MES. L’Europa e il Trattato impossibile, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V. (a cura di Alessandro Mangia), MES. L’Europa e il Trattato impossibile, Scholé, Brescia 2020, pp. 243, € 18,00.

Un gruppo di giuristi, coordinato da Alessandro Mangia, s’interroga su cosa (e e che effetto debba e possa avere) il MES. Scrive Alessandro Mangia, ripetendo – ironicamente – un frammento del Digesto che nel diritto ogni definizione è pericolosa: c’è poco che non possa essere smentito o capovolto. «E questo appare tanto più vero per il MES, che è un oggetto misterioso dal punto di vista del diritto. Del MES, di ciò che può fare e non fare, di che cosa sia e a cosa serva, hanno parlato in tanti. Ma ne hanno parlato soprattutto economisti che si sono beati della ‘potenza di fuoco’ di un oggetto che galleggia nell’indistinto che sta fra diritto internazionale, diritto bancario, diritto costituzionale senza essere in grado di coglierne le pericolose anomalie. Se a questo si aggiunge la polemica politica, e la cattiva informazione, si capisce perché del MES si sia potuto dire tutto e il contrario di tutto». Peraltro «del MES non hanno parlato i giuristi, se non incidentalmente»; la conseguenza è che «del MES hanno parlato soprattutto economisti, politici e funzionari vari», spesso anche per andare su un giornale o in televisione. E il risultato è di «affidarsi a chi non ha né addestramento né forma mentale a cogliere le impressionanti implicazioni di ordine giuridico e istituzionale che derivano dall’essersi affidati ad un Trattato internazionale per regolamentare attraverso le forme del diritto privato i rapporti tra Stati sovrani» e ciò equivale a «farsi spiegare il Codice Civile o il diritto romano da un ingegnere. O un manuale di Tecnica delle Costruzioni da un giurista».

Mentre ha un’importanza decisiva parlarne e valutarlo in termini giuridici perché «il diritto è una tecnica antica di ricoscimento, analisi, e composizione di interessi confliggenti». E qua gli interessi confliggenti non mancano e sono di enorme rilievo. Per capire come il MES è bisogna partire dal fatto che è un’istituzione e cioè «una realtà che di per sé non è né giuridica, né economica, ma è, prima di tutto, una struttura fatta di regole giuridiche e comportamenti materiali», che interagiscono tra loro e con altre istituzioni. Pertanto vedere il MES solo dal punto di vista del Trattato, senza analizzare gli interessi concreti che lo hanno creato, se ne capisce molto poco. Il MES è stato istituito «per cercare di colmare un buco di progettazione originario del Trattato di Maastricht del 1992: una Banca Centrale che non fa le cose che normalmente fanno le Banche Centrali di tutto il mondo». Per rimediarvi, e, a seguito della crisi del 2007, che rese evidente l’inadeguatezza della BCE ad affrontare e superare le emergenze, s’istituzionalizzò il MES come strumento temporaneo (e quindi eccezionale) d’intervento.

A tale istituzione (e ai suoi funzionari) sono stati concessi privilegi da Stato sovrano e il che, tra l’altro, viola le costituzioni degli Stati aderenti «sul versante di pienezza e generalità della tutela giurisdizionale» (v. art. 24 Costituzione italiana). Così se per le dovute forme e regole speciali è processabile da un Tribunale un Ministro degli Interni, non lo è una dattilografa del MES. Inoltre il consiglio dei Governatori del MES è composto dai Ministri economici dei governi aderenti, che sono tenuti al “segreto professionale” «Non si tratterebbe di un grande problema se il MES fosse una normale istituzione bancaria»; lo diventa se poi i Ministri devono rispondere – com’è – al Parlamento; per cui il «segreto professionale» entra in conflitto con le procedure della rappresentanza parlamentare. Questo mescolare principi, istituti e procedure di diritto pubblico e privato ne ha fatto un ircocervo, peraltro zoppo. E, come qualcuno dice, anche “stupido”. Ma, spesso la disciplina europea non è così stupida come descritta, spesso intenzionalmente, quando serve da base argomentativa al ritornello “ce lo chiede l’Europa”. Infatti il difetto fondamentale della BCE, nata anch’essa claudicante, era di non prevedere per essa tutti poteri attribuiti alle Banche centrali, magari poco rilevanti in tempi normali, ma decisivi in situazioni eccezionali; e a questo “errore di progettazione” dovrebbe rimediare il MES, anch’esso zoppo. Tuttavia una via d’uscita c’è: l’art. 122 del TFUE consente all’UE di dare assistenza finanziaria ad uno Stato membro in difficoltà “seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”. Norma che non “sana” le spese allegre dello Stato membro, ma è la classica eccezione non riconducibile ad azioni o omissioni dei governi.

Strada che, secondo gli autori di questi saggi è la migliore e la più percorribile. Ma non sembra che in Europa (e in Italia la maggioranza di governo) ne abbia l’intenzione

Teodoro Klitsche de la Grange

il monolite, di Giuseppe Masala

La logica è un monolite ineludibile. E nella questione dei piani di salvataggio dei paesi mediterranei dell’euro questo fatto emerge in tutta la sua stringente drammaticità.
La Spagna ha margini per agire dal punto di vista del debito pubblico ma ha il sistema bancario che è un colabrodo sovraesposto nei confronti dei paesi emergenti e potrebbe essere necessaria (io direi che sarà necessario senza dubbio) un salvataggio del sistema bancario da parte dello stato che a quel punto avrebbe bisogno di ricorrere al Mes (tutto questo si è già verificato nel 2011), la Grecia ad andar bene farà un -10% di Pil ed è già debitrice del Mes ma con il calo di gettito per pagare le rate del Mes dovrebbe procedere ad ulterirori tagli dal bilancio dello stato acuendo la crisi oppure richiedendo un nuovo finanziamento dal Mes per pagare le rate del prestito del Mes già ottenuto. L’Italia se farà un -10% (ma potrebbe andare peggio) sarà al bivio: o non fa piani di salvataggio ed accettare la distruzione di parte del suo tessuto produttivo e finanziario oppure dovrà ricorrerrere al Mes. Potrei continuare parlando di Portogallo e Irlanda ma tralascio per brevità.
C’è anche il problema che il Mes ha capitale versato che è una parte del capitale sottoscritto. Il primo che farà richiesta prenderà i soldi, ma quando il secondo, il terzo e forse il quarto chiederà i soldi e questi non ci sono e sarà necessario chiamare le cifre sottoscritte ma non versate dai paesi aderenti che succede? Il primo che ha preso i soldi dovrà rifinanziare il Mes? Per esempio se l’italia prende 100 per prima poi dovrà riversare 40 quando la Spagna chiederà i soldi e a loro volta Spagna e Italia dovranno riversare altri 10 a testa quando sarà la Grecia a chiedere i soldi al Mes (peraltro per poter ripagare le rate del Mes acceso nel 2011)?
Non basta. Poi c’è il Recovery Fund che deve essere finanziato se nascerà: dunque i paesi che richiedono il Mes dovranno versare parte di quanto preso per finanziare il Recovery Fund per poter prendere a prestito soldi dal Recovery Fund che poi verranno – ironizzo – ripagare magari facendo un altro prestito al Mes che però non ha i soldi che dovranno essere versati dagli stati tramite un aumento di capitale che gli stati in crisi non possono sostenere e dovranno magari utilizzare i fondi del Recovery Fund oppure tramite l’accensione di un prestito al Fondo Monetario Internazionale che però a quel punto farebbe intervenire la sezione psichiatrica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per andare a Bruxelles – possibilmente al suono della Fiera dell’Est di Branduardi -, prenderli e rinchiuderli tutti in un manicomio. Amen.

La logica è ineludibile e qui stiamo parlando di un delirio di gente totalmente pazza oppure di cinici che hanno preso tempo con un piano senza capo ne coda in attesa degli eventi.

 

S&P conferma il rating dell’Italia a BBB. Gli americani continuano a tenderci la mano e peraltro si confermano onesti. Di che aggiustamento strutturale può mai aver bisogno un paese che è in avanzo di Bilancia Commerciale e di Saldo Partite Correnti per decine di miliardi e con un Niip in pareggio. Colpevole solo di essere prigioniero di trattati deliranti – senza capo ne coda – che pongono la misura debito pubblico in rapporto al pil come parametro per valutarne la stabilità finanziaria non considerando che se abbiamo un Niip in pareggio significa che la Repubblica Italiana ha un debito nei confronti dei suoi cittadini che però sono la Repubblica Italiana stessa. Senza contare il fatto che se valutassero il debito pubblico dovrebbero degradare a spazzatura il debito degli Usa, del Giappone e dell’Uk per dare l’ambitissima AAA al Congo che ha un invidiabile (sic) rapporto debito/pil del 30%.

Tutto il mondo sta dicendo che i nordeuropei sono o completamente pazzi o dei criminali.

Doktor Faustus ci ha scritto una lettera, di Giuseppe Masala

Doktor Faustus ci ha scritto una lettera.

Mi pare che il periodo chiave della lettera di Mario Draghi pubblicata ieri dal Financial Times sia il seguente: <<La sfida che affrontiamo è quella sul come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di fallimenti aziendali che lascierebbero danni irreversibili. È evidente che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato>>.
Dunque Draghi propone la trasformazione il Debito Privato in Debito Pubblico al fine di evitare fallimenti aziendali privati (di banche e di grandi imprese) che creerebbero danni permanenti al sistema economico minacciando (questo è chiaro ma sott’inteso) i livelli occupazionali. Dice anche che il Debito Pubblico non è il male come lui stesso ha sempre detto in questi trenta anni. Una notevole svolta culturale. Ma una notevole svolta culturale fatta quando serve a lui, agli interessi suoi e dei suoi dante causa. Troppo comodo svoltare quando conviene dopo che per trenta anni – con il ditino alzato – ci è stato spiegato che vivevamo sopra le nostre possibilità: troppe pensioni, troppi dipendenti pubblici, troppe scuole, financo troppi ospedali. E ora ci dice che il Debito Pubblico può raddoppiare? E per di più – non troppo casualmente – quando serve per salvare banche, grandi aziende e finanziarie di ogni tipo e natura?

Peraltro Draghi si guarda bene dal fare un discorso di natura qualitativa sulla spesa pubblica che dovrebbe alimentare l’aumento del Debito Pubblico aggiuntivo che ora (ora!) pretenderebbe.
Il tranello del diavolo si nasconde nei particolari, e soprattutto in quello che non dice.
Ora, siccome solo un pazzo da manicomio, potrebbe continuare a sostenere la maggior efficienza del settore privato su quello pubblico (siamo alla terza crisi di enorme portata in 12 anni; 2008, 2012 e ora 2020) è ora di dire che se si fa spesa pubblica non deve essere solo per sussidiare il settore privato (e soprattutto del grande privato) ma deve ritornare lo Stato Imprenditore. Bisogna rifare esattamente ciò che Draghi e Prodi distrussero negli anni novanta. Bisogna rifare l’IRI, EFIM (per le piccole e medie imprese), bisogna rinazionalizzare le banche ma non per riprivatizzarle e ridarle in pasto agli squali di borsa (magari in cambio del solito piatto di lenticchie allo Stato, ovvero a noi) appena torna qualche sprazzo di sereno, ma per rimanerci: come fece Beneduce negli anni ’30. Punto. Non mi basta neanche la difesa dei livelli occupazionali (e magari degli stipendi da fame di oggi). Occorre un piano di assunzioni nel pubblico e nelle aziende rinazionalizzate a colpi di 200mila persone all’anno per almeno cinque anni esattamente come fece Tina Anselmi nel 1977. Sbancare le casse dello stato per salvare gli amici dopo che per trenta anni sono stati negati salario decente e anche un posto all’ospedale non mi pare una proposta accettabile.

Dunque, il Professor Draghi oltre ad un discorso quantitativo faccia anche un discorso qualitativo sulla spesa pubblica che andrà finanziata a debito pubblico per salvare il sistema produttivo. Se no il discorso oltre che tardivo, privo di quella necessaria autocritica è anche in assoluta malafede.

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il testo integrale: La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.

Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo – e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento. L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Appare scontato che ci troviamo all’inizio di una profonda recessione.

La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.

Il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire. Tutti gli stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più significativo della crisi in atto – si finanziavano attingendo al debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e in Germania soltanto una quota fra il 6 e il 15 per cento delle spese militari in termini reali fu finanziata dalle tasse, mentre nell’Impero austro-ungarico, in Russia e in Francia, i costi correnti del conflitto non furono finanziati dalle entrate fiscali. Ma inevitabilmente, in tutti i paesi, la base fiscale venne drammaticamente indebolita dai danni provocati dalla guerra e dall’arruolamento. Oggi, ciò è causato dalle sofferenze umane per la pandemia e dalla chiusura forzosa delle attività economiche.

La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio. La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro. Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende a fatica riusciranno a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto.

Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità. Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o, a maggior ragione, di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi. Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.

Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario: il mercato obbligazionario, soprattutto per le grandi multinazionali, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.

Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sottoforma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi. Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le emette.

Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi – pensiamo alle aziende con ordini inevasi – le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.

Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.

O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.

I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.

Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità. L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.

Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.

La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.

ALTRA LETTERA
Mi pare che ieri sia stata la giornata delle lettere. Molto importante quella scritta da Conte ai paesi dell’Eurozona che chiede uno sforzo comune dell’EU per contrastare la recessione. Bene, la lettera è stata cofirmata da Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Italia. Tutti coloro che non l’hanno firmata evidentemente sono contrari. Siamo di fronte ad una spaccatura all’interno della UE senza precedenti. Anche se non lo dicono è così. I paesi dell’area euro sono 19, la lettera l’hanno firmata in 9 e conseguentemente 10 sono contrari.

 il testo della lettera: Caro Presidente, caro Charles

la pandemia del Coronavirus è uno shock senza precedenti e richiede misure eccezionali per contenere la diffusione del contagio all’interno dei confini nazionali e tra Paesi, per rafforzare i nostri sistemi sanitari, per salvaguardare la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali e, non ultimo, per limitare gli effetti negativi che lo shock  produce sulle economie europee. 

Tutti i Paesi europei hanno adottato o stanno adottando misure per contenere la diffusione del virus. Il loro successo dipenderà dalla sincronizzazione, dall’estensione e dal coordinamento con cui i vari Governi attueranno le misure sanitarie di contenimento.

Abbiamo bisogno di allineare le prassi adottate in tutta Europa, basandoci su esperienze pregresse di successo, sulle analisi degli esperti, sul complessivo scambio di informazioni. È necessario ora, nella fase piu’ acuta dell’epidemia. Il coordinamento che tu hai avviato, con Ursula von der Leyen, nelle video-conferenze tra i leader è d’aiuto in tal senso.

Sarà necessario anche in futuro, quando potremo ridurre gradualmente le severe misure adottate oggi, evitando sia un ritorno eccessivamente rapido alla normalità sia il contagio di ritorno da altri Paesi. Dobbiamo chiedere alla Commissione europea di elaborare linee guida condivise, una base comune per la raccolta e la condivisione di informazioni mediche ed epidemiologiche, e una strategia per affrontare nel prossimo futuro lo sviluppo non sincronizzato della pandemia.

Mentre attuiamo misure socio-economiche senza precedenti, che impongono un rallentamento dell’attività economica mai sperimentato prima, abbiamo comunque bisogno di garantire la produzione e la distribuzione di beni e servizi essenziali, e la libera circulazione di dispositivi medici vitali all’interno dell’UE. Preservare il funzionamento del mercato unico è fondamentale per fornire a tutti i cittadini europei la migliore assistenza possibile e la più ampia garanzia che non ci saranno carenze di alcun tipo.

Siamo pertanto impegnati a tenere i nostri confini interni aperti al necessario scambio di beni, di informazioni e agli spostamenti essenziali dei nostri cittadini, in particolare quelli dei lavoratori transfrontalieri. Abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica. I nostri sforzi saranno prioritariamente indirizzati a garantire la produzione e la distribuzione delle attrezzature mediche e dei dispositivi di protezione fondamentali, per renderli disponibili, a prezzi accessibili e in maniera tempestiva a chi ne ha maggiore necessità. 

Le misure straordinarie che stiamo adottando per contenere il virus hanno ricadute negative sulle nostre economie nel breve termine. Abbiamo pertanto bisogno di intrapredere azioni straordinarie che limitino i danni economici e ci preparino a compiere i passi successivi. Questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo. La BCE ha annunciato lo scorso giovedì 19 marzo una serie di misure senza precedenti che, unitamente alle decisioni prese la settimana prima, sosterrano l’Euro e argineranno le tensioni finanziarie.

La Commissione europea ha anche annunciato un’ampia serie di azioni per assicurare che le misure fiscali che gli Stati membri devono adottare non siano ostacolate dalle regole del Patto di Stabilità e Crescita e dalla normativa sugli aiuti di Stato. Inoltre, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno annunciato un pacchetto di politiche che consentiranno agli Stati membri di utilizzare tutte le risorse disponibili del bilancio dell’UE e di beneficiare degli strumenti della BEI per combattere l’epidemia e le sue conseguenze.

Gli Stati membri dovranno fare la loro parte e garantire che il minor numero possibile di persone perda il proprio lavoro a causa della temporanea chiusura di interi settori dell’economia, che il minor numero di imprese fallisca, che la liquidità continui a giungere all’economia e che le banche continuino a concedere prestiti nonostante i ritardi nei pagamenti e l’aumento della rischiosità. Tutto questo richiede risorse senza precedenti e un approccio regolamentare che protegga il lavoro e la stabilità finanziaria.

Gli strumenti di politica monetaria della BCE dovranno pertanto essere affiancati da decisioni di politica fiscale di analoga audacia, come quelle che abbiamo iniziato ad assumere, col sostegno di messaggi chiari e risoluti da parte nostra, come leader nel Consiglio Europeo. 

Dobbiamo riconoscere la gravità della situazione e la necessità di una ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona. 

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia. 

Vi sono valide ragioni per sostenere tale strumento comune, poichè stiamo tutti affrontando uno shock simmetrico esogeno, di cui non è responsabile alcun Paese, ma le cui conseguenze negative gravano su tutti. E dobbiamo rendere conto collettivamente di una risposta europea efficace ed unita. Questo strumento di debito comune dovrà essere di dimensioni sufficienti e a lunga scadenza, per essere pienamente efficace e per evitare rischi di rifinanziamento ora come nel futuro.

I fondi raccolti saranno destinati a finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale.

Con lo stesso spirito di efficienza e solidarietà, potremo esplorare altri strumenti all’interno del bilancio UE, come un fondo specifico per spese legate alla lotta al Coronavirus, almeno per gli anni 2020 e 2021, al di là di quelli già annunciati dalla Commissione.  

Dando un chiaro messaggio di voler affrontare tutti assieme questo shock unico, rafforzeremmo l’Unione Economica e Monetaria e, soprattutto, invieremmo un fortissimo segnale ai nostri cittadini circa la cooperazione determinata e risoluta con la quale l’Unione Europea è impegnata a fornire una risposta efficace ed unitaria. 

Abbiamo inoltre bisogno di preparare assieme “il giorno dopo” e riflettere sul modo in cui organizziamo le nostre economie attraverso i nostri confini, le catene di valore globale, i settori strategici, i sistemi sanitari, gli investimenti comuni e i progetti europei. 

Se vogliamo che l’Europa di domani sia all’altezza delle sue storiche aspirazioni, dobbiamo agire oggi e preparare il nostro futuro comune. Apriamo pertanto il dibattito ora e andiamo avanti, senza esitazione. 

Firmato da

Sophie Wilmès, Primo Ministro del Belgio
Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese
Kyriakos Mitsotakis, Primo Ministro of Greece
Leo Varadkar, Primo Ministro of Ireland
Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Xavier Bettel, Primo Ministro del Lussemburgo
António Costa, Primo Ministro  del Portogallo
Janez Janša , Primo Ministro della Slovenia
Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna

 

PROSIEGUO

Paul de Grauwe, importante economista di origine belga sostiene che “senza coronabond l’intero progetto europeo scomparirà”. Per coronabond ovviamente bisogna intendere una qualche forma di mutualizzazione del debito indipendentemente dal nome che si voglia dare. Nel frattempo sembra che oggi ad aver silurato l’ipotesi sia stato Kurtz, il Cancelliere austriaco. Figuriamoci.
Gualtieri ripete come un disco rotto che “EU deve condividere rischi. Servono bond comuni”. Galtieri, mettiti l’anima in pace. Non c’è possibilità. E anche se i paesi del Nord Europa convergessero sull’ipotesi appena sarà chiara l’entità del disastro sarà evidente che si tireranno indietro. Io già lo dico da settimane: prepararsi all’impatto. L’Euro non si salva. Non è questione di se, ma di quando.

Sarebbe bene che si pensasse a salvare il salvabile. Che poi in questo caso sarebbe anche l’utile: Mercato Comune, iniziative culturali comuni e libera circolazione delle persone (al netto delle inevitabili restrizioni sanitarie). Salvare questi aspetti è importante al fine di minimizzare i rischi di guerra in Europa. Ripeto, ho detto minimizzare, non annullare. Il rischio c’è per i prossimi anni ed è legato purtroppo a dinamiche non europee.

PROTAGONISTI E COMPARSE

Io credo che il rigetto del documento finale del vertice dei capi di stato e di governo europei di oggi da parte dell’Italia sia un fatto davvero inedito. L’Italia è tradizionalmente il paese che più ha scommesso sul progetto europeo e adesso – in frangenti drammatici – fa ciò che che generalmente faceva la Gran Bretagna. La lettera divulgata stamane e firmata da nove paesi (Italia, Francia, Spagna, Lussemburgo, Belgio, Grecia, Portogallo, Irlanda e Slovenia) delinea chiaramente quella che è la linea di frattura interna all’UE:

👉 Mitteleuropa e Scandinavia capeggiate dalla Germania;
👉Paesi Latini, Mediterranei e anglosassoni capeggiati dalla Francia;

Politicamente il Trattato di Aquisgrana tra Germania e Francia è in pezzi. Ed è in pezzi perchè le condizioni reali pongono Parigi e Berlino su sponde opposte: la Francia, paese in grave difficoltà a causa di #Covid19 e con una situazione economico-finanziaria precaria chiede mutualizzazione del debito, Berlino paese con una situazione economico-finanziaria solida (almeno in apparenza, ma tanto da illudere i tedeschi di superare la crisi da soli) che non ne vuole sentir parlare.

Le due grandi capitali non si sono mosse in prima persona ma hanno lasciato che le seconde linee si scornassero. Austria e Olanda per i tedeschi e Italia e Spagna per i francesi.

Siamo ad un tornante della Storia d’Europa. Io credo che un accordo lo troveranno per questa volta. Ma quando sarà chiara l’entità del disastro economico ancora in corso secondo me la spaccatura definitiva sarà inevitabile. Salvare ciò che è giusto salvare (a partire dal Mercato Unico) non sarebbe sbagliato. Ritornare all’Europa dei primi del ‘900 non sarebbe interesse di nessuno.

Il gioco dell’oca, di Andrea Zhok

Sul Financial Times di una settimana fa è apparso un articolo cui è utile dedicare qualche riflessione (vedi estremi nei commenti).

https://amp.ft.com/content/b9dea3b6-3384-11ea-a329-0bcf87a328f2?__twitter_impression=true&fbclid=IwAR3GtZdXmuER3AtBlxH1Bz4aGW3DSJ9HWj_8gVMxgpuGDWFhheSuh0g2vXg

In sostanza vi si sostiene che:

1) L’Italia sta bloccando la firma del MES con specifico riferimento al regolamento bancario.

2) Il blocco per il presente governo avrebbe ragioni di ‘vendibilità politica’ presso l’opinione pubblica, ragioni che potrebbero essere rimosse di fronte a eventi politici che indebolissero l’opposizione (Lucrezia Reichlin, intervistata, cita esplicitamente una possibile vittoria del PD nelle prossime elezioni regionali).

3) L’oggetto fondamentale del contendere sono le limitazioni agli istituti bancari privati nel detenere titoli del debito pubblico. Va notato che tale possibilità è considerata dall’articolista del Financial Times come “un potere attraente per i governi di farsi finanziare il debito quando nessun altro sarebbe disponibile a farlo”. In altri termini il debito pubblico in pancia agli istituti privati viene visto – coerentemente con posizioni neoliberiste – come una comoda valvola di sfogo per i governi, che disporrebbero così di margini di spesa altrimenti inaccessibili e non sarebbero costretti alla piena ‘disciplina dei mercati’.
A questo proposito è utile sottolineare tre punti:

3.1) I titoli del debito pubblico, italiano e non solo, si trovano in grande quantità in possesso di istituti bancari privati perché così era concepito il sistema del Quantitative Easing (LTRO e TLTRO): la concessione di credito facile da parte della BCE avveniva rigorosamente solo al sistema bancario privato, che lo usava per acquistare titoli di stato, come collaterale. Non si trattava dunque di un ‘trucco’, ma di un’operazione concepita per funzionare esattamente in quel modo e di cui si conosceva perfettamente l’esito.

3.2) Incidentalmente il QE serviva a tappare i buchi creati dalla crisi subprime e dai suoi postumi, crisi creata non da ‘governi dalla spesa facile’, ma dai mercati finanziari, quelli che poi sarebbero chiamati a bacchettare severamente gli stati per ‘disciplinarli’.

3.3) Togliere quello che il FT presenta come una sorta di ‘privilegio dei governi’, e dunque obbligare il sistema bancario italiano a disfarsi di parte significativa dei titoli di stato in suo possesso significa simultaneamente mettere in ginocchio il sistema bancario italiano, e devastare l’equilibrio finanziario dello stato, obbligando quest’ultimo ad un’operazione austeritaria rispetto a cui il governo Monti sembrerà un Luna Park.

4) La posizione sostenuta anche da Ignazio Visco (non da Che Guevara) che tali limitazioni all’esposizione bancaria in titoli di stato sarebbero sopportabili dal sistema italiano solo con l’istituzione di ‘eurobond’ (cioè di una corresponsabilità sui debiti pubblici a livello europeo) non è neppure lontanamente presa in considerazione, per la semplice ragione che sono “anatema” per Germania e paesi satellite del Nord Europa. Questo ci ricorda quanto contino le frasette “vogliamo un’Europa diversa”, e “cambieremo l’Europa dall’interno”.

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A questo punto qualcuno dovrebbe chiedere al presente governo di prendere una ferma ed inequivoca posizione, negando solennemente che la firma del MES, con quelle clausole, sia all’ordine del giorno nel caso di una sconfitta di Salvini alle regionali (con conseguente consolidamento della durata del governo).

In mancanza di chiare garanzie su questo punto, la cui portata è potenzialmente drammatica, bisognerà prendere dolorosamente atto che gli italiani – almeno quelli consapevoli – vengono spinti a forza nelle braccia di Salvini.

PROSPETTIVE, di Andrea Zhok

PROSPETTIVE

Di fronte alla prospettiva di un possibile default italiano, indotto dal combinato disposto delle modifiche del MES, c’è chi si chiede se i paesi che guidano questa riforma (Germania e Francia) non siano consapevoli che un default italiano sarebbe una catastrofe che porterebbe con sé anche i sistemi bancari altrui.

Su questo punto però c’è un equivoco che bisogna sfatare. Si trova spesso come argomento consolatorio l’idea che l’Italia è ‘too big to fail’. E questo è tecnicamente vero. Nessuno infatti ha interesse a vedere un default incontrollato dell’Italia, che metterebbe in crisi con effetto domino tutti i sistemi finanziari connessi.
Però la minaccia di un default unilaterale e senza paracadute sarebbe una minaccia effettiva solo se gestita autonomamente dall’Italia in una trattativa, alle proprie condizioni (e, naturalmente, se a gestirla ci fossero persone tecnicamente e diplomaticamente assai capaci, il che rende al momento questa trattativa del tutto implausibile).

Non è questa la prospettiva, e la riforma del MES indica già proprio le condizioni che si prevedono come desiderabili a livello UE per un ‘default controllato’.

La prospettiva che viene presa in considerazione come scenario desiderabile è quella in cui si procede ad alcuni ‘haircut’ circoscritti sui titoli del debito pubblico, sottoponendo simultaneamente il paese a rigide condizionalità.

Queste condizionalità devono indurre il paese che vi è soggetto a privatizzare tutto il patrimonio pubblico che c’è ancora da privatizzare, e a svendere le parti più interessanti del patrimonio privato connesso alla produzione (banche innanzitutto).

Gruppi come Leonardo-Finmeccanica, e le maggiori banche italiane sarebbero i primi a cadere, seguiti dalla delega dello sfruttamento estensivo del patrimonio ambientale e culturale.

Nel caso qualche anima bella ritenga che questa prospettiva sia troppo maligna, che i ‘fratelli tedeschi e francesi’ mai sarebbero così inclementi, ricordo che questo è esattamente quanto è successo, su scala minore, con la Grecia. (Solo che lì hanno imparato strada facendo, mentre ora la riforma del MES vuole disporre tutto in modo regolamentato a monte.)

In Grecia non c’è stato alcun default incontrollato (che avrebbe effettivamente coinvolto istituti bancari francesi e tedeschi). Si è invece proceduto a uno ‘haircut’ controllato e dilazionato, con allungamento dei tempi di restituzione dei prestiti, ed erogazioni centellinate quanto bastava per consentire al paese di ‘mantenere i propri impegni’, cioè di continuare nelle interazioni economiche più proficue con l’estero.
Ma tutto ciò avveniva sotto rigorosissime condizionalità, che hanno ristretto il settore pubblico greco ai minimi termini, e che hanno costretto a privatizzare tutti gli asset maggiormente produttivi, come il sistema aeroportuale e il porto del Pireo, oggi gestiti da compagnie straniere.

Il simpatico effetto collaterale di questa strategia è che oggi anche quando il Pil greco nominalmente cresce (e sui nostri giornali ci spiegano che la Grecia è ‘uscita dal tunnel’), comunque la maggior parte dei ricavi sono immediatamente veicolati su banche estere, ai gestori, contribuendo in maniera irrisoria a un miglioramento delle condizioni di vita dei Greci.

Il modello che abbiamo di fronte non è dunque quello del ‘crollo’, ma quello del saccheggio legalizzato, alla fine del quale resta il simulacro di una nazione, con la sua bandieretta e l’inno, ma di fatto ridotta ad un protettorato economico privo di ogni margine di reale indipendenza.

YES, WE MES

Come notava un amico c’è chi dice che il MES dopo tutto non è che una specie di assicurazione.

Bene così, se si vuol giocare al gioco delle semplificazioni, facciamolo.

Il MES, come emergerebbe nelle formulazione recentemente emendata, sarebbe un po’ come un’assicurazione sulla casa.

Un’assicurazione un po’ speciale, però.

L’assicurazione MES è un’assicurazione assai costosa (14 miliardi già versati, 125 miliardi di possibile versamento futuro).

Beh, però ne varrà la pena, no?

Dunque, vediamo. Se un meteorite mi distrugge la casa, un’assicurazione qualunque mi ripagherà di norma almeno i costi di ricostruzione.

Non l’assicurazione MES, però.
Essa può decidere insindacabilmente se conferirmi il premio dell’assicurazione oppure no.
(La decisione ultima è stata tolta alla Commissione, in modo da non subire pressioni, ed è affidata direttamente ai funzionari del MES, le cui decisioni non devono rispondere a nessuno, neanche legalmente, e non sono messe a conoscenza all’esterno.)

Ma non basta.
Nel caso decidesse di conferirmi il premio, poi, la nostra munifica assicurazione marca MES ci richiede preventivamente e inderogabilmente di vendere la macchina, le scarpe e un rene.
(La precondizione per l’accesso all’aiuto è una ristrutturazione automatica del debito, cioè un default).

Arrivati a questo punto, sono all’addiaccio, a piedi, scalzo e con un catetere. Si potrebbe sperare che finalmente la mia assicurazione mi erogherà l’agognato premio?

Beh, non precisamente.

A questo punto essa – ma proprio perché siamo noi, eh! – ci concederà un magnifico PRESTITO, in piccole comode rate, per ricostruirmi un muro qua e uno là, che poi Dio vede e provvede.
Ma beninteso, un prestito a interessi convenientissimi!

Ecco, ora se qualcuno si sente attratto da una simile compagnia di assicurazioni, lo prego gentilmente di contattarmi in privato.

Avrei giusto da vendergli una splendida fontana storica in piazza di Trevi a Roma.

Un affarone, giuro.

tratto da facebook

Il re è nudo, ma…, di Giuseppe Germinario

Il re è nudo, ma non tutti ancora lo vedono. Qui sotto la conferenza stampa tenuta due giorni fa da Matteo Salvini, presente lo stato maggiore della Lega, a proposito dell’adesione dell’Italia al MES. Una esposizione di insolita chiarezza nel panorama politico italiano. Gli autori del sito hanno più volte espresso valutazioni severe e critiche sull’operato del precedente Governo Conte e sull’apertura e gestione della crisi di governo. L’insieme delle politiche di quel Governo, a cominciare dalla politica estera per finire con la politica economica e con la gestione delle politiche industriali, sono state segnate dal trasformismo e da una concezione dell’azione politica meramente elettoralistica, inadeguata rispetto al contesto geopolitico. La crisi dell’ILVA è uno degli esempi di tale condotta. Come si fa ad affidare un settore strategico ad una multinazionale franco-indiana, parte integrante di strategie geopolitiche e geoeconomiche opposte e ostili all’interesse nazionale? La vicenda del MES svela un altro aspetto particolarmente amaro: la collocazione geopolitica e la condotta sugli aspetti fondamentali e portanti di questa collocazione tende ad andare al di là delle intenzioni delle forze politiche; muove forze, punti di vista ed interessi annidati in prassi, routine e strutture dei centri decisionali ed istituzionali difficili da fronteggiare. Pare evidente che una parte della classe dirigente si stia allarmando e svegliando pur tardivamente e in maniera goffa. La conferenza stampa e gli allegati inseriti aprono squarci alla consapevolezza inusuali_Giuseppe Germinario

https://www.esm.europa.eu/legal-documents

 

RendiConte e resa (si spera) dei Conte, di Alberto Bagnai_ titolo a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto due post dell’onorevole Alberto Bagnai particolarmente interessanti in quanto illustrano le modalità ed i vincoli che il Presidente Conte avrebbe dovuto osservare durante la fase di trattativa riguardante il MES. Siamo ad un punto cruciale nel quale il re appare nudo. Vedremo se ci sarà qualche bambino in grado di dirlo ed una reazione sufficiente a delegittimare l’impostura e farlo decadere con ignominia.

Una piccola chiosa: non avrebbe potuto essere questo uno dei momenti più opportuni per aprire le ostilità ed eventualmente far cadere il primo Governo Conte?_Giuseppe Germinario

https://goofynomics.blogspot.com/

Ratifica

Avrei preferito andare un’oretta in palestra, anziché dedicarla a insultare la vostra intelligenza. Tuttavia, l’ameno dibbbattito su Twitter mi lascia intendere che c’è del vero nelle querimonie piddine sull’analfabetismo funzionale. Evidentemente, il vostro non sapere come funziona è talmente pervasivo che contamina di sé anche il lessico, sovvertendo il senso delle parole, che, di per sé, basterebbero a descrivere, e rendervi quindi pienamente intelligibile, la realtà dei fatti. Potevo aspettarmelo? Sì. Siete decine di migliaia, e conosco personalmente svariate centinaia di voi. Non ne ho trovato uno che abbia chiaro che cosa sia la bilancia dei pagamenti (ogni riferimento a Nat è puramente intenzionale), nonostante gli sforzi qui profusi per spiegarvene sia il meccanismo che la rilevanza (la crisi dell’Eurozona è una crisi di debito estero, cioè di bilancia dei pagamenti, e il dibattito di questi giorni, quello sul MES, ne è in qualche modo la conferma definitiva…). Eppure la bilancia dei pagamenti è una cosa semplice: se entrano soldi nel Paese, il segno è positivo, se escono dal Paese è negativo. Ma… ggnente!

Certe volte mi chiedo perché siate così tanti a seguirmi e così pochi a capirmi. La risposta che mi do è che probabilmente intuite, dietro al mio sforzo (vano) di farmi capire una virtù un po’ démodé: l’amore per il prossimo (anche per chi non capisce la bilancia dei pagamenti: so di non capire tante cose anch’io), e quello per il Paese, condite con una sorta di illuministica fiducia nelle virtù della ragione e della ragionevolezza umana, e quindi della democrazia. Per motivi che non riesco a capire, sapere che qualcuno ancora ci crede vi rassicura e vi appaga.

Male!

Non dovrebbe appagarvi: dovreste anche studiare (almeno, Gramsci la pensava così).

E allora, provo a spiegarvi una cosa che evidentemente, a giudicare dal dibbbattito, sfugge: stranamente, i trattati intergovernativi vengono negoziati dai governi.

So che può sembrare paradossale, misterioso, so che questo concetto rinvierà nelle menti di molti di voi a oscuri complotti, a Bilderberg, o ai rettiliani (ma anche a Nibiru). Invece è solo etimologia: “inter” non è una squadra di calcio (la squadra è l’Inter, con la maiuscola), ma una preposizione latina che significa “tra”. I Trattati intergovernativi quindi sono trattati tra governi, il che significa che chi li negozia sono i… rettiliani? Bilderberg? La Trilaterale? La Spectre? No: i governi.

Ci siamo fino a qui?

Bene.

Rinuncio a spiegarvi cosa sia un Governo (appellandomi alla prima legge della termodidattica: “Ci sono cose che se potessero essere capite non andrebbero spiegate”).

Facciamo un passettino avanti, volete?

Perché mai ai Governi viene in mente di fare un negoziato? Chi li legittima a farlo?

Mettetevi nella testa di un grillino, per dire. Diventi ministro, accedi al potere: il tuo primo pensiero ovviamente è godere dei privilegi della casta, e abbandonarti insieme alla cricca alle mollezze della corruzione. Questa è la loro visione della politica: una visione che li qualifica (pensa male chi l’ha nel cuore) e che però non quadra col fatto di svegliarsi alle cinque di mattina per prendere un aereo e andare a Bruxelles dove i fratelli europei ti chiudono in una stanza e ti ci tengono finché non gli dici di sì, alle cinque della mattina dopo! I Governi non negoziano Trattati per sport o per prescrizione del medico (che probabilmente consiglierebbe attività meno malsane), ma in virtù di un mandato conferito loro direttamente o indirettamente dal Parlamento, che a sua volta è eletto dal popolo, che sareste (molto evidentemente a vostra insaputa) voi.

Certo, una volta i negoziati erano più diretti: se un popolo voleva qualcosa da un altro, andava in massa a chiederglielo. Sono quelle che i libri di storia una volta chiamavano invasioni barbariche, e che ora nei libri di testo degli accoglioni si chiamano migrazioni (Enea era un migrante, quindi anche Attila…). Viceversa, non credo che sia mai successo che un intero parlamento si sia spostato per negoziare qualcosa! Evidentemente, però, su Twitter c’è qualcuno che pensa che le cose funzionino così (sono tutti quelli che con accorati accenti ci chiedono di fare “qualcosa”, o di fare “di più”). Tanto per esser chiari: a noi è sempre apparso evidente che il precedente Governo non ne volesse sapere mezza di essere fedele al mandato conferitogli (come ha detto Molinari in aula: loro sapevano di essere un governo espresso da una maggioranza “sovranista”, ma ovviamente facevano finta di non saperlo), tant’è vero che prima di sfiduciarlo ci siamo anche posti il problema se fosse tecnicamente possibile affiancare le delegazioni italiane con esponenti della maggioranza parlamentare. Non è tecnicamente possibile: a negoziare ci va il Governo.

Riassumo: i trattati fra Governi li fanno i Governi.

Mi fate una cortesia? Tornate su di un rigo e rileggete tre o quattro volte, poi andiamo avanti.

Ora, siccome anche in un sistema che, a differenza di quello europeo, non abbia fatto del waterboarding il suo principale strumento di mediazione politica, i Governi, nel negoziare un Trattato, possono avere mille e un motivo, lecito o illecito, per deviare dal mandato che il Parlamento gli ha direttamente o indirettamente conferito, in pressoché tutti gli ordinamenti è previsto l’istituto della ratifica parlamentare (vi esorterei a leggere il significato sul vocabolario).

Quindi, ricapitolando. Voi eleggete il Parlamento, che dà la fiducia al Governo, e che poi gli conferisce un mandato a negoziare (tecnicamente, un simile mandato viene conferito con un atto di indirizzo definito risoluzione). Il Governo negozia, poi firma il trattato, poi torna a casa e lo presenta al Parlamento, che a quel punto, se lo trova conforme all’interesse del Paese, lo ratifica.

Ci siamo? Tutto chiaro?

Bene.

Per maggiore chiarezza, vi esorterei, anzi, vi scongiurerei di leggere gli articoli dal 4 al 7 della Legge 234 del 2012 (legge Moavero).

Leggeteli ora, se li avete già letti rileggeteli, se non li avete letti non venite a seccarmi con astruse teorie: a ogni giorno basta la sua pena e chi non si documenta non è previsto nel menù.

La legge Moavero venne concepita dopo l’approvazione di MES e Fiscal compact (avvenuta a luglio 2012), proprio come reazione a un certo scontento che perfino lo stesso PD provava per la porcata fatta (ci sono tante brave persone anche là dentro). L’articolo 5, che prevede un obbligo di informativa rafforzata in caso di trattati in ambito monetario e finanziario, è una chiara conseguenza di questo disagio. Leggendolo vedi in filigrana la sigla MES.

Questo è come funzionano le cose in teoria: la dinamica mandato parlamentare-negoziato intergovernativo-ratifica in Italia è normata, per quanto attiene alle sedi europee (ma in caso di trattati monetari o finanziari anche al di fuori da queste sedi) da una specifica legge.

E ora veniamo alla pratica.

In pratica, l’unico dispositivo di questa legge applicato coerentemente è il primo periodo del primo comma dell’art. 4: “Prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, il Governo illustra alle Camere la posizione che  intende  assumere,  la quale tiene conto degli eventuali indirizzi dalle  stesse  formulati.” Mi riferisco alla mesta liturgia delle comunicazioni del premier al Parlamento prima del Consiglio Europeo (quello dei capi di Stato e di Governo), liturgia che si svolgerà la prossima volta l’11 dicembre in vista del Consiglio del 12. Trattandosi di comunicazioni, e non di informativa, è previsto che dopo il discorsetto del premier (dimo, famo, faremo, ecc.) ci sia, oltre a una discussione generale, anche il voto di una risoluzione (che non ci sarebbe nel caso di informativa). Il secondo periodo del primo comma (“su loro richiesta,  esso  riferisce  altresì  ai  competenti  organi parlamentari prima delle riunioni del Consiglio dell’Unione  europea”) non era mai stato applicato prima che arrivassi io (a testimonianza del grande interesse dei piddini per l’Europa), e il terzo periodo (“Il Governo informa i competenti organi parlamentari sulle  risultanze delle riunioni del Consiglio  europeo  e  del  Consiglio  dell’Unione europea, entro quindici giorni dallo svolgimento delle stesse”) non è altresì mai stato applicato, perché è sì vero che sono riuscito, dopo estenuanti negoziati, ad avere un paio di volte Tria in Commissione dopo l’Ecofin, ma è anche vero che non sarei stato io a doverlo chiamare, ma lui a venire: “il Governo informa”, dice la legge, non “il presidente dell’organo parlamentare competente, facendo ricorso a una enorme dose di pazienza e profondendosi in lusinghe, supplica il Governo di concedergli l’insigne e immeritato favore di informarlo su quali impegni vada prendendo alle spalle degli italiani in giro per l’Europa”.

Chiaro?

Questo è il primo punto: intanto, se ora c’è un dibattito su questa roba qui è perché qualcuno si è impuntato a seguire le regole. Apro e chiudo una parentesi: e io che ne sapevo, di queste regole? Niente, ovviamente, non essendo un esperto di diritto parlamentare. E allora? E allora sono degli europeisti convinti che hanno attirato la mia attenzione su di esse. Bisogna parlare con tutti, ed esistono anche europeisti in buona fede (probabilmente esistono anche degli oceanisti, o degli antartidisti, in buona fede, ma ancora non ne ho incontrati).

Secondo punto: per un parlamentare è tecnicamente impossibile sapere quale sia l’iter di una trattativa in Europa. Tanto per essere chiari, noi presidenti di Commissione non riceviamo le relazioni e le note informative predisposte dalla Rappresentanza e menzionate al comma 3 dell’articolo 4 (più precisamente: questi documenti in qualche caso arrivano in Parlamento e giungono – credo – alla mia Commissione, ma sotto vincoli di riservatezza strettissimi che, a quanto capisco, comportano l’obbligo di consultarli solo presso la Presidenza di Commissione, e non possono essere citati nei resoconti di seduta). Inoltre, delle riunioni svolte nelle sedi europee, e in particolare dell’Eurogruppo, non esistono verbali: non si può sapere, se non de relato dalla Rappresentanza nel caso in cui un’anima buona ti mandi le note informative, quali siano le posizioni espresse dal nostro Governo, non ci sono votazioni formali, non ci sono né resoconti sommari né tanto meno stenografici.

Quindi, in sintesi: delle riunioni dell’Eurogruppo, dove si decide, non si sa nulla. Delle riunioni dell’Euro working group, che è in qualche modo il preconsiglio, quello dove si fissano i dettagli tecnici delle decisioni da prendere, si sa meno di nulla. Delle riunioni dell’Ecofin, che viene a valle dell’Eurogruppo, ed è quello dove ci si fa la foto di gruppo, si sanno le scemenze dette in europeese nei comunicati stampa: “la sfida ambiziosa, i significativi progressi, ecc.”, senza che sia mai ben chiaro quando si è firmato cosa o comunque chi abbia preso quale impegno.

Questa mancanza di trasparenza non è lamentata solo da Bagnai: se vi andate a vedere i lavori delle conferenze interparlamentari, vedrete che tutti lamentano la mancanza di trasparenza dell’Eurogruppo.

Terzo punto: in tutta evidenza il Governo precedente ha disatteso completamente la Legge Moavero. Il considerando 5A della bozza di revisione del Trattato chiarisce che in Europa se ne è cominciato a parlare all’Eurogruppo di dicembre 2018. Secondo la legge Moavero, qualcuno sarebbe dovuto venire in aula a spiegarci che cosa si stesse per fare. Se lo ha fatto, nessuno se ne è accorto. Non mi ricordo se a quell’epoca conoscessi già la legge Moavero. Quello che so è che stavo lottando contro il muro di gomma dei soliti noti per difendere le banche di credito cooperativo da un destino evitabile, riuscendoci solo in parte (ma una parte significativa): purtroppo, noi siamo pochi e loro sono molti. Dietro a tutto non si può stare.

E veniamo al punto in cui siamo ora. A quanto pare di capire, la riforma del MES non è stata ancora siglata. Non è invece chiaro se il governo si sia attenuto all’impegno preso il 19 giugno 2019 (quindi non “tempestivamente”, come vorrebbe la legge) a:

“non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale; a promuovere, in sede europea, una valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell’Unione economica e monetaria – la riforma del trattato del Meccanismo europeo di stabilità (MES), dello Schema europeo di garanzia sui depositi (EDIS), e del budget dell’area euro -, riservandosi di esprimere la valutazione finale solo all’esito della dettagliata definizione di tutte le varie componenti del pacchetto, favorendo il cosiddetto “package approach”, che possa consentire una condivisione politica di tutte le misure interessate, secondo una logica di equilibrio complessivo; a rendere note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato.”

Ci sono due passaggi parlamentari prima della riunione in cui la riforma dovrebbe essere approvata da Conte in sede europea: uno è l’affare assegnato in merito all’A.S. 322 (proposta di modifica del MES), che prevede, in fase istruttoria, l’audizione del ministro Gualtieri mercoledì prossimo, prima dell’Eurogruppo del 4 dicembre (dove si prendono le decisioni). Poi ci sono le già citate comunicazioni del premier Conte l’11 dicembre prima del Consiglio Europeo del 12 (dove si firmano le decisioni).

A quanto pare di capire, a quel punto saremmo arrivati alla fase “il Governo firma il Trattato” (avendo sostanzialmente eluso, o comunque non attivato tempestivamente, la fase “il Parlamento conferisce un mandato”).

Ad oggi non sappiamo se il Governo firmerà, perché la sua maggioranza è divisa su questo, essendo composta da un partito che il MES voleva liquidarlo, e da un partito che il MES lo ha invece fortemente voluto.

Poi, certo, resterà la fase “il Parlamento ratifica”.

Se state seguendo il ragionamento, dovreste capire quali siano le criticità di arrivare alla fase “ratifica”.

Intanto, una mancata ratifica è equivalente, in termini politici (non in termini procedurali) a un voto di sfiducia. Il Governo, certo, non è obbligato a dimettersi, ma se su un Trattato così importante viene sconfessato dal Parlamento, è chiaro che per non prenderne atto occorre portare la faccia di bronzo a un livello ancora superiore rispetto a quello dimostrato finora (a partire da quando il partito di maggioranza relativa abbandonò l’aula in occasione delle comunicazioni sulla TAV).

Poi, si crea un problema a livello internazionale, perché giustamente i partner europei (quelli del waterboarding) potrebbero legittimamente porsi delle domande sull’attendibilità di un Paese che manda un Governo a dire una cosa quando evidentemente il Parlamento ne pensa un’altra. Non sono un grande fan dell’argomento “in Europa dobbiamo essere credibbbili” (a renderci tali basta un qualsiasi museo diocesano), ma è indubbio che, mettendosi nei panni della controparte, avere una posizione e mantenerla (o modificarla per chiari e giustificati motivi) è essenziale perché negoziare abbia un senso. Un Governo che venisse sconfessato dal proprio Parlamento in Europa non verrebbe guardato con gli stessi occhi. Va anche detto che se la sarebbe cercata! Dopo aver visto come vengono trattati i Parlamenti (con la tecnica del mushroom management), le lamentele dei diversi funzionari che ho incontrato circa il fatto che “eh, noi abbiamo fatto il possibile, ma da Roma non ci arrivavano segnali chiari…” mi sembrano molto meno credibili: è un dato di fatto che alcuni di quelli che mi hanno fatto questo discorso sono poi gli stessi che mi hanno impedito di leggere un testo che, peraltro, avevo già letto per altre vie, impedendomi cioè di acquisire gli elementi necessari per fornire loro quei segnali della cui mancanza si lamentavano!

La sede per fare un sano gioco delle parti fra Parlamento e Governo quindi non è la ratifica, ma il negoziato, cioè l’Eurogruppo. In quella sede i paesi civili mandano ministri in grado di dire ai loro pari: “cari amici, quello che mi proponete è tanto bello, vi sono sinceramente grato dell’aiuto che volete dare alle vostre nostre banche, ma purtroppissimo il Parlamento da noi è sovrano come da voi, e io non ho mandato a concludere prima di ulteriori approfondimenti sul pacchetto che forse è un pacco”.

La Germania lo fa sistematicamente: perché noi no?

Mistero.

Sono quasi nove anni che ci poniamo questa domanda: non siamo riusciti a trovare la risposta, e forse non la troveremo mai. Intanto, ripetete con me: gli elettori eleggono il Parlamento, che dà un mandato negoziale al Governo, che conclude un Trattato, che il Parlamento è chiamato a ratificare.

E ora ripetetelo senza di me, e cercate di ricordarvi a che punto di questa storia siamo. Io vado ad occuparmene.

domenica 24 novembre 2019

Per farvi capire come funziona…

Come sapete, al termine di una lunga e faticosa trattativa con il dottor Conte, prima che questi si trasformasse nel signor Giuseppi, ero riuscito, col sostegno di autorevoli esponenti del Movimento 5 Stelle, a fargli prendere l’impegno di trasmettere alle Camere la proposta di modifica del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità. Di questa riforma, come già del Trattato, nulla si doveva sapere, e coerentemente, come vedete, i giornali fanno il possibile per ignorare la notizia. Tuttavia, visto che ora purtroppo in applicazione della Legge Moavero, che qualcuno ha testardamente cercato di riportare in vita, se ne dovrà parlare, sul sito del Senato finalmente trovate i testi in questa pagina.

Giusto così, per farvi capire come funziona: se cliccate sul primo link ottenete un documento in italiano che reca le sole proposte emendative, cioè le modifiche apportate alle singole parti del trattato originale, esposte con la tecnica del rinvio. Naturalmente, lette così, senza coordinarle col testo originale, molte modifiche non sono di immediata comprensione. Se invece cliccate sul secondo link ottenete un documento in inglese, inizialmente rubricato come A.S. 322, ora A.S. 322-bis, che reca il testo del Trattato come modificato dagli emendamenti proposti (o approvati? Questo non è chiaro). Insomma: quello che in italiano si chiamerebbe un “testo coordinato”. Naturalmente, se non si conosce a memoria il trattato, risulta difficile individuare nel testo coordinato quali siano le innovazioni.

Affrettandomi a dire che in questo i funzionari della mia Commissione non c’entrano nulla (il testo in inglese fu trasmesso dal ministro Tria mentre scoppiava la crisi di governo, cioè quando lui pensava che ormai nessuno potesse metterci la testa, quello in italiano inviato pochi giorni fa dal ministro Gualtieri), si potrebbe maliziosamente pensare che qualcuno stia facendo di tutto per impedire una lettura agevole del Trattato di cui non si deve parlare! Si potrebbe anche ironizzare sulle due strategie seguite per confondere le idee nella testa dei parlamentari, che di tempo per lo studio ne hanno poco, purtroppo: al Nord, dare un testo che fila, nella cui scorrevolezza le più insidiose fra le modifiche rischiano di passare inosservate; al Sud, dare i soli emendamenti, destinati a restare criptici se avulsi dal contesto.

In termini sostanziali, poco male. Chi segue il dibattito non ha certo bisogno di leggere i testi per sapere di che cosa si tratta: la sostanza era già nell’editto di Meseberg! E poi, volendo, il Senato ha ottimi uffici studi dove si lavora a predisporre testi a fronte.

Tuttavia, in Parlamento anche la forma è sostanza.

Supponiamo che qualcuno voglia discutere formalmente il testo ed evidenziare quali siano le sue novità, per poi discuterle. Bene, una di queste, come sapete, è la possibilità di usare il MES come common backstop (dispositivo di sostegno comune) al Fondo di risoluzione unico (chi non sa che cosa sia, trova qui una spiegazione). Proprio per questo, cioè perché entra in materia di salvataggi bancari, mi è stato possibile chiedere l’assegnazione del documento alla mia Commissione. Senza entrare nei dettagli, vi faccio osservare una cosa. Nel testo coordinato inglese, questa innovazione è introdotta nel comma 2 dell’art. 12. Negli emendamenti (in italiano) la stessa modifica è rubricata come comma 1-bis. Diverse tecniche legislative, o forse, chi sa, magari anche un diverso testo, perché nonostante il dottor Conte avesse promesso di aspettare che il Parlamento si esprimesse, il signor Giuseppi certamente ha lasciato che le cose andassero avanti: tanto poi arriva dicembre, la finanziaria, le vacanze di Natale, il Trattato passa e buonanotte! Certo, in altri Parlamenti sarebbe andata a finire così, non lo metto in dubbio. Ora le cose sono un po’ cambiate. Mi dispiace…

Tuttavia, al di là dell’attenzione che cerchiamo di mettere in quanto succede, il punto è che se un parlamentare italiano volesse dire che questa cosa gli sta, o non gli sta, bene, allo stato dell’arte, cioè data la disinvoltura con cui i Governi trattano il Parlamento, gli sarebbe materialmente impossibile farlo in modo preciso. Cosa mettiamo a verbale? Il dissenso (o consenso) con il comma 2 o con il comma 1.bis?

Bene. Credo che abbiate capito come funziona. Tatticucce, mezzucci… Provano a prenderti per sfinimento, asserragliati come sono nella prima classe del Titanic, dove, a giudicare da certe dichiarazioni, mi sembra che si cominci a sentire un po’ di umidità (l’accordatura dell’orchestrina ne risente). Ma mentre è indubbiamente possibile fermare un transatlantico con un iceberg (abbiamo esempi), ritengo altamente improbabile fermare la Storia con le mani: non possono riuscirci loro, e, naturalmente, non possiamo riuscirci nemmeno noi.

Mantenete la calma e state saldi.