I POZZI ED IL PENDOLO, di Pierluigi Fagan

I POZZI ED IL PENDOLO. Era noto da anni che i fondali del Mediterraneo orientale fossero pieni di gas, basta vedere una cartina altimetrica delle profondità. Ma i trivellamenti davanti la costa di Egitto e poi davanti Israele hanno poi anche dato conferma probante. Ieri ENI ha confermato che assieme a Total (cartina nel primo commento), hanno trovato bei giacimenti al largo di Cipro. Altrettanti ce ne sono ancora di trivellare, anche davanti al Libano e Siria, nell’Egeo e nelle isole davanti la Turchia che però sono greche. La questione ucraina che ha imposto il nostro de-linking con la Russia accelera ora la ricerca e sfruttamento di questa ghiotta alternativa. Era tutto noto da tempo, ma si preferiva lasciare le cose come stavano anche perché nuovi giacimenti in zone condivise da sei stati, con di mezzo greci e turchi, ciprioti, siriani e libanesi (tra cui Hezbollah) con israeliani solo per parlare dei pozzi, poi si dovrebbe parlare delle condotte, dei diritti di trivellazione e di molto altro, promettevano conflitti certi. Ora ci siamo tolti il problema perché abbiamo un altro conflitto certo in Ucraina e quindi visto che abbiamo sdoganato il conflitto, diamoci sotto!
A me non va di scrivere un articolo di dettaglio, a voi probabilmente di leggerlo. Resto quindi sulle generali per dire una cosa più generale. Non dico su facebook e non dico a fini politici immediati, però direi che qualcuno tra gli studiosi di cose politiche dovrebbe forse rendersi conto della infondatezza degli attuali paradigmi entro i quali pensiamo.
Il mondo è sempre più complesso, imprevedibile, competitivo e rissoso. In questo scenario si muovono soggetti massivi (Stati grandi e potenti) di prima ed ormai anche di seconda potenza. Ogni questione con la quale abbiamo a che fare ci chiede o di esser interpretata a nostro modo, se ne abbiamo la forza (potenza) o di esser subita secondo convenienza altrui. Le questioni mondo sono analizzate e previste dai centri di intelligenza geo-strategica delle prime e seconde potenze. Noi non abbiamo nulla di tutto ciò.
Noi prendiamo il gas dai russi, poi qualcuno decide che no, allora scopriamo che “fortuna!” c’è un sacco di gas nel Mediterraneo. Che bello! Pensiamo ora, poi tra qualche anno quando ci saranno battaglie navali, colpi di stato qui e lì, migranti disperati, sofferenza e dolore per disputarsi i diritti sui nuovi giacimenti, diremo “che brutto!”. Segue donazione Save the Children e profluvio di articoli critici che criticano il perché piove mentre casca l’acqua. Noi ci stupiamo come bambini della pellicola di un film che qualcuno fa scorrere davanti a noi, gioendo, preoccupandoci, polemizzando, credendo di aver capito cose che non capiamo affatto. Noi pendoliamo emotivamente partecipando e giudicando eventi che però hanno noi dentro, non sullo schermo. Eventi che non spuntano fuori uno dopo l’altro come acqua da fontana sono serie di catene causative note e previste, a volte manipolate secondo altrui intenzione. La sola urgenza che molti sentono e giudicare, chi sono i cattivi, chi i buoni, chi quelli come me, chi quelli diversi e quindi contro di me. Noi non ci occupiamo di fatti ma di quello che altri pensano su quei fatti che siamo convinti di conoscere e non conosciamo affatto.
Trivelle, ecologia, nucleare, energia, produzione industriale, armi, fondi di ricerche, alleanze, sovranità, autonomie strategiche, culture strategiche, come tutto ciò va con “democrazia” sono speso argomenti che ci urtano, non ci piacciono, ci impongono studi che non sappiamo e vogliamo o possiamo fare. Soprattutto, ci imporrebbero il sacrificare valori per voleri. Eppure, è ciò che promana dalla realtà.
Il campo del pensiero ha una urgenza forte, riflettere sulle nostre categorie, sulle logiche, sugli strumenti, gli spazi ed i fondi necessari, l’organizzazione stessa visto che queste forme di pensiero invocano lavoro collettivo. Se non riformiamo il campo del pensiero, non avremo piani di azione realistica da condividere e senza questi non avremo massa critica per far cose che non sono facili affatto e sempre che siano anche solo possibili.
Se volete, potete senz’altro fare l’elenco dei desideri, via dall’UE, dall’euro, dalla NATO, dal neoliberismo, dal capitalismo, dall’Occidente brutto e cattivo, dalla Terra anche. Tanto più la realtà è brutta tanto più pendolerete verso le storie belle. Ma il “cosa” non vale nulla senza il “come” come disse quello …

Terrorismo saheliano: è giunta l’ora di fare il punto, di Bernard Lugan

Il declino inarrestabile della Francia e della sua eredità coloniale in Africa. La fine di un ordine relativo. Giuseppe Germinario

Nel Sahel la situazione sembra ormai fuori controllo. Richiesto dagli attuali leader maliani in seguito ai molteplici errori di Parigi[1], il ritiro francese ha lasciato il campo aperto ai GAT (Gruppi terroristici armati), offrendo loro persino una base d’azione per destabilizzare Niger, Burkina Faso e paesi vicini. I risultati politici di un decennio di coinvolgimento francese sono quindi catastrofici.

Un disastro che può essere spiegato da un errore originale nella diagnosi. La polarizzazione sul jihadismo era infatti l’alibi usato per mascherare l’ignoranza dei decisori francesi, unita alla loro incomprensione della situazione, essendo il jihadismo qui prima di tutto la superinfezione di ferite etniche secolari e talvolta addirittura di millenni.

Smettere di vedere la questione del Sahel attraverso il prisma delle nostre ideologie europeo-democratico-centriche e dei nostri automatismi è ormai una necessità imperativa. La sostituzione dell’attualità nel loro contesto storico regionale è quindi la prima priorità in quanto legata a un passato sempre attuale che condiziona largamente le scelte e gli impegni di entrambe le parti[2].

L’ho già scritto molte volte, ma è importante ripeterlo, quattro errori principali che spiegano l’attuale deterioramento della situazione della sicurezza regionale sono stati commessi dai decisori politici francesi:

Errore n. 1

Aver “essenzializzato” la questione qualificando sistematicamente come jihadista qualsiasi bandito armato o anche qualsiasi portatore di armi.

Errore #2

Aver scambiato per “contanti” l’astuzia degli “esperti” che facevano credere loro che coloro che definivano jihadisti fossero mossi dal desiderio di combattere l’islam locale “deviato”. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, eravamo in presenza di trafficanti che si dichiaravano jihadisti per coprire le loro tracce; perché è più gratificante pretendere di combattere per la maggior gloria del Profeta che per cartoni di sigarette o carichi di cocaina. Da qui il connubio tra tratta e religione, il primo avvenuto nella bolla assicurata dall’islamismo.

Errore #3

Aver rifiutato di vedere che ci trovavamo di fronte al groviglio di rivendicazioni etniche, sociali, mafiose e politiche, adeguatamente vestite con il velo religioso. Secondo Rikke Haugegaard (2018) “ Shariah “affari nel deserto”. Comprendere i legami tra reti criminali e jihadismo nel nord del Mali . “, Online , saremmo quindi al cospetto di tutto questo contemporaneamente, con gradi di importanza diversi di ogni punto a seconda del momento:

“Le azioni dei gruppi jihadisti sono guidate da una combinazione di fattori, che vanno dalle lotte di potere locali ai conflitti interni ai clan, al perseguimento di interessi economici associati al commercio di contrabbando”.

Nel suo rapporto del 12 giugno 2018, Crisis Group ha scritto:

“(…) il confine tra il combattente jihadista, il bandito armato e colui che imbraccia le armi per difendere la sua comunità è sfumato. Fare a meno di questa distinzione equivale a collocare nella categoria dei “jihadisti” un vivaio di uomini armati che, al contrario, trarrebbero vantaggio da un trattamento diverso” Crisis Group., (2018) “Confine Niger-Mali: mettere al servizio lo strumento militare di approccio politico ”. Rapporto Africa n°261, 12 giugno 2018.

Errore #4

Questo errore che spiega gli altri tre è l’ignoranza delle costanti etno-storico-politiche regionali, che ha avuto due grandi conseguenze negative:

– Spiegazioni semplicistiche sono state applicate alla complessa, mutevole e sottile alchimia umana saheliana.

– Mentre qui il jihadismo è prima di tutto la superinfezione di vecchie ferite etno-storiche, proponendo come soluzione l’eterno processo elettorale che altro non è che un’indagine etnica a grandezza naturale, la necessità di colmare il “deficit di sviluppo” o la ricerca perché “buon governo” è ciarlataneria politica…

Ecco perché un conflitto originariamente localizzato solo nel nord-est del Mali, limitato a una fazione tuareg, e la cui soluzione dipendeva dalla soddisfazione delle legittime richieste politiche di quest’ultima, si è trasformato in una conflagrazione regionale che sfugge ora a ogni controllo.

Torna indietro :

Nel 2013, quando il progresso di Serval e la riconquista delle città del nord del Mali hanno dovuto essere subordinati a concessioni politiche da parte del potere di Bamako, i decisori francesi hanno esitato. Poi non hanno osato imporli alle autorità meridionali del Mali, scegliendo di appoggiarsi all’illusione della democrazia e al miraggio dello sviluppo.

Tuttavia, come dimostrano costantemente gli eventi, in Africa democrazia = etno-matematica, che ha come risultato che i gruppi etnici più numerosi vincono automaticamente le elezioni. Per questo, invece di estinguere le fonti primarie degli incendi, i sondaggi le riaccendono. Per quanto riguarda lo sviluppo, in quest’area si è già sperimentato di tutto fin dall’indipendenza. Invano. D’altronde, come possiamo ancora osare parlare di sviluppo quando è stato dimostrato che la demografia africana suicida vieta ogni possibilità?

Dimentichi della storia regionale, i decisori francesi non hanno visto che i conflitti attuali sono prima di tutto rinascita di quelli di ieri e che, facendo parte di una lunga catena di eventi, spiegano gli antagonismi o la solidarietà di oggi.

Così, prima della colonizzazione, i sedentari del fiume e delle sue regioni esposte venivano catturati nelle tenaglie predatorie dei Tuareg a nord e dei Fulani a sud. Alla fine dell’800, con la colonizzazione liberatoria, l’esercito francese bloccò l’espansione di queste entità predatorie nomadi il cui crollo avvenne nella gioia delle popolazioni sedentarie da loro sfruttate, i cui uomini massacrarono e vendettero donne e bambini agli schiavisti nel mondo arabo-musulmano.

Ma, così facendo, la colonizzazione ha ribaltato gli equilibri di potere locali offrendo vendetta alle vittime della lunga storia africana, riunendo predoni e predoni entro i limiti amministrativi dell’AOF (Africa occidentale francese). Tuttavia, con l’indipendenza, i confini amministrativi interni di questo vasto insieme divennero confini statali entro i quali, essendo i più numerosi, i sedentari prevalevano politicamente sui nomadi, secondo le leggi immutabili dell’etnomatematica elettorale.

Come potrebbero allora i decisori francesi immaginare che con mezzi derisori sulla scala del teatro delle operazioni, e mentre i paesi della BSS sono indipendenti, sarebbe stato possibile per Barkhane chiudere queste ferite etnorazziali aperte? la notte dei tempi e quali costituiscono il terreno fertile per i gruppi terroristici armati (GAT)?

Nel 2020, a questa ignoranza dell’ambiente e della sua storia si è aggiunta l’incomprensione di una nuova situazione, quando la lotta all’ultimo sangue tra EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) e AQIM ( Al-Qaeda per il Maghreb Islamico ) , è peggiorato, offrendo così alla Francia una superba opportunità d’azione. Ma ancora, sarebbe stato necessario che i “piccoli marchesi” laureati in Scienze-Po che fanno la politica africana della Francia sapessero che:

– L’EIGS collegato a Daesh mira a creare in tutta la BSS (Banda Sahelo-Sahariana), un vasto califfato transetnico che sostituisca e comprenda gli stati attuali.

– Mentre AQIM è l’emanazione locale di grandi frazioni dei due grandi popoli all’origine del conflitto, vale a dire i Tuareg e i Fulani, i cui capi locali, i Tuareg Iyad Ag Ghali e i Fulani Ahmadou Koufa, non sostengono il distruzione degli attuali stati saheliani.

Tuttavia, in quanto ignoranti, i decisori politici parigini non hanno saputo sfruttare questa opportunità per cambiare politica poiché, conoscendo un po’ la regione, l’ho suggerito nel mio comunicato stampa del mese di ottobre 2020 intitolato ” Mali: è necessario il cambio di paradigma .

Tanto più che, e ancor di più, il 3 giugno 2020, la morte dell’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia saheliana, ucciso a colpi d’arma da fuoco dall’esercito francese. autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e ai Peul Ahmadou Koufa, liberandoli così da ogni soggezione esterna. Gli “emiri algerini” che fino ad allora avevano guidato Al-Qaeda nella BSS essendo stati liquidati da Barkhane , Al-Qaeda non era quindi più guidata lì da stranieri, da “arabi”, ma da “regionali”.

Nemmeno Parigi comprendeva che questi ultimi avevano un approccio politico regionale, che le loro rivendicazioni erano principalmente risorgive radicate nei loro popoli e che il “trattamento” delle due frazioni jihadiste meritava quindi rimedi diversi. Non vedendo che c’era un’opportunità sia politica che militare da cogliere, i decisori parigini hanno categoricamente rifiutato qualsiasi dialogo con Iyad ag Ghali. Al contrario, il presidente Macron ha persino dichiarato di aver dato a Barkhane l’obiettivo di liquidarlo. Infatti, obbedendo agli ordini, il 10 novembre 2020 le forze francesi uccisero Bag Ag Moussa, il luogotenente di Iyad ag Ghali, mentre, per diversi mesi, i funzionari militari francesi a terra avevano molto intelligentemente evitato di intervenire direttamente su questo movimento .

Contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane , Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “sfruttando” indiscriminatamente tutti i GAT perentoriamente qualificati come “jihadisti”, rifiutando così qualsiasi approccio “buono”… “à la french »…

Ecco perché, in definitiva, sommando errori, chiusi nella loro bolla ideologica e trascurando di tenere conto del peso dell’etno-storia, i leader francesi hanno definito una politica nebulosa che confonde effetti e cause. Una politica che potrebbe portare solo al disastro attuale…

Bernard Lugan


[1] Si vedano tra gli altri sul blog di Afrique Réelle i miei comunicati stampa dell’agosto 2019 ” Senza tenere conto della storia non si può vincere la guerra nel Sahel” ; di ottobre 2020 “ Mali: serve il cambio di paradigma ”; di giugno 2021 ” Barkhane vittima di quattro principali errori politici commessi dall’Eliseo”, e di febbraio 2022 “Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia “.

[2] A questo proposito si veda il mio libro: “ Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri ”.

La guerra dei due islam, di Bernard Lugan

Volgiamo ancora una volta lo sguardo all’Africa. Se il confronto multipolare non vuole arrivare ad uno scontro diretto distruttivo e catastrofico deve trovare le proprie valvole di sfogo nelle varie periferie del mondo, in un quadro comunque di sempre maggiore consapevolezza delle classi dirigenti in quelle aree, ben più chiara e disincantata che nel periodo post-coloniale. I paesi, come quelli europei, che hanno deciso di tagliare drasticamente i ponti e i legami commerciali con la Russia e ridurre quelli con la Cina dovranno necessariamente rivolgere lo sguardo e le mire verso l’Africa. Lo faranno al guinzaglio del loro padrone statunitense e ritroveranno in quell’area i nemici più o meno costruiti dalle strategie americane, ma con il pesante retaggio del loro passato coloniale e la realtà della loro debolezza politica, militare ed economica. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il terrorismo islamico attualmente attivo in Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso, Nigeria, in Camerun, ma anche più a sud, nella fascia sahelo-guineana è giustificata dai suoi autori in nome della natura stessa della religione. Si oppone a un radicato Islam africano e a un Islam arabo importato

Islam purificato e islam eretico

Per quanto riguarda la sua componente religiosa, il fenomeno jihadista in cui osserviamo
tutto il Sahel è quello di un tentativo di presa controllo delle popolazioni musulmane da parte dei sostenitori di un Islam importato dall’Arabia. Per quest’ultimo, l’Islam tradizionale dell’Africa occidentale deve effetto da “purificare” perché eretico per due grandi ragioni:
1) In Africa occidentale, all’interno del sunnismo quasi esclusivo, domina il malekismo, scuola di diritto Musulmano che, oltre alla sunnah e agli hadith, utilizza anche nella sua giurisprudenza la consuetudine degli antichi abitanti di Medina. Trasposta in Africa, questa scuola naturalmente ha preso conto delle usanze preislamiche locali, che spiegano l’esistenza di questo Islam festivo, terapeutico e perfino taumaturgico denunciato dai
Wahhabiti.
2) Anche l’Islam tradizionale dell’Africa occidentale lo è largamente influenzato dal sufismo, che prese il sopravvento modulo di borsa di studio. Così è con il Tijaniyya,
maggioranza in Senegal e fortemente radicata in Camerun dove ancora la dominazione dei Fulani e degli Hausa.
Il suo fondatore, Ahmed al Tijani, ha affermato discende da Hassan, nipote del Profeta
Maometto. Nel 1881, lo stesso Profeta sarebbe sembrato dirgli che lo era stato scelto per essere, presso di lui, l’intercessore dei credenti che hanno seguito il suo cammino: «Sii mio vicario sulla terra (…) sarò il tuo intercessore con Dio “.
Il Profeta gli avrebbe poi insegnato il rituale religioso della confraternita che gli ordinò di fondare in un modo nuovo che gli rivelò. Scorso portatore della parola divina, è Ahmed al Tijani quindi indicato dai suoi seguaci come il “sigillo dei santi (“khatm al-awliya”), quello che completa la trasmissione del messaggio divino.
A Fez, intorno alla sua tomba, i pellegrini girati verso la Mecca per rivolgerti ad Allah
chiedendo ad Ahmed al Tijani e al Profeta di intercedere in loro favore.
Per i wahhabiti, associando il nome di Allah e il Profeta a colui che considerano un
“ciarlatano”, è sia blasfemia che politeismo perché ad Allah, Dio unico, meritevole di Sola preghiera e invocazione, è vietato chiedere altri ciò che appartiene solo a Lui.
La purificazione di questo Islam che considerano come essere “deviante” ed “eretico” è quindi per loro una necessità che passa attraverso il ritorno al solo Corano e dal rifiuto di ogni tradizione umana, inquinando per definizione il messaggio divino.
Il wahhabismo si sviluppò contro le usanze locali. Vieta severamente la costruzione
di mausolei funerari, sostiene un rapporto diretto del credente a Dio vietando gli intermediari, quindi marabutti e altri santi venerati dall’Islam africano. Allah, unico dio meritevole esclusivo di preghiera e invocazione; infatti non è questione di chiedere agli altri cosa che appartiene a Lui. Anzi, l’unico peccato irrinunciabile per l’Islam è associazionismo (shirk). Lo sconto causa dell’unità divina (tawhid) dall’introduzione
di una sacra mediazione tra i fedeli e Dio.
Nasce così il concetto di innovazione biasimevole (Bid’a) indica qualsiasi credenza, pratica o consuetudine, che non sia basata su una datazione precedente dal tempo del Profeta.
Per i wahhabiti, tutto ciò che non è prescritto nel Corano deve essere combattuto ed è per questo che i mausolei funerari dei santi intercessori devono essere rasi, come è stato il caso a Timbuctù nel 2012.
Le confraternite vengono così duramente attaccate. I loro maestri sono chiamati stregoni a causa del loro culto della possessione, uso dei tamburi, danza, credenza negli amuleti e
spiriti. Inoltre, il loro rifiuto delle barbe lungo, la “fattorizzazione”[1] delle preghiere in moschea, il rito della morte che prevede il funerale tre giorni dopo la morte, e non nella
ore che lo seguono, li fa considerare come “eretici” dai sostenitori delle varie correnti wahhabite.
Un Islam importato e rivoluzionario
L’introduzione dell’Islam wahhabita in Africa risale all’era della Guerra Fredda. Nel
contesto della lotta allora condotta dall’Arabia, alleato saudita dell’Occidente e l’Egitto laico del Colonnello Nasser, la dinastia Saud ha cercato di farlo bypassare l’Egitto da sud, esportando a sud del Sahara la sua ideologia di stato, il Wahhabismo.
Nel maggio 1962, alla Mecca, la Lega mondiale musulmana. Nel gennaio 1973,
si è tenuta a Riyadh una Conferenza Mondiale della Gioventù Musulmana. In questa occasione si definiva una vera politica missionaria con la costruzione di moschee e scuole coraniche libere Wahhabite.
Il successo del wahhabismo è ampiamente spiegato dal suo ruolo sociale a favore delle piccole élite declassate. Nel moderno sistema educativo, la stragrande maggioranza di coloro che frequentano la scuola ne sono sprovvisti uso. Per quanto riguarda la scuola coranica tradizionale, la medersa, è del tutto inadatto perché, se i bambini imparano sicuramente l’arabo e il Corano lì, è proprio così la frequenza, tuttavia, non dà accesso a
lavoro perché la società riconosce solo i diplomi rilasciati per tipo di istruzione
occidentale.
Dopo aver analizzato attentamente la situazione, i wahhabiti fondarono quindi scuole coraniche in cui è certamente insegnato l’Islam rigoroso, ma anche scienza moderna. Paradossalmente, il ritorno alle fonti religiose permette un’apertura a conoscenza, quindi al lavoro.
Questo Islam radicale sintetizza le delusioni, le delusioni e le frustrazioni delle popolazioni del Saharosahel. Offre loro un cambio di paradigma. Quindi, lungi dal negare la loro arretratezza, lo spiega: se alcune aziende sono in stallo, è perché volevano imitare l’Occidente. Essi devono quindi interrogare l’ordine economico e politico mondiale con i suoi valori, aderire o ritorno alle radici dell’Islam.
Contemporaneamente a questo interrogatorio, gli standard elementi visibili del wahhabismo si stanno gradualmente affermando grande giorno: burqa, separazione di genere, nuovo riti funebri, preghiera notturna (tahajjud), tutto pratiche finora sconosciute a sud del Sahara.
Ormai ben consolidati, hanno spiegato gli imam sauditi, del Qatar e del Pakistan
popolazioni africane che la loro arretratezza è dovuta a questo che i loro capi volessero imitare l’Occidente. il passa così la via del progresso e della liberazione dal rovesciamento di quest’ultimo, dal rigetto del valori empi e dall’adesione all’Islam “autentico”.
Il successo di questo Islam importato sta gradualmente conducendo sulla creazione di un’identità africana artificiale musulmano arabo che incoraggia la vendetta precedentemente dominato. In nome di un Islam purificato e egualitari, questi ultimi sono incoraggiati a combattere i loro ex padroni che sono seguaci di un Islam “corrotto”.
Giovani musulmani sempre più arabizzati della zona sahelo-guineana vede così in questo
Islam rivoluzionario, il modo per sfidare il volte il potere degli ex gruppi etnici dominanti
(i Fulani in Camerun, i Mori e i Tuareg in Mali ecc.), un sistema religioso fraterno che
li imprigiona, e le oligarchie che sono al potere fin dall’indipendenza.

https://bernardlugan.blogspot.com/

SE QUESTO È UN POPOLO, di Marco Giuliani

SE QUESTO È UN POPOLO

Ennesima strage di civili a Gaza per mano di Israele. Il silenzio e la complicità delle grandi potenze

Noi speranzosi, ci siamo spesso domandati come potrà – semmai dovesse avvenire – evolvere in meglio, generando pace, il processo geopolitico mediorientale, e nella fattispecie le tormentate relazioni israelo-palestinesi. In questa prima parte di agosto 2022, però, è ancora un dovere riflettere (amaramente) sul sopracitato argomento storico-politico perché si è appena perpetrata un’ulteriore strage di civili a seguito dell’ennesima “operazione di sicurezza” degli israeliani. Sul campo di Gaza, tra sabato 6 e domenica 7 agosto sono caduti molti bambini e molte donne innocenti, e l’indifferenza dei grandi capi di stato, al contrario di ciò che è successo per gli ucraini, provoca indignazione. Il sentimento di pietas a giorni alterni delle nazioni cosiddette “democratico-liberali” e più sviluppate è ormai arcinoto e diviene tanto più disgustoso quanto più è premeditato.

Allora, facciamo un paio di esempi non troppo a caso: Usa e Italia, che per ovvie ragioni ci interessano di più essendo oggi due governi fratelli e simbiotici anche in fatto di riarmo. La Casa Bianca è l’antico alleato di Israele e da questa variabile indipendente se ne generano altre, altrettanto importanti e decisive. Suddetta condizione garantisce una protezione non solo politica e militare a Tel Aviv, ma genera a sua volta un concatenarsi di elementi per cui l’Occidente Atlantico si senta vincolato a comportarsi di conseguenza, senza intromettersi né esprimersi, neanche dal punto di vista formale. Oppure, quando lo fa, come nel caso della Farnesina dopo gli ultimi attacchi aerei sulla Striscia, sembra mentire al mondo intero e a sé stesso. I morti palestinesi passano in secondo piano, mentre al contempo entra in circolo un meccanismo secondo cui la vittima si trasforma in aggressore, e al contrario, chi invade diviene vittima. La frase fatta, ritrita, pubblicata sui profili social del Ministero degli Esteri italiano, è la solita «condanna per il lancio di razzi verso Israele». Okay, e le oltre 40 vittime palestinesi (e zero israeliane) che significato hanno? Sono state assassinate per scherzo? Il signor Di Maio, mentre si prepara a traslocare, ci spieghi quale tipo di sudditanza malata scaturisce, visto l’artificioso rovesciamento dei ruoli a mezzo stampa, pur di non contravvenire all’amicizia interessata con lo stato ebraico. Che tipo di messaggio invia a quella parte di comunità che non è bene informata sulla annosa questione mediorientale e sul suo sviluppo in divenire? Lo sappiamo, è banale e scontato ripeterlo. Il rapporto del do ut des è sempre attuale, ma in alcune circostanze suona come un lubrico servilismo verso il potente di turno.

Povera Palestina, ridotta a una prigione a cielo aperto che non permette di fuggire a chi tenta di farlo come rifugiato di guerra. Già, neanche questo è consentito a quei cittadini sotto le bombe che attendono di far parte di uno Stato legittimo da circa un secolo. Se questo è un popolo; se lo è, parafrasiamo al plurale il libro di Levi, che tanti strumentalizzano. E allora i potenti della terra intervengano, parlino e condannino, o perlomeno smettano di trafficare in armi ipertecnologiche con Israele, che oramai è tra i paesi più all’avanguardia dal punto di vista militare. Se questo è un popolo, continuare a parlare di guerra è ipocrita, perché Tel Aviv da anni gioca al gatto col topo, ripetendo sempre più frequentemente migliaia di operazioni definite “preventive”, le quali uccidono migliaia di poveracci che con il terrorismo islamico non c’entrano nulla. Se questo è un popolo, tutti i piagnoni che dal divano di casa “abbaiano” – cit. papa Francesco – all’invasione russa in Ucraina (scordandosi del massacro di migliaia di russofoni da parte di Kiev) e si scandalizzano della propaganda del Cremlino (come se dall’altra parte non ci fosse) urlino anche adesso, se hanno un minimo di credibilità; si dissocino dal bagno di sangue che avviene periodicamente presso la Striscia di Gaza. Anzi, facciano prima: siccome è un triste teatrino che oggi va di moda, chiedano ai rispettivi governanti di spedire armi al popolo aggredito in modo che possa difendersi. No, non lo fanno, perché i bambini palestinesi sembrano appartenere a un mondo lontano e forse perché non hanno gli occhi chiari come tanti ucraini. Forse perché sono musulmani? O forse perché POCHI fanno credere a MOLTI che Tel Aviv sia l’unico modello di democrazia del quadrante mediorientale (pensate se non lo fosse…).

Se questo è un popolo, infine, gli venga permesso di accedere agli ospedali quando ha dei feriti da curare, e non vengano sbarrati gli accessi alle autorità sanitarie, come denunciato poche ore fa da Medici senza Frontiere. Sempre se questo è un popolo.

 

MG

 

 

BIBLIOGRAFIA

Televideo Rai, pagina 150 del 07/08/2022 –

Sky TG24, edizioni del 6 agosto 2022 –

 

SITOGRAFIA

Profilo Twitter del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, consultato il 07/08/2022 –

Profilo Facebook di Medici senza Frontiere, pagina consultata l’8/08/2022 –

www.adnkronos.com, pagina del 7 agosto 2022 consultata il 9 agosto 2022 –

www.centrostudiamericani.org, pagina del 9 agosto 2022, consultata il 9 agosto 2022 –

 

 

 

La Turchia, l’Italia e il realismo_di Giuseppe Gagliano

Articolo come sempre ben centrato nella sua consueta essenzialità. Il focus è incentrato su uno Stato, la Turchia e un capo di governo, Erdogan, destinati ad assumere, nella veste di una potenza di media grandezza, un ruolo di primo piano in un ampio, se non addirittura sovradimensionato, in assenza di supporto e placet da parte dei grandi, spazio che va dall’area turcomanna, ai Balcani, all’Europa Orientale, al vicino oriente, al Mediterraneo Centro-Orientale, all’Africa Sahariana e Sub-sahariana. Offre altresì uno spunto interessante sulle miserie domestiche per caratterizzare ulteriormente, a seconda dei casi, la postura rispettivamente di plenipotenziario, di luogotenente e di cerbero di Mario Draghi, sotto le mentite spoglie di Capo di Governo. Non so se avete notato l’apparente discrasia tra l’annuncio trionfalistico e denso di aspettative per il prestigio del paese che ha accompagnato l’investitura a Presidente del Consiglio di Mario Draghi e il tono dimesso che ha accompagnato le particolari e specifiche prestazioni del nostro nell’agone internazionale. Un po’ c’entra la goffaggine con la quale il nostro si è avventurato nelle sue scorribande, specie esterne e prospicienti al suo territorio di elezione e di coltura, l’Europa; una sorta di ripetitore automatico, spesso gracchiante ed approssimativo. Tantissimo c’entra il merito della sua missione e la natura dell’esercizio delle sue funzioni.

Mario Draghi, ammantato dell’aura di supertecnocrate, è stato invocato per sistemare la farraginosa macchina amministrativa quel tanto che bastasse per avviare e mettere in atto il PNRR. Al di là delle aspettative illusorie affidate al piano e al netto dei suoi aspetti compromettenti e vincolanti, il nostro sta deludendo nell’ambito riformatore, sta ampiamente conseguendo altresì l’obbiettivo di vincolare ulteriormente le future politiche economiche e, conseguentemente, le dinamiche geopolitiche del nostro paese al carro NATO-UE ormai sempre più simbiotico. La missione ormai nemmeno tanto più occulta ed imprescindibile è un’altra: condurre con mano i paesi europei dell’area mediterranea all’interno delle spericolate strategie dell’attuale leadership americana. Con poco sforzo Spagna, Portogallo e Grecia hanno seguito il buon pastore in ordine ed allineati. Vigilare sui comportamenti di Macron in Francia e Scholz in Germania. I due conoscono sin troppo bene la propensione gregaria e la fonte primaria della sua affiliazione. E’ evidente lo scarso gradimento riguardo alla sua ossessiva presenza; hanno il serio problema, a prescindere dalla loro indole e propensione politica, di dover fronteggiare i forti impulsi di autonomia presenti all’interno dei rispettivi paesi. Che sia questa la funzione essenziale da svolgere lo si deduce dalla irrilevanza dei risultati ottenuti in ambito UE da Mario Draghi in materia di calmieramento e compensazione dei danni seguiti alla pedissequa attuazione delle sanzioni nominalmente ai danni della Russia. L’aspetto più pernicioso, che rivela per altro definitivamente lo spessore umano della persona e dell’uomo di governo, si è manifestato nella postura assunta di recente nei confronti della Turchia. A fronte di qualche risultato raggiunto nel campo degli scambi commerciali e delle commesse industriali, in settori nei quali per altro l’Italia ha mantenuto parzialmente la capacità produttiva ma perso significativamente il controllo strategico, risalta l’accettazione acritica della superiore postura strategica assunta dalla Turchia in aree di interesse vitale dell’Italia, a cominciare dal controllo degli hub energetici del Mediterraneo Orientale per finire con la gestione della crisi libica. Il tutto ovviamente in linea con l’accettazione pedissequa dei nuovi orientamenti statunitensi nei confronti della Turchia, ma particolarmente onerosi per il nostro paese. Dal punto di vista simbolico la irridente anticamera imposta a Draghi e a mezzo governo italiano in attesa del vertice è stata una significativa illustrazione della reale condizione geopolitica del nostro paese della quale il nostro luogotenente non fa che prendere atto e perseguire, perfezionandola. Questo commento non è una gratuita e sterile manifestazione di livore nei confronti di un personaggio tanto estraneo quanto influente nell’agone politico italiano. Vuole stigmatizzare la tragica e grave condizione nella quale sta trascinando il paese grazie alla sua pedissequa e solerte esecuzione dei dictat statunitensi. Non è demerito suo esclusivo. Ad esso contribuiscono la grettezza della quasi totalità della nostra classe dirigente e, con la parziale eccezione di parte degli ambienti vaticani, la condizione inebetita dell’intero ceto politico. Quest’ultima è ancora una volta patrimonio comune delle compagini che sostengono il governo e della forza di opposizione: la prima a partire dalla veste assunta dal Partito Democratico, il quale per esplicita ed ostentata ammissione, ha scelto una postura “discreta” e riservata proprio per non ostacolare il cammino di Draghi; la seconda, Fratelli d’Italia, assumendo una posizione ostentatamente più realista del re tale da farla apparire pienamente corresponsabile dei prossimi disastri annunciati. Sulla base degli antefatti, molto probabilmente Mario Draghi riuscirà a sgattaiolare senza particolari danni in tempo utile per sfuggire al prossimo redde rationem; addirittura con qualche benemerenza e lascito aggiuntivo. Il cerino acceso rimarrà in mano ai suoi improbabili epigoni. In quel momento, ormai prossimo, il paese dovrà seguire necessariamente una delle due vie obbligate: una opzione autonoma ed indipendente, dai costi comunque pesanti, tale da tirarsi fuori dalla trappola costruita dall’avventurismo disperato dell’attuale leadership statunitense; la continuità nelle attuali per così dire “scelte” che avranno per epilogo l’individuazione definitiva nella Russia del capro espiatorio responsabile del disastro autolesionistico economico-sociale prossimo a venire e relativo corollario di una politica apertamente bellicista, del tutto autolesionistica per l’intero continente europeo. Il compimento tragico di un percorso avviato con la 1a guerra mondiale e proseguito con la 2a. Un paese come l’Italia, il quale quattro anni fa, ha ostentatamente rifiutato di giocare nel Mediterraneo le carte che le sono state offerte, non merita alcuna considerazione, almeno sino a quando non vorrà liberarsi delle proprie nullità al comando. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Come le democrazie liberali a volte si piegano alla ragion di Stato. Il caso della Turchia e dell’Egitto. Il corsivo di Giuseppe Gagliano

Numerosi sono i cantori dei supremi valori della democrazia liberale. Valori, questi, che tuttavia – almeno nel contesto della politica estera – vengono profondamente ridimensionati di fronte alla ragion di Stato. Per non dire vanificati. Ieri con l’Egitto. Oggi con la Turchia.

Questa discrasia tra la realtà effettuale e i nostri ideali è pienamente giustificabile e comprensibile all’interno di una determinata cornice teorica quale quella del realismo ma diventa priva di legittimità e di giustificazione se si abbraccia un approccio di tipo liberale alla politica internazionale. Cosa ha indotto il nostro paese a consolidare i propri legami con la Turchia dopo le dichiarazioni di Mario Draghi fatte lo scorso anno a proposito del premier Erdogan definito un dittatore ? Vediamole in breve.

In primo luogo la necessità di contenere i flussi migratori proventi della Libia, sulla quale ormai la Turchia esercita una politica di influenza sempre più rilevante che ha in breve tempo marginalizzato quella italiana; in secondo luogo, grazie al gasdotto Tap l’Italia avrà sempre più bisogno della Turchia. E avrà sempre più bisogno della Turchia come delle nazioni africane e di quelle mediorientali perché l’Italia ha da molto tempo rinunciato ad avere una politica energetica autonoma.

Quanto alle sinergie strette tra Italia e Turchia nel settore degli armamenti queste non fanno altro che consolidare quelle che già esistono da molto tempo, come abbiamo avuto modo di indicare in un articolo precedente. Se poi guardiamo alle scelte poste in essere dal premier turco sia in relazione al vertice di Madrid della Nato – dove è riuscito a ottenere, senza troppo clamore, che in cambio di un suo ‘sì’, in relazione all’ingresso di Helsinki e Stoccolma nella Nato, la Finlandia e la Svezia promettessero di non prestare più sostegno ai leader curdi che Ankara considera ‘terroristi’ -, sia a indurre gli USA a rivedere la loro decisione di non vendere i 40 caccia F16 il vero vincitore del vertice di Madrid è certamente il premier turco.

Forse sulla carta e sui preziosi volumi di diritto internazionale e di filosofia della politica i valori della democrazia sono sacri e puri – come l’amore narrato nei film hollywoodiani – ma nel contesto della realtà conflittuale, quale è quella della politica internazionale, questi valori vengono profondamente ridimensionati e relativizzati. Ecco che allora la realtà concreta nella quale viviamo assomiglia a una via di mezzo fra un dramma e una tragica farsa.

https://www.startmag.it/mondo/turchia-egitto-italia-ragion-di-stato/?fbclid=IwAR01QO-5qz7R_tQLpoOGDb3c83f-DfpOfnKyd9vufBZmVgoMqtKPKi9CTq8

La giunta maliana non è un “regime difensivo nazionalista” ma un pioniere africano, di Andrew Korybko

Ci siamo soffermati più volte sul Mali, grazie anche ai fondamentali contributi di Bernard Lugan. E’ stato il primo paese a subire i pesanti contraccolpi dello scellerato intervento della NATO in Libia, nel 2011, conclusosi con il terribile eccidio di Gheddafi e di uno dei suoi figli. Le truppe scelte di pretoriani, rimasti orfani del capo e mecenate, presero la strada del Mali e diedero un apporto sostanziale alla ripresa dei conflitti di natura tribale in un quadro di contrapposizione atavica tra la popolazione nera stanziale e quella nomade presente a nord del paese. I francesi furono chiamati dai militari al governo a sedare la ribellione. Agirono, più o meno pretestuosamente, adottando il comodo discrimine del conflitto religioso, facendo della guerra al radicalismo islamico il vessillo delle loro imprese e costringendo l’azione politico-militare entro questa chiave largamente fuorviante. Il risultato è stato l’acuirsi delle rivalità e il fallimento disastroso dell’operazione nell’immediato. Ancora peggiori e disastrose le conseguenze future, in particolare per la Francia e per tutti i paesi, compresa l’Italia, i quali del tutto gratuitamente hanno offerto il sostegno all’operazione. Il discredito e l’alea di impotenza ed inaffidabilità rapace che sono riusciti a generare priverà di senso e autorevolezza ogni dichiarazione di intenti per decenni. La situazione dei regimi politici africani è profondamente cambiata. Sono realtà fortemente dipendenti dal punto di vista economico e politico, ma non sono più semplici marionette da manipolare a piacimento; soprattutto possono contare su numerosi interlocutori alternativi all’Occidente, dalla Cina, alla Russia, alla Turchia, all’India, ai sauditi. Hanno rapidamente imparato a non dire sì prima ancora che si pongano le domande. Una postura che il ceto politico italiota è ancora lungi da perseguire con la conseguente immagine e realtà di vacuità ed insignificanza che l’Italia ormai offre da tempo. Mario Draghi ne rappresenta solo l’apoteosi e l’essenza mortifera definitiva. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Colpo di stato in Mali; come la giunta ecowas ha revocato le sanzioni economiche

L’esempio maliano incute timore nel cuore dei leader occidentali poiché li fa sospettare che alcuni degli stessi uomini incaricati di far rispettare i loro regimi neocoloniali nell’Africa occidentale potrebbero essere segretamente combattenti per la libertà antimperialisti che complottano per rovesciare questi sistemi ingiusti dall’interno come la giunta di quel paese era chiaramente con il senno di poi.

La BBC ha condannato la giunta maliana come un cosiddetto “regime nazionalista difensivo” che “ha abilmente giocato” sulle percezioni popolari nella regione per convincere l’ECOWAS a revocare le sue sanzioni paralizzanti in un pezzo che l’outlet ha appena pubblicato intitolato ” Colpo di stato in Mali: come la giunta ha fatto revocare le sanzioni economiche di Ecowas ”. Non è altro che un pezzo di successo che ruota la valorosa difesa della giunta di interessi nazionali oggettivi di fronte alle sanzioni neoimperialistiche sostenute dalla Francia dell’ECOWAS a causa della paura che l’Occidente guidato dagli Stati Uniti ha dell’esempio continentale dato da Bamako.

Attraverso “l’approvazione di una nuova legge elettorale e disposizioni per un’autorità elettorale, e una tabella di marcia dettagliata per la transizione e, soprattutto, un calendario fisso che fissa una scadenza fissa per il primo turno delle elezioni presidenziali che si terrà a febbraio 2024”, la giunta ha convinto questo blocco regionale a revocare le sue restrizioni economiche nei confronti del Paese. Rispondendo con aria di sfida a “ogni messaggio duro di Ecowas o dell’Europa e delle Nazioni Unite”, sono stati anche in grado di convincere il popolo dell’Africa occidentale che l’ECOWAS sta effettivamente lavorando contro tutti loro, il che è ciò che ha portato alla revoca delle sanzioni.

Dopotutto, l’ECOWAS pretende di agire in nome del popolo dei suoi stati membri, ergo il pretesto con cui ha sanzionato in primo luogo la giunta maliana. La falsa base era quella di “ristabilire la democrazia” lì, ma l’ultimo colpo di stato è stato davvero popolare tra le masse che la BBC, a suo merito, ha accuratamente riferito che erano desiderose “di un cambiamento radicale in un paese la cui élite tradizionale era stata presumibilmente marcita dalla corruzione e dall’autocompiacimento. ” Insieme alla campagna “antiterrorista” lunga anni della Francia che molti ritenevano fosse una copertura per lo sfruttamento neocoloniale del paese, è chiaro il motivo per cui si è verificato il colpo di stato.

La giunta maliana ha quindi aperto la strada a un nuovo modello da seguire per tutti gli altri paesi africani. In primo luogo, l’esercito era motivato da ragioni genuinamente patriottiche e antimperialistiche per rovesciare il governo corrotto sostenuto dalla Francia. In secondo luogo, questa era una sincera espressione della volontà popolare. In terzo luogo, la successiva sanzione da parte dell’ECOWAS del loro stato ha peggiorato direttamente la vita della gente media. In quarto luogo, invece di rivoltarli contro la giunta, ha cambiato decisamente il loro atteggiamento contro l’ECOWAS ei suoi sostenitori occidentali. E quinto, la risposta provocatoria della giunta a tutte le pressioni ha ispirato gli africani ovunque.

Elaborando quest’ultimo punto, tutti hanno visto come un movimento militare genuinamente patriottico e popolare può resistere a un blocco regionale sostenuto dall’Occidente di fronte a sanzioni paralizzanti senza concedere unilateralmente alcuna questione di interessi nazionali oggettivi. Al contrario, la giunta ha articolato in modo convincente questi stessi interessi in risposta a pressioni massicce e quindi è servita a educare la popolazione su di essi, il che a sua volta ha aumentato ulteriormente il loro sostegno. Questa rivoluzione della coscienza di massa, che era già in divenire da molto tempo, può essere descritta come un punto di svolta.

Questo perché non è solo un’esclusiva del Mali, ma si sta diffondendo in tutta l’Africa occidentale – che è pronta a diventare un importante campo di battaglia per procura nella Nuova Guerra Fredda – e nel continente in senso più ampio. Dall’altra parte dell’Africa, la sfida altrettanto coraggiosa dell’Etiopia di fronte a pressioni senza precedenti su di essa per concedere unilateralmente la sua autonomia strategica in risposta alla Guerra del terrore ibrida guidata dagli Stati Uniti, sostenuta dall’Occidente e organizzata dall’Egitto, dal TPLF, ha stabilito un identico esempio. Presi insieme, Etiopia e Mali stanno dimostrando che esistono percorsi diversi verso gli stessi obiettivi di sovranità.

Che siano guidati da un leader genuinamente popolare eletto democraticamente come in Etiopia o da un militare genuinamente popolare salito al potere con un colpo di stato come in Mali, i paesi africani possono proteggere la loro sovranità fintanto che i loro massimi rappresentanti hanno veramente la volontà politica di farlo. Certamente comporta costi considerevoli, come dimostrato da tutto ciò che l’Etiopia ha vissuto come punizione per le sue politiche indipendenti e le enormi sofferenze inflitte al popolo maliano dalle sanzioni neoimperiali dell’ECOWAS, ma questi costi valgono probabilmente la pena per difendere il loro onore e indipendenza.

L’esempio maliano incute timore nei cuori dei leader occidentali ancor più di quello etiope, anche se fa sospettare che alcuni degli stessi uomini incaricati di far rispettare i loro regimi neocoloniali in Africa occidentale potrebbero essere segretamente combattenti per la libertà antimperialisti che complottano per rovesciare questi sistemi ingiusti dall’interno come la giunta di quel paese era chiaramente col senno di poi. Elezioni democratiche come quella che ha confermato la premiership di Abiy Ahmed si verificano in date programmate mentre i colpi di stato militari si verificano inaspettatamente e talvolta quando meno se lo aspetta il Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti.

Considerando il fatto che molteplici regimi neocoloniali sostenuti dall’Occidente continuano ad esistere in Africa occidentale e oltre, l’esempio dato dal Mali potrebbe ispirare “imitatori” in tutto il continente, soprattutto perché hanno appena visto che rispondere con aria di sfida a tutte le pressioni su di loro può avere successo nell’alleviarne alcune manifestazioni come le sanzioni senza concedere unilateralmente interessi nazionali oggettivi. Ecco perché la giunta ha fatto tremare di paura i leader occidentali per ciò che ha appena ottenuto, ecco perché la BBC ha cercato di screditarlo, anche se falliranno nel manipolare le percezioni regionali su di loro.

https://oneworld.press/?module=articles&action=view&id=3056

L’identità dell’Algeria, di Bernard Lugan

Qui sotto tre importanti articoli tratti dal bollettino mensile di Bernard Lugan “L’Afrique Réelle”. Si parla di Algeria. Un paese da sempre cruciale per il prestigio acquisito in Africa e per gli interessi e gli appetiti dei paesi europei mediterranei scatenati e coltivati da oltre due secoli. Un paese che diventerà ancora più strategico per la Spagna, la Francia e l’Italia, vista la posizione e soprattutto l’entità delle risorse energetiche, sia pure in declino e minerarie, ancora più essenziali a seguito della miope e masochistica politica di sanzioni nei confronti della Russia. I malumori tra i tre paesi non hanno tardato infatti ad affiorare, vista la concomitante situazione di paralisi e il blocco di forniture petrolifere in Libia. Il regime algerino ha perseguito in questi ultimi anni una politica di allontanamento dalla Francia, accentuando i rapporti con Cina e Russia. Sarà facile previsione, l’emergere del tentativo di approfittare della fragilità e delle debolezze del regime, le cui radici sono così bene esposte negli articoli di Lugan, per reinserirsi nel gioco geopolitico africano, partendo però dalla zavorra dei pesanti retaggi della colonizzazione e del progressivo disinvestimento economico della Francia in quell’area. L’Italia, al contrario, potrebbe ancora giocare qualche carta legata al sostegno alla guerra di indipendenza algerina e al ruolo dell’ENI di Mattei in quell’area. La inerzia del vincolo europeo e dell’Alleanza Atlantica giocano in direzione contraria, come del resto già successo in Libia, in un contesto però, allora molto più favorevole all’Occidente e con attori locali, come la Turchia, dalle ambizioni allora appena sbocciate. La condizione propizia per ridursi al ruolo di ascari. A conferma della postura particolare del nostro paese, la notizia del ritiro dei militari e del presidio ospedaliero italiani da Misurata, in Libia. Il nostro miserabile ceto politico ha avuto l’ennesima occasione per riacquisire un ruolo autonomo e costruttivo in quell’area. Si è avuto notizia che il vero motivo del rinvio delle elezioni generali in Libia, a novembre scorso, è stata l’eventualità, confortata da sondaggi che lo davano ad oltre il 50%, che vincesse Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, l’unica figura al momento in grado di garantire l’alleanza tra le due principali tribù attualmente in conflitto. Lo avevamo già sottolineato ripetutamente in questi anni. Dall’Italia, non ostante i legami storici con quella famiglia, nulla è pervenuto. Buona lettura, Giuseppe Germinario

L’identità dell’Algeria
Nel 2004 Mohamed Chafik ha posto una domanda “Perché il Maghreb arabo non arriva a costituirsi? »
E ha dato la risposta seguente: “È proprio perché non è arabo”.
Questa domanda e risposta è stata inclusa in un articolo pubblicato su Le Amazigh world, (n°53, novembre 2004), il cui titolo esplosivo era: “E se decolonizzassimo il Nordafrica per il meglio? Il che significava che dopo la colonizzazione francese i berberi dovrebbero liberarsi di quattordici secoli di colonizzazione araba…
In Algeria come in tutto il Maghreb, i berberi costituiscono il vecchio sfondo della popolazione.
Charles-André Julien ha scritto in riguardo dicendo che “Marocco, Algeria e
Tunisia sono popolati da berberi qualificati audacemente arabi”. (Vedi il mio libro su questo
Storia dei berberi).
Oggi, i berberofoni – e non tutti i berberi – rappresentano solo il 25% circa della popolazione dell’Algeria Questo declino è il prodotto di una storia complessa che ha conosciuto un’accelerazione dall’indipendenza nel 1962 che vide il trionfo dell’ideologia arabo-musulmana.
Fu quindi costruito il nuovo stato attraverso lo sfratto dei maquisard Berberi dall’esercito di frontiera che aveva vissuto la guerra, lontano dai combattimenti, nei campi della Tunisia e del Marocco.
Tuttavia, come il colonnello Boumediene la cui madre era Chaoui, i suoi leader, anche quando loro non erano arabi, furono acquisiti all’ideologia arabista. Per loro, la berberità rappresentava un pericolo esistenziale per costruire il nazionalismo algerino. Ecco perchè,
nell’agosto del 1962, appena acquisita l’indipendenza, il governo algerino abolì la cattedra di Kabyle dell’Università di Algeri.
La legittimità del regime si è radicata poi sulla negazione della storia dell’Algeria e la sua composizione etnica, la rivendicazione berbera essendo presentata dal “Sistema”
Algerino come una “cospirazione separatista diretta contro l’Islam e la lingua araba”. Per i leader algerini, il fatto di essere musulmani impone proprio di associare la nazione alla civiltà arabo. I più radicali sostenitori dell’ideologia arabo-islamica hanno anche sostenuto che i berberi erano usciti dalla storia e che loro non posso andare in paradiso se non  attaccandosi ai lignaggi arabi. Quanto al ministro algerino dell’Educazione Nazionale, ha dichiarato nel 1962 che “I Berberi sono un’invenzione dei Padri Bianchi”…
Poiché i berberisti hanno rifiutato il dogma fondatore dell’Algeria araba, visto che l’amazighité sosteneva la composizione duale, araba e berbera, il partito FLN ha parlato di deriva “etnica”, “razzista” e “xenofoba” che minaccia di distruggere lo stato.
Questo è il motivo per cui i Kabyles e il Chaoui si ritrovarono cittadini di un mondo algerino arabo-musulmano che nega la propria identità. Da qui il problema dell’identità del Paese e del non detto esistenziale che paralizza il paese.

L’identità algerina. La questione al cuore di tutto

Per loro, la berberità rappresentava un pericolo esistenziale per costruire il nazionalismo algerino. Ecco perchè, nell’agosto del 1962, quindi, appena acquisita l’indipendenza, il governo algerino abolì la cattedra di Kabyle dell’Università di Algeri.
La domanda fondamentale a cui il sistema algerino rifiuta di rispondere è quella dell’identità del Paese:
è esclusivamente arabo-islamica o berbera e arabo-islamico? Per i sostenitori della tesi
dell’arabismo, il berbero infatti è un pericolo politico e il mantenimento di Amazigh una minaccia nella misura in cui questa lingua afferma un’identità che porta a un indebolimento, a uno sgretolamento della nazione algerina. Ecco perché il nazionalismo algerino, che è prima di tutto un islamismo arabo, è stato costruito contro la berberità.
Questo rifiuto dell’evidenza storica ed etno-politica si basa su un postulato che è l’islamizzazione, la quale avrebbe segnato la fine della storia dei berberi, la loro conversione all’Islam; li aveva inscritti irreversibilmente nell’area culturale dell’Islam, e quindi dell’arabo.

I BERBERI DALLA CONQUISTA ARABA ALLA CONQUISTA FRANCESE

Tra l’inizio del I secolo e l’anno 1830 i Berberi videro fermarsi i Romani, i Vandali, i
Bizantini, Arabi, Ottomani e Francesi.

Non essere implicati nei primi combattimenti che i Bizantini realizzarono nella regione di
Cartagine contro gli invasori arabo-musulmani, i berberi entrarono in battaglia soltanto
durante la quarta campagna di conquista (673-681), quando Abu al-Muhajir volle sottometterli.
L’anima della resistenza era allora Kusayla (Qusayla), capo della tribù Awréba degli Aurès. Nel 683 quest’ultimo intercettò e uccise il leader arabo Uqba ben Nafi el Firhy, poi ha preso Kairouan mentre gli arabi sopravvissuti abbandonarono Ifriqiya (l’odierna Tunisia), per ritirarsi verso oriente, fino alla Cirenaica.
Nel 687 Kusayla perse la vita nella battaglia di Mems (Sbiba), vicino a Kairouan e il suo
esercito fu sciolto. La resistenza berbera si è sfilacciata poi, una donna ha preso il comando degli ultimi gruppi di combattenti. Conosciuta nella storia sotto il nome di Kahina o Kahena (la strega) affibbiatale dagli arabi, anche lei apparteneva ad una tribù degli Aurès, gli Jarawa.
Ha vinto diverse battaglie, in particolare a Miskyna, nella regione di Costantino, contro le
truppe di Hassan bin Numa che furono respinte a Gabes. Nel 695 vinse nella regione di Tabarqua, poi, nel 698 (o nel 702), fu sconfitta nella regione di Gabès.
La leggenda riporta che avrebbe poi chiesto ai suoi due figli, Ifran e Yezdia, di convertirsi
all’Islam per salvare il suo lignaggio; poi si diede alla macchia prima di trovare la morte vicino a un pozzo che porta ancora il suo nome, Bir Kahina, a circa 50 km a nord di Tobna. Gli arabi la decapitarono e ne portarono la testa al Califfo.
Questa sconfitta non ha portato all’arabizzazione dei Berberi, ma semplicemente alla loro islamizzazione, tutto il Maghreb rimanendo etnicamente berbero fino al XII-XIIIesimo secolo, epoca delle migrazioni delle tribù arabe Beni Hillal.
Allora, era dalla fine del XVI secolo che i Berberi di tutto il Maghreb, quindi dell’Algeria,
hanno perso il controllo del proprio destino a causa della scomparsa dei loro ultimi tre regni, quello dei Merinidi nell’attuale Marocco, quello degli Zianides o Abd el-Wadides che si estendeva su parte dell’Algeria da Tlemcen a Bougie, e così via degli Hafsid che includeva la Tunisia più il Costantino. Da quel momento, il Marocco era governata da dinastie arabe (allora Saadiani alawiti), mentre i regni di Tlemcen e Tunisi passarono sotto controllo Ottomano. La scomparsa degli stati berberi fu parallela all’ascesa delle tribù arabe entrate al servizio dello Stato Cherifiano nel Marocco e della Porta Ottomana nelle Reggenze di Algeri e Tunisi.
Durante il periodo ottomano, i Kabylies e gli Aurès non sono mai stati controllati dal potere
di Algeri.
Per restare solo negli ultimi anni precedenti alla conquista francese, nel 1813, il fallimento di Omar Agha davanti a Tunisi è stato attribuito al tradimento dei contingenti Kabyle. Alcuni dei loro capi furono quindi decapitati, il che causò la rivolta. Nel 1824, la parte orientale della Cabilia si sollevò. I Mezzaia attaccarono Bougie intanto che i Beni Abbès tagliarono la strada Algeri-Costantino. Infine, alla vigilia della conquista francese, l’Ouaguenoun e l’Aït Djennad era in ribellione contro Algeri.
Il periodo francese ha portato all’emarginazione del berberismo perché, contrariamente a
una narrazione popolare, in Algeria, la colonizzazione attraverso il suo giacobinismo è stata benefica per l’ideologia arabo-musulmana e la lingua araba. Tanto più che una volta sconfitto Abd el-Kader, la lealtà degli “arabi” verso la Francia fu quasi totale, soprattutto durante la rivolta kabyle del 1871 che fu in parte schiacciato dagli schermagliatori “arabi” reclutati nell’ovest del paese.
Se l’insurrezione di Kabyle del 1871 trasse la sua forza dal suo sostegno etnico, ciò costituì anche la sua debolezza perché non riesce a coinvolgere le popolazioni arabizzate dell’Algeria occidentale. Da parte loro, negli anni ’40 dell’Ottocento, i Kabyles erano rimasti
lontano dalla guerra guidata da Abd el-Kader.
Nel 1871 in Cabilia la lotta fu aspra, i villaggi appollaiati dovettero essere presi uno dopo l’altro. Il 5 maggio Mokrani è stato ucciso e suo fratello Bou Mezrag lo ha sostituito. Nella loro ritorsione, i francesi avevano la “mano pesante”: le esecuzioni a morte, deportazioni in Nuova Caledonia, tasse di guerra, confisca di terre, distruzione di piantagioni, villaggi ecc.
Questa guerra ha lasciato un tale ricordo ai giacobini coloniali che si sono poi impegnati a combattere l’identità Kabyle come facevano le loro controparti metropolitane allo stesso tempo con i Bretoni o baschi; una politica che ha grandemente giovato alla lingua araba.
Mentre, da secoli, il blocco linguistico berbero aveva mantenuto le sue posizioni contro l’arabo, in pochi decenni di presenza francese si ritirò, si ritrasse e si frammentò. Blida e Boufarik, totalmente di lingua berbera al tempo della conquista francese era così diventata di lingua araba nel 1962. Quanto alla stessa Cabilia, il Berbero vi si ritirò seguendo l’esempio di Bouira o Dellys oggi in gran parte arabizzato. Anche l’emigrazione di Kabyle in Francia ha favorito questa deberberizzazione.

IL COLPO DELL’ESERCITO DELLE FRONTIERE (ESTATE 1962)

Durante l’estate del 1962, nell’Algeria appena indipendente, le contraddizioni contenute durante i sette anni di guerra contro la Francia vennero alla luce tra il GPRA (Governo Provvisorio della Repubblica Algerina) e l’ALN (Esercito di Liberazione Nazionale) comandato dal 1960 dal colonnello Houari Boumediene. Intatto perché profughi in Tunisia e Marocco, l’esercito di frontiera aveva appena combattuto le forze francesi. Il presidente del GPRA, Benyoucef Benkhedda non ha avuto paura di dire a questo proposito che: “Alcuni ufficiali che hanno vissuto fuori non hanno conosciuto la guerra rivoluzionaria come i loro fratelli nella macchia (…)”.

Nel 1958, dopo la creazione del GPRA (Governo della Repubblica algerina) a Tunisi,
i conflitti sono stati esacerbati tra tre forze:
1) Tra il “nocciolo duro” di questo organismo, composto di Krim Belkacem, Abdelhafid Boussouf e di Lakhdar Bentobbal da un lato, e i cinque prigionieri detenuti in Francia dopo il dirottamento del loro aereo il 22 ottobre 1956, vale a dire Ahmed Ben Bella, Hocine Ait Hamed, Mohamed Boudiaf, Mostefa Lacheraf e Mohamed Kheder d’altro canto.
2) Tra il GPRA e l’esercito di frontiera, l’ALN (Esercito di Liberazione Nazionale), di stanza in Marocco e in Tunisia.
3) Tra l’esercito di frontiera e i superstiti del macchia dall’interno. L’esercito di frontiera ha riconosciuto l’EMG (Staff Generale), guidato dal colonnello Boumediene quando i sopravvissuti della macchia dell’interno obbedivano al GPRA.
La presa del potere da parte dei sostenitori dell’esercito dei confini, uniti nel “gruppo Oujda” si realizzò in sette passaggi:
1) Iniziano Ahmed Ben Bella e Houari Boumediene con il loro colpo di stato nel maggio 1962 quando il GPRA è stato convocato per indire il congresso del CNRA (Consiglio Nazionale della Rivoluzione Algerina) (Meynier, 2003 e Haroun, 2005). Il loro obiettivo
era quello di raddoppiare il GPRA istituendo la carica politica che avrebbero controllato.

2) Il 28 maggio, dall’inizio dell’incontro, l’atmosfera era estremamente tesa tra Benyoucef
Benkheda, il nuovo presidente del GPRA[1] e il suo vicepresidente, Ben Bella, che inveì contro di lui.
La gestione collegiale poi implose e invece del dibattito sugli “accordi di Evian” si parlò di potere. Intorno a Ben Bella, un gruppo di pressione riesce a far adottare il modello socialista e il partito unico.
A seguito della votazione per eleggere i membri dell’ufficio politico per gestire l’inizio dell’indipendenza, Krim Belkacem, Abdelhafid Boussouf e Lakdar Bentobal, tutti e tre i ministri del GPRA, sono stati messi in minoranza, con alcuni delegati che li hanno accusati
di essere stati coinvolti nell’assassinio di Abbane Ramadan nel 1957.
Sconfessato, Benyoucef Benkheda lasciò l’incontro, mentre Krim Belkacem, nonostante sia stato inserito in minoranza, divenne il principale interlocutore della Francia ai colloqui di pace finali, a Parigi con il riconoscimento del solo GPRA.
Quanto a Ben Bella, è andato al Cairo e da lì in Marocco, dove si unì al colonnello Boumediene, Ahmed Boumenjel e il colonnello Chaâbani che ritenevano che il GPRA non avesse legittimità a governare un’Algeria indipendente.
3) I combattenti della macchia hanno quindi tentato la mediazione. Il 24 e 25 giugno, i wilayas II, III, IV, la Zona Autonoma di Algeri e i rappresentanti della federazione di Francia dell’FLN si riunirono a Bordj Zemmoura, in Cabilia. Annunciarono la creazione di un “comitato interwilaya”, poi condannarono la “ribellione” dell’EMG (esercito dei confini) e chiesero al GPRA di fare altrettanto.
4) Il 30 giugno il GPRA si riunisce e licenzia l’EMG. In risposta, il 2 luglio, Ben Bella e
Boumediene chiesero ai capi dei wilaya di mettersi agli ordini dell’EMG e ordinano
all’esercito di frontiera di prepararsi e dirigersi verso l’Algeria.
5) L’11 luglio, i capi di wilaya IV impedirono a Benyoucef Benkheda, il presidente di
GPRA, di tenere un incontro a Blida, intanto che Ben Bella si sarebbe stabilito a Tlemcen. È stato raggiunto lì, il 16, dal colonnello Boumediene e da Ferhat Abbas. Quest’ultimo, che era comunque un sostenitore dell’instaurazione di un potere civile, radunato nel “clan
di Tlemcen” contro il GPRA di Benyoucef Benkhedda[2] .
D’ora in poi, due coalizioni si opposero, il “gruppo di Algeri” e il “gruppo di “Tlemcen”.
Il secondo ha istituito un ufficio politico[3] che ha annunciato di aver preso in mano i destini dell’Algeria. Il colpo di mano era in corso.
6) Il 23 luglio, Mohammed Boudiaf e Aït Ahmed, separati dal “gruppo Tlemcen” che accusavano di voler instaurare una dittatura in Algeria si stabilirono nel paese di Kabyle, a Tizi Ouzou, da dove hanno lanciato un appello agli algerini per opporsi al colpo di stato. Il 27 Luglio, sono stati raggiunti lì da Krim Belkacem. Da quel momento, quindi, c’era un terzo gruppo, il “Gruppo Tizi Ouzou”.
7) Il 25 luglio il comandante Larbi Berredejem del wilaya II prese Costantino e si unì al
“Gruppo Tlemceno”. I combattimenti hanno avuto luogo
in città poi, il 29 luglio, la wilaya IV prese il controllo di Algeri, rimuovendo la città dalla ZAA (Zona Algeri autonomi) i cui capi furono arrestati. il 29 agosto si sono verificati violenti scontri ad Algeri; in seguito, il 4 settembre, Ben Bella ha preso posizione ad Orano da dove ordinò alle sue truppe di andare a marciare su Algeri, provocandoo violenti
combattimenti, in particolare a Boghari, Sidi Aïssa e Clef.

Il 9 settembre Ben Bella e il colonnello Boumediene entrarono ad Algeri alla testa dell’esercito di frontiera.
Le elezioni per l’Assemblea Costituente furono fissate il 20 settembre 1962, su liste singole, dopo la dichiarazione di Ben Bella che “la democrazia è un lusso che l’Algeria non può ancora permettersi”.
Il 25 settembre Ferhat Abbas è stato eletto presidente dell’Assemblea Nazionale e  proclamò la nascita della Repubblica Democratica Popolare d’Algeria; poi Ben Bella fu nominato per formare il primo governo dell’Algeria indipendente. I combattenti interni erano stati quindi espulsi da quelli esterni e i politici dai militari.
Il congresso “fondatore” di Soummam era ben dimenticato.
Per combattere questo colpo di stato, un anno dopo, alla fine di settembre 1963, ex dirigenti di wilaya II e IV, così come i leader politici riuniti ad Aïn El Hammam, una cinquantina di chilometri a est di Tizi Ouzou, decisero di prendere le armi.
Nei giorni che seguirono, il governo mandò l’esercito ma la guerra civile fu fermata.
Il conflitto algerino-marocchino, la “guerra delle sabbie”, aveva temporaneamente riconciliato i due campi in una sacra unione.
Nel luglio del 1964, di fronte alla deriva autoritaria del potere e dei suoi disastrosi orientamenti economici, Ait Ahmed e Mohamed Boudiaf crearono il CNDR (Consiglio Nazionale per la Difesa della rivoluzione) e fondarono la macchia, in sostanza in Cabilia. Il colonnello Chaabani, capo di wilaya 6 (Sahara), ha cercato di marciare su Algeri,
ma fu arrestato e fucilato l’8 settembre. Quanto a Aït Hamed, fu arrestato il 17 ottobre 1964 con sentenza di morte. Perdonato, si rifugiò in Svizzera fino al 2001. La repressione del regime è stata feroce ed il mito della rivoluzione unita si era imposto sulla realtà.
Installato al potere con il supporto di Boumediene,
e sotto la sua supervisione, il 19 giugno 1965, Ben Bella, che stava cercando di liberarsi dalla presa militare, fu rovesciato dal colonnello Boumediene presidente del Consiglio della Rivoluzione, che lo fece rinchiudere a Tamanrasset, dove fu imprigionato per sedici anni.

https://bernardlugan.blogspot.com/

 

 

Energia, guerra, pace e finanza_ di Davide Gionco

 

Energia, guerra, pace e finanza
di Davide Gionco
25.03.2022

L’energia come strumento di guerra e di pace

Tv e giornali non cessano di martellarci con le notizie sulla guerra in Ucraina, mentre famiglie ed imprese si trovano a fare i conti con dei costi per l’energia sempre più insostenibili.

Qualcosa di simile era già successo negli anni 1970. Allora la Guerra del Kippur aveva spinto i paesi arabi produttori di petrolio, solidali con Siria ed Egitto in guerra contro Israele, ad aumentare unilateralmente il prezzo di vendita del petrolio, che al tempo era la principale fonte di energia in Europa e soprattutto in Italia, come fonte di ritorsione verso i paesi occidentali che sostenevano Israele. Il risultato fu la forte crisi energetica del 1973-1974, che portò il governo italiano ad assumere provvedimenti finalizzati al risparmio energetico ed alla diversificazione delle fonti energetiche. Fu allora che l’Italia decise di puntare sul gas metano come fonte primaria di energia in sostituzione del petrolio, cosa che divenne realtà una decina di anni dopo (vi ricordate la pubblicità “il metano ti dà una mano”?).
Dopo pochi anni, a partire dal 1979, ci fu una seconda crisi energetica, causata prima dalla rivoluzione iraniana e poi dalla conseguente guerra Iraq-Iran sostenuta dagli americani. La decisione di ridurre la dipendenza dell’Italia dal petrolio fu confermata da questi fatti.

La storia ci insegna che l’esportazione di energia è spesso o causa di guerre o strumento di pressione economica a seguito di guerre. Ma anche che accordi di fornitura stabile di energia sono uno strumento di pace, tramite accordi commerciali e di sviluppo economico fra nazioni, con convenienza reciproca.
Ricordiamo a titolo esemplificativo come l’occupazione del bacino della Ruhr (in Germania) da parte di Francia e Belgio negli anni 1923-1925 fu un modo per condurre una guerra economica contro i tedeschi, i quali si vendicarono di questo durante la seconda guerra mondiale. Nella Ruhr si produceva molto carbone, che al tempo era la principale fonte di energia per la Germania, ma anche per i paesi limitrofi. Con la fine della seconda guerra mondiale la costruzione della pace in Europa partì proprio dalla costituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), tramite la quale il carbone veniva messo a disposizione di tutti i paesi aderenti, così come l’acciaio prodotto grazie all’uso del carbone insieme ai minerali ferrosi.
Nel bene o nel male l’energia è sempre un fattore determinante nelle relazioni di pace o di guerra fra le nazioni.

 

La strategia energetica dell’Italia per ridurre la dipendenza dal petrolio

La decisione di diversificare le forniture energetiche dell’Italia era finalizzata ad evitare di subire in modo eccessivo le continue variazioni del prezzo del petrolio.

Grafico 1


Fonte: https://theconversation.com/

Si può notare quanto il prezzo internazionale del petrolio vari in funzione di eventi geopolitici, ma anche di eventi di tipo finanziario.
Questo tipo di andamento è confermato dall’evoluzione del prezzo del petrolio negli ultimi anni. La finanza trova sempre delle ragioni per speculare sulle variazioni di prezzo del petrolio.

Grafico 2

La linea politica dell’Italia per ridurre la propria dipendenza dal petrolio fu da un lato investire sul risparmio energetico e dall’altro utilizzare una fonte di energia un po’ più costosa, ma dal prezzo molto più stabile: il gas naturale. A tale scopo furono stipulati dei contratti per forniture di grandi quantitativi e per una lunga durata con i governi di nazioni del Nord Africa, come la Libia, Algeria-

Grafico 3

Fonte: https://www.researchgate.net/

Ma soprattutto con il governo russo, anche se “sovietico”.

Grafico 4

Fonte: https://en.wikipedia.org/

La decisione dell’Italia fu certamente oculata, in quanto il prezzo del gas negli anni è risultato essere molto più stabile di quello del petrolio almeno fino al 2020, dopo di che nel 2021 è successo qualche di nuovo che ha fatto impennare anche il prezzo del gas. Ci ritorneremo più avanti.

Grafico 5

Fonte:
https://tradingeconomics.com

Negli ultimi anni la diversificazione è aumentata, aggiungendo una quota abbastanza rilevante di energia da fonti rinnovabili.

Grafico 6


Fonte: Dati: IEA 2019

 

 

La guerra in Ucraina e l’affrancamento dalla forniture russe di gas

Con la sciagurata guerra in Ucraina e l’aumento delle tensioni fra NATO e Russia, il potere politico propone nientemeno che rinunciare tutto di un colpo alle forniture di gas dalla Russia, come sanzione economica nei confronti di Putin colpevole di avere invaso l’Ucraina. Ma si tratta di una proposta realizzabile? A quale prezzo?
Quanto dipende l’Italia dall’energia russa?

Grafico 7


Fonte: https://oilgasnews.it/

Le importazioni di petrolio dalla Russia costituiscono circa l’11% del totale. Se dovessimo fare a meno del petrolio russo, non dovrebbe essere molto difficile sostituirlo con acquisti da altri produttori. Importare petrolio è semplice: si ordina la merce, la caricano su una petroliera e viene consegnato in uno dei nostri porti, dopo di che lo possiamo raffinare ed utilizzare.

Molto diverso, invece, è l’approvvigionamento di gas naturale, di cui l’Italia dipende addirittura per il 38% dalle importazioni russe.

Grafico 8


Fonte: Dati MISE 2021.

Per consegnare il gas serve realizzare gasdotti dalle sorgenti fino al paese di consegna. Dai pozzi di Jamal in Siberia settentrionale all’Italia ci sono 4’500 km di gasdotti, i quali hanno richiesto molti anni per essere costruiti, con cospicui investimenti. Per questo chi li ha costruiti ha interesse a stipulare contratti di lunga durata, cosa che l’Italia ha fatto da decenni con la Russia, con beneficio del sistema produttivo e delle famiglie italiane. Se venisse a cessare la fornitura dalla Russia, gli altri produttori di gas con i quali l’Italia è collegata non sarebbero in grado di sostituirla, sia per mancanza della stessa capacità produttiva, sia per la limitata capacità di trasporta dei gasdotti esistenti.
Qualcuno propone di utilizzare il gas naturale presente in Italia. Ma, a parte il fatto che solo per realizzare gli impianti servono diversi anni, le riserve di gas naturale dell’Italia, se usassimo solo quelle, si esaurirebbero nel giro di 10-12 mesi. Quindi disponiamo di una quantità largamente insufficiente per i nostri fabbisogni.

L’alternativa che viene proposta dagli “amici americani” è di acquistare del Gas Naturale Liquefatto (GNL) da grandi produttori internazionali come USA, Qatar, Arabia Saudita, Kuwait. Ma questo significherebbe passare dall’attuale 13,3% al (13,3 + 38,2 della Russia ) al 51,5% dell’approvvigionamento totale, quasi quadruplicando l’attuale disponibilità di rigassificatori (impianti in cui il gas liquefatto viene rievaporato per metterlo in rete), di navi metaniere. Ma significherebbe anche accettare strutturalmente di acquistare del gas più costoso, in quanto ai costi di estrazione di base si aggiungerebbero i costi di raffreddamento fino a -160 °C, i costi di trasporto con le navi metaniere (navi con enormi impianti frigoriferi per mantenere il gas liquefatto) e id i costi di rigassificazione in Italia.
E non dobbiamo trascurare il fatto che si passerebbe da una dipendenza dalla Russia alla dipendenza delle multinazionali dell’energia che controllano il mercato del GNL, società quotate in borsa e molto più legate alla speculazione finanziaria internazionale. Non è così scontato che la scelta sia conveniente.

La questione si complica ulteriormente se guardiamo i numeri a livello europeo. Il fabbisogno di gas dell’Unione Europea dipende molto fortemente dalle importazioni.

Grafico 9


Fonte: https://jancovici.com/ elaborazione di dati da BP Statistical Review

 

Le quali importazioni arrivano per oltre il 40% dalla Russia.

Grafico 10

Fonte: https://ilbolive.unipd.it/

 

Quindi si tratterebbe non solo di trovare un fornitore alternativo di gas per l’Italia, ma per tutta l’Europa, che si fornisce attualmente dalla Russia per oltre il 40% del proprio fabbisogno.
Osservando la capacità produttiva gasiera a livello mondiale possiamo notare come solamente gli USA avrebbero, in teoria, una capacità produttiva adeguata ai fabbisogni europei, in caso di arresto delle importazioni dalla Russia.

Grafico 11


Principali produttori di gas naturale nel mondo, in miliardi di metri cubi l’anno
Fonte https://www.researchgate.net/

Ma dobbiamo anche osservare che attualmente solo una piccola parte (quella evidenziata in blu scuro nel grafico che segue)della produzione statunitense è destinata all’esportazione.

Grafico 12

Fonte: https://www.eia.gov/

Questo significa che gli USA, nonostante i grandi proclami, non sono assolutamente in grado di assicurare all’Europa la sostituzione delle forniture di gas metano. Si noti come le esportazioni USA di gas siano dell’ordine di 5 miliardi di metri cubi l’anno, mentre la produzione russa è dell’ordine di 500 miliardi di metri cubi l’anno, 100 volte superiore.
Se gli USA non hanno la capacità produttiva per sostituire il gas russo in Europa, significa che nessun altro produttore al mondo può avere questa possibilità. Questo certamente nel breve e nel medio termine, in attesa che si scoprano nuovi giacimenti di gas chissà dove.

La conclusione è che l’Europa, e quindi a maggior ragione l’Italia, non ha alcuna possibilità di svincolarsi dalle forniture di gas russo, a meno di non ridurre nel giro di pochi i nostri consumi di gas, in modo da ridurre le importazioni di gas russo.
Di quanto?
Dal Grafico 6 deduciamo che il gas rappresenta il 41,8% del fabbisogno energetico nazionale. Dal Grafico 8 deduciamo che di questo gas il 38,2% arriva dalla Russia. La quantità di gas che verrebbe a mancare sarebbe quindi dell’ordine del 38,2% del 41,8%, che fa 16,0%.
Può sembrare “poco”, ma significa che, in media, le industrie dovrebbero ridurre del 16% la loro produzione annua o che le attività commerciali debbano ridurre del 16% i loro orari di apertura o che nelle nostre case dobbiamo interrompere l’energia elettrica per 4 ore al giorno. Come se non ci fossero bastate le chiusure imposte durante la pandemia del covid-19!
In modo molto semplificato potremmo attenderci un crollo del 16% del Prodotto Interno Lordo nazionale,
Le conseguenze economiche sarebbero catastrofiche per l’economia italiana. E qualcosa di simile ci si dovrebbe attendere, chi più chi meno, per il resto dell’Europa.
E non abbiamo preso in considerazione i rincari certi dei generi alimentari, causati dal blocco delle importazioni di cereali da Russia ed Ucraina.
Non possiamo escludere di riuscire a trovare, nel tempo, delle fonti energetiche alternative, ma tutto questo non potrebbe essere fatto in tempi brevi, per cui lo shock economico è inevitabile.
Dei “tempi” parleremo nel paragrafo successivo.

Quindi prima di lanciare proclami sulla interruzione delle forniture russe di gas, dovremmo prendere atto del fatto che il rapporto di fornitura di gas dalla Russia è una esigenza strutturale per l’Italia e per l’Unione Europea. E, aggiungerei, è anche una esigenza strutturale per la Russia, che dispone di un sistema produttivo arretrato e che ha assoluto bisogno dei proventi finanziari derivanti dalle esportazioni di energia in Europa, necessari per importare beni e servizi di qualità dall’Europa stessa.

Per fare un esempio facile da comprendere, è come se la Russia fosse l’unico fornitore d’acqua e noi fossimo l’unico produttore di cibo: per sopravvivere non potremmo fare a meno l’uno dell’altro, strutturalmente, senza possibilità di alternative, almeno nel breve e medio periodo.
Questa considerazione fondamentale dovrebbe portare la nostra classe politica a rivedere le proprie posizioni, molto basate sull’ideologia e per nulla fondate sui dati concreti sui rapporti energetici con la Russia. Se anche Putin fosse “cattivo” o “assassino”, sapendo che non abbiamo alternative al gas russo, le scelte politiche ne dovrebbero tenere conto.

 

Perché i prezzi dell’energia sono aumentati?

In televisione ci raccontano che i prezzi della benzina e del gas sono aumentati “a causa della guerra”.
Riproponiamo i grafici sopra esposti:

Grafico 1

Grafico 5

In realtà è sempre successo che il prezzo del petrolio sia variato fortemente a motivo di cambiamenti geopolitici o di azioni speculative dei mercati finanziari.
Ma questo non era mai successo per il gas, il cui prezzo era sì contrattualmente legato a quello del petrolio e solo indirettamente e in misura ridotta.

Se guardiamo in dettaglio l’andamento del prezzo del gas naturale negli ultimi mesi in Europa

Grafico 13


Fonte: https://tradingeconomics.com/

notiamo come gli aumenti dei prezzi siano iniziati già a partire da agosto-settembre 2021, mentre la guerra in Ucraina è iniziata a febbraio 2022. Quindi gli aumenti sono iniziati prima del conflitto, certamente per altre ragioni.

Aggiungiamo la considerazione del tutto evidente che in questo inverno nessuno di noi è rimasto senza gas per scaldarsi, anche se lo ha pagato l’ira di Dio.  Il gas richiesto è stato consegnato, non c’è stata una scarsità delle forniture che abbia giustificato l’aumento dei prezzi.

Che cosa ha dunque portato a questi aumenti? Che cosa ha modificato le dinamiche del prezzo del gas rendendole dello stesso tipo di quelle del prezzo del petrolio?

La risposta sta nei contratti di acquisto del gas, che dopo decenni di stabilità sono cambiati.

Il mercato internazionale del petrolio è nato, molti decenni fa, sulla base di contratti di vendita a breve termine. I produttori di petrolio cercavano clienti in giro per il mondo, vendendolo al miglior prezzo possibile. E gli acquirenti cercavano il miglior offerente possibile. C’era una certa libertà di scelta.
La possibilità di indirizzare le navi petroliere in tempi relativamente brevi a qualsiasi cliente nel mondo ha creato un mercato mondiale, da cui la nascita dell’OPEC, da cui la quotazione in borsa del petrolio.
La quotazione in borsa ha portato alla nascita di molti intermediari fra venditori ed acquirenti, i quali comperano opzioni di acquisto sul petrolio, che rivendono e riacquistano cercando di massimizzare i margini di profitto, come qualsiasi altro prodotto finanziario. Ovviamente spesso ci sono dei legami stretti fra la classe dirigente dei paesi produttori e queste società di intermediazione. E chi non sta al gioco (vedi Venezuela, vedi Iran, vedi Russia) viene messo sotto pressione politico-militare dagli Stati Uniti.
Il risultato è una continua fluttuazione dei prezzi, che favorisce la realizzazione di utili da parte degli investitori finanziari, ovviamente a spese di consumatori e imprese.

Il mercato del gas, invece, è sempre stato un mercato “locale”. La commercializzazione di gas liquefatto GNL è sempre rimasta minoritaria a causa degli alti costi. Per questo motivo la consegna degli ordinativi di gas si è sempre fatta quasi esclusivamente tramite tubature, che per essere realizzate richiedono grandi investimenti che necessitano molti anni prima di essere ammortizzati.
Per questo motivo i contratti di fornitura venivano stipulati non fra produttori e piccoli soggetti intermediatori, ma direttamente fra stati o dalle società energetiche nazionali.
Il primo contratto di fornitura europea su firmato nel 1969 da Eugenio Cefis, presidente dell’ENI, ed il presidente russo Leonid Breznev. L’anno successivo un contratto simile fu sottoscritto anche dalla Germania.
Erano contratti della durata di 20-30 anni, che assicuravano al fornitore la certezza di rientrare dei propri investimenti e nello stesso tempo garantivano all’acquirente la fornitura certa di energia ad un prezzo concordato per 20-30 anni. E’ il caso di notare che questa situazione era ideale anche per famiglie e imprese, consentendo loro di evitare eccessive fluttuazioni del prezzo del gas.
Per meglio ammortizzare gli investimenti iniziali, i contratti prevedevano anche che l’acquirente dovesse immagazzinare il gas nei gasometri durante l’estate (periodo di domanda minima), per non obbligare il fornitore ad aumentare la portata di gas in inverno. Maggiori portate, infatti, significano tubature più grandi e maggiori costi d’investimento, evitabili con lo stoccaggio estivo.

Questo sistema dei contratti a lungo termine è andato avanti fino al 2021, quando è successo che…
Ricordate che negli ultimi anni siamo stati tempestati di telefonate e di pubblicità per il passaggio dal “mercato tutelato” dell’energia al “mercato libero”?
Negli ultimi anni l’Unione Europea ha adottato una serie di provvedimenti finalizzati alla liberalizzazione del mercato dell’energia, in particolare relativamente all’energia elettrica ed il gas.
L’ideologia di fondo dell’UE è sempre la stessa: dobbiamo liberalizzare il mercato, in modo da conseguire una diminuzione dei prezzi. Ma il gioco funziona molto di rado.
La realtà è sempre la stessa: più libertà per gli speculatori e più costi per i consumatori. Soprattutto se le liberalizzazioni sono applicate ad un settore per sua natura monopolistico (con pochissimi produttori) come quello del gas.
Quello che è successo, e certamente chi ha voluto questa “riforma” lo sapeva, è che sono entrati in gioco nel mercato del gas i nuovi intermediari, quelli che già operavano nel mercato altalenante del petrolio, i quali hanno iniziato a comperare,  vendere, ricomperare e rivendere opzioni di acquisto sul gas, in modo da creare oscillazioni dei prezzi e trarne profitto.
Inoltre altri piccoli soggetti hanno iniziato a stipulare dei nuovi contratti di acquisto con i fornitori, ma di “tipo spot” ovvero per forniture di gas della durata di pochi mesi e per piccoli quantitativi. Questi investitori, per risparmiare, hanno evitato i costi di stoccaggio estivo, come avveniva da decenni.
In questo modo il fornitore sarà obbligato a vendere meno gas in estate, causa minori ordinativi per l’assenza di stoccaggio, e meno gas in inverno, non essendo le condotte dimensionate per il trasporto del fabbisogno di punta dei periodi più freddi dell’anno. Per il momento i fornitori sono riusciti a garantire le forniture, in quanto le tubature sono state sovradimensionate per tenere conto di margini di crescita degli ordinativi, ma la non realizzazione dello stoccaggio estivo andrà certamente a limitare le capacità di consegna futura del gas in caso di aumenti della domanda, ad esempio per una crescita economica. Il che porterà ad un ulteriore aumento dei costi, se non si ritorna al precedente tipo di contratti.
Aggiungiamo il fatto che il fornitore, di fronte a contratti di breve durata, senza garanzie per il futuro, con impianti costosi da ammortizzare e in assenza di concorrenti, avrà l’interesse ad aumentare i prezzi di vendita, cosa che non accadeva in passato.
Queste nuove dinamiche sono state innescate principalmente dalle decisioni dell’Unione Europea, naturalmente – come sempre – senza informarne i cittadini. Possiamo supporre che tali decisioni siano conseguenza all’azione delle solite lobbies che operano a Bruxelles, sia alle pressioni degli USA finalizzate a danneggiare economicamente la Russia, ma anche per favorire le maggiori vendite di gas liquefatto americano.
Non è stato il “cattivo” Putin ad aumentare il gas per farci dispetto, ma sono stati i “buoni” della Commissione Europea e della presidenza USA a portarci in wuesta situazione.
Personalmente ho il dubbio che l’escalation della guerra in Ucraina (aumento delle provocazioni che hanno spinto la Russia all’intervento militare) sia avvenuta solamente dopo l’attuazione di queste riforme del mercato energetico europeo proprio per massimizzare le rendite degli investitori in occasione dei perturbamenti causati dalla guerra.

 

La transizione ecologica

Certamente uno dei modi per ridurre la nostra dipendenza energetica da fornitori esteri è anche quello di riuscire a produrre più energia a casa nostra.
Riproponiamo il grafico precedente sul mix energetico usato in Italia per farne un’analisi.

Grafico 6

Le fonti “italiane” rinnovabili sono l’Idroelettrico, il Solare, l’Eolico ed il Biocombustibile, che tutti insieme rappresentano il 19,4% del totale. Negli anni 2020 e 2021 la quota totale di produzione da fonti rinnovabili in Italia è ulteriormente aumentata, non per un chissà quale aumento degli investimenti, ma soprattutto a causa della riduzione dei consumi energetici interni causata dalla limitazioni produttive delle misure anti-covid-19. E’ noto che l’energia da fonti rinnovabili richiede forti investimenti iniziali, ma poi l’energia si produce sostanzialmente “gratis”, o a basso costo. In caso di riduzione complessiva del fabbisogno energetico, di conseguenza, è naturale che venga ridotta la produzione da fonti non rinnovabili, per cui le fonti rinnovabili coprono una quota maggiore della produzione. Ma una volta normalizzata la situazione, si riprenderà a bruciare gasolio e metano, come prima.
Per questo motivo per la nostra analisi prendiamo in considerazione i dati del 2019, prima della pandemia.
Se il gas russo rappresenta il 16% del fabbisogno energetico nazionale annuo, per compensarlo dovremmo portare la quota da fonti rinnovabili dall’attuale 19,4% al 35,4%.
L’obiettivo è assolutamente auspicabile, perché al vantaggio di liberarci dai vincoli strutturali con la Russia e, in generale, dai condizionamenti derivanti dai fornitori di energia esteri, aggiungeremmo anche la riduzione delle emissioni di CO2 derivanti dalla minore combustione di gas naturale.
Considerando che la quota di idroelettrico ha pochissimi margini di ulteriore sviluppo, perché i bacini idroelettrici che potevamo realizzare li abbiamo già costruiti, dovremmo sostanzialmente raddoppiare l’energia prodotta tramite biocombustibile, tramite impianti solari ed impianti eolici.
A questo punto le domande sono due: con quanti investimenti e in quanto tempo?
Raddoppiare la capacità produttiva di energia rinnovabile significa fare enormi investimenti e significa attendere anni prima che questi nuovi impianti vengano costruiti e messi in funzione. Significa che chi ci governa dovrebbe quantificare questi investimenti, trovare i soldi e finanziare progetti di qualità, che garantiscano dei risultati effettivi dal punto di vista energetico.

Un’altra possibilità valida per l’Italia per ridurre la propria dipendenza energetica dall’estero è di investire seriamente sul risparmio energetico.
In effetti noi non abbiamo bisogno di energia in quanto tale, ma abbiamo bisogno di energia per riscaldarci in inverno, per la produzione di beni e servizi e per i trasporti.
Mettendo in atto opportuni interventi di risparmio e di razionalizzazione energetica degli impianti di climatizzazione, degli impianti produttivi e dei trasporti l’Italia potrebbe ridurre il proprio fabbisogno annuo di energia, diminuendo gradualmente la propria dipendenza estera ed evitando emissioni di CO2 in atmosfera. E’ realistico ritenere che il potenziale di riduzione rispetto ai fabbisogni attuali sia almeno del 30%.
Anche in questo caso, però, sono necessari cospicui investimenti ed è necessario attendere diversi anni prima di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Politicamente parlando sarebbe opportuno investire sia sulla realizzazione di impianti per la produzione di energia verde in Italia, sia sul risparmio energetico. Ma si tratta di mettere in gioco grandi capitali e di realizzare degli interventi strutturali, che durino almeno 20-30, in modo da sviluppare solide competenze nel settore e le filiere produttive. Oggi, purtroppo, i nostri migliori ingegneri del settore emigrano all’estero, per la mancanza di opportunità serie in Italia. Siamo ben distanti dal seguire questi obiettivi.

C’è chi parla di ritornare al nucleare. L’argomento è complesso e meriterebbe almeno un articolo per essere approfondito. La mia opinione personale è che per il nucleare troppo spesso vengano sottostimati i costi di realizzazione, ma ancora di più i costi di smaltimento delle scorie, nonché i rischi derivanti da possibili incidenti, che possono essere sia di origine naturale (terremoti, maremoti, alluvioni), ma anche di origine umana (una guerra, un attentato). Questi rischi reali rendono l’energia nucleare molto meno sicura di quello che si creda.

 

La variabile “tempo”

La variabile “tempo” è fondamentale quando si parla di modificare gli assetti del settore energetico.
Servono anni per realizzare gli impianti che ci consentano di approvvigionarsi di gas da altri fornitori, ad esempio dal Medio Oriente o dai nuovi giacimenti situati fra Egitto e Cipro.
Servono anni per realizzare le necessarie navi metaniere e i necessari impianti di rigassificazione, volendo acquistare GN da paesi più distanti.
Servono anni per realizzare sufficienti impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e le necessarie reti di trasporto.
Servono anni per realizzare nuove centrali nucleari.
Servono anni per i molti interventi necessari per ridurre del 40% i consumi per il riscaldamento invernale degli edifici.
Servono anni per potenziare adeguatamente i trasporti pubblici, in modo da ridurre le esigenze di trasporto privato, che è più energivoro.

Se anche si trovano i finanziamenti per questi interventi, fino a che l’Italia non recupererà la propria sovranità monetaria sarà ben difficile trovarli, sarà comunque necessario disporre di molta forza lavoro qualificata, di cui attualmente non disponiamo. Sono necessari anni per formare dei bravi ingegneri e degli operai specializzati.
In generale servono molti anni per trasformare un obiettivo politico in progetti di opere e poi per realizzare tali opere.

Purtroppo constatiamo che i nostri politici dimostrano una volta di più di vivere sulle nuvole, non rendendosi minimamente conto del fattore tempo.
Non basta decidere oggi di interrompere gli acquisti di gas dalla Russia oggi per avere domani un altro fornitore sostitutivo o una produzione nazionale da fonti rinnovabili equivalente o essere capaci di ridurre il fabbisogno energetico nazionale del 16%. E’ folle anche solo parlare di ipotesi del genere, in quanto sono fuori dalla realtà. Se si decide che questa è la strada giusta da seguire, allora bisognava pensarci prima, almeno 15-20 anni fa.

Se vogliamo un esempio virtuoso da seguire per i nostri politici, possiamo guardare alla vicina Svizzera, che dimostra un approccio razionale alla questione.
Qui sotto abbiamo un grafico prodotto dall’Ufficio Federale dell’Energia svizzero (OFEN)

Grafico 14

Si noti come il fabbisogno energetico complessivo (linea verde scuro) sia in progressiva diminuzione negli ultimi 10 anni, nonostante l’aumento della popolazione residente (linea arancio) e nonostante l’aumento del prodotto interno lordo (PIB, verde chiaro). Dato che ogni persona consuma energia per vivere e dato che per produrre si consuma energia, la crescita di questi fattori porterebbe naturalmente ad un aumento dei consumi energetici.
Ma l’indice di consumo di energia per persona è in costante diminuzione, mentre l’indice del prodotto interno lordo in rapporto all’energia consumata è in costante crescita ovvero si produce di più consumando di meno.

La Svizzera raggiunge questi obiettivi con politiche strutturali di incentivi alle ristrutturazione energetiche, di incentivi al settore produttivo perché investa nella razionalizzazione nell’uso dell’energia, di incentivi per la realizzazione di impianto solari, eolici e a biomasse e con un progressivo aumento della tassazione delle emissioni di CO2, in quali vengono preannunciati anni prima, in modo che le imprese ed i cittadini possano indirizzare adeguatamente i loro investimenti.
In Italia, invece, la classe politica si lancia irresponsabilmente in iniziative di rottura con i nostri principali fornitori di energia a cui siamo strutturalmente vincolati, come la Russia (già nel 2011 avevamo supportato, a nostro danno, la guerra alla Libia, altro nostro fornitore storico di energia), senza avere mai pensato seriamente ad un “Piano B” ovvero ad interventi strutturali per ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero. In sostanza è come se decidessero di chiudere l’unico rubinetto che ci disseta, senza avere pensato a fonti alternative d’acqua. Il risultato inevitabile non potrà essere che la morte per sete.

 

Energia e pace

Ritornando ai legami strutturali di interdipendenza fra Italia e Russia, che poi sono anche i legami fra la maggior parte dei paesi europei e la Russia, chiediamoci quale possa essere l’interesse “superiore” che potrebbe giustificare la rottura di questi rapporti.
La guerra in Ucraina rischi di complicare enormemente la situazione, portando alla rottura di equilibri nei rapporti internazionali che avevano dimostrato di funzionare bene, con vantaggi sia per l’Europa, sia per la Russia.
Si tratta di una questione estremamente importante che dovrebbe essere messa al centro delle trattative di pace fra Russia, Ucraina, con l’Europa come parte in causa.
Il non ingresso dell’Ucraina nella NATO richiesto dalla Russia o l’autonomia richiesta dalle regioni del Donbass valgono bene il prezzo del ripristino di rapporti di cooperazione energetica fra Russia ed UE. Lo valgono, perché non abbiamo alternative, al momento e almeno per i prossimi 15-20 anni.
Gli Stati Uniti, invece, perseguono dei propri obiettivi geopolitici di rilevanza di gran lunga inferiore, come l’isolamento della Russia dall’Europa (che è un danno per i paesi europei) o gli interessi di alcune loro multinazionali che intendono lucrare sul cambiamento degli equilibri del mercato energetico.
Nulla che possa valere il prezzo delle gravissime conseguenze della mancanza di energia in Europa, con una inevitabile aumento permanente dei prezzi nel settore energetico e con la necessità di ridurre strutturalmente la produzione di beni e servizi. L’Europa precipiterebbe nella povertà diffusa.

Se chi ci governa intende fare il bene del popolo, le scelte da fare sono alquanto evidenti. Se fanno altre scelte, chiediamoci se sono incompetenti o se agiscono per gli interessi di “altri”.
Ed anche la Russia ha tutti gli interessi a ripristinare dei sereni rapporti di collaborazione con l’Europa nel campo dell’energia.
Che si siedano seriamente tutti intorno al tavolo, discutendo di rapporti energetici e di pace in Ucraina. La soluzione che conviene a tutti, a parte gli USA, esiste. Basta solo avere uno sguardo lungimirante e volerlo.

LA RICCA EUROPA E’ IL PREMIO DEL CONFRONTO, di Antonio de Martini

LA POSTA IN GIOCO NON E’ L’UCRAINA MA LE FORNITURE DI GAS ALL’ EUROPA E LA PELLE DELLA RUSSIA CHE SPERA NELLA CINA CHE GUARDA AGLI USA…

ANTEFATTO N 1

Nikita khrushev, pur essendo nato in altra parte dell’impero, fece tutta la sua carriera di funzionario del partito comunista russo in Ucraina. Diventato segretario generale del PCUS ( partito comunista della Unione Sovietica), ebbe un occhio di riguardo per i suoi vecchi compagni, assegnando alla loro regione l’amministrazione della Crimea ( il luogo all’epoca più desiderato per le vacanze della nomenclatura e per i cittadini) e incluse ben 17 milioni di russi nei confini della Ucraina , che all’epoca era una regione dell’URSS.

Di qui nascono una serie di guai in cui sono incappati i suoi successori.

Una volta sciolta l’Unione sovietica e smantellato il patto di Varsavia, i governanti statunitensi lasciarono intendere al presidente BORIS YELTSIN di non avere mire sull’est Europa, ma mentre Yeltsin e il suo ministro degli esteri Eduard Shevarnadze si accontentarono di assicurazioni verbali a mezza bocca ( i verbali sono stati desegretati dagli USA un paio di anni fa e accennano a numerosi brindisi), gli americani – vedendo risorgere la potenza sovietica sotto la pelle della nuova Russia- decisero di sfruttare l’ingenuità combinata di Khrushev e di Yeltsin per iniziare a cooptare i paesi dell’est Europa nella loro sfera di influenza e accerchiare la Russia con una catena di basi che lasciassero aperta ogni opzione di possibili attacchi in maniera da creare incertezza strategica sulle intenzioni dello zio Sam. Attratti dalla prospettiva di essere ricoperti d’oro dalla Unione Europea, dal mare del nord al mar nero, prima o poi, abboccarono tutti.

Più difficile l’azione nelle Repubbliche ex sovietiche di cultura turca ( i quattro stan) dove un momentaneo successo della segretaria di Stato Hillary Clinton fece credere di poter disporre di un paio di basi , ma la pronta reazione russa si affermò facilmente.

Al sud, Iran e Afganistan , dove comunque gli USA sono riusciti a costruire un paio di infrastrutture strategiche logistiche che vanno verso la frontiera russa, il problema é ancora indeciso per via dell’ostinazione iraniana e della sua inimicizia con Israele e l’Arabia Saudita che sono le potenze regionali rivali e i più sicuri, per ora, alleati degli USA.

ANTEFATTO 2

La strategia principe degli USA nella seconda guerra mondiale consistette nello strangolamento del Giappone con il controllo delle materie prime e sopratutto del petrolio.

Una volta entrati in guerra, adottarono la stessa strategia nei confronti della Germania e la stessa resa dell’Italia fu considerata positivamente per l’opportunità di utilizzo offerta dagli aeroporti pugliesi per bombardare i pozzi petroliferi di Ploesti in Romania.

Controllando le fonti principali di petrolio del pianeta, senza il quale, navi, aerei e carri armati restano fermi, la vittoria non fu che questione di quando, non di se. La carne da cannone la misero i russi e i dominions.

Nel caso della Russia, ricchissima in petrolio ed ogni sorta di materie prime, il problema non é più consistito nel controllo delle fonti , ma nell’impedirne ai russi lo sfruttamento che é il principale sostegno finanziario dell’economia russa il cui PIL equivale a quello del Benelux. Un vantaggio aggiuntivo é l’opportunità di sostituire la Russia come fornitore della ricca e decadente Europa. Il rifornimento avviene via mare ( con navi e con l’onere di costruire impianti di rigasificazione dato che viene liquefatto per agevolare il trasporto. Ci sono attualmente in Europa sette impianti di rigasificazione in progetto- costruzione)

Il ruolo chiave dell’Ucraina in questa vicenda di scontro di interessi strategici e commerciali tra la potenza marittima per eccellenza e la controparte di terra, é esemplificato dalle due cartine che vedete. L’Ucraina serve agli Stati Uniti per strangolare, come fece col Giappone, ogni velleità espansionistiche – sui mercati o i territori, poco importa – della Russia.

Dalla carta ” di terra” é evidente la parte del Leone che fa l’Ucraina nel veicolare gas e petrolio versa la ricca Europa e nella “carta di mare” il fatto che gli Stati Uniti stanno già acquisendo il cliente Europa cui é già sono fornito il 26% della produzione di gas di scisti, molto più costoso sua per le modalità di estrazione che per quelle di trasporto.

Negli anni ottanta, una manovra analoga fu fatta con l’oro, sacrificando gran parte dell’oro Inglese e canadese , oltre che americano, per far scendere il prezzo sui mercati e privare l’URSS di questo introito importantissimo per la sopravvivenza del regime.

L’ingresso sul mercato dell’India , l’acquirente più grande del prezioso metallo e di altre neo potenze asiatiche , ha consentito la ripresa della Russia di Putin dopo il crollo dell’URSS. L’Afganistan fu un infortunio politico importante ma non decisivo come questo.

Come vedete da questo breve riassunto di una situazione ingarbugliata, l’Ucraina lucra da anni la protezione americana per esigere royalties sempre maggiori per il passaggio delle pipelines sul proprio territorio, la Russia cerca di diversificare le linee di accesso all’Europa attraverso il NORD STREAM uno e due o attraverso la Turchia .

L’Europa, e in particolare l’Italia, galleggiano su un mare di petrolio e di gas dell’est mediterraneo ( Leviathan e Tamar nei mari della Grecia, Libano, Israele e Siria) nel mediterraneo centrale ( le acque profonde dell’Egitto da cui hanno cercato di schiodarci con l’affare Regeni), nelle acque della Sirte e le coste delle Cirenaica ( ormai rese insicure da taglieggiamenti endemici alle fazioni in lotta)e l’Algeria che ha saputo resistere solo a prezzi elevatissimi di sangue. L’Iran e il Venezuela ci sono stati interdetti con il pretesto che non sono democrazie.

Come se il Katar e l’Arabia Saudita e la Guinea Equatoriale, lo fossero….

A tutte queste opportunità, vanno aggiunte le coste pugliesi – alla prospezione delle quali si oppone, non si sa a che titolo, una americana di origine italiana che dice di insegnare in una università della Florida, ma opera in Puglia; al largo di Rimini abbiamo giacimenti trovati da ENI e Gulf italiana negli anni settanta e subito richiusi ” per non danneggiare il turismo”, senza contare i giacimenti in Basilicata e quelli storici della val padana.

In altre parole viviamo su un sottosuolo intriso di gas e petrolio, ma lo compriamo all’estero in cambio di protezione data alla banda di ladruncoli che si accontenta – oltretutto- delle briciole.

La chiamano democrazia, suo marito é il “libero mercato” ( che non é né l’uno né l’altro) e dicono che Al Capone era italiano.

https://corrieredellacollera.com/2022/02/20/la-ricca-europa-e-il-premio-del-confronto/

Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia, di Bernard Lugan

Due vicende ormai lontane tra loro. Il massacro di Gheddafi e la distruzione dello stato libico nel 2011; il pressante invito della giunta militare del Mali alle truppe francesi di abbandonare immediatamente il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui si tiene a Ginevra, con qualche ironia della sorte, la conferenza congiunta tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Non siamo alla conclusione di una parabola, ma ci siamo ormai vicini. L’avventura libica avrebbe voluto essere l’atto di affermazione di un nuovo ruolo assertivo della Francia in Africa Settentrionale. Erano ben altre le forze in azione dietro le quinte. Ha innescato una dinamica che al contrario sta accelerando e sancendo il ridimensionamento definitivo della Francia e delle sue ambizioni neocoloniali in quell’area. In un ultimo sussulto teso a difendere i propri caposaldi, ha cercato di coinvolgere altre forze europee, in particolare italiane e tedesche, nell’avventura. Come in altre occasioni, il nostro ceto politico, privo di ogni respiro strategico e di una qualche cognizione di interesse nazionale, si è accodato supinamente a queste scelte, dilapidando ulteriormente il patrimonio di credibilità e di rispetto guadagnatosi per due decenni a partire da Mattei. L’ennesima svolta che sta maturando in Libia, con il probabile avvicinamento della Turchia all’Egitto, se a buon fine, sancirà l’estromissione definitiva dell’Italia da quell’area così prossima con tutte le nefande conseguenze che ne deriveranno; ma anche per la Francia, con il suo ruolo di mosca cocchiera nell’avventura libica, si prospetta una sorte simile, visto il suo progressivo arretramento anche in Algeria e gli esiti incerti in Tunisia. Tra Ucraina e Nord-Africa la tenaglia che stringe l’Europa amorfa, vittima accondiscendente dell’avventurismo statunitense, si stringe in una morsa ormai destabilizzante lo stesso continente. Giuseppe Germinario

Venerdì 18 febbraio 2022, la giunta militare al potere a Bamako ha chiesto che la partenza delle forze “Barkhane” avvenisse immediatamente, e non per tappe, come aveva annunciato il presidente Macron. Come siamo arrivati ​​a una tale situazione ea una tale rottura?

Come dico e scrivo da anni, soprattutto nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini al presente , in Mali i decisori francesi hanno sommato gli errori derivanti da una falsa analisi consistente nel vedere il conflitto attraverso il prisma dell’islamismo. Ma qui l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etnorazziali millenarie che nessun intervento militare straniero è stato per definizione in grado di chiudere.

Inoltre, in un momento in cui sempre più africani rifiutano la democrazia in stile occidentale, la Francia si sta, al contrario, rafforzando questa ideologia vista in Africa come una forma di neocolonialismo. Più che mai, i vertici francesi sarebbero stati quindi ispirati a meditare su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne troveranno qualcosa per trarne vantaggio”… uno parola, il ritorno al vero africano e non l’incantesimo a ideologie appiattite.

Questa è la grande spiegazione di questo nuovo fallimento francese in Africa. Per non parlare del concreto rifiuto di mettere in discussione semplicemente le argomentazioni della giunta maliana. Immediatamente messa alla berlina da Parigi, che non le ha lasciato alcun margine di manovra, quest’ultima è stata automaticamente costretta a una corsa massimalista a capofitto per non perdere la faccia. I piccoli marchesi che plasmano la politica africana della Francia dovrebbero però sapere che in Africa la priorità assoluta quando si entra in contenzioso è non far perdere la faccia al proprio interlocutore. Ma questo non si può imparare a Science-Po…

Infatti, dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta in Mali, Emmanuel Macron ha letteralmente strangolato il Mali economicamente imponendo sanzioni del tutto inopportune e improduttive a questo Paese, che hanno finito per opporre l’opinione pubblica maliana alla Francia.

Accecato dal suo presupposto democratico, Emmanuel Macron non vedeva che il colpo di stato del colonnello Goïta era un’occasione di pace. Poiché questo Minianka, ramo minoritario del grande gruppo Senufo, non ha contese storiche con i Tuareg e i Fulani, i due popoli all’origine del conflitto, potrebbe quindi aprire un discorso di pace attorno a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale, così che Tuareg e Fulani non sono più automaticamente esclusi dal gioco politico dalla democrazia, che è diventata una semplice etnomatematica elettorale.

Al contrario, accecati dal loro imperativo democratico, dall’ideologia dei “diritti umani”, del “buon governo” e dello “stato di diritto”, tutte nozioni almeno localmente surreali, i leader francesi hanno considerato l’apertura di negoziati tra Bamako e alcuni gruppi armati del nord come provocazione. Mentre l’operazione sarebbe stata del tutto proficua perché avrebbe consentito di chiudere il fronte settentrionale per concentrare le risorse di Barkhane nella cosiddetta regione dei “Tre Confini”.

Frutto della reazione francese, presa per la gola, la giunta si lanciò in una corsa a capofitto consistente nell’adulare la propria opinione pubblica designando la Francia come capro espiatorio. Questo spreco ha anche permesso alle élite locali che hanno sistematicamente saccheggiato il Mali di nascondere sei decenni di corruzione, appropriazione indebita, incapacità politica, in una parola, incompetenza. Risultato, dopo la Repubblica Centrafricana, la Francia si vede “espulsa” dal Mali mentre i suoi soldati vi sono caduti per garantire l’incolumità delle popolazioni abbandonate dal proprio esercito…

L’altro grande errore francese è non aver fatto la differenza tra i vari gruppi armati. Dal 2018 al 2019, l’intrusione del DAECH attraverso l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha cambiato profondamente i fatti del problema. E’ scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di appartenere al movimento di Al-Qaeda, accusandoli di favorire l’etnia a spese del califfato. Parigi poi non ha visto, mentre io non ho smesso di inviare note ai funzionari interessati, che i due principali leader etnoregionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero il tuareg ifora Iyad Ag Ghali e il Fulani Ahmadou Koufa, leader del Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, aveva deciso di negoziare una via d’uscita dalla crisi.

Non volendo una tale politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia del Sahel, ha poi deciso di prendere il controllo e imporre la sua autorità, sia su Ahmadou Koufa che su Iyad ag Ghali. Fu poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati di vedere che lo Stato Islamico si avvicinava al confine algerino. L’Algeria, che considera il nord-ovest della BSS come il suo cortile di casa, ha infatti sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo del posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questa ifora touareg è contraria allo smembramento del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per i propri Touareg.

Parigi non lo capiva. E non più il fatto che il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e di quelli dei Fulani al seguito di Ahmadou Koufa, avrebbe consentito di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi pianificare a termine un soccorso di Barkhane, quindi il suo spostamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi della futura destabilizzazione in atto eserciteranno nel prossimo futuro pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.

Fin dall’inizio, e come ho sempre suggerito, abbiamo dovuto andare d’accordo con questo capo Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è l’identità prima di essere islamista. Per ideologia, rifiutando di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica africana francese hanno ritenuto al contrario che fosse l’uomo da uccidere… Proprio di recente, il presidente Macron ha persino ordinato ancora una volta alle forze Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stavano negoziando con lui una pace regionale… E siamo sorpresi dalla reazione della giunta maliana…

In un modo che definirei insolito come “carità”, l’Eliseo ha persistito nell’accumularsi di false analisi. Emmanuel Macron, quindi, non ha voluto vedere – torno a un episodio essenziale di cui ho parlato sopra – che, il 3 giugno 2020, è scomparsa l’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la regione del Sahel, uccisa dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente le definizioni del problema. La sua eliminazione diede autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelli degli “emiri algerini” che avevano guidato a lungo Al-Qaeda nella regione, quello di Abdelmalek Droukdal appunto e che ha segnato molto chiaramente la fine di un periodo, Al-Qaeda non è più guidata lì dagli stranieri, dagli “arabi”, ma da “regionali”. Questi capi regionali, però, hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Fulani. La mancanza di cultura e i presupposti ideologici dei leader francesi impedivano loro di vederla

In questo nuovo contesto, nell’agosto 2020 è avvenuto in Mali un primo colpo di stato militare che ha permesso di avviare negoziati tra Bamako e Iyad Ag Ghali, che hanno amareggiato Parigi. Il 24 ottobre 2020 ho pubblicato un comunicato stampa sull’argomento dal titolo “Mali: serve il cambio di paradigma”. Ma, ancora una volta, Parigi non ha preso la misura di questo cambio di contesto, continuando a parlare indiscriminatamente di una lotta globale al terrorismo. Inoltre, contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “toccando” indiscriminatamente i GAT (Gruppi terroristici armati), e rifiutando qualsiasi approccio “buono”… “alla francese”. ..

In conclusione, da questo nuovo e amaro fallimento della politica francese in Africa si dovrebbero trarre quattro grandi insegnamenti:

– La priorità urgente è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e se sì, a cosa livello e senza perdere la faccia.

– In futuro non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a beneficio degli eserciti locali che abbiamo addestrato instancabilmente e invano dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente.

– Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e specifiche realizzate dalle navi, che eliminerebbero il disagio dei diritti territoriali percepiti localmente come una insopportabile presenza neocoloniale. Sarà quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza dei nostri mezzi marittimi dispiegabili.

– Infine e in primo luogo, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che gli ex governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma tale è nondimeno la realtà africana.

C’è stato un “contratto” messo dalla NATO sulla testa del colonnello Gheddafi?

La Francia, allora guidata da Nicolas Sarkozy, ha una pesantissima responsabilità nella disintegrazione della Libia con tutte le conseguenze locali e regionali che sono seguite e che ancora seguono. Ma perché è entrata così direttamente in una guerra civile in cui non erano in gioco i suoi interessi? Perché anche la NATO ha interferito così profondamente in questa guerra? L’alibi umanitario citato da BHL non fornendo una risposta soddisfacente, restano ancora due domande senza risposta:

– La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

– L’obiettivo di questa guerra era la morte di quest’ultimo?

Esistono elementi di risposta che sottolineo in occasione della ristampa aggiornata da parte di Éditions du Rocher del mio libro ” Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri ” e che sono riportati nel seguente comunicato:

Domanda 1: La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

Durante i lavori della Commissione Speciale del Congresso degli Stati Uniti d’indagine sull’attacco alla missione americana a Bengasi nel settembre 2012, attacco costato la vita all’ambasciatore americano Christopher Stevens, sono state prodotte e-mail riservate di Sidney Blumenthal, consigliere di allora- Il segretario di Stato Hillary Clinton.

Secondo questi documenti, la DGSE (Direzione generale per la sicurezza esterna) francese avrebbe organizzato, su ordine di Nicolas Sarkozy, incontri segreti con gli oppositori libici a partire dal febbraio 2011, quindi proprio all’inizio dei fatti.

In una di queste note intitolata ” Come i francesi hanno creato il Consiglio nazionale libico ” si legge che gli agenti francesi avrebbero ” dato denaro e consigli ” e che questi agenti parlando a nome di Nicolas Sarkozy ” hanno promesso che non appena il (Consiglio ) è stato progettato, la Francia lo riconoscerà come il nuovo governo libico” .

In un’altra nota datata 20 marzo questa, si legge che Nicolas Sarkozy “si aspetta che la Francia guiderà gli attacchi contro (Gheddafi) per un lungo periodo di tempo” .

Se fosse autentico, e allo stato attuale del fascicolo, non vi è motivo di dubitarne, tale documento stabilirebbe quindi che, appena tre giorni dopo il voto sulla risoluzione 1973 risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di Sicurezza del le Nazioni Unite che prevedevano solo l’istituzione di una no-fly zone intorno alla sola città di Bengasi, il presidente Sarkozy avrebbe pianificato una guerra totale contro la Libia, cosa non prevista dalla suddetta risoluzione.

Domanda 2: Lo scopo della guerra era la morte del colonnello Gheddafi?

Martedì 16 dicembre 2014, a Dakar, in occasione della chiusura del Forum sulla pace e la sicurezza in Africa , acclamato dai partecipanti, il presidente ciadiano Idriss Déby ha sganciato una vera bomba quando, alla presenza del ministro della Difesa francese, ha ha dichiarato che andando in guerra in Libia: “(…) l’obiettivo della Nato era quello di assassinare Gheddafi. Questo obiettivo è stato raggiunto “.

Se è vero quanto affermato da questo intimo conoscitore del caso libico, tutta la storia di una guerra dalle conseguenze devastanti va dunque riscritta. Tanto più che questo conflitto razionalmente inspiegabile si è innescato quando, paradossalmente, il regime libico era diventato l’alleato degli europei, sia contro il jihadismo che contro le reti di immigrazione.

Torniamo indietro. :

 Il 13 gennaio 2011, dopo 42 anni al potere, il colonnello Gheddafi ha dovuto affrontare manifestazioni che si sono trasformate in un’insurrezione.

 Il 23 febbraio, per sostenere gli insorti, la Francia ha chiesto all’Unione Europea “la rapida adozione di sanzioni concrete” contro il regime libico. In Francia è stata poi orchestrata una grande mobilitazione dal “filosofo” Bernard-Henri Lévy per per “salvare” la popolazione di Bengasi.

– Il 17 marzo Alain Juppé, ministro degli Affari esteri francese, ha strappato al Consiglio di sicurezza dell’ONU la risoluzione 1973[1] , che ha consentito l’apertura delle ostilità[2]. Questa risoluzione autorizzava semplicemente e solo la creazione di una no-fly zone sulla Libia , non l’intervento nel conflitto.

Tuttavia, di fronte all’incapacità dei ribelli di minare le difese del regime, Parigi intervenne gradualmente nella guerra civile, impegnandosi anche sul campo, in particolare a Misurata dove ebbe luogo un’operazione dei Navy Commandos, e a Jebel Nefusa. Una cosa tira l’altra, violando la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia e la NATO hanno condotto una vera guerra, prendendo di mira direttamente e ripetutamente lo stesso colonnello Gheddafi.

L’attacco più sanguinoso è avvenuto il 1 maggio 2011 quando gli aerei della Nato hanno bombardato la villa di suo figlio Saif al-Arab mentre lì si teneva una riunione di famiglia, alla presenza del colonnello e di sua moglie. Dalle macerie della casa sono stati rimossi i cadaveri di Saif al-Arab e tre dei suoi figli piccoli. Reagendo a quello che ha definito un omicidio, Mons. Martinelli, Vescovo di Tripoli, ha detto: “Chiedo, per favore, un gesto di umanità verso il colonnello Gheddafi che ha protetto i cristiani di Libia. È un grande amico”. Tale non era evidentemente l’opinione di coloro che avevano ordinato questo bombardamento chiaramente inteso a porre fine al capo di stato libico.

I capi di stato africani che si erano opposti quasi all’unanimità a questa guerra e che avevano tentato senza successo di dissuadere il presidente Sarkozy dall’intraprenderla, pensavano di aver trovato un risultato accettabile: il colonnello Gheddafi si sarebbe dimesso, il potere provvisorio era assicurato dal figlio Saif al -Islam Gheddafi e questo, per evitare un posto vacante favorevole al caos. Questa opzione è stata rifiutata dalla CNT portata a condizioni di mercato dalla Francia. Di conseguenza, il colonnello Gheddafi si è trovato assediato nella città di Sirte, che è stata oggetto di intensi bombardamenti NATO.

È stata quindi preparata un’operazione di esfiltrazione verso il Niger. Tuttavia, ben informati (da chi?), i miliziani di Misurata si tesero in agguato sull’asse che da Sirte portava al Fezzan e da lì al Niger. Il 20 ottobre 2011, il convoglio di diversi veicoli civili del colonnello Gheddafi è riuscito a lasciare la città. Sebbene non costituisse un obiettivo militare, fu subito preso di mira dagli aerei della NATO e in parte distrutto. Catturato, il colonnello Gheddafi è stato brutalmente messo a morte dopo essere stato sodomizzato con una baionetta: in rete è visibile il video della sua cattura e del linciaggio. Suo figlio Moatassem Gheddafi è stato evirato, poi gli sono stati cavati gli occhi, le mani e i piedi tagliati. I loro resti sanguinanti furono poi esposti nell’obitorio di Misurata. La NATO non aveva quindi lasciato alcuna possibilità al colonnello Gheddafi e a suo figlio.

Fatte queste premesse, le accuse del presidente Deby assumono quindi tutto il loro valore. In retrospettiva, lo svolgersi degli eventi potrebbe infatti essere paragonato a un “contratto” posto sulla testa del colonnello perché non gli fu offerto alcun onorevole risultato diplomatico e tutte le sue proposte di pace furono rifiutate…

[1] Su questo argomento si veda il testo della conferenza stampa di Alain Juppé a New York ( www.ambafrance-at.org ).

[2] Su richiesta di Francia, Regno Unito e Libano, la risoluzione 1973 è stata adottata, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza con 10 voti (10 favorevoli, 0 contrari, 5 astenuti tra cui Russia, Cina e Germania). La Russia si è astenuta dal voto all’ONU, poi Mosca ha denunciato gravi violazioni della risoluzione 1973.

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