Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia, di Bernard Lugan

Due vicende ormai lontane tra loro. Il massacro di Gheddafi e la distruzione dello stato libico nel 2011; il pressante invito della giunta militare del Mali alle truppe francesi di abbandonare immediatamente il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui si tiene a Ginevra, con qualche ironia della sorte, la conferenza congiunta tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Non siamo alla conclusione di una parabola, ma ci siamo ormai vicini. L’avventura libica avrebbe voluto essere l’atto di affermazione di un nuovo ruolo assertivo della Francia in Africa Settentrionale. Erano ben altre le forze in azione dietro le quinte. Ha innescato una dinamica che al contrario sta accelerando e sancendo il ridimensionamento definitivo della Francia e delle sue ambizioni neocoloniali in quell’area. In un ultimo sussulto teso a difendere i propri caposaldi, ha cercato di coinvolgere altre forze europee, in particolare italiane e tedesche, nell’avventura. Come in altre occasioni, il nostro ceto politico, privo di ogni respiro strategico e di una qualche cognizione di interesse nazionale, si è accodato supinamente a queste scelte, dilapidando ulteriormente il patrimonio di credibilità e di rispetto guadagnatosi per due decenni a partire da Mattei. L’ennesima svolta che sta maturando in Libia, con il probabile avvicinamento della Turchia all’Egitto, se a buon fine, sancirà l’estromissione definitiva dell’Italia da quell’area così prossima con tutte le nefande conseguenze che ne deriveranno; ma anche per la Francia, con il suo ruolo di mosca cocchiera nell’avventura libica, si prospetta una sorte simile, visto il suo progressivo arretramento anche in Algeria e gli esiti incerti in Tunisia. Tra Ucraina e Nord-Africa la tenaglia che stringe l’Europa amorfa, vittima accondiscendente dell’avventurismo statunitense, si stringe in una morsa ormai destabilizzante lo stesso continente. Giuseppe Germinario

Venerdì 18 febbraio 2022, la giunta militare al potere a Bamako ha chiesto che la partenza delle forze “Barkhane” avvenisse immediatamente, e non per tappe, come aveva annunciato il presidente Macron. Come siamo arrivati ​​a una tale situazione ea una tale rottura?

Come dico e scrivo da anni, soprattutto nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini al presente , in Mali i decisori francesi hanno sommato gli errori derivanti da una falsa analisi consistente nel vedere il conflitto attraverso il prisma dell’islamismo. Ma qui l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etnorazziali millenarie che nessun intervento militare straniero è stato per definizione in grado di chiudere.

Inoltre, in un momento in cui sempre più africani rifiutano la democrazia in stile occidentale, la Francia si sta, al contrario, rafforzando questa ideologia vista in Africa come una forma di neocolonialismo. Più che mai, i vertici francesi sarebbero stati quindi ispirati a meditare su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne troveranno qualcosa per trarne vantaggio”… uno parola, il ritorno al vero africano e non l’incantesimo a ideologie appiattite.

Questa è la grande spiegazione di questo nuovo fallimento francese in Africa. Per non parlare del concreto rifiuto di mettere in discussione semplicemente le argomentazioni della giunta maliana. Immediatamente messa alla berlina da Parigi, che non le ha lasciato alcun margine di manovra, quest’ultima è stata automaticamente costretta a una corsa massimalista a capofitto per non perdere la faccia. I piccoli marchesi che plasmano la politica africana della Francia dovrebbero però sapere che in Africa la priorità assoluta quando si entra in contenzioso è non far perdere la faccia al proprio interlocutore. Ma questo non si può imparare a Science-Po…

Infatti, dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta in Mali, Emmanuel Macron ha letteralmente strangolato il Mali economicamente imponendo sanzioni del tutto inopportune e improduttive a questo Paese, che hanno finito per opporre l’opinione pubblica maliana alla Francia.

Accecato dal suo presupposto democratico, Emmanuel Macron non vedeva che il colpo di stato del colonnello Goïta era un’occasione di pace. Poiché questo Minianka, ramo minoritario del grande gruppo Senufo, non ha contese storiche con i Tuareg e i Fulani, i due popoli all’origine del conflitto, potrebbe quindi aprire un discorso di pace attorno a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale, così che Tuareg e Fulani non sono più automaticamente esclusi dal gioco politico dalla democrazia, che è diventata una semplice etnomatematica elettorale.

Al contrario, accecati dal loro imperativo democratico, dall’ideologia dei “diritti umani”, del “buon governo” e dello “stato di diritto”, tutte nozioni almeno localmente surreali, i leader francesi hanno considerato l’apertura di negoziati tra Bamako e alcuni gruppi armati del nord come provocazione. Mentre l’operazione sarebbe stata del tutto proficua perché avrebbe consentito di chiudere il fronte settentrionale per concentrare le risorse di Barkhane nella cosiddetta regione dei “Tre Confini”.

Frutto della reazione francese, presa per la gola, la giunta si lanciò in una corsa a capofitto consistente nell’adulare la propria opinione pubblica designando la Francia come capro espiatorio. Questo spreco ha anche permesso alle élite locali che hanno sistematicamente saccheggiato il Mali di nascondere sei decenni di corruzione, appropriazione indebita, incapacità politica, in una parola, incompetenza. Risultato, dopo la Repubblica Centrafricana, la Francia si vede “espulsa” dal Mali mentre i suoi soldati vi sono caduti per garantire l’incolumità delle popolazioni abbandonate dal proprio esercito…

L’altro grande errore francese è non aver fatto la differenza tra i vari gruppi armati. Dal 2018 al 2019, l’intrusione del DAECH attraverso l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha cambiato profondamente i fatti del problema. E’ scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di appartenere al movimento di Al-Qaeda, accusandoli di favorire l’etnia a spese del califfato. Parigi poi non ha visto, mentre io non ho smesso di inviare note ai funzionari interessati, che i due principali leader etnoregionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero il tuareg ifora Iyad Ag Ghali e il Fulani Ahmadou Koufa, leader del Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, aveva deciso di negoziare una via d’uscita dalla crisi.

Non volendo una tale politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia del Sahel, ha poi deciso di prendere il controllo e imporre la sua autorità, sia su Ahmadou Koufa che su Iyad ag Ghali. Fu poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati di vedere che lo Stato Islamico si avvicinava al confine algerino. L’Algeria, che considera il nord-ovest della BSS come il suo cortile di casa, ha infatti sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo del posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questa ifora touareg è contraria allo smembramento del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per i propri Touareg.

Parigi non lo capiva. E non più il fatto che il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e di quelli dei Fulani al seguito di Ahmadou Koufa, avrebbe consentito di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi pianificare a termine un soccorso di Barkhane, quindi il suo spostamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi della futura destabilizzazione in atto eserciteranno nel prossimo futuro pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.

Fin dall’inizio, e come ho sempre suggerito, abbiamo dovuto andare d’accordo con questo capo Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è l’identità prima di essere islamista. Per ideologia, rifiutando di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica africana francese hanno ritenuto al contrario che fosse l’uomo da uccidere… Proprio di recente, il presidente Macron ha persino ordinato ancora una volta alle forze Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stavano negoziando con lui una pace regionale… E siamo sorpresi dalla reazione della giunta maliana…

In un modo che definirei insolito come “carità”, l’Eliseo ha persistito nell’accumularsi di false analisi. Emmanuel Macron, quindi, non ha voluto vedere – torno a un episodio essenziale di cui ho parlato sopra – che, il 3 giugno 2020, è scomparsa l’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la regione del Sahel, uccisa dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente le definizioni del problema. La sua eliminazione diede autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelli degli “emiri algerini” che avevano guidato a lungo Al-Qaeda nella regione, quello di Abdelmalek Droukdal appunto e che ha segnato molto chiaramente la fine di un periodo, Al-Qaeda non è più guidata lì dagli stranieri, dagli “arabi”, ma da “regionali”. Questi capi regionali, però, hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Fulani. La mancanza di cultura e i presupposti ideologici dei leader francesi impedivano loro di vederla

In questo nuovo contesto, nell’agosto 2020 è avvenuto in Mali un primo colpo di stato militare che ha permesso di avviare negoziati tra Bamako e Iyad Ag Ghali, che hanno amareggiato Parigi. Il 24 ottobre 2020 ho pubblicato un comunicato stampa sull’argomento dal titolo “Mali: serve il cambio di paradigma”. Ma, ancora una volta, Parigi non ha preso la misura di questo cambio di contesto, continuando a parlare indiscriminatamente di una lotta globale al terrorismo. Inoltre, contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “toccando” indiscriminatamente i GAT (Gruppi terroristici armati), e rifiutando qualsiasi approccio “buono”… “alla francese”. ..

In conclusione, da questo nuovo e amaro fallimento della politica francese in Africa si dovrebbero trarre quattro grandi insegnamenti:

– La priorità urgente è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e se sì, a cosa livello e senza perdere la faccia.

– In futuro non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a beneficio degli eserciti locali che abbiamo addestrato instancabilmente e invano dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente.

– Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e specifiche realizzate dalle navi, che eliminerebbero il disagio dei diritti territoriali percepiti localmente come una insopportabile presenza neocoloniale. Sarà quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza dei nostri mezzi marittimi dispiegabili.

– Infine e in primo luogo, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che gli ex governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma tale è nondimeno la realtà africana.

C’è stato un “contratto” messo dalla NATO sulla testa del colonnello Gheddafi?

La Francia, allora guidata da Nicolas Sarkozy, ha una pesantissima responsabilità nella disintegrazione della Libia con tutte le conseguenze locali e regionali che sono seguite e che ancora seguono. Ma perché è entrata così direttamente in una guerra civile in cui non erano in gioco i suoi interessi? Perché anche la NATO ha interferito così profondamente in questa guerra? L’alibi umanitario citato da BHL non fornendo una risposta soddisfacente, restano ancora due domande senza risposta:

– La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

– L’obiettivo di questa guerra era la morte di quest’ultimo?

Esistono elementi di risposta che sottolineo in occasione della ristampa aggiornata da parte di Éditions du Rocher del mio libro ” Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri ” e che sono riportati nel seguente comunicato:

Domanda 1: La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

Durante i lavori della Commissione Speciale del Congresso degli Stati Uniti d’indagine sull’attacco alla missione americana a Bengasi nel settembre 2012, attacco costato la vita all’ambasciatore americano Christopher Stevens, sono state prodotte e-mail riservate di Sidney Blumenthal, consigliere di allora- Il segretario di Stato Hillary Clinton.

Secondo questi documenti, la DGSE (Direzione generale per la sicurezza esterna) francese avrebbe organizzato, su ordine di Nicolas Sarkozy, incontri segreti con gli oppositori libici a partire dal febbraio 2011, quindi proprio all’inizio dei fatti.

In una di queste note intitolata ” Come i francesi hanno creato il Consiglio nazionale libico ” si legge che gli agenti francesi avrebbero ” dato denaro e consigli ” e che questi agenti parlando a nome di Nicolas Sarkozy ” hanno promesso che non appena il (Consiglio ) è stato progettato, la Francia lo riconoscerà come il nuovo governo libico” .

In un’altra nota datata 20 marzo questa, si legge che Nicolas Sarkozy “si aspetta che la Francia guiderà gli attacchi contro (Gheddafi) per un lungo periodo di tempo” .

Se fosse autentico, e allo stato attuale del fascicolo, non vi è motivo di dubitarne, tale documento stabilirebbe quindi che, appena tre giorni dopo il voto sulla risoluzione 1973 risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di Sicurezza del le Nazioni Unite che prevedevano solo l’istituzione di una no-fly zone intorno alla sola città di Bengasi, il presidente Sarkozy avrebbe pianificato una guerra totale contro la Libia, cosa non prevista dalla suddetta risoluzione.

Domanda 2: Lo scopo della guerra era la morte del colonnello Gheddafi?

Martedì 16 dicembre 2014, a Dakar, in occasione della chiusura del Forum sulla pace e la sicurezza in Africa , acclamato dai partecipanti, il presidente ciadiano Idriss Déby ha sganciato una vera bomba quando, alla presenza del ministro della Difesa francese, ha ha dichiarato che andando in guerra in Libia: “(…) l’obiettivo della Nato era quello di assassinare Gheddafi. Questo obiettivo è stato raggiunto “.

Se è vero quanto affermato da questo intimo conoscitore del caso libico, tutta la storia di una guerra dalle conseguenze devastanti va dunque riscritta. Tanto più che questo conflitto razionalmente inspiegabile si è innescato quando, paradossalmente, il regime libico era diventato l’alleato degli europei, sia contro il jihadismo che contro le reti di immigrazione.

Torniamo indietro. :

 Il 13 gennaio 2011, dopo 42 anni al potere, il colonnello Gheddafi ha dovuto affrontare manifestazioni che si sono trasformate in un’insurrezione.

 Il 23 febbraio, per sostenere gli insorti, la Francia ha chiesto all’Unione Europea “la rapida adozione di sanzioni concrete” contro il regime libico. In Francia è stata poi orchestrata una grande mobilitazione dal “filosofo” Bernard-Henri Lévy per per “salvare” la popolazione di Bengasi.

– Il 17 marzo Alain Juppé, ministro degli Affari esteri francese, ha strappato al Consiglio di sicurezza dell’ONU la risoluzione 1973[1] , che ha consentito l’apertura delle ostilità[2]. Questa risoluzione autorizzava semplicemente e solo la creazione di una no-fly zone sulla Libia , non l’intervento nel conflitto.

Tuttavia, di fronte all’incapacità dei ribelli di minare le difese del regime, Parigi intervenne gradualmente nella guerra civile, impegnandosi anche sul campo, in particolare a Misurata dove ebbe luogo un’operazione dei Navy Commandos, e a Jebel Nefusa. Una cosa tira l’altra, violando la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia e la NATO hanno condotto una vera guerra, prendendo di mira direttamente e ripetutamente lo stesso colonnello Gheddafi.

L’attacco più sanguinoso è avvenuto il 1 maggio 2011 quando gli aerei della Nato hanno bombardato la villa di suo figlio Saif al-Arab mentre lì si teneva una riunione di famiglia, alla presenza del colonnello e di sua moglie. Dalle macerie della casa sono stati rimossi i cadaveri di Saif al-Arab e tre dei suoi figli piccoli. Reagendo a quello che ha definito un omicidio, Mons. Martinelli, Vescovo di Tripoli, ha detto: “Chiedo, per favore, un gesto di umanità verso il colonnello Gheddafi che ha protetto i cristiani di Libia. È un grande amico”. Tale non era evidentemente l’opinione di coloro che avevano ordinato questo bombardamento chiaramente inteso a porre fine al capo di stato libico.

I capi di stato africani che si erano opposti quasi all’unanimità a questa guerra e che avevano tentato senza successo di dissuadere il presidente Sarkozy dall’intraprenderla, pensavano di aver trovato un risultato accettabile: il colonnello Gheddafi si sarebbe dimesso, il potere provvisorio era assicurato dal figlio Saif al -Islam Gheddafi e questo, per evitare un posto vacante favorevole al caos. Questa opzione è stata rifiutata dalla CNT portata a condizioni di mercato dalla Francia. Di conseguenza, il colonnello Gheddafi si è trovato assediato nella città di Sirte, che è stata oggetto di intensi bombardamenti NATO.

È stata quindi preparata un’operazione di esfiltrazione verso il Niger. Tuttavia, ben informati (da chi?), i miliziani di Misurata si tesero in agguato sull’asse che da Sirte portava al Fezzan e da lì al Niger. Il 20 ottobre 2011, il convoglio di diversi veicoli civili del colonnello Gheddafi è riuscito a lasciare la città. Sebbene non costituisse un obiettivo militare, fu subito preso di mira dagli aerei della NATO e in parte distrutto. Catturato, il colonnello Gheddafi è stato brutalmente messo a morte dopo essere stato sodomizzato con una baionetta: in rete è visibile il video della sua cattura e del linciaggio. Suo figlio Moatassem Gheddafi è stato evirato, poi gli sono stati cavati gli occhi, le mani e i piedi tagliati. I loro resti sanguinanti furono poi esposti nell’obitorio di Misurata. La NATO non aveva quindi lasciato alcuna possibilità al colonnello Gheddafi e a suo figlio.

Fatte queste premesse, le accuse del presidente Deby assumono quindi tutto il loro valore. In retrospettiva, lo svolgersi degli eventi potrebbe infatti essere paragonato a un “contratto” posto sulla testa del colonnello perché non gli fu offerto alcun onorevole risultato diplomatico e tutte le sue proposte di pace furono rifiutate…

[1] Su questo argomento si veda il testo della conferenza stampa di Alain Juppé a New York ( www.ambafrance-at.org ).

[2] Su richiesta di Francia, Regno Unito e Libano, la risoluzione 1973 è stata adottata, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza con 10 voti (10 favorevoli, 0 contrari, 5 astenuti tra cui Russia, Cina e Germania). La Russia si è astenuta dal voto all’ONU, poi Mosca ha denunciato gravi violazioni della risoluzione 1973.

Le origini del fallimento francese nel Sahel

Continuiamo a chiedere il motivo della partecipazione italiana all’operazione “Takuba”_Giuseppe Germinario
Il fallimento della Francia nel Sahel era prevedibile. I lettori di questo blog e gli abbonati a Afrique Réelle sanno che dal 2011 non ho smesso di spiegarne le ragioni, che sono ampiamente sviluppate nel mio libro Les guerres du Sahel desorigines à nos jours .
Questo naufragio politico e non militare è dovuto a sei cause principali:
1) Corsezionati dalla loro ideologia, i leader francesi ritengono che il diritto radicato e legittimo del Popolo debba cedere il passo alle nuvole dei “diritti umani”, le chimere del “buon governo” o l’etereo postulato del “vivere insieme”, ideologie inadatti al Sahel dove amplificano i problemi.
2) Questi stessi decisori francesi hanno favorito le analisi economiche e sociali aggrappandosi al miraggio dello “sviluppo”. Secondo il loro presupposto universalistico, essendo gli africani europei poveri con la pelle nera, le ricette che avevano funzionato in Europa potevano, secondo loro, essere trasponibili solo in Africa. Un’illusione fatale e una cecità colpevole…
3) Hanno superbamente ignorato la storia e le realtà etniche, dimenticando le sagge raccomandazioni formulate nel 1953 dal Governatore dell’Africa occidentale francese: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno qualcosa per trarne vantaggio”.
4) Senza memoria e senza cultura storica regionale, i decisori francesi non vedevano che alla fine del XIX secolo la colonizzazione aveva due conseguenze contraddittorie. Ha liberato i meridionali dalla predazione settentrionale, ma, allo stesso tempo, ha riunito vittime e carnefici entro gli stessi confini amministrativi.
5) Neppure questi stessi funzionari francesi vedevano che negli anni ’60, con l’indipendenza, i confini amministrativi dell’ex AOF erano diventati confini di stato, si erano trasformati in tante carceri popolari. Ora, all’interno di questi confini artificiali, essendo i più numerosi, le leggi dell’etnomatematica elettorale danno automaticamente potere ai meridionali. Di conseguenza, in Mali, Niger e Ciad, negli anni 1960-1965, si sono sollevati i Tuareg ei Toubou che rifiutavano di essere assoggettati ai loro ex affluenti meridionali.
6) Gli irresponsabili che definiscono la politica africana della Francia non hanno più capito che il Sahel è il dominio del lungo periodo dove l’affermazione di una costante islamica radicale è prima di tutto la superinfezione di una ferita etno-razziale millenaria che siamo, per definizione, incapace di chiudere.
Mentre la politica africana della Francia avrebbe dovuto essere affidata a uomini del campo che hanno ereditato il “metodo Lyautey” e l’approccio etno-differenzialista dei vecchi “Affari Indigeni”, è stata, purtroppo, gestita da “piccolo marchese” di Sciences Po. Insignificante e pretenziosi, questi settari incistati nel Ministero della Difesa e degli Affari Esteri portano, con i ministri che in teoria li dirigono, la terribile responsabilità del fallimento francese nel Sahel.
blog de Bernard Lugan

2001-2021. Quali risultati per le relazioni tra la Francia e l’Africa francofona? Yves Montenay

Continuiamo a presentare il punto di vista francese sulle dinamiche geopolitiche africane. Le posizioni dei vari analisti sono diverse e spesso contrapposte, come si arguisce dai tanti scritti di Bernard Lugan postati sul nostro sito. La Francia rimane comunque un paese dal ruolo cruciale in quell’area, anche se costretta ad appoggiarsi e richiedere sempre più il sostegno dei paesi alleati della NATO, tra cui l’Italia. Sirene alle quali si dovrà prestare molta cautela. L’atteggiamento minimizzatore del nostro ceto politico non aiuta certo a cogliere a pieno la complessità della situazione_Giuseppe Germinario

La Francia mantiene importanti legami con le ex aree colonizzate dell’Africa, legami economici e militari ma anche linguistici. Questo aiuta a creare un rapporto speciale, che si è evoluto molto negli ultimi vent’anni. Intervista a Yves Montenay.

Ingegnere di formazione, Yves Montenay è stato consulente per molte PMI in Asia e Africa. Ha lavorato con Léopold Sédar Senghor e ha completato una tesi in demografia politica. Ha insegnato in diverse istituzioni superiori, permettendogli di visitare regolarmente diversi paesi africani.

L’arrivo della Cina e la presenza sempre più forte della Russia danno l’impressione che la Francia sia cacciata dal suo distretto africano. I soldati di Wagner sono presenti nella Repubblica Centrafricana e l’ostilità verso la Francia si manifesta in maniera ricca. Gli ultimi 20 anni non hanno segnato la fine della presenza francese nel continente africano?

Una parola in primis sulla Repubblica Centrafricana dove l’ attività concreta di Wagner dovrebbe essere maggiormente diffusa. In primo luogo, si sono distinti per la brutalità nei confronti della popolazione, che viene documentata, e in secondo luogo il loro servizio non è gratuito. Sono remunerati con una tassa del 25% sulle attività minerarie.

I maliani, abituati al “servizio gratuito” della forza Barkhane, e che sognano di vedere arrivare i “nostri amici russi”, dovranno regalare loro parte della loro produzione, soprattutto oro, il che significa che dovranno utilizzare la forza nelle miniere informali.

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Ma attenzione, questo non è colonialismo, è amicizia! E poi saranno solo poche migliaia, come i francesi. Non si dovrebbe quindi contare su di loro per occupare la terra a nord. Allora a cosa serviranno? Probabilmente di guardia del pretorio agli attuali dirigenti, che, ricordiamolo, sono stati addestrati a Mosca.

Lo noteremo non appena la popolazione chiederà un po’ di democrazia o, più semplicemente, sarà delusa dall’assenza di sicurezza o di miracoli economici.

Africa occidentale (c) Wikipedia

Ma dobbiamo parlare della fine della presenza francese nel continente africano?

La situazione è estremamente variabile da un paese all’altro, e in alcuni le difficoltà della Francia stanno aumentando a ritmi vertiginosi.

Sono piuttosto pessimista, perché si tratta di un taglio generazionale alimentato dalle potenze, Cina, Russia e Turchia per limitarsi alle principali, che sono perfettamente radicate nelle operazioni di influenza e ad essa dedicano mezzi significativi.

Tuttavia, la Francia ha pochissimi interessi economici nella regione, in particolare in Mali, e ciò sarà accentuato dalla vendita degli asset di Bolloré a un gruppo svizzero.

Inoltre, l’Africa subsahariana non è affatto un blocco. Ogni paese è molto diverso dal vicino e li classificherò in tre gruppi:

I paesi costieri , a cui si aggiungono il Congo Brazza e il Madagascar, sono prevalentemente oa cornice cristiana (tranne il Senegal). Non hanno seri problemi con la Francia, anche se certi comportamenti possono infastidire Parigi, come la tentazione del Gabon per il Commonwealth. Ciò non impedisce a questi paesi di avere gravi problemi interni, in particolare in Madagascar e Camerun, dove il governo reprime la parte anglofona (che secondo me dovrebbero dare autonomia quanto prima!). E la parte musulmana della sua popolazione non è immune da quanto sta accadendo nel Sahel (compreso Boko Aram per il Camerun) e dalla propaganda wahhabita,

La Repubblica Democratica del Congo, che è un mondo a parte, con i suoi 92 milioni di abitanti. La Francofonia sembra essersi ben radicata lì, in particolare grazie a un vasto settore scolastico cristiano, ma la politica è imperfetta e non siamo immuni da una sorpresa.

Ad esempio il padre Kabila aveva decretato l’inglese come lingua ufficiale, cosa che non aveva conseguenze pratiche, prima che questa decisione fosse cancellata (questo è stato anche il caso del Madagascar). Non conosco alcun problema particolare tra la Repubblica Democratica del Congo e la Francia che non fosse la potenza colonizzatrice.

Rimangono i paesi del Sahel , e il caso particolarmente difficile del Mali, che non riescono a far fronte all’offensiva jihadista e la cui parte più chiassosa della popolazione accusa la Francia di tutti i mali. Tuttavia, ho echi diversi da un’altra parte della popolazione che ha legami intellettuali o cooperativi o familiari con la Francia.

Negli anni ’90, le Nazioni Unite hanno stabilito gli obiettivi di sviluppo del millennio per l’Africa. La Francia è molto coinvolta nello sviluppo del continente, attraverso l’AFD e le sue numerose ONG. Eppure questi aiuti sembrano essere un pozzo senza fondo e non sembrano essere visibili grandi risultati. Abbiamo fatto 20 anni di aiuti per niente?

Tornerò a monte. Siamo passati impercettibilmente dal periodo coloniale a un periodo chiamato neocoloniale.

Il termine è tecnicamente giustificato, d’altronde la sua connotazione negativa non lo è affatto, poiché in generale questo periodo neocoloniale è stato il migliore per la maggior parte di questi paesi, come illustrato ad esempio dal Madagascar e dalla Costa d’Avorio. .

Ho assistito a questa epoca neocoloniale durante la quale molti amministratori francesi sono passati dalla carica di esecutivo a quella di consiglio.

In precedenza, e contrariamente a quanto si dice oggi, la fine del periodo coloniale fu quella dello sviluppo forse paternalistico, ma non del saccheggio, termine che peraltro ha realtà concreta solo in ambito militare e non ha senso economico.

NB: lo studio economico della colonizzazione e la critica alla nozione di “saccheggio” sono sviluppati nel mio libro  The Myth of the North-South Ditch, and How One Cultivates Underdevelopment

E sono crollati i paesi che tagliavano violentemente con le metropoli come la Guinea.

Questo periodo neocoloniale si è spesso concluso con rivoluzioni, colpi di stato o guerre civili, lasciando una situazione molto degradata.

Ciò è stato particolarmente evidente in Madagascar, che non si è mai ripreso, e in Costa d’Avorio, dove la prosperità, in parte dovuta alla presenza di PMI francesi brutalmente espulse, non è tornata del tutto.

È vero che questo periodo neocoloniale si è riflesso anche in un’influenza politica della Francia, che si è riflessa in particolare nei voti favorevoli all’ONU e nell’ingerenza nella scelta dei leader dei paesi africani. Ma è un’era che è finita da tempo e gli eredi dell’influenza politica francese, ad esempio in Gabon, Camerun o Ciad sono liberi, e inoltre il loro comportamento autocratico è disapprovato a Parigi… che però non interviene.

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Ma la propaganda antifrancese usa questo periodo neocoloniale per proclamare: “certo, siamo mal governati, ma è perché la Francia ci ha imposto cattivi governanti”.

Dimentichiamo che le Indipendenze hanno ormai circa 65 anni e che tutti gli interessati sono scomparsi. Dimentichiamo anche i successi economici di questo periodo neocoloniale, soprattutto rispetto alla situazione odierna.

Quindi l’uso di questo argomento nella propaganda antifrancese oggi si basa sull’ignoranza delle giovani generazioni.

Questa rottura generazionale è aggravata dalla scolarizzazione nell’istruzione superiore a livello locale e non più in Francia.

C’è quindi una scarsa conoscenza di questi ultimi, per non parlare del ruolo di alcuni insegnanti che hanno cercato di “porsi opponendosi” o di dirigenti formati nei paesi ostili sopra citati, a cui si aggiungono le università islamiste, tra cui quello di Riad.

Il sentimento antifrancese degli studenti è colorato dall’ostilità verso la lingua francese (la lingua “vera” è l’arabo) e verso l’Occidente “decadente” in generale.

Nell’Africa nera, la Francia guarda soprattutto ad ovest: Costa d’Avorio, Sahel, Senegal. L’Africa orientale e quella dei Grandi Laghi sono definitivamente perse per la Francia?

La Francia non è mai stata molto presente lì, nonostante il periodo “globalista e anglofono” del MEDEF.

Inoltre, questa regione, contrariamente alla sua reputazione, si sta sviluppando piuttosto meno bene dell’Africa francofona , ad eccezione del Ghana e del Kenya. Il peso massimo, il Sud Africa, è sicuramente il paese più sviluppato dell’Africa, ma è rimasto fermo per molto tempo.

Il peso massimo demografico è la Nigeria , che teoricamente ha un guadagno inaspettato di petrolio. Ma sappiamo che questa cosiddetta manna è in realtà un handicap che esacerba le rivalità tribali, alimenta la corruzione e pesa sullo sviluppo.

Mentre la grande metà musulmana del paese nel nord rimane particolarmente sottosviluppata e in parte disorganizzata da Boko Aram e dai suoi rivali.

La Francofonia ha ancora oggi il ruolo che ha svolto nel 2001?

A differenza del Commonwealth, l’Organizzazione Internazionale della Francofonia non ha mai avuto obiettivi economici e si limita all’azione culturale.

Ciò che mi sembra importante non è questa organizzazione, ma la diffusione della lingua francese. Quest’ultimo è cresciuto notevolmente dal 2001, per tre motivi.

Il primo è il progresso della scuola in francese e in particolare nelle scuole private dalla scuola materna all’università. Certo, non ci sono scuole ovunque, e alcune sono composte solo da un’unica classe supervisionata da un insegnante mal pagato, se non del tutto e quindi alimentata dai genitori. Ma non dobbiamo dimenticare il gran numero di scuole che operano normalmente.

La seconda è che la borghesia locale è sempre più spesso nella terza generazione nell’istruzione, il che fa del francese la sua lingua madre . Il francese non è quindi più una lingua straniera per questa borghesia, ma la vera lingua nazionale.

Il terzo motivo più noto è la rapida crescita della popolazione dell’Africa. Questa crescita demografica porterà tutti i paesi francofoni a 750 milioni intorno al 2050, se gli eventi politici non interromperanno la scuola in francese.

Infine, l’ambiente letterario parigino e in particolare quello degli editori hanno a lungo sottovalutato gli scrittori di lingua francese. Questo periodo sembra finito, come dimostra l’attribuzione dell’ultimo premio Goncourt a Mohamed Mbougar Sarr.

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Nuovo numero speciale: Army, il salto ad alta intensità

Ma ovviamente chi dice francofonia non significa necessariamente francofonia. Gli oppositori più virulenti della Francia parlano in francese.

Una parola sul Nord Africa

Il Maghreb si avvicina ai 100 milioni di abitanti, a cui si aggiungono circa 100 milioni di egiziani. La crescita demografica considerata molto rapida in Francia è infatti più debole lì che nel sud del Sahara, dove la sola Nigeria presto supererà l’intera regione.

È anche la parte più sviluppata dell’Africa, anche se questo confronto non ha molto senso, date le disparità regionali nel nord come nel sud del continente.

Nel Maghreb i tre paesi, umanamente e storicamente abbastanza simili, hanno continuato a divergere, ma i dati principali non sono cambiati dal 2001:

Un Marocco che parte da inferiore agli altri, ma in solida progressione con una buona base industriale e agricola a criteri europei e una libertà politica e religiosa superiore al resto del mondo arabo, eccettuata la Tunisia. L’istruzione pubblica è deplorevole, ma il settore privato, in gran parte di lingua francese, con progressi comunque in inglese, fornisce quadri intermedi. A meno che non si verifichi un incidente una tantum, i rapporti con la Francia sono buoni,

Una Tunisia che condivide molte caratteristiche con il Marocco, ma parte da più alti in termini di tenore di vita e democrazia, nonostante i recenti fallimenti,

Un Algeria , che, al contrario, sta lottando per uscire del socialismo e non di sviluppo, i proventi del petrolio in corso in gran parte confiscati. Queste entrate consentono un’economia basata sull’importazione con scarsa produzione nazionale, anche se la privatizzazione della cultura e la relativa liberalizzazione industriale hanno consentito scarsi progressi. Insomma, un flagrante fallimento economico e politico, la cui responsabilità è attribuita contro ogni evidenza alla Francia . Ciò ha comportato l’esclusione delle esportazioni francesi a vantaggio della Cina in particolare e culturalmente da pressioni sulla parte francofona della popolazione.

Quanto all’Egitto,ha praticamente chiuso il cerchio negli ultimi 20 anni: la dittatura militare di Mubarak ha lasciato il posto alla democratizzazione che ha portato al potere i Fratelli Musulmani. Il loro fallimento ha generato una nuova protesta, che si è conclusa con il ritorno al potere dell’esercito. La posizione della Francia, preponderante fino al 1956, è stata distrutta dall’affare Suez e il socialismo Nasser ha rovinato il Paese, che si è ripreso solo in parte da esso e il cui precario equilibrio economico è dovuto solo agli aiuti americani, ai canoni del Canale di Suez, del gas e del petrolio, e spedizioni espatriate in Arabia Saudita. L’immagine della Francia resta buona, ma i nostri interessi economici non sono molto importanti e la Francofonia è stata ridotta a una parte dei circoli privilegiati.

Per concludere, colpisce vedere il riemergere della demonizzazione della colonizzazione , quando quest’ultima ha 60 anni e talvolta molto di più, e quindi non ha nulla a che vedere con i problemi africani attuali.

Ma il punto è che questo argomento ha molto più successo che ai tempi dell’indipendenza, forse proprio perché i testimoni sono scomparsi. E che non possono contraddire i proclami “anticoloniali” dei concorrenti della Francia e dell’Occidente in Africa.

Questo è il periodo in cui la Russia e la Turchia sono state a lungo colonizzatori sanguinari e da allora la Cina non è stata gentile con Manciù, Mongoli e Tibetani e, più recentemente, con gli uiguri.

Libia: offuscamenti democratici sulla realtà, di Bernard Lugan

In Libia, le elezioni del 24 dicembre 2021 sono state cancellate e “rinviate”.

Gli ingenui  avevano assicurato che avrebbero chiuso la parentesi del caos aperta nel
2011 da un Nicolas Sarkozy molto mal ispirato da BHL. Un fallimento in più per il benpensante democratico-occidentale. Da quando nel 2011, rifiutando di prendere in considerazione le realtà umane, quest’ultima anzi pretende di ricostruire la Libia intorno

a prerequisito elettorale incompatibile con il sistema politico tribale. Quindi un vicolo cieco

sulla base di quattro grandi errori:
1) Il postulato dell’esistenza di una nazione libica. Ordunque, non esiste identità Libica. La costante storica è piuttosto la debolezza del potere centrale in relazione alle tribù. Le basi demografiche dei gruppi tribali sono certamente scivolato verso le città, ma il legami tribali non si sono certo allentati. Raggruppate in alleanze o confederazioni le tribù hanno loro proprie regole interne di funzionamento che non coincidono con la democrazia individualista occidentale basata su “Un uomo, un voto”.
2) Non aver visto che il colonnello Gheddafi aveva fondato il suo potere sull’equilibrio tra le tre principali confederazioni libiche.
Or dunque, eliminato il colonnello eliminò, queste ultime hanno riacquistato la propria autonomia in relazione al potere centrale.

3) Avere privilegiato politici di ritorno dall’esilio e ignorato le vere forze del paese

Ora, insediati dagli occidentali, questi politici non rappresentano che solo se stessi e

non le reali forze del paese che sono le tribù.

Il 14 settembre 2015, il Consiglio delle tribù della Libia aveva dichiarato a questo proposito che solo il figlio del colonnello Gheddafi, Seif al-Islam era autorizzato a parlare in loro nome.

4) Hanno imposto il prerequisito elettorale prima di ricostruire lo stato

La priorità però non sono le elezioni.
Come dopo il 1945, fu necessario stabilire un nuovo patto sociale partendo dalla realtà  tribale e regionale. Tutto al contrario, ingabbiati dalla loro ideologia, gli occidentali hanno postulato che le elezioni avrebbero permesso di raggiungere un consenso nazionale
tra le fazioni libiche.

Nel 2012 e 2014, tre elezioni sono state poi organizzate con un forcipe e hanno permesso di eleggere un Congresso Generale, un’Assemblea Costituente, poi una Camera dei Rappresentanti.
Nell’agosto 2014, minacciata dalle milizie, queste ultime si rifugiarono a Tobruk, in Cirenaica.
Invece di costruire consenso, queste tre elezioni hanno al contrario accentuato le divisioni locali, ampliato il divario tra Tripolitania e Cirenaica e provocato una guerra civile all’interno della guerra civile, specialmente in Tripolitania. Di conseguenza, una guerra di tutti contro tutti senza via d’uscita, punteggiato di accordi internazionali mai rispettati sul terreno e alla fine l’interferenza della Russia e della Turchia.
Oggi, e più che mai, la Libia è tagliata in due, messa male se non attraverso un sistema confederale in grado di riportare la Cirenaica e i Tripolitani a inventarsi un destino comune. Ma la “comunità internazionale ” si ostina ad esigere che la data delle elezioni sia

fissata …

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TUNISIA: ARRIVA LA NUOVA COSTITUZIONE ?_di Antonio de Martini

TUNISIA: ARRIVA LA NUOVA COSTITUZIONE ?

IL PRESIDENTE SAIED ELETTO NEL 2019 E COI PIENI POTERI DA LUGLIO, ANNUNZIA UNA NUOVA COSTITUZIONE. «LE COSTITUZIONI NON SONO ETERNE ». QUESTA ERA STATA VARATA NEL 2014.

Dopo sei mesi di stato di emergenza durante il quale il presidente ha esautorato il Primo ministro, il Parlamento e il partito di maggioranza Ennahda – accusato di estremismo islamico- nel consiglio dei ministri della scorsa settimana ha annunziato che la nuova costituzione , meno parlamentare, é quasi pronta e che sarà sottoposta a referendum popolare.

Le vicissitudini tunisine possono così essere riassunte: nel 2011 una rivolta popolare a seguito del drammatico suicidio di un ambulante angariato dalla polizia, sfocia in un cambio di regime a causa della fuga del Presidente Zine el abidin ben Ali che si rifugia in Arabia Saudita ospite del ministro dell’interno.

Nel 2014 viene varata una nuova Costituzione che trasforma la Repubblica in un regime parlamentare che fa prevalere il partito confessionale Ennahda, guidato da Rachid Ghannouchi.

Ovviamente, gli investimenti esteri languono, i capitali locali emigrano e l’assassinio di un paio di sindacalisti e il tentativo di ”moralizzare” le donne secondo la tradizione mussulmana, provocano una reazione filo occidentale evidente.

L’intervento di mediazione delle Nazioni Unite affida il potere a un quartetto di associazioni ( sindacati, patronato e i principali partiti).

il nuovo sistema regge fino alla morte del Presidente Caid Essebsi, già ministro di Bourghuiba. Le nuove elezioni parlamentari danno la maggioranza a Ennahda, ma l’elezione presidenziale premia uno sconosciuto outsider – Khais Saied appunto- che dopo un anno di convivenza con Ennahda ed il suo abile leader Ghannouchi che presiede il Parlamento, perde la pazienza , si arroga tutti i poteri e – godendo della comprensione degli occidentali- proclama lo stato di emergenza.

Ieri l’annunzio che presto verrà sottoposta a referendum la NUOVA COSTITUZIONE che dovrebbe avere carttere presidenzialista ( o comunque meno assembleare).

In tanto il 15 dicembre verrà presentato il nuovo bilancio. Il combinato disposto di queste due innovaioni, dovrebbe, secondo le parole del presidente “consentire al popolo di passare dalla disperazione alla speranza”.

La crisi economica e quella sanitaria infatti incrudeliscono e sembrano senza via d’uscita senza un poderoso aiuto internazionale che si materializza a mano a mano che la democrazia ben guidata farà i suoi passi in avanti.

Al sud, nella zona del passo di Mareth al confine algerino, focolai di guerriglia islamista alimentati dalla estrema povertà dell’area baluginano sinistramente ma non riescono a dilagare nelle città.

https://corrieredellacollera.com/2021/12/14/tunisia-arriva-la-nuova-costituzione/

Che succede tra la Francia e l’Egitto?, di giuseppe_gagliano/

Qui sotto un interessante articolo di Giuseppe Gagliano, tratto dalla rivista https://www.startmag.it/ riguardante un episodio di informazione pilotata in grado di condizionare ed alterare gli indirizzi di politica estera francese in tutta l’area mediorientale e mediterranea. La lettura spinge ad alcune considerazioni a più livelli di astrazione. Ci suggerisce che limitare l’analisi geopolitica al mero rapporto può essere riduttivo e fuorviante. Chi agisce non è lo Stato in quanto tale, ma sono i soggetti, siano essi individui o soprattutto gruppi, in conflitto e cooperazione tra di essi, dotati di poteri decisionali e di condizionamento, in grado di rappresentarlo, di detenere le leve operative e di influenzarle. La titolarità dell’autorità è un fattore importante di agibilità se ad essa corrisponde una coerenza ed un controllo effettivi e sostanziali degli apparati. L’impegno ufficiale e formale va di pari passo con le azioni sotto traccia, rivelatrici dei legami trasversali che attraversano la dinamica di questi centri. Nella fattispecie l’articolo rivela le dinamiche di confronto e cooperazione tra alcuni centri decisionali francesi e turchi nel plasmare i rapporti con l’Egitto e i paesi del Golfo, anch’essi attraversati da spinte e controspinte. Il tutto in logiche ancora più estese che fanno riferimento alle fazioni statunitensi, una, quella obamiana, sostenitrice delle primavere arabe, l’altra ad esse ostile. Definire per altro in questo contesto Jamal Khashoggi giornalista, non rende bene la natura di questo scontro e di quell’assassinio. Rivela altresì la permeabilità e la fragilità di quelle formazioni socio-politiche che hanno aperto indistintamente, in nome di una “società aperta” apparentemente priva di identità, i propri spazi a vere e proprie comunità chiuse in grado di condizionare pesantemente e destabilizzare all’interno l’azione politica. Ad un livello ancora inferiore di riflessione deve portare a considerare la portata del Trattato del Quirinale tra l’Italia e la Francia nelle sue implicazioni nell’area mediterranea, in particolare la Libia e l’Egitto. Il trattato in qualche maniera vorrebbe mettere molto parzialmente al riparo l’Italia dalle mire turche nel vicinato prossimo della Libia e dei Balcani, in particolare l’Albania e la Bosnia. La postura, però, è talmente subordinata da farle perdere quasi ogni capacità di mediazione, sostenendo le poche figure, tra queste il figlio di Gheddafi in grado di ricomporre il mosaico libico; l’ultima possibilità di ricostruire in tal modo una nuova capacità di influenza diretta in quell’area. Lo stesso dicasi dei rapporti con l’Egitto di Al Sisi dove l’Italia, grazie all’affare Regeni, è ridotta più o meno consapevolmente a strumento di trame altrui. La liberazione di Zaki sarà probabilmente il contentino per far cadere in ombra l’omicidio Regeni; il prezzo della gestione “dell’affaire” è stato comunque già molto pesante anche per oche giulive artefici di tal fatta di questa tragicommedia. La posta in palio più significativa riguarda la Turchia di Erdogan ed il tentativo di trasformare il suo rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia in ostilità dichiarata; di ridurre quindi i suoi margini di iniziativa autonoma e ricondurli nell’alveo del confronto strategico con la Cina e la Russia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ecco perché il fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R) non condivide quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo Disclose. L’articolo di Giuseppe Gagliano

 

Secondo quanto sostenuto da Eric Denécé, fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R), quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo francese Disclose sarebbe viziato da numerose deficienze informative oltre che da un’impostazione palesemente unilaterale e faziosa.

In primo luogo l’autore osserva – non senza amarezza – come i documenti che sono stati forniti al sito francese provengano dal ministero delle Forze armate e, in particolare, dalla Direzione dell’intelligenza militare e dal ministero degli Affari esteri. Insomma, una vera e propria fuga di notizie fatta probabilmente da analisti che non condividono le scelte poste in essere dall’attuale amministrazione francese in relazione alla vendita di armi e al sostegno al regime egiziano di Al-Sisi.

Data la gravità della condotta posta in essere da questi informatori verrà avviata un’indagine da parte del controspionaggio soprattutto perché chi ha dato questi documenti al sito investigativo francese lo ha fatto con premeditazione cioè con la volontà di danneggiare esplicitamente le relazioni bilaterali tra Francia ed Egitto. Che lo si voglia o no queste informazioni avvantaggeranno i concorrenti della Francia.

In secondo luogo, l’autore sottolinea come il sito dei giornalisti investigativi non sia certo neutrale ma sia relativamente noto in Francia per le sue posizioni antimilitariste e soprattutto per aver sostenuto le rivoluzioni arabe in particolare quelle egiziane.

Un altro aspetto sottolineato dall’autore è il fatto che secondo il sito non vi sia alcun legame tra contrabbando e terrorismo al confine occidentale con l’Egitto. I trafficanti, invece, trasportano come e quando vogliono armi, droga, migranti e vari prodotti di contrabbando come il riso per rifornire il mercato nero.

Il quarto aspetto sottolineato dall’autore è di natura squisitamente geopolitica: egli infatti afferma che l’Egitto stia vivendo in questo momento una grave minaccia terroristica determinata anche dai numerosi traffici di armi sui confini che alimentano diversi gruppi di jihadisti.

Per tutte queste ragioni – che lo si voglia o meno – non si può escludere che questa indagine sia un vera e propria opera di destabilizzazione di natura informativa. Bisogna infatti interrogarsi sullo scopo di questa indagine.

Citiamo le parole dell’autore: “Oltre allo scooping e all’attivismo politico, Disclose mira a interrompere la vendita di armi all’Egitto… a vantaggio conscio o inconscio dei nostri concorrenti. Si tratta innegabilmente anche di un attacco diretto al regime egiziano di Al-Sisi che ha posto fine alla nefasta parentesi dei Fratelli Musulmani e che ha saputo ricostruire stretti rapporti con la Francia. Non ho alcun ricordo di Disclose e dei suoi giornalisti che difendevano i copti egiziani vittime di attacchi terroristici e persecuzioni da parte dei Fratelli musulmani o che hanno riferito come Morsi stava consegnando segreti di Stato egiziani ai suoi padrini turchi e qatarioti che lo hanno sostenuto per destabilizzare il paese, ecc. La loro indignazione è quindi molto selettiva”.

Perché in definitiva le osservazioni di Denécé sono di estremo interesse?

In primo luogo perché i lettori comuni non hanno gli strumenti né per poter verificare quanto sostenuto dal sito investigativo ma neppure per poterlo smentire. In secondo luogo è molto ingenuo pensare – come fanno molti lettori in assoluta buona fede – che da un lato ci sia la verità e che quindi le informazioni debbano essere lette come oro colato e dall’altra parte invece ci sia solo ed esclusivamente la ragion di Stato e le logiche perverse della politica internazionale.

In secondo luogo perché la vendita fatta recentemente dal presidente francese Emmanuel Macron di Rafale ha suscitato la durissima reazione del giornalisti investigativi del sito francese Disclose?

Il sito dei giornalisti investigativi francesi ricorda che dal 2015, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono stati coinvolti nella guerra in Yemen, che ha causato quasi 400.000 vittime. Nonostante la gravità degli abusi commessi e le accuse di crimini di guerra, il tema non è stato all’ordine del giorno della visita di Macron nel Golfo venerdì 3 e sabato 4 dicembre.

Tuttavia, le armi vendute dalla Francia alle due monarchie del Golfo vengono utilizzate direttamente nel conflitto, come rivelano i documenti di “confidenzialità-difesa” ottenuti da Disclose. Queste note scritte dal Segretariato generale per la difesa e la sicurezza nazionale (SGDSN), organizzazione posta sotto l’autorità di Matignon, rivelano che lo Stato francese ha autorizzato, nel 2016, la consegna di quasi 150.000 proiettili all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Pur sapendo che queste munizioni sarebbero state utilizzate nella guerra in Yemen.

Il 12 maggio 2016 si è tenuta a Parigi una riunione della Commissione interministeriale top secret per lo studio delle esportazioni di materiale bellico (CIEEMG), alla presenza dei rappresentanti del ministero degli Affari esteri, della Difesa, dell’Economia e del palazzo dell’Eliseo, poi occupata da François Hollande.

Al centro dei dibattiti, la proposta di rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi verso i Paesi coinvolti nella guerra in Yemen. Il ministero degli Esteri, allora guidato da Jean-Marc Ayrault, è favorevole. Si interroga, in particolare, sulle consegne in corso di armi Caesar all’Arabia Saudita.

“La Francia è oggetto di interrogatorio da parte del Parlamento europeo e delle Ong per presunte violazioni del Trattato sul commercio delle armi”, ha avvertito un diplomatico.

Qualunque sia l’avvertimento, il gabinetto di Jean-Yves Le Drian si oppone a ogni forma di restrizione: “Un blocco doganale di apparecchiature già oggetto di un contratto sarebbe difficile da giustificare all’Arabia. I diplomatici sono costretti a concordare con questa opinione. Le armi verranno consegnate”.

Nel dettaglio, si tratta di 41.500 proiettili della compagnia Junghas, sussidiaria di Thales, destinati alla guardia saudita; 3.000 proiettili anticarro, 10.000 proiettili fumogeni, 50.000 proiettili ad alto potenziale esplosivo e 50.000 razzi di artiglieria prodotti da Nexter all’esercito degli Emirati, nonché 346 missili anticarro dalla società MBDA all’esercito del Qatar. Importo totale dei contratti: 356,6 milioni di euro.

Non importa di quali crimini siano accusati i “partner” della Francia. Come l’assassinio dell’ottobre 2018 del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Sabato 4 dicembre, Macron sarà il primo leader occidentale a rimettere in sella il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, sospettato dalla comunità internazionale di aver ordinato l’omicidio.

https://www.startmag.it/mondo/che-succede-tra-la-francia-e-legitto/?fbclid=IwAR3RSddir9W7FO8m42LHWF4En0qe0RfyoDzLgOuooPaNOs9cQyC-kev7KpI

Algeria, la pericolosa fuga in avanti_di Bernard Lugan

La crisi che ogni giorno si aggrava tra Algeria e Marocco si spiega perché
L’Algeria è contro il muro. Per anni, negando il suo appoggio diretto al Polisario, ha voluto
far credere che fosse solo un’osservatrice della questione del Sahara occidentale. Oro
il crollo del Polisario e la disgregazione del suo appoggio, ora lo costringe ad agire per primo linea in un’escalation verbale e militare [1]

Dopo aver interrotto unilateralmente le relazioni
relazioni diplomatiche con il Marocco, poi dopo aver
vieta il suo spazio aereo ai suoi aerei civili e mette
la fine del progetto del gasdotto per
Spagna di passaggio in Marocco, il discorso
Il guerriero algerino è salito di livello
dopo la distruzione di due camion algerini da parte di
un drone marocchino. Da entrambe le parti, truppe
sono ammassati al confine. Mentre il Marocco
si astiene da qualsiasi dichiarazione bellicosa, il
Il governo algerino si fa avanti
parole ostili abbondantemente trasmesse da a
stampa falco.
Cosa sta cercando l’Algeria? Dov’è l’interesse?
anche un “Sistema” difficile da suonare
pericolosamente con il fuoco?
La linea di fondo è che il “Sistema”
L’algerino sa che i suoi giorni sono contati e che,
semplicemente risparmiare tempo, ritardare
l’inevitabile implosione, ha bisogno di un derivato
nazionalista. Esattamente come nel 1963
quando la “guerra delle sabbie” glielo aveva permesso
per evitare la secessione della Cabilia da
designazione di un nemico conveniente, il Marocco
(pagina mappa…).
Oggi l’Algeria è diplomaticamente
isolato. Economicamente, è in bancarotta e
politicamente è sull’orlo di un precipizio. quanto a
nella sua giovinezza ha un solo futuro, il
haraga in Europa…
Per una gerontocrazia senza fiato, di cui
l’esercito, suo ultimo pilastro, è diviso in clan che
odiatevi a vicenda – per un decennio 30 generali hanno
stato imprigionato – l’unica via d’uscita è l’unità

artificiale, sia contro il vicino marocchino che
contro l’ex colonizzatore francese. Le due
sono attualmente il suo obiettivo…
Il problema è che le accuse in piedi
contro la Francia ha avuto un risultato contrario al gol
Ricerca. Nonostante tutte le sue concessioni, di tutto
i suoi abbandoni e anche tutte le sue genuflessioni, il
Il presidente Macron che non è stato pagato in cambio
Sembra aver finalmente capito che non lo farà mai
basta agli occhi di Algeri, che vuole tenere la Francia sotto il
giogo del pentimento perpetuo.
Inoltre, a parte i soliti “portatori di
valigie ”, questo stravagante ricatto della memoria esercitato
dal “Sistema” algerino finì per risvegliarsi a
parte dell’opinione pubblica francese. Così tanto che
uno dei temi della campagna presidenziale è
proprio quello del rifiuto del pentimento.
Più così ora è sempre meno
raro sentire politici francesi
tenere il seguente discorso: come ha dimostrato l’Algeria
che la Francia non farebbe mai abbastanza nel
contrizione, quindi non c’è più niente da aspettarsi da lei.
Quindi, in queste condizioni, perché no?
sostenere apertamente la posizione marocchina e rendere
come gli Stati Uniti, riconoscendo
ufficialmente il carattere marocchino del Sahara occidentale?
Per quanto riguarda il Marocco, l’incessante
Anche le accuse algerine sono a
totale inefficacia. Algeri lo sa benissimo
le sue richieste riguardo al Sahara marocchino no
non può mai essere soddisfatto.
Tanto più che l’Algeria, che occupa il suo
confine occidentale di intere regioni

storicamente marocchina e quella colonizzazione
abbastanza artificialmente attaccato a lui, non ignorare
che il Marocco non accetterà mai di rinunciare al suo
province sahariane.
Allora perché l’Algeria insiste?
rimanere in un’impasse conflittuale fondata
su un rifiuto concreto della realtà? Invece di prendere
prendere in considerazione la questione non negoziabile di
marocchina del Sahara occidentale, e, a partire da
questa realtà, per cercare di trarne vantaggio
commerciale o altro negoziando con il
Marocco, perché, al contrario,
lei affonda un po’ più a fondo in un?
all’endismo che minaccia la pace regionale?
Il rischio è che, indurendo il tono e

tenere discorsi bellicosi, un punto no
ritorno sarà eventualmente raggiunto, con il risultato,

un conflitto che avrebbe solo esiti negativi
per entrambi i paesi. A meno che, avendone solo uno
solo obiettivo a brevissimo termine, vale a dire il suo unico
sopravvivenza, il “Sistema” algerino e lo stato maggiore
impegnarsi in un conflitto suicida nel tentativo di
aprirsi all’Algeria “bloccata” sulla costa
mediterraneo una finestra sulla facciata
Atlantico… Una scommessa pazzesca. Ma c’è un altro?
spiegazione per l’autismo politico algerino?

Il cuore del problema è quello dei confini
tra i due paesi. Per creare l’Algeria che
non è mai esistita, la Francia infatti si è smembrata
Marocco, eliminando le regioni storicamente
Marocchino, che sia Tindouf, il
Gourara, Tidikelt ecc. come è stato
spiegato nel numero di ottobre 2021 di
Vera Africa.
A ciò si aggiunge la questione del Sahara occidentale,
immensità strappata al Marocco dalla colonizzazione
Spagnolo. Tuttavia, per i marocchini, questo è
loro “Alsazia-Lorena” mentre gli algerini
vorrebbe la creazione di uno “Stato del Sahara” che
essere loro subordinato e che vieterebbe al Marocco di
avere una costa di diverse migliaia
chilometri da Tangeri a nord fino al confine
Mauritano a sud.
Ecco perché, come diceva Hubert Védrine,
ex capo della diplomazia francese: “(…)
l’affare Sahara è un affare nazionale per
Il Marocco e una questione di identità per l’esercito
algerina “.
Tanto più che l’attuale capo di gabinetto
algerino, il generale Saïd Chengriha, ex
Comandante della Terza Regione Militare,
colui il cui cuore è Tindouf e che perciò
nei confronti del Marocco, alimenta una nota avversione per
nei confronti dei suoi vicini marocchini.ù

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UE, Italia, Francia, Germania! Il triangolo imperfetto_di Giuseppe Germinario

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.

Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.

Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.

La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.

I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.

Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.

Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.

Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.

In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.

Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.

L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.

Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.

Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.

In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.

La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.

Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.

Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.

I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.

Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.

Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.

Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.

La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.

Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.

Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.

IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA

Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.

Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.

Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.

Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.

La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:

  • di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;

  • di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;

  • di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;

  • di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;

  • di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.

Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.

Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.

Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.

Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:

  • la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana

  • la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.

Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.

NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo

aquisgrana 2019

TRATTATO DEL QUIRINALE ITA FRANCIA

IDEE CON LE RADICI_di Pierluigi Fagan

IDEE CON LE RADICI. Era il 2013 quando feci uscire sul mio blog, un articolo a ripresa e promozione di una vecchia idea strategica formulata a suo tempo da Alexandre Kojève, russo trapiantato in Francia, in favore di quello che lui chiamava “Impero latino”. Un articolo di Giorgio Agamben di qualche mese prima, lo aveva riportato all’attenzione. Da allora promuovo questa idea, più o meno in solitaria. Ma giovedì prossimo, qualcosa che accenna a questa idea diventerà fatto, dal momento che Macron verrà a Roma a firmare quello che pare si chiamerà “Trattato del Quirinale”, un trattato come quello di Aquisgrana firmato con la Merkel nel 2019, di “collaborazione rinforzata” tra Francia e Germania. Ma questa volta tra Italia e Francia. Vediamo meglio la faccenda.
Il primo punto è: di quale disegno fa parte questa strategia? Kojève oltre ad esser stato il più influente interprete di Hegel in quel di Francia, con famosi seminari a cui pare si formarono Raymond Queneau, Georges Bataille, Raymond Aron, Roger Caillois, Michel Leiris, Henry Corbin, Maurice Merleau-Ponty, Jean Hyppolite , Éric Weil e Jacques Lacan (ma vi passarono a volte anche André Breton e Hannah Arendt), era anche alto funzionario del Ministero di Economia e Finanza, nonché poi sospettato di esser un agente sovietico. In tale veste di alto funzionario produce nel 1945 il documento originario cui abbiamo fatto cenno, indirizzato a De Gaulle. La tesi del franco-russo era che la Francia, doveva porsi la domanda su quale sarebbe stato il suo posto nel mondo da lì in poi. Questa domanda poteva avere diverse risposte, ma prima di vedere quali, bisognava pesare la sua potenza poiché qualsivoglia gioco in ambito internazionale o geopolitico, presuppone la forza per poterle metterle in atto. La forza della Francia era costituzionalmente inadeguata quindi doveva esser rinforzata, ma come?
L’idea di Kojève che per questo motivo Agamben segnalava al tempo, era di osservare quelle che Platone chiamava: le nervature dell’essere. Platone diceva che il macellaio, nel tagliare la carne, seguiva sua segreta conoscenza delle muscolature e nervature perché non puoi tagliere ciò che tiene assieme o metter assieme ciò che non ha trama connettiva. Kojève quindi ne deduceva che le nervature dell’essere di Europa, indicavano una area culturale di relativa omogeneità all’intero della sfera latina. Era una constatazione linguistica, quindi culturale, quindi geo-storica. In un comune ambito tale definito dalla geografia che non segna ma indica, non a caso si è sviluppata una storia comune e quindi molteplici interrelazioni che hanno sedimentato una cultura comune, a partire dall’origine romana antica.
L’idea piaceva ad Agamben e debbo dire anche a me, perché consistente ovvero dotata di radici concrete e non solo volontà astratta. E la cosa aveva grande attualità perché nel 2013 così come negli anni ’90 che portarono a Maastricht, ancora fino ad oggi, le nervature dell’essere che si osservano nel pensare ai processi di formazione di potenza allargata ai confini degli storici Stati-nazione in Europa, seguivano e seguono altre nervature. Per lo più di interesse economico o come nel caso dell’asimmetrica diarchia Francia-Germania, logiche di problematico vicinato competitivo. Kojève invece, stratega geopolitico che a lungo sviluppò relazioni di pensiero con Leo Strauss e Carl Schmitt, anche quando nel dopoguerra quest’ultimo era ostracizzato dato il suo passato mischiato al nazismo, non seguiva parametri contingenti pur importanti, ma le nervature dell’essere e queste erano cultura depositata nella geostoria. Va ricordato che nel ’45, per i francesi, si trattava di capire da che parte volgersi dato che era noto si stesse formando l’alleanza di ferro anglo-americana che poi portò al Patto Atlantico. In quella alleanza, la Francia non avrebbe avuto alcun ruolo, oltre a non avere alcuna nervatura dell’essere in comune. Men che meno con la Germania.
L’idea di Kojève, quindi, era di natura prettamente geopolitica, non politica contingente o tantomeno economica, era strategica non tattica. Ed il sottostate di geopolitica è nella geostoria. Si possono far sistemi di ordine superiore con coloro con i quali c’è del pregresso “in comune”, altrimenti anche la più brillante delle strategie di convenienza, naufraga per eccesso di eterogeneità. Le ragioni che portano a far matrimonio longevo e resistente non sono della natura con cui scegliamo amici ed amiche o partner sessuali. Notoriamente, molte unioni tra soci, essendo basate sulla convenienza contingente, naufragano perché fatte per unirsi nella buona sorte, non reggono alla cattiva sorte. Pe reggere alle ingiurie della cattiva sorte, ci vogliono nervature dell’essere. Queste non garantiscono, ma la loro assenza garantisce altresì il fallimento di qualsiasi unione, come quella europea che di nervature dell’essere ne ha tante e non certo in favore di un affare a 27 stati a meno che di “affare” non si vogli dare il significato mercantile.
Se quindi l’idea apparteneva alla categoria geopolitica ovvero la politica estera da svolgere partendo dalle costituzioni geostoriche, a cosa era finalizzata nel concreto? A quale domanda doveva cercar risposta? La domanda era data dalla constatazione che la Francia era una ex-potenza, retrocessa a media potenza, la potenza dominante in Occidente era il nuovo asse anglo-americano, la Germania era a pezzi ma con i tedeschi non si sa mai, poi cerano i sovietici e sullo sfondo lontano c’erano le preoccupazioni di scenario già note ai primi del Novecento, il Giappone, l’Asia e sia mai la Cina se si fosse risvegliata come ebbe a notare Napoleone a suo tempo. Ai primi del Novecento, verso la fine della Seconda guerra mondiale, viepiù nei successivi settanta anni e così ancora oggi e in prospettiva da qui al 2050 e solo perché al 2050 le variabili esplodono e non si possono fare previsioni sensate, il quadro geopolitico è mondiale. Con grandi potenze che sviluppano grandi vantaggi competitivi e quindi forza per giocare il gioco di equilibrio in un mondo sempre più complesso. La domanda era quindi: come acquisire maggior forza da trasformare in potenza per rimanere in gioco in una ambiente sì competitivo secondo logica a cui appartiene l’argomento ovvero la geopolitica che si basa sulla geostoria?
Che si voglia pensarlo come “Impero” o Stato federale o Unione confederale o semplice poligono di relazioni privilegiate, non v’è dubbio che l’ambito latino ha consistenza geostorica, quindi potenzialmente geopolitica. Semplice.
Come si vede il ragionamento è semplice e se fosse vero che Kojève era davvero un sovietico infiltrato, risultava consistente, logica e conveniente anche per i russi poiché che la logica multipolare fosse più promettente di quella bipolare o dei deliri unipolari quali poi vedremo a fine anni ’90 con le balzane idee sul “Nuovo Secolo Americano”, era nelle cose. Un ambito latino oggi, con 200 milioni di persone, varrebbe un soggetto di buon peso, la terza economia al mondo, un seggio all’ONU con armamento atomico, molti punti di forza e senz’altro altrettanti di debolezza su cui lavorare. Ma poiché poggiato su nervature dell’essere, ci si potrebbe lavorare e potrebbe funzionare.
In questi anni, questa idea mi è toccato discuterla con schiere di avversanti. Ma il problema era che non erano avversari di idee ma di categorie. Ad esempio, coloro che ignorano la geostoria e parlano di queste cose perché si sono risvegliati da poco con qualche eccitata attenzione alla geopolitica che a loro ricorda tanto Risiko un gioco senz’altro divertente, ma che dà una falsa idea della logica geopolitica reale. Coloro che si sono svegliati di recente scoprendo il concetto di sovranità, ma non hanno strumenti culturali per declinarlo non nell’astratto ma nel concreto dei suoi vari assi. Coloro che ignorano, come molti ancora oggi continuano ad ignorare, tanto in campo “europeista” che “sovranista”, il doppio problema dell’impossibilità che l’UE diventi un soggetto geopolitico ed il problema del nanismo dello Stato-nazione europeo nato nei contesti del XVI secolo quando il mondo era tutto in Europa ed eravamo 80 milioni e non 500, il mondo era di 450 milioni e non 7,8 miliardi andanti a 9,7 nel 2050. Coloro che si sono fatti una dimensione intellettual-politica partendo dall’Unione europea che non è un costrutto di logica geopolitica, ma geoeconomica. O peggio coloro che trattano il mondo complesso partendo da un solo paio di lenti molate negli studi monetari, seguiti da quelli altri che leggono solo fatti attinenti al neo-liberismo. Poi ho incrociato mentalità per lo più tattiche che leggono qualche articolo su Internet e così pensano di poter aver voce su argomenti di strategia quando al massimo l’avranno di tattica. O quella simpatica schiera di gente che non è in grado di pensare costruttivamente e specializzati in critica trovano loro godimento nel notare solo le cose che non vanno in una strategia perché inabili a pensarne un’altra. Ad esempio “Ah ma la Francia ci vuol dominare” oppure “Ah ma il nostro Nord ha interessi strutturali con la Germania” oppure “Ah ma gli US non ce lo faranno mai fare” o anche “Ma perché dar retta a questi inciuci tra Macron e Draghi che odiamo cordialmente?” fino a quei pazzerelli che dicono “Ah no, buona idea ma va allargata a tutto il Mediterraneo”. Tutti costoro non hanno idee diverse dalle mie e da quella in oggetto, sono in categoria diverse, economiche, ideologiche, finanziarie, sottodotate culturalmente, contingenti, idealistiche, possiamo discuterne per anni ma mai ci intenderemo perché parliamo di cose diverse, che partono da presupposti diversi, in ambiti diversi, con logiche diverse.
Firmare un patto su quindici cartelle che diranno tante belle cose ma nessuna concreta, a vaghi fini di “amicizia privilegiata” può sembrar poco. Ma a chi scrive, invece, dicono che le idee hanno radici o meno e se hanno radici hanno potenzialità di germogliare e poi fiorire. In tempi di desertificazione del pensiero e dell’azione politica, non è poco.
[Il mio primo articolo sul tema, altri ne seguirono: https://pierluigifagan.wordpress.com/…/leuro-nostrum/…]

Mali e Libia: “Meno elezioni, più etnografia e ciascuno troverà il proprio rendiconto”, di Bernard Lugan

Considerazioni illuminanti, per altro già ribadite, di Bernard Lugan a proposito di Mali e Libia. A maggior ragione per l’Italia, visto il suo crescente coinvolgimento in posizione gregaria in questa area così prossima e strategica, sia dal punto di vista geografico che da quello dell’approvvigionamento energetico e dei flussi migratori. Lasciamo perdere, per il momento l’intreccio di relazioni economiche, altrettanto importanti, ma improponibili in condizione di guerra endemica. Un coinvolgimento in particolare al fianco della Francia, in chiara difficoltà in tutta l’area, con l’aggiunta clamorosa dell’Algeria. La Francia, appunto, un paese “fratello-coltello” che non ha esitato a sferrare un colpo distruttivo, ai danni dell’Italia in Libia, pensando di subentrarvi, in realtà aprendo ulteriori varchi a Turchia e Russia. Si ritorna sul luogo del delitto riproponendo la visione manichea di imposizione della “democrazia” in un contesto che richiede altre modalità di ricomposizione delle fratture; in caso di temporaneo e formale successo non farà che rendere endemica la condizione di guerra civile. Dobbiamo rassegnarci ai “successi” dei profeti dell’Occidente? Buona lettura_Giuseppe Germinario
Un breve comunicato stampa riassuntivo per fissare un punto fermo. Dal 2011 nel caso della Libia, e dal 2013 in quello del Mali – vedi i resoconti dei numeri di Afrique Réelle e i miei comunicati stampa – , lavorando solo sull’unico reale, annuncio ciò che accadrà a livello globale in entrambi i paesi. In tutta umiltà, i fatti sembravano darmi ragione:
1) In Mali siamo in presenza di due guerre, quella dei Tuareg al nord e quella dei Peul al sud. In entrambi i casi, la questione non è primariamente religiosa perché l’islamismo è solo la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie. Nel nord la chiave del problema è detenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Quest’ultimo è però da tempo sostenuto dall’Algeria, come lo confermano i recenti incontri che ha appena avuto con i servizi algerini.
Fin dall’inizio, non dovremmo, come ho costantemente suggerito, arrivare a un’intesa con questo leader Ifora con cui abbiamo avuto contatti, interessi comuni, e la cui lotta è identitaria prima di essere islamista? Per ideologia, rifiutando di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Molto recentemente, il presidente Macron ha ordinato ancora una volta alle forze di Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stanno negoziando con lui una pace regionale…
Anche il conflitto nel sud (Macina, Liptako e la cosiddetta regione dei “Tre Confini”) ha radici etno-storiche. Tuttavia, lì si svolgono due guerre. Uno è l’emanazione di grandi frazioni dei Fulani e il suo insediamento avverrà parallelamente a quello del nord, attraverso un negoziato globale. L’altro, su base religiosa, è guidato dallo Stato Islamico.
L’errore francese è stato quello di globalizzare la situazione quando era imperativo regionalizzarla. In tal modo :
1) Parigi non ha voluto vedere che l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) e l’AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ) hanno obiettivi diversi. L’EIGS, che è attaccato a Daesh, mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Dal canto suo AQIM essendo l’emanazione locale di grandi frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, ovvero i Tuareg a nord e i Peul a sud, i suoi capi locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Peul Ahmadou Koufa, hanno principalmente obiettivi locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.
2) Parigi non ha voluto vedere che, il 3 giugno 2020, la morte dell’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Quaïda per tutto il Nord Africa e per il BSS, ucciso dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente i dati del problema. La sua eliminazione diede autonomia al Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelle degli “emiri algerini” che avevano a lungo guidato Al-Qaeda nella SSB, quella di Abdelmalek Droukdal ha segnato la fine di un periodo, al-Qaeda non più governata da stranieri, da “arabi”, ma da “regionali”. “. Tuttavia, questi capi regionali hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Peul. La mancanza di cultura dei leader francesi ha impedito loro di vederlo. Da qui l’attuale impasse. Tuttavia, avrebbero potuto pensare a ciò che scrisse il Governatore Generale dell’AOF nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e ognuno troverà qualcosa di suo gradimento ” …
Tuttavia, per i leader francesi, la questione etnica è secondario o addirittura artificiale. Lo “specialista” che mi era succeduto all’EMS di Saint-Cyr Coëtquidan dopo che ne ero stato licenziato, non aveva paura di dire e scrivere che l’approccio etnico è un “c…. “. Con tale formazione in superficie, i nostri futuri capisezione furono quindi costretti a prepararsi alla loro proiezione nella BSS con la lettura clandestina del mio libro Les guerres du Sahel des origines à nos jours , opera costruita appunto dai corsi che tenni al L’Ecole de Guerre e l’EMS prima della mia cacciata…
2) In Libia dove la questione è prima di tutto tribale – e non etnica -, e dove la guerra insensata ispirata da BHL ha portato allo scioglimento delle confederazioni tribali, quindi nell’anarchia, ho spiegato fin dall’inizio che la soluzione risiede nella ricostruzione del sistema politico-tribale un tempo costruito dal colonnello Gheddafi. Inoltre, non ho mai smesso di sostenere che l’unico che può rimetterlo insieme è Seif al-Islam Ghedhafi, suo figlio. Per un semplice motivo: attraverso suo padre, fa parte delle alleanze tribali della Tripolitania, e attraverso sua madre, di quelle della Cirenaica. Attraverso di essa può quindi rinascere l’ingranaggio tribale su cui poggia tutta la vita politica del Paese. Tutto il resto è solo un’artificiosa patina politica europea-centrica.
Secondo alcune fonti, Seif al-Islam Gheddafi, sostenuto dal Consiglio tribale, starebbe valutando di candidarsi alle prossime elezioni. Dove e quando potrebbe annunciare la sua candidatura? Dalla Libia o da un paese del Maghreb?

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

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