Difesa non può continuare a essere consumato dal caos. Hanno un ottimo team. Hanno un ottimo vice segretario. Abbiamo appena parlato di Steve Feinberg. Hanno uno dei leader del movimento America First in politica estera, Bridge Colby, un mio caro amico che dirige il dipartimento politico, ora di fatto il numero tre del Pentagono.
Ha molti ottimi collaboratori di livello medio e junior sotto di lui, e arriveranno alcuni ottimi sottosegretari. Si tratta di persone di livello mondiale. Non sono politicanti. Persone come Mike Duffy dell’A&S, Emil Michaels dell’ANS Acquisition and Sustainment del Research and Engineering Service. I segretari, credo, saranno ottimi. Dan Driscoll, anche se ha un secondo lavoro alla guida di un’agenzia che non dovrebbe esistere, l’ATF, penso che abbia dimostrato di essere un ottimo segretario dell’esercito.
E guarda, una delle cose che preferisco, Tucker, è ammettere di essersi sbagliati sulle persone. Una persona su cui mi sono sbagliato è John Phelan. Ero scettico sul suo ruolo di segretario della Marina. E finora, devo dire, lui e il suo team hanno iniziato alla grande. Penso che Troy Mink sarà un fantastico segretario dell’Aeronautica. E quindi c’è questo fantastico team sotto il segretario che può permettergli di avere un successo incredibile. Deve superare questa cosa. Deve circondarsi di un team solido nel front office. E questo non è un appello per riassumermi. Io, sinceramente, voglio solo andare avanti e tornare a fare quello che facevo prima, essere un sostenitore dall’esterno. Ma, ma, sai, senza Darin, me e altri, lui, lui, ha bisogno di un team forte. E ci sono persone fantastiche che penso potrebbero farlo.
TUCKER CARLSON: E questo presidente del Joint Chiefs.
DAN CALDWELL: Oh, devo dire che è interessante. Lo hai citato. Il presidente Dan Razin Caine. Incredibilmente impressionante. E in realtà penso, se devo essere sincero, che una delle cose che ha scatenato l’opposizione al presidente Trump e al segretario sia stata proprio la sua nomina. Molti volevano che il segretario e il presidente seguissero la strada normale, comprese alcune persone all’interno dell’amministrazione, e scegliessero un comandante combattente, un generale Kurilla o un ammiraglio Paparo. A me l’ammiraglio Paparazzi piace molto.
Ma volevano che seguissero quella strada. Invece hanno fatto qualcosa che doveva essere fatto: hanno tirato fuori dal pensionamento un uomo di grande successo. Qualcuno che non ha fatto tutto nel modo giusto e non ha soddisfatto tutti i requisiti nella sua carriera, ma che è incredibilmente intelligente, incredibilmente attento nel modo in cui affronta i problemi, per diventare presidente. E questo ha sconvolto molte carriere.
Se guardi questi libri in cui viene spiegato come si promuovono i generali, ci sono delle piccole mappe che indicano dove andranno le persone e ci sono molte persone che andranno in questo ruolo, in quello, e poi il presidente del Joint Chief of Staff, il vice presidente. Diventeranno il capo di stato maggiore dell’esercito. E promuovendo Kang, hanno sconvolto molte carriere. È difficile sopravvalutare quanto questo gesto sia stato offensivo per gran parte della leadership militare degli Stati Uniti. E penso che questo sia stato uno dei motivi per cui abbiamo iniziato a vedere più fughe di notizie, a partire dalla metà di marzo.
TUCKER CARLSON: E non provenivano da te?
DAN CALDWELL: No, assolutamente no. E, ripeto, è ovvio per chiunque abbia lavorato al Pentagono da dove provenissero.
TUCKER CARLSON: Ti ringrazio molto per aver dedicato tutto questo tempo, Tucker.
Considerazioni finali
DAN CALDWELL: È stato un onore essere qui. E vorrei solo dire che penso che dovresti essere orgoglioso perché hai svolto un ruolo fondamentale nell’aiutare a fermare alcune cose davvero brutte nella politica estera. La tua piattaforma ha davvero contribuito a invertire la tendenza, penso, in molti modi diversi. E penso che tu meriti molto credito per questo.
TUCKER CARLSON: Voglio solo essere utile, ma lo apprezzo molto. Dan Caldwell, grazie mille e buona fortuna.
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La diplomazia dell’amministrazione Trump con l’Iran va ben oltre la non proliferazione nucleare. Qualunque cosa accada, avrà implicazioni enormi per Teheran in un momento in cui il regime è sull’orlo di una transizione critica della leadership. Per molti versi, i colloqui tra Stati Uniti e Iran sono molto più difficili degli sforzi per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina. Indipendentemente dal loro esito, i negoziati tra Stati Uniti e Iran rimodelleranno il Medio Oriente e si riverbereranno in tutta l’Eurasia.
Il 15 aprile, l’inviato speciale del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, ha chiesto sui social media all’Iran di eliminare il suo programma di arricchimento nucleare. Il giorno prima, dopo un incontro con il ministro degli Esteri iraniano in Oman, aveva dichiarato a Fox News che l’amministrazione cercava solo di limitare le capacità di arricchimento dell’Iran, non di smantellarlo completamente. Questo cambiamento retorico è avvenuto dopo una controversa riunione alla Casa Bianca a cui hanno partecipato Witkoff, il vicepresidente JD Vance, il segretario di Stato Marco Rubio, il segretario alla Difesa Pete Hegseth, il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz e il direttore della CIA John Ratcliffe. Secondo un rapporto di Axios, Vance, Hegseth e Witkoff sono favorevoli al compromesso per garantire un accordo, mentre Rubio e Waltz chiedono lo smantellamento completo.
Il disaccordo all’interno della Casa Bianca di Trump riflette tensioni strategiche più profonde. Innanzitutto, un accordo che per ora limita l’arricchimento non eliminerebbe il rischio che l’Iran oltrepassi la soglia nucleare nel tempo. Gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica non possono fare molto per monitorare le attività di un regime determinato a trasformare la tecnologia nucleare in arma. Le proposte di ispettori statunitensi sono difficilmente praticabili, dato il mezzo secolo di ostilità tra le due nazioni.
Inoltre, l’opzione militare rimane sul tavolo, ma è in contrasto con l’obiettivo dichiarato da Trump di evitare “guerre per sempre”, soprattutto in Medio Oriente, la regione più instabile del pianeta. Ma soprattutto, il sistema internazionale è già instabile mentre l’amministrazione Trump sta rivedendo la politica estera degli Stati Uniti. L’ultima cosa che Washington vuole è essere risucchiata di nuovo nel Medio Oriente, come è successo a molte amministrazioni precedenti, invece di concentrarsi sui modi per contrastare l’ascesa geoeconomica e tecnologica della Cina.
Evitare la guerra è ancora più critico per l’Iran. La Repubblica islamica è al suo punto più debole dal 1979. La sua economia è in crisi e la disaffezione dell’opinione pubblica è ai massimi storici. Un attacco statunitense distruggerebbe probabilmente gli impianti nucleari iraniani e potrebbe portare al collasso del regime stesso.
Quando ha raggiunto l’accordo nucleare del 2015 con l’amministrazione Obama, Teheran sperava di aver trovato un equilibrio tra la sua ambiziosa politica estera e il contenimento del dissenso in patria. Questa convinzione è stata disattesa quando la prima amministrazione Trump ha annullato l’accordo nel 2018 in favore della “massima pressione”. L’Iran ha cercato di rilanciare l’accordo durante l’amministrazione Biden, ma la Casa Bianca l’ha ritenuto troppo tossico dal punto di vista politico.
Poi le cose sono peggiorate. L’Iran ha pagato un prezzo altissimo per aver sostenuto Hamas dopo l’attacco a sorpresa del gruppo contro Israele il 7 ottobre 2023. Un anno dopo, le forze israeliane hanno decimato la leadership di Hezbollah, il principale gruppo della rete regionale di proxy dell’Iran, e ne hanno distrutto le capacità offensive. Di conseguenza, meno di due mesi dopo, Teheran ha perso un altro alleato con il crollo del regime di Assad in Siria. Privato dei suoi proxy nel Levante, l’Iran ha avuto poche opzioni per rispondere a un’offensiva israeliana contro la sua rete e ha colpito direttamente Israele, solo per vedere ulteriormente esposte le sue profonde vulnerabilità quando gli attacchi di rappresaglia israeliani hanno neutralizzato una parte significativa delle sue difese aeree. Le fratture all’interno del regime iraniano si sono allargate. Dalla supervisione di una sfera contigua che si estendeva fino al Mediterraneo orientale, Teheran sta ora difendendo la sua presa sull’Iraq.
Il regime iraniano, sempre più disfunzionale, non può sperare di continuare a reprimere il dissenso pubblico ancora a lungo. Ogni giorno che passa, il governo della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, che ha guidato la Repubblica islamica per 36 dei suoi 46 anni e che questo mese compie 86 anni, si avvicina alla fine. Una volta che Khamenei sarà fuori dai giochi, l’esercito – a sua volta diviso tra l’ideologico Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche e il più professionale Artesh (forze armate regolari) – sostituirà probabilmente il clero come nucleo del regime. Un accordo a dir poco fragile. Soprattutto, Teheran deve evitare che la morte di Khamenei diventi un punto di raccolta per una rivolta pubblica, mentre il Paese passa a un nuovo e difficile accordo di condivisione del potere. Pertanto, l’Iran ha bisogno di un po’ di tregua dalle sanzioni per poter migliorare la situazione economica e politica interna prima che inizi la crisi di successione.
La conservazione del regime è sempre stata l’obiettivo principale della Repubblica islamica. Non è mai andata oltre la modalità di sopravvivenza perché la sua ideologia non ha mai preso piede a livello nazionale. La sua crisi di legittimità è stata aggravata dall’incapacità di costruire un’economia sostenibile, conseguenza della sua posizione revisionista e del confronto permanente con gli Stati Uniti e con l’intera regione. Dal 2002, Teheran ha usato il suo programma nucleare per ottenere un limitato alleggerimento delle sanzioni. Questa strategia si è ora scontrata con un muro. L’Iran ha perso l’influenza. È più disperato che mai, ma qualsiasi apparenza di resa potrebbe innescare il disfacimento del regime. Ecco perché i negoziati tra Stati Uniti e Iran non si limitano a costruire un accordo, come nel caso della diplomazia tra Stati Uniti e Russia.
Washington è divisa sulla portata e sui termini di un accordo, ma la discordia a Teheran è molto più grave. Le realtà geopolitiche impediscono all’Iran di ritirarsi. Ma l’incoerenza interna del regime e il potenziale di percezione errata aumentano il rischio che l’Iran faccia male i conti. Un fallimento della diplomazia porterebbe probabilmente alla guerra.
Nel frattempo, i negoziati tecnici e politici procederanno lentamente. Nel migliore dei casi, un accordo negoziale bloccherebbe il percorso dell’Iran verso l’armamento nucleare in cambio di un limitato alleggerimento delle sanzioni. Ma qualunque cosa accada, l’ambiente strategico iraniano è sul punto di cambiare radicalmente.
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