A due giorni dall’attacco seminale dell’Iran contro Israele, alcune cose si stanno chiarendo.
Tutte le prime affermazioni di aver abbattuto tutto sono state lentamente ritrattate, mentre titoli più realistici hanno lentamente preso il loro posto a testimonianza della confusione che regna dietro le quinte.
I missili iraniani sono riusciti a superare la difesa aerea multistrato di Israele, scrive la rivista “Der Spiegel”. La pubblicazione osserva che questa volta l’attacco missilistico ha avuto un successo significativamente maggiore rispetto al precedente di aprile, quando Israele e i suoi alleati sono comunque riusciti a intercettare il 99% dei missili e dei droni iraniani. “Probabilmente hanno imparato dagli attacchi di aprile e questa volta hanno scelto missili balistici”, afferma l’esperto militare Fabian Hinz dell’Istituto internazionale di studi strategici (IISS).
Video come questo sono difficili da negare: guardate la fine per vedere le grandi esplosioni nel luogo in cui è stato colpito:
Si presume che sia fuori dalla base di Nevatim:
Abbiamo finalmente alcune immagini BDA dei colpi, anche se non è chiaro quali siano i veri obiettivi dell’Iran.
Ecco un notiziario che conferma che uno dei missili è atterrato davanti alla sede del Mossad:
Ma è stato un missile mancato o un “messaggio” deliberatamente inviato?
Ci sono due schieramenti: uno sostiene che l’Iran non può colpire nulla, l’altro che l’Iran ha deliberatamente evitato di causare troppi danni. Ci sono prove a favore di entrambi.
Trump ha appena rilasciato un’intervista in cui ha confermato – se ci si può fidare di lui – che l’Iran gli aveva detto in anticipo che avrebbe colpito i beni degli Stati Uniti, ma intenzionalmente non avrebbe causato alcun danno solo come dimostrazione di forza – ascoltate attentamente:
Questo è abbastanza normale nelle relazioni internazionali.
Ma ascoltate in particolare l’ultima parte del video, in cui lo stesso Trump ammette che i missili sono “molto precisi”, ma tutti i media sono rimasti scioccati dal fatto che li abbiano mancati: perché i “precisi missili” dell’Iran avrebbero dovuto mancare un bersaglio facile e grasso come quello?
Questo ci dà un’idea del piano operativo iraniano e possiamo quindi dedurre che l’Iran potrebbe aver trattato l’attuale attacco israeliano in modo simile. Un colpo vicino al quartier generale del Mossad potrebbe essere solo un messaggio.
Ora abbiamo le BDA satellitari della base di Nevatim:
È stato colpito un hangar dal quale, in una precedente foto satellitare, spuntava la coda di quello che sembra un caccia:
Tuttavia, altri colpi sono apparsi un po’ ovunque.
L’area della base colpita era quella di “trasporto, cisterna, sorveglianza e ricognizione”, che secondo quanto riferito ospitava il 122° Squadrone Nachshon (EW/segnali), non l’area dei jet da combattimento dove di solito sono alloggiati i famosi F-35, a quanto pare.
Gli esperti hanno poi identificato 32 punti di attacco da una vista satellitare più ampia di 3 metri:
Tuttavia, non sembra che si disponga ancora di foto satellitari per le altre sezioni in dettaglio, né per le altre basi aeree potenzialmente colpite, quelle di Hatzerim e Tel Nof.
La cosa più interessante è che ieri c’è stata una breve polemica su alcune nuvole digitali frastagliate che sembravano essere “dipinte” sulle basi israeliane, bloccando la possibilità di valutare i danni. Gli esperti hanno liquidato la questione come semplici “nuvole” – anche se stranamente questo sembra accadere raramente in Ucraina – ma la cosa più strana è che entrambe le basi penetrate hanno apparentemente avuto questa “fortuna” delle nuvole:
Come si ricorda, gli Stati Uniti apparentemente limitano le immagini satellitari di Israele, come precedentemente confermato dalla NPR, per cui è molto difficile ottenere immagini accurate post-mortem:
Personalmente, ho una teoria sul perché appaiono alcuni colpi precisi e altri che sembrano semplicemente “casuali”. Dalle caratteristiche dei missili che abbiamo visto, sembravano esserci molti tipi diversi di missili lanciati. Per esempio, alcuni sono chiaramente scesi a velocità estremamente elevate, quasi ipersoniche, come ho sottolineato la volta scorsa, mentre molti altri sembrano scendere a velocità piuttosto medie.
È probabile che l’Iran stia saturando lo spazio aereo con un gruppo di vecchi missili di livello inferiore, che non hanno molta precisione e costano poco, mentre c’è un numero minore di missili ipersonici più avanzati, con migliori capacità di guida, che vengono utilizzati per raggiungere il bersaglio in questa “nuvola” di saturazione. Pertanto, il tipo di risultato BDA visibile sarebbe un gruppo di colpi casuali in un ampio campo di dispersione, con pochi colpi precisi tra questi, per gentile concessione dell’arma principale – che potrebbe essere l’Emad o il Fattah-2, ecc.
Per quanto riguarda la questione, sollevata da molti l’ultima volta, se l’Iran abbia davvero notificato a tutti in anticipo gli attacchi, ecco il Ministro degli Esteri Araghchi:
Quindi, secondo lui, l’Iran ha avvertito gli Stati Uniti dopo aver lanciato i missili.
La verità è che sappiamo per certo che Stati Uniti e Israele si aspettavano già gli attacchi, dato che alcuni articoli sono usciti letteralmente diverse ore prima, affermando che l’Iran si stava preparando per gli attacchi. Questo sarebbe stato probabilmente noto grazie alla sorveglianza satellitare di USA/Israele, che ha visto l’Iran allestire l’attrezzatura necessaria nella sua base fuori Shiraz – immagini che ho visto.
Quindi, sapendo che un attacco era imminente, anche se le parole di Aragchi sono vere, Israele e gli Stati Uniti avrebbero avuto circa 10-15 minuti per fare i movimenti necessari all’ultimo minuto, come far decollare gli F-35 in cielo, eccetera, perché è il tempo che i missili avrebbero impiegato per raggiungere Israele. In breve, possiamo affermare con certezza che Israele ha avuto almeno un discreto preavviso. Questo è un modo per l’Iran di salvare diplomaticamente la faccia, potendo dire di non aver davvero dato a nessuno l’avvertimento, poiché tecnicamente è arrivato dopo il lancio, ma in pratica è stato dato. Un altro modo per farlo è che l’Iran utilizzi apertamente siti di lancio noti. Se l’Iran volesse veramente effettuare un devastante attacco a sorpresa, probabilmente preporrebbe i lanciatori in aree remote che i satelliti statunitensi non sorvegliano. Quindi, tutto questo fa ancora parte del teatro di cui ho parlato l’altra volta, la sottile danza tra entrambe le parti.
L’altra cosa interessante è che alcune contraddizioni all’interno dell’élite iraniana sono state portate alla ribalta dagli ultimi attacchi. Il NY Times ha inizialmente riportato che il nuovo presidente Masoud Pezeshkian non è stato nemmeno informato della decisione di colpire:
Mentre in un altro articolo si afferma che è stato lo stesso comando dell’IRGC a supplicare la Guida Suprema di colpire, e che alla fine le loro pressioni hanno avuto la meglio:
Un collaboratore di alto livello di Pezeshkian ha dichiarato in un’intervista telefonica prima dell’attacco missilistico che qualunque siano le riserve private del presidente sulla guerra con Israele, egli avrebbe sostenuto pubblicamente qualsiasi decisione presa da Khamenei – come ha fatto martedì.
Il cambio di strategia dell’Iran, hanno detto i funzionari, deriva da una presa di coscienza dei suoi leader, tra cui il ministro degli Esteri Abbas Araghchi.
Hanno deciso che l’Iran ha sbagliato i calcoli non rispondendo all’uccisione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a luglio, e alla più recente uccisione del massimo comandante iraniano, il generale Abbas Nilforoushan.
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Video bonus dell’IRGC che prepara l’Operazione True Promise 2, con quelli che mi sembrano missili Emad visibili:
Ma ora le cose si fanno interessanti.
Israele ha dichiarato che avrebbe avviato una grande contro-risposta prima di ritirare improvvisamente le sue minacce per paura:
Israele sta considerando di colpire le risorse iraniane in Yemen o in Siria, invece di colpire direttamente l’Iran”, afferma un funzionario statunitense – Politico
Il Libano non è sulla lista, come sembra.
PS: L’attacco isrealiano di oggi su alcuni edifici di Beirut, che ha preso di mira una deputata di Hezbollah, con circa 100 civili morti, è stato presumibilmente condotto attraverso la flotta marittima di Israele …. Nessuno sa perché non siano stati usati F-35 o F-15 o F-16 aerei.
La scorsa notte sono stati presumibilmente colpiti mezzi iraniani a Jableh, fuori Hmeimim – non si sa se questa sia la “risposta” o una di esse. Notizie false sostenevano che Israele avesse colpito la base russa di Khmeimim, ma le geolocalizzazioni hanno dimostrato che non era così.
Tuttavia, altre fonti continuano a insinuare che dietro le quinte Israele e gli Stati Uniti stiano cospirando per qualcosa di più grande:
Vedete, la situazione è un po’ confusa perché in apparenza l’MSM dipinge l’amministrazione Biden come totalmente respinta da Israele fuorilegge:
Ma se questo è vero in superficie, altre fazioni all’interno dello Stato profondo sembrano lavorare in stretto coordinamento con Israele su tutti i piani e le azioni in corso:
In primo luogo, tutti sanno che ci sono fazioni in competizione all’interno del governo degli Stati Uniti, motivo per cui il Dipartimento di Stato ha assistito a un’ondata di dimissioni quest’anno a causa del sostegno del team di Biden a Israele. Tuttavia, Brian Berletic ha delineatol’altra probabile spiegazione di queste discrepanze apparentemente incoerenti. Da un lato, Biden ha ribadito che non sosterrà gli attacchi israeliani, che devono essere “proporzionali”, dice:
Ma dall’altra, Berletic cita il documento della Brookings del 2009 intitolato “Which Path to Persia?”, che delinea una strategia di “mantenimento della negabilità plausibile mentre, di fatto, si attacca l’Iran, compresi i suoi siti nucleari”
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In sostanza, si tratta della solita tattica della CIA e delle agenzie di intelligence.
Ora Trump si è unito all’incolpazione dell’Iran anche per i suoi stessi incontri ravvicinati. In questo caso sta chiaramente agendo come un burattino ventriloquo, con “qualcuno” che parla attraverso la sua bocca per dirottare ancora una volta le forze armate americane su un falso obiettivo, proprio come sulla scia dell’11 settembre:
Infatti, proprio oggi il giornalista investigativo Lee Smith ha pubblicato un rapporto che descrive come l’FBI abbia messo in piedi la falsa storia dell’Iran per distogliere l’attenzione dalla vera fonte che si cela dietro gli aspiranti assassini di Trump.
È evidente che una fazione filo-sionista dello Stato profondo nel governo degli Stati Uniti sta lavorando in tandem con il Mossad per incastrare l’Iran come capro espiatorio in un modo o nell’altro. Sia che convincano i Democratici ad attaccare l’Iran, sia che facciano fuori Trump e diano la colpa all’Iran per organizzare una campagna militare di vendetta performativa.
Su tutti i social media e i media di regime si levano voci che chiedono di paralizzare il programma nucleare iraniano, per la gioia di Israele. La situazione è diventata così perversa che persino i neocons della guerra in Iraq stanno ripetendo la loro vecchia tiritera a una nuova generazione ignorante:
Nel 2003, Bret Stephens mentiva che “Saddam potrebbe svelare, a un mondo stupito, la prima bomba nucleare del mondo arabo”. Oggi dice che “l’Iran era a una o due settimane dal poter produrre abbastanza uranio per armi per una bomba nucleare”. Vent’anni dopo, il copione è lo stesso.
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Anche al momento in cui scriviamo, FP ha abbandonato il seguente articolo:
Cita l’ormai diffuso striscione del MSM secondo cui l’Iran è a soli quindici giorni dalla Bomba:
Infatti, ora è l’occasione ideale per distruggere il programma nucleare iraniano. Il tempo di fuga del Paese verso una bomba è ridotto a una o due settimane. Non c’è nessun nuovo accordo nucleare in programma. Hamas e Hezbollah non sono in grado di reagire. E la Repubblica Islamica se l’è appena cercata. In effetti, questa potrebbe essere l’ultima migliore occasione per evitare che Teheran si doti della bomba.
Ciò che è ovvio è che Israele sta spingendo tutti i suoi burattini neocon a trarre il massimo dal disastroso vortice di attacchi non provocati contro i Paesi vicini. Israele si accontenterà di qualsiasi tipo di “vittoria”, che può essere definita come qualsiasi cosa che gli faccia guadagnare tempo in termini di civiltà contro i suoi nemici. Eliminare il programma nucleare iraniano “varrebbe” il prezzo del massacro e della probabile campagna libanese che presto fallirà.
Possiamo certamente capire perché Israele sia paranoico: dopo gli ultimi attacchi è chiaro che le difese aeree dell’Occidente non hanno alcuna possibilità di contrastare un attacco di saturazione con missili balistici di tipo iraniano. L’unico vero problema è la precisione, ma se l’Iran dovesse ottenere un’arma nucleare, la precisione non avrebbe molta importanza. A quel punto, Israele si troverebbe per sempre sotto il tiro di una pistola esistenziale.
Per quanto riguarda la campagna, ISW e altre fonti sostengono che l’IDF ha compiuto avanzamenti marginali nel Libano meridionale con un movimento a tenaglia dall’Alta Galilea e dalla regione nord-orientale del Panhandle Galilea:
Tuttavia, ci sono già state segnalazioni di grosse perdite per l’IDF nelle imboscate.
NB_I due link, fruibili con un traduttore, sono stati inseriti da Italia e il mondo, al posto del filmato originale inserito da simplicius, reperibile sul suo link originale ed impossibile da riprodurre
Per ora non si prospetta nulla di buono, con foto che mostrano Merkavas abbattuti e le affermazioni di Hezbollah secondo cui decine di IDF sono già stati eliminati con quasi nessun territorio catturato. Di questo passo, Israele avrà comprensibilmente bisogno di “deviare” di nuovo verso una grande campagna d’attacco guidata dagli Stati Uniti contro l’Iran per incollare e ricordare quello che potrebbe rivelarsi un altro enorme fallimento in Libano.
Come ultimo aggiornamento pertinente, sulla scia degli attacchi iraniani, il ministro degli Esteri saudita, principe Faisal bin Farhan, ha incontrato il presidente iraniano a Doha, in Qatar, aprendo simbolicamente un nuovo capitolo di riavvicinamento:
Qualcosa mi dice che questo non è il “nuovo Medio Oriente” che Netanyahu vuole: Appena un giorno dopo l’attacco missilistico dell’Iran, il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita si incontra con il presidente iraniano, dichiarando che l’Arabia Saudita vuole “chiudere definitivamente il capitolo delle nostre differenze”.
Per l’occasione, Arnaud Bertrand scrive:
Ho trovato le citazioni esatte (https://english.news.cn/20241003/9ed1ef8a2572491abca18736bce8f761/c.html…): oltre al Ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita che ha detto al Presidente iraniano di voler “chiudere definitivamente il capitolo delle nostre differenze”, ha anche definito gli attacchi iraniani contro Israele “attacchi di rappresaglia” (il che significa che erano giustificati) e ha detto che l’Arabia Saudita “confida nella saggezza e nel discernimento dell’Iran nel gestire la situazione e nel contribuire al ripristino della calma e della pace nella regione”.
Sottolineando lo storico incontro, il ministro degli Esteri ha scritto un OpEd per il FT, sottolineando l’impegno dell’Arabia Saudita a creare uno Stato palestinese indipendente, con capitale a Gerusalemme Est, e a non intrattenere relazioni diplomatiche con Israele fino a quel momento:.
Quindi, snobbare Israele e incontrare il presidente iraniano con il proclama di “chiudere definitivamente il capitolo delle nostre differenze”.
Sembra che l’ultimo filo d’argento rimasto si stia rapidamente trasformando in piombo per Israele.
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[per l’occasione, riedito un pezzo di anni fa sulla nascita del Libano contemporaneo]
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DOMANDA n° 1 : cosa è esattamente il Libano odierno ?
Siamo alle solite, si tratta di spiegare come nasce una nazione (possibile ed impossibile a volte). Dunque NON si tratta – lo dico per il lettore davvero inesperto – di uno stato nazionale nello stesso senso dei più antichi stati europei che conosciamo. Si tratta di un’entità nazionale estremamente giovane, nata esattamente 100 anni orsono.
Fino al 1920 altro non è che una particella di pregio in quel grande corpo, via via in disfacimento dell’universo ottomano : il margine più settentrionale, di quella penisola arabica ancora formalmente inquadrata sotto gli osmanidi ad inizio XX° secolo. Una piccola frazione del mondo arabo ottomano, ma bagnata dal Mediterraneo orientale, la cui storia millenaria ne fa una Babele in miniatura di fedi. Non esiste alcuna identità nazionale in senso moderno e nemmeno antico, ma piuttosto un’identità culturale basata sulla peculiare amalgama religiosa del luogo…..che vede spiccare l’elemento maronita, rappresentante della cristianità orientale (da non confondersi con l’ortodossia greca) che come un pulviscolo sempre più rarefatto, ma vivo caratterizza lo sfondo di un vicino oriente in via di secolare livellamento prodotto dal grande mare dell’islam (…)
Le crociate vedono un primo emergere del carattere locale : la cristianità maronita non giura fedeltà a Costantinopoli come i cristiani ortodossi, bensì a Roma, all’occidente. Verranno perciò visti dai crociati francesi come naturali alleati locali (…)
La storia tuttavia fa il suo corso e i regni crociati vengono cancellati….passano numerosi secoli. In quel magma di infinito fascino che è la “creatura osmanide”, questa provincia imperiale (come dimensioni lo è) si guadagna un posto a sé : gli storici di oggi, incerti sulla denominazione la chiamano “Emirato del monte Libano” come anche “Emirato Ma’an”….un qualcosa che dura 300 anni (1500-1800) nel contesto ottomano e sostanzialmente basato su una presenza cristiana/maronita e drusa talvolta in simbiosi (malgrado vari tentativi del potere centrale di disgregare il nucleo di un potenziale insorgenza nazionalista locale).
Non avverrà mai alcuna scissione in era moderna, ma si sono già poste le basi per un particolarismo alla base di una futura identità separata (dalla vicina Siria ottomana per esempio) e forse un giorno nazionale. Questo status quo interno all’impero viene sottolineato con i cambiamenti nel corso del XIX° secolo quando sotto pressione occidentale tale emirato locale si evolve in entità politica la cui popolazione cristiana è sotto protezione degli attori europei del tempo : Cebel-i Lübnan Mutasarrıflıği, si chiama in turco e “Mutasarrifato” per noi. Una minuscola madrepatria cristiana ancora formalmente nell’impero, ma sostenuta dall’Europa.
A questo punto – dal momento che sono riuscito nel’infame intento si comprimere l’abisso di mezzo millennio di evoluzione in 30 patetiche righe – cosa abbiamo in mano ? In pratica questa “cellula cristiana” per chiamarla così innestata nel corpo sempre più malleabile di un impero ottomano che si restringe , perde grandi territori, subisce umiliazioni militari….fino alla prova suprema del 1914.
Eccoci qua quindi : siamo passati dall’ultima crociata alla PRIMA guerra mondiale, per intenderci.
Sorvoliamo in blocco sulla performance ottomana nel conflitto : ricordiamo che dal 1916 la grande rivolta araba (Lawrence e altri), porta via a Istanbul l’ultima grande porzione di territorio non turca ancora incollata geograficamente alla penisola anatolica nel giro di 2 anni.
Morale : arriviamo alla drammatica resa militare nell’ottobre del 18 che nel giro del biennio seguente degenera nel noto trattato di Sevres (1920) che rischia non tanto di disintegrare l’impero (quello è già andato), ma di spezzare l’esistenza della stessa nazione turca (cosa ben diversa)
Arriviamo al punto quindi.
Ci troviamo precisamente 100 anni fa a quest’epoca : i colloqui post-bellici si concludono con un trattato ( Sèvres, agosto 1920) che ufficializza il decesso dello stato imperiale ottomano dopo oltre mezzo millennio di storia.
Kemal Ataturk, combatte la sua battaglia (vittoriosa, con sostanzioso supporto dei bolscevichi russi che non disdegnano i nazionalisti turchi come alleati geopolitici).
Mentre si compie il destino turco…..cosa succede tuttavia più a sud nella penisola arabica che non gli appartiene più ?
Semplice (per modo di dire) : i grandi vincitori, GB e Francia, reclamano l’amministrazione della zona conquistata.
Lo fanno nel modo giusto, o per meglio dire adatto al nuovo stile “democratico” che si vorrebbe nel mondo : non reclamano le zone come colonie da aggiungere ai già vastissimi rispettivi spazi coloniali, bensì come MANDATI su cui governare. Il MANDATO in parole poverissime è una delega internazionale che autorizza tali potenze a governare in loco. Il mandato è concesso dalla società delle nazioni (pallido predecessore dell’ONU) il che conferisce una inedita legittimità al nuovo dominatore, il quale a parole si impegna a garantire in un tempo successivo la piena indipendenza dei territori amministrati (anche se non si precisa quando).
Alla Gran Bretagna va un’area che corrisponde all’odierno IRAQ + Palestina.
Alla Francia va un’area che corrisponde all’odierna SIRIA + Libano, per l’appunto.
In pratica la zona principe della penisola arabica, il nord della mezzaluna fertile, il cui sbocco sul Mediterraneo orientale la rende vitale. Il resto della penisola finirà grossomodo governata dalla famiglia SAUD (il che darà vita alla monarchia filo britannica saudita).
Alle promesse in tempo di guerra di dar vita ad un grande stato arabo unitario che comprendesse tutta la penisola arabica dallo Yemen sino alla Siria, verrà dato pochissimo supporto a conflitto finito.
Veniamo a noi : la Francia incassa dunque un risultato notevole….ed anche le avverse conseguenze. Si tenterà di creare un regno indipendente arabo in Siria (1919) che verrà presto abbattuto dalle forze francesi ed inglesi (…) : la republique Francaise con il progressivo consolidamento degli equilibri stabiliti, si impone come governatore piuttosto rigido nella regione, con un’amministrazione quasi esclusivamente francese il che provoca anni di rivolte (1920-23) sedate a fatica. In generale notevole è l’avversione al governante francese nella musulmana Siria…….mentre si incontra l’accoglienza che si riserva ai liberatori nell’area libanese.
A questo punto il fattore culturale e politico mette in moto una serie di eventi di notevole importanza per lo stato che oggi vediamo : la Francia suddivide il proprio territorio in 6 parti differenti, ma valutando da subito il valore strategico di un alleato culturale nell’area (per giunta in zona affacciata al mare, di grande valore), favorisce particolarmente l’entità libanese nel contesto del mandato, garantendole da subito una indipendenza relativa. Nasce così uno “Stato del grande Libano” (un Libano leggermente allargato che va oltre i confini storici cristiani, andando a comprendere e ampliare considerevoli minoranze musulmane a sud e nell’entroterra) che è il contenitore grossomodo dell’entità culturalmente cristiana residente lì da oltre 1000 anni…il cui atteggiamento filofrancese apre le porte a tale possibilità. E’ il 1 settembre 1920.
Nei 6 anni a seguire vi saranno ulteriori cambiamenti, fino ad arrivare alla denominazione finale “République libanaise” (con la proprio costituzione modellata su quella della terza repubblica francese) destinata a durare sino alla fine del secondo conflitto mondiale : al suo interno possiamo già notare un sistema piuttosto equo che assegna la presidenza dello stato ad un cristiano maronita, la presidenza del consiglio ad un musulmano sunnita, nonché il portavoce della camera musulmano sciita (+ la presenza di un ortodosso e un druso nel gabinetto di governo).
In sostanza, signori, questo è l’equilibrio nel vicino oriente tra le due guerre : il vincitore francese si ritrova tra le mani un gioiello di territorio (tutta la vecchia Siria ottomana) e all’interno di questo un ancor più preziosa perla….un attracco cristiano incuneato nella grande culla dell’islam che è la penisola arabica, che governa minuziosamente pur concendendo come premio lealtà un’inedita autonomia : l’influenza culturale (introduzione della lingua francese) malgrado il tempo limitato di “esposizione” è sicuramente grande.
Quella che era un’identità culturale dalla notte dei tempi…..si trasforma in era contemporanea in uno stato nazionale.
Al tempo della seconda guerra mondiale il controllo francese si interrompe solo nel 1943 quando gli inglesi temendo il collaborazionismo di Vichy, si risolvono per invadere tutto il mandato francese. L’indipendenza ufficiale, vera, arriverà nel 1946.
Ecco la base dello stato libanese come lo conosciamo oggi.
(chi è interessato è pregato di ripassarsi tanti testi e non FB o Wikipedia).
Ḥizb Allāh ( حزب اﷲ ) – “Partito di Dio”
Leggendo per la rete, ho la bizzarra sensazione che non tutti abbiano una consapevolezza nitida di cosa sia HEZBOLLAH (?). La cosa fa specie, ma ad ogni modo rimedio….
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Abbiamo a che fare con una possente milizia paramilitare, incentrata in Libano dove è nata e si è sviluppata: la contraddizione di fondo è che tale milizia NON è un semplice gruppo terroristico (come è stata definita de jure da Usa, Israele e UE), bensì un vero e proprio esercito, dotato di una potenza di fuoco superiore alle stesse forze armate libanesi regolari (il punto è questo).
Abbiamo a che fare con un’entità extra-statale, ma con la medesima potenza di un piccolo stato……che si genera dal Libano ne esprime il più forte nazionalismo, ma che legalmente non ne rappresenta lo stato LEGALE, cosa che può scompigliare le idee a chi è abituato a pensare secondo il prisma degli stati nazionali. Un patriottismo fuori della potestà del proprio stato, cui sottrae il monopolio della forza (tante riflessioni interessanti potrebbero nascere da questo).
Come e perchè si genera tutto questo ? E’ necessario farne molti di passi indietro purtroppo (portare pazienza e attenzione ad ogni passaggio da qui in avanti) : sostanzialmente occorre tornare a oltre mezzo secolo fa, cioè alla catena di eventi che portano alla guerra civile libanese, divampata alla metà degli anni 70
PRIMO STEP = Dunque, la “radice del male” deve rilevarsi alcuni anni prima, ossia da quando il movimento per la liberazione della Palestina (OLP) in fuga, stabilì la propria base operativa in Libano (a partire dal 1967): una presenza difficile, ingombrante e rischiosa, poichè coinvolgeva lo stato libanese in un conflitto contro il vicino israeliano, ma soprattutto perchè la presenza di una forza (armata) come quella palestinese entro i confini nazionali, metteva in discussione la stessa autorità di stato.
SECONDO STEP = Cosa fare allora ? I vertici libanesi scelgono (e sarà peggio per loro) il compromesso: la presenza palestinese viene formalizzata con un accordo tra l’OLP e le forza armate libanesi tramite un accordo segreto firmato al Cairo (1969). L’accordo prevedeva che l’OLP sarebbe potuto rimanere in territorio libanese e continuare la propria lotta dalle basi lì stabilite….ma questo senza destabilizzare l’ordine costituito.
Questo sarà l’inizio della fine: nel nome di una astratta solidarietà panaraba si permette la presenza palestinese nello stato, senza rendersi conto che essa andrà ad intaccare i delicatissimi equilibri interni dello stato libanese (la cui maggioranza è cristiana )
TERZO STEP = gli accordi del Cairo non stabilizzano la situazione, ma anzi determinano il caos: lo stato libanese diventa ipso facto obiettivo delle risposte militari israeliane (cosa in realtà preventivata), ma, cosa assai più grave, NON risolvono il conflitto tra autorità libanesi e la presenza militare palestinese (vale a dire proprio quello per cui l’accordo era stato firmato……). In particolare viene a crearsi un antagonismo naturale tra il partito Falangista libanese (una forza politico/militare che rappresenta l’elite cristiana del Libano) ed i palestinesi: nel giro di una manciata di anni queste due milizie armate contrapposte danno vita ad una guerra civile (1975)
QUARTO STEP = non è fattibile riportare ogni singolo punto di svolta del conflitto civile libanese, ma ribadiamo l’essenziale. Le milizie falangiste cristiane e quelle musulmano palestinesi iniziano a combattere per le strade della capitale, che subito viene divisa in due parti (est ed ovest): da questa prima faida, deflagra la guerra che in breve tempo va oltre i suoi iniziatori, ovvero si genera un caos che fraziona il paese in una miriade di gruppi militari contrapposti, ognuno con una sua logica (…). Le forze armate di stato si disintegrano e alla fine forze esterne intervengono per riportare l’ordine: da nord l’esercito Siriano entra in Libano occupandone gran parte delle aree nevralgiche…..mentre da sud le forze israeliane effettuano la prima grande incursione. Siamo nel 1978 e sembra che tutto sia finito, ma……
QUINTO STEP = ……si tratta di una pace illusoria. L’OLP non ha intenzione di lasciare il suo radicamento in Libano, il quale quindi continua ad essere considerato obiettivo primario da Tel Aviv. Quest’ultima a questo punto si rende responsabile di una strategia molto discutibile (il lettore giudichi da sè): come ammesso decenni dopo da ex alti ufficiali israeliani, l’intelligence israeliana, approfittando del caos militare nel paese, fomenta numerosi attentati (attribuiti di volta in volta a chicchessia tra i gruppuscoli militari coinvolti nella guerra civile) a scopo di destabilizzare il paese oltre il limite ed in particolare provocare le milizie palestinesi per farle reagire al punto da portare lo stato Israeliano ad autorizzare un’invasione vera e propria dello stato libanese invocando ragioni di sicurezza nazionale.
SESTO STEP = dopo svariati anni di tale tattica (1979-82), si arriva infatti al punto: nel 1982 Israele INVADE il Libano. Campagna militare brillante: in poche settimane occupa il paese, arriva fino a Beirut e la mette sotto assedio. A quel punto interviene anche Washington e si ottiene che l’OLP lasci il territorio libanese, cosa che avverrà sotto protezione internazionale, da accordi.
In parole povere: i palestinesi e le loro milizie armate, dopo 15 ANNI, abbandonano il Libano. Una vittoria per Israele sì…..ma solo temporanea: in realtà nella vittoria contro l’OLP in territorio libanese, sono contenuti i semi di nuove disgrazie per il futuro. In che senso ? Nel senso che il 1982 vede sì, i palestinesi sconfitti ed evacuati……..ma parallelamente l’umiliazione libanese per la presenza israeliana sul proprio territorio, pone le basi psicologiche e materiali per la nascita di HEZBOLLAH, ovvero “partito di Dio”. In altre parole Tel Aviv ha conseguito una vittoria pirrica: sgomina le milizie palestinesi da un lato, ma dall’altro fa nascere quelle libanesi vere e proprie.
SETTIMO STEP = Siamo dunque arrivati ad Hezbollah finalmente. Di cosa si tratta ? Come abbiamo visto non ha nulla a che vedere coi palestinesi (non direttamente almeno): si tratta di nazionalisti libanesi di fede musulmana e per l’esattezza della variante SCIITA. E’ quella variante dell’Islam nota – penso – anche a gran parte del pubblico comune: una variante alternativa, il cui epicentro e patria è l’IRAN. Ricordiamo sempre un fatto (aprire le orecchie qui *) : la storia dei rapporti tra stati del vicino oriente è scandito dalla fede quanto dalle identità nazionali, ovvero nella misura in cui tutte le potenze vorrebbero proiettare la propria influenza sul vicinato. Ora……….nel caso dell’Iran esiste un problema: per quanto potenza regionale potenzialmente egemone nel medio oriente ha un limite di fondo, ovvero NON si tratta di un paese arabo e quindi non può proiettare direttamente la propria influenza nell’hinterland (non tanto quanto vorrebbe). Esiste tuttavia un’alternativa efficace: fare appello sulle minoranze sciite che sono comunque presenti nel mondo arabo. La Repubblica islamica dell’Iran è quindi la casa madre di tutti gli sciiti sparpagliati nell’area mediorientale, a cominciare dal nord del confinante IRAK in primissimo luogo (…): la Sh’ia (Sciismo) è quindi lo strumento di soft power – per così dire – dell’Iran, il suo veicolo più immediato per portare la propria influenza al di fuori dei confini iraniani.
Si da il caso che in Libano quasi 1/4 della popolazione sia musulmana sciita: ottimo appiglio da cui partire dunque. A partire dall’umiliazione del 1982, la comunità sciita libanese inizia a ricevere supporto finanziario, politico e militare direttamente dall’Iran (reduce della rivoluzione di pochissimi anni prima, tra l’altro). Tale dinamica si perpetuerà per decenni, cioè fino ai nostri giorni: lenta, ma estremamente stabile.
Il Partito di Dio, formato quindi da libanesi sciiti, si dota di una propria dottrina nel 1985 (una variazione di quella di Khomeini) che prevede un ritiro delle potenze imperialiste del suolo nazionale: al tempo medesimo crea un propria branca militare col supporto costante di 1500 Pasdaran arrivati dall’Iran che aiutano a formare un vero e proprio esercito. (se notate il simbolo del vessillo di Hezbollah, è il medesimo della Guardia nazionale Pasdaran dell’Iran).
L’Iran investe in tale progetto per una generazione intera (30/40 anni) ed oggi le fonti militari internazionali sono concordi nell’affermare che l’esercito Hezbollah dispone di una potenza di fuoco pari alla massima parte degli eserciti regolari delle nazioni del medio oriente e sicuramente di più rispetto alle forze regolari dello stato libanese (i combattenti di prima linea sono 20’000 + altri 40’000 riservisti ed il numero di missili di cui dispone è imponente).
La cosa si presta a svariate interpretazioni certo, ma si può dire che il nazionalismo libanese è stato efficacemente interpretato dalla comunità sciita, in chiave anti imperialista mutuata dal modello iraniano che ne è il “faro”.
I rapporti con i palestinesi sono buoni: si tratta di forze distinte (sunniti gli uni, sciiti gli altri), ma unite dalla comune filosofia anti israeliana. D’altra parte, assenti o pessimi i rapporti con AL-QUAEDA (fondamentalisti sunniti che vedono gli sciiti come eretici).
FINE. Fine infarinatura della domenica per il passante ignaro……)
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Israele continua a colpire duramente il Libano, dimostrando di essere l’unico paese al mondo che può letteralmente bombardare e invadere tutti i suoi vicini a piacimento senza gravi conseguenze a livello internazionale.
Nota che ho detto conseguenze, non “condanne”. Di quest’ultime ce n’è in abbondanza, ma non porta a nulla di tangibile perché tutte le istituzioni globali sono cooptate, catturate e compromesse dall’Hydra e, in quanto tali, rendono solo un omaggio di facciata alle tragedie perpetrate dai loro clienti e padroni. Non è interessante come, solo per fare un piccolo esempio tra i tanti, l’organizzazione FIDE del mondo degli scacchi abbia bandito non solo la Russia, ma anche la Bielorussia semplicemente come complice improvvisata, mentre Israele, per un vero e proprio olocausto che sta commettendo sui suoi vicini, non è stato bandito. Lo stesso vale per le Olimpiadi, l’Eurovision e altre competizioni; è abbastanza incredibile se ci pensi.
Cosa ha fatto la Bielorussia di peggio di un vero e proprio olocausto perpetrato da Israele?
L’ultima volta ho notato che non prevedo che l’asse della Resistenza farà molto, e continuano a esserci segnali che questa lettura sia corretta. Uno dei segnali più notevoli di ciò è la notizia piuttosto sorprendente che l’iraniano Masoud Pezeshkian ha improvvisamente adottato un approccio molto filo-occidentale nella speranza di allentare le tensioni. Ciò è stato dimostrato in modo molto toccante quando è apparso per condannare l’invasione russa dell’Ucraina sul podio delle Nazioni Unite:
Questa smentita segue un rapporto di Bloomberg secondo cui il presidente iraniano avrebbe rilasciato tali dichiarazioni.
Araghchi ha chiarito che “il presidente ha condannato fermamente i crimini del regime sionista a Gaza e l’invasione del Libano da parte di quel regime”, aggiungendo che qualsiasi rapporto che suggerisca il contrario è falso. Ha inoltre criticato il rapporto di Bloomberg, definendolo “malizia mediatica”.
A cosa credere?
Ci sono altri resoconti come questo, ma prendeteli con le pinze:
Ora, c’è un video controverso che gira di un commentatore mediorientale che spiega questa situazione sconcertante. Non sto dicendo che abbia decisamente ragione, da qui la parte controversa , ma potrebbe fare delle buone osservazioni:
Ciò che spiega è che l’Iran è più interessato a rafforzare la sua influenza direttamente regionale, in particolare in Iraq, Arabia Saudita e Siria, piuttosto che spendere tutte le sue risorse in una lotta con Israele, che non è la sua priorità principale. È un po’ contraddittorio perché Israele è in effetti centrale nella situazione siriana, dato che è Israele che distrugge principalmente i beni iraniani con attacchi come una delle principali frecciate al fianco dell’Iran lì.
Tuttavia, potrebbe avere ragione in senso più generale, ovvero che l’Iran non è intenzionato a spostare completamente il suo peso sulla situazione israeliana, il che rientra ancora una volta nella “partita lunga” che ho menzionato.
Tuttavia, questo non significa che l’Iran abbia “abbandonato la Russia” o l’abbia pugnalata alle spalle. Molto probabilmente questi sono solo segnali che l’Iran sta inviando per comunicare che è pronto ad allentare le tensioni con gli Stati Uniti. Si ha la sensazione che gli Stati Uniti e l’Iran abbiano un’intesa reciproca alle spalle di Israele, ovvero che Israele voglia trascinarli entrambi in una guerra indesiderata l’uno contro l’altro.
Ad esempio, Shoigu ha appena lasciato l’Iran di recente, dove ha incontrato il presidente in persona e ha firmato un accordo importante. L’ultima è probabilmente la necessità dell’Iran di apparire “coerente” nel suo appello alla pace, dopotutto, non si può chiedere la pace in Palestina-Libano con una faccia seria mentre si sostiene ostensibilmente la guerra in Ucraina. Almeno questa è la mia interpretazione della situazione, per ora, ma con nuove informazioni, le cose potrebbero cambiare.
Inoltre, la Reuters riferisce ora che l’Iran ha mediato colloqui segreti tra la Russia e gli Houthi per trasferire missili antinave, che presumibilmente potrebbero includere il P-800 o la versione da esportazione Yakhont:
“L’Iran ha mediato i colloqui segreti in corso tra la Russia e i ribelli Houthi dello Yemen per trasferire missili antinave al gruppo militante, hanno affermato tre fonti occidentali e regionali, uno sviluppo che evidenzia i legami sempre più profondi di Teheran con Mosca. Sette fonti hanno affermato che la Russia deve ancora decidere di trasferire i missili Yakhont, noti anche come P-800 Oniks, che secondo gli esperti consentirebbero al gruppo militante di colpire con maggiore precisione le navi commerciali nel Mar Rosso e aumentare la minaccia per le navi da guerra statunitensi ed europee che le difendono”.
Quello che abbiamo sempre detto:
Questo, ovviamente, sarebbe un incubo per gli Stati Uniti, cosa che i media del regime avevano già riferito con grande trepidazione:
Ecco un’ultima interessante analisi:
“L’attacco anti-russo del presidente iraniano Pezeshkian all’Ucraina è anche una sorta di sostegno pubblico da parte di Teheran alla candidatura di Kamala Harris alle elezioni statunitensi. Se il Cremlino può dimostrare apertamente il suo ironico sostegno a Kamala Harris, perché l’Iran non può fare lo stesso? L’Iran lo fa, ma a modo suo.
Pezeshkian è stato “scelto” dall’ayatollah Khamenei come presidente dell’Iran per un “reset” delle relazioni con l’America, il ripristino dell'”accordo nucleare”, ecc. In risposta a queste aspirazioni di Khamenei, Washington segnala apertamente attraverso il Wall Street Journal che l’Iran non dovrebbe aspettare fino a novembre per riprendere i negoziati sul ripristino dell'”accordo nucleare”, ma sono possibili solo se vince Harris. La facilità di manipolazione mediatica di Teheran da parte di Washington è stata notata in precedenza come una minaccia per l’Iran, ma ora questa vulnerabilità è attivamente utilizzata da entrambe le parti per apparire sulla formazione del corso in Medio Oriente della nuova/vecchia amministrazione della Casa Bianca.
La totale mancanza di reazione da parte dell’Iran all'”operazione speciale preventiva” di Israele contro Hezbollah crea l’impressione che Teheran abbia deciso di sbarazzarsi dei suoi rappresentanti tossici e non più efficaci e di cercare di mantenere solo i progetti di influenza realmente funzionanti in Medio Oriente, come gli Houthi yemeniti e in parte Hamas.
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Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno inviando truppe “per ogni evenienza”:
E in linea con il nostro ultimo rapporto, Israele ha minacciato che se l’attuale rotta non riporta gli israeliani in fuga verso nord, allora verrà presa in considerazione un’operazione di terra in Libano:
Ciò conferma quanto abbiamo scritto l’ultima volta: che la giustificazione superficiale dietro gli scioperi in corso è quella di impedire che l’economia di Israele collassi a causa dello sradicamento dei lavoratori dalle regioni settentrionali, importanti per l’agricoltura.
A proposito, mentre inviava truppe nella regione, la vecchia flotta statunitense evidenziò un problema importante quando l’ unica petroliera della Marina nella regione fu messa fuori servizio:
Non sembra una bella cosa. Un armatore mi ha detto che la Marina non ha una petroliera di riserva da schierare e sta cercando disperatamente una petroliera commerciale per rifornire il gruppo di portaerei Abraham Lincoln.
L’unica petroliera di rifornimento della Marina in Medio Oriente si è arenata ieri, lasciando la USS Abraham Lincoln incapace di lanciare jet da combattimento finché non verrà individuata, riadattata e schierata una petroliera commerciale. Peggio ancora è il fatto che una petroliera commerciale è molto più lenta della Big Horn, costringendo la portaerei a viaggiare a velocità ridotte, rendendola vulnerabile agli attacchi nemici. Questo fiasco è un altro lampante esempio della disastrosa leadership dell’amministrazione Biden-Harris. La Marina, un tempo l’apice del dominio navale globale, sta ora affondando, a causa di fallimenti nel reclutamento, appaltatori pasticcioni e alti dirigenti più concentrati a promuovere l’ideologia marxista DEI (Diversità, Equità e Inclusione) che a mantenere prontezza e capacità. La Marina americana sta crollando sotto il peso della correttezza politica, mettendo a rischio la sicurezza nazionale.
Sul fronte ucraino, Zelensky ha iniziato il suo grand tour parlando all’ONU e presentando il suo atteso piano di pace [la guerra è]. Sfortunatamente, è caduto su orecchie dubbiose, poiché i funzionari erano già piuttosto scettici e delusi:
Non ha aiutato il fatto che il suo messaggio fosse totalmente confuso, con Zelensky che chiedeva ripetutamente più “guerra” per creare “pace”, come al solito nel linguaggio ambiguo della NATO:
Il suo grandioso “piano di pace” è stato descritto dagli alleati come una mera “lista dei desideri”, senza nulla di innovativo presentato. Per non parlare del fatto che i desideri stessi sono tutti irrealistici.
Zelensky sembra sempre più convinto che la fine sia vicina per lui. Quasi tutto ciò che esce dalla sua bocca ha cambiato marcia, verso la fine della guerra.
Zelensky ha rilasciato un’intervista ad ABC News in cui ha affermato che la guerra con la Russia è “più vicina alla fine” di quanto molti credano. “Penso che siamo più vicini alla pace di quanto pensiamo. Siamo più vicini alla fine della guerra. Dobbiamo solo essere molto forti, molto forti.” – ha detto Zelensky e ha invitato gli alleati a rafforzare l’esercito ucraino.
Il fronte sta andando in modo catastrofico, con importanti avanzamenti russi che continuano giorno dopo giorno. Ugledar è ormai prossima alla caduta e l’ultima “voce” è che Zelensky abbia ordinato ai suoi comandanti di posticipare la caduta di Ugledar a qualsiasi costo , almeno fino alla fine dello spettacolo canino e pony dell’ONU. Zelensky richiede semplicemente di non essere “umiliato” dalla caduta di una città così importante durante il suo grande tour di pubbliche relazioni, poiché ciò si presterebbe a sgonfiare ogni ultima speranza rimasta per le prospettive dell’AFU.
Purtroppo, questo rinvio sta costando vite umane, e da Ugledar giungono notizie negative dalla parte ucraina.
Al momento, Ugledar si presenta così e le forze russe sono entrate nella città vera e propria dal lato orientale delle dacie:
Sembra che manchino solo poche ore alla caduta, con segnalazioni di rese di massa già in atto come mostrato sopra, ma vedremo. Fonti ucraine importanti ritengono che l’AFU potrebbe presto ritirarsi da diversi grandi centri cittadini chiave, il che sarebbe un colpo morale devastante:
Il problema è che le linee si stanno deformando ovunque, anche a nord:
L’analista e ufficiale di riserva ucraino Tatarigami è sconfortato:
A quanto pare, il 23° battaglione ucraino ha scritto una lettera pubblica chiedendo la rimozione del proprio comandante.
La procedura è la seguente:
Lettera aperta
personale militare del 23° OSB al comandante del battaglione:
Comandante, esprimiamo la nostra incredulità e chiediamo le tue dimissioni. Non sei degno della posizione di comandante del nostro battaglione per i seguenti motivi:
1. Durante il tuo mandato di un anno come comandante di battaglione, non sei mai stato personalmente in nessuna posizione di combattimento o luogo di residenza del personale del battaglione a te affidato. Nemmeno i tuoi vice si sono mai interessati a questo.
2. hai ignorato per 8 mesi numerosi resoconti dei vice comandanti di compagnia sullo stato morale e psicologico insoddisfacente dei soldati della compagnia di fucilieri. Il primo di questi resoconti è stato presentato a gennaio 2024.
3. nonostante i rapporti dei vicecomandanti delle compagnie di fucilieri sullo stato morale e psicologico insoddisfacente del personale in agosto e ignorando i messaggi nel segnale del vicecomandante della 2a compagnia (che la creazione della joint venture koren-8 non ha senso
e può solo portare a perdite ingiustificate), hai pianificato e dato l’ordine di condurre operazioni offensive il 5 settembre 2024. Come risultato del tuo disprezzo per le opinioni degli ufficiali
A causa della scarsa pianificazione delle operazioni di combattimento, il battaglione subì perdite significative tra i suoi migliori combattenti e rischiò di perdere la sua capacità di combattimento.
4. avete ignorato i rapporti dei comandanti della compagnia di fucilieri del 16 settembre, secondo cui il personale non era in grado di continuare a svolgere compiti di combattimento e aveva bisogno di un recupero a lungo termine, e avete impartito l’ordine di spostarsi verso nuove posizioni di combattimento.
5. avete trasmesso minacce al personale tramite i comandanti di compagnia: se avessero continuato a insistere sul ritiro per il ripristino, il battaglione sarebbe stato sciolto e soldati, sergenti e ufficiali sarebbero stati dispersi in varie unità.
6. Durante i 4 giorni della nostra permanenza nei villaggi dell’entroterra della regione di Kharkiv, non vi siete recati in nessuna sede del personale per comunicare personalmente o per studiare lo stato d’animo tra i vostri subordinati.
7. hai bisogno di combattenti completamente esausti fisicamente e mentalmente per continuare a svolgere compiti di combattimento. Ciò può portare a perdite inutili causate dalla stanchezza.
8. Inviando soldati esausti al combattimento, si rischia di perdere non solo uomini, ma anche le posizioni stesse, il che a sua volta può influire sulla capacità difensiva dell’intero fronte in una determinata area.
Sulla base di tutto ciò, esprimiamo la nostra sfiducia nei vostri confronti e chiediamo le vostre dimissioni dall’incarico di comandante del 23° battaglione fucilieri separato.
Il nostro battaglione di volontari merita un comandante migliore, nello spirito e nei fatti della creazione.
24 settembre 2024
Ad oggi, 89 militari hanno accettato di firmare questa lettera aperta, sia quelli che sono ora nel battaglione, sia quelli trasferiti ad altre unità o che sono stati radiati dalle Forze armate ucraine nel 2024.
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Un nuovo articolo del WaPo conferma ancora una volta ciò che scriviamo da settimane: leggete con molta attenzione:
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Ora Zelensky ha annunciato che la Russia intende colpire le ultime tre centrali nucleari ucraine rimaste questo inverno alle Nazioni Unite, senza tralasciare di coinvolgere la Cina per buona misura: dopotutto, è a questo che serve la buona volontà!
Dopo aver lanciato la scorsa settimana il suo ultimo satellite spia avanzato Kondor-FKA, la Russia apparentemente ha ancora bisogno di “satelliti cinesi” per il progetto.
A New York, ho incontrato dirigenti di importanti aziende energetiche, finanziarie e assicurative statunitensi, nonché l’amministratore dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale SamanthaJPower e il DepSecStateMR degli Stati Uniti Richard Verma. L’attenzione principale era rivolta alla preparazione del sistema energetico ucraino per l’inverno. Abbiamo discusso in dettaglio i nostri piani, nonché la possibilità di implementare progetti congiunti nel settore energetico.
Il consigliere del Ministro dell’Energia ucraino Lana Zerkal ha dichiarato che le dichiarazioni di Zelenskyj sul rapido aumento della capacità energetica dell’Ucraina “non hanno nulla a che fare con la realtà“.
Questo porta alla grande domanda di quale sarà esattamente il piano di gioco per la narrativa ucraina nei prossimi mesi, ora che è praticamente assodato che il grande tour del “piano di pace” di Zelensky sarà un altro enorme fallimento deludente, come tutti i vantati vertici della NATO prima di lui. .
Lo Stato ucraino e le sue forze armate si nutrono dei fumi di spettacoli programmati per risollevare il morale, che sono sempre all’orizzonte e sembrano sempre promettere una politica che cambierà le carte in tavola “presto”. Ma ora che quella attuale si concluderà con un fallimento e che l’Ucraina si trova ad affrontare un inverno disastroso con i disastrosi attuali sviluppi in corso, è difficile immaginare quale nuovo espediente useranno per convincere il pubblico a continuare la guerra nei prossimi mesi. .
Possiamo solo supporre che il grande bavaglio degli “attacchi a lungo raggio” sarà tirato fuori ancora un po’, per comprare all’Ucraina un altro mese o due di false speranze, ma poi?
Secondo quanto detto, Zelensky sperava di creare una sorta di campagna di pressione tra pari per spingere la Russia ad accettare i colloqui. Ma sia Lavrov che Peskov hanno rilasciato nuove dichiarazioni in cui ribadiscono che la Russia non ha nulla da discutere con l’Ucraina e che tutti gli obiettivi della Russia saranno raggiunti nell’OMU. .
Quello che sta dicendo è che, o l’Ucraina si arrende e accede alle richieste della Russia, o se la Russia accetta tali richieste con la forza militare continua, in ogni caso gli obiettivi saranno raggiunti.
L’unica cosa che si può pensare è che l’Ucraina tenti altri grandi colpi di PR, come l’abbattimento del ponte di Kerch, per tenere alto il morale nei prossimi mesi.
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Il canale Legitimny riporta quanto segue in merito al potenziale utilizzo da parte dell’Ucraina di missili NATO a lungo raggio in Russia:
La nostra fonte riferisce che l’Occidente è consapevole che se concederà all’Ucraina il permesso di colpire in profondità il territorio russo con missili occidentali a lungo raggio, il Cremlino lancerà una serie di attacchi con armi nucleari tattiche sull’Ucraina occidentale (prendendo di mira campi di addestramento, ponti, tunnel, campi di aviazione, impianti industriali e infrastrutture per l’energia e il gas). Questo aumenterà il flusso di rifugiati dall’Ucraina all’Europa. Ciò comporterà enormi problemi sia per l’Occidente che per l’Ucraina. Il mondo sarà a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, provocata dalle azioni dei politici occidentali. Molti vedranno crollare il loro rating. Si aprirà una crisi su larga scala. Ecco perché l’Occidente sta ora riconsiderando se vale la pena correre un tale rischio.
Cibo per la mente.
Nel frattempo, la controversa deputata della Rada Mariana Bezuglaya afferma che la Russia ha in programma cinque grandi “teste di ponte” per questo autunno, tra cui la città di Zaporozhye, Dnipro, Kharkov, Kherson e Sumy:
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Mentre la stampa gialla britannica continua a spalmare brodaglia al suo pubblico con gli occhi lucidi:
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Vi lascio con queste riflessioni dell’analista russo Older Eddy:
La frase “i generali si preparano per le guerre passate” è di solito pronunciata con disprezzo – come se fossero stupidi, in modo da perdere la prossima. Oggi vediamo un quadro interessante. Il blocco delle economie occidentali formalmente più grandi non può superare la Russia sul campo di battaglia esattamente “nella guerra del passato” – non è possibile dare al Khokhles così tante armi da garantire la sua vittoria militare. E oltre al fattore economico, in termini di guida delle truppe, ora proprio la NATO avrebbe molto bisogno di “prontezza per la guerra passata” – con quartieri generali in grado di gestire le operazioni di grandi formazioni meccanizzate. Ma non hanno più tali quartieri generali.
Abbiamo già abbastanza problemi per conto nostro, ma è proprio per una grande guerra di eserciti regolari che oggi siamo meglio preparati di chiunque altro al mondo, e sono sicuro che nessuna brigata americana, se fosse arrivata al fronte dalla nostra parte, non si sarebbe dimostrata migliore nelle condizioni di questa guerra. Anche loro avrebbero dovuto sopportare lunghe e dolorose sofferenze e trarre insegnamenti.
Ma per la guerra del futuro, tenendo conto delle lezioni apprese, siamo più preparati di molti altri. L’importante è non lasciarsi adagiare sugli allori: dobbiamo risolvere i problemi che sono emersi ed essere pronti all’emergere di nuovi. Ma i cittadini che nel 2024 scrivono dell’impeccabile macchina militare della NATO possono essere mandati a farsi curare. Oggi, qualsiasi combattente dell’AFU che non sia ancora stato al fronte sa più cose sulla guerra moderna e sulle capacità della NATO in essa che molti esperti occidentali riconosciuti, compresi i loro generali.
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Il conflitto israeliano ha iniziato di nuovo a degenerare in quella che sembra una grande guerra in Libano. Dico “sembra” perché personalmente sono ancora piuttosto scettico che ciò accada per una serie di ragioni che menzioneremo.
Ma prima esaminiamo alcuni sviluppi. Israele ha effettuato i suoi attacchi con i cercapersone e le radio. Inizialmente molti hanno pensato che le batterie dei cercapersone fossero esplose, ma è un’assurdità. Hanno piazzato degli esplosivi all’interno e li hanno attivati probabilmente con una telefonata. Il motivo per cui lo sappiamo è che in uno dei video dell’esplosione si possono sentire vari suoni o squilli pochi secondi prima dell’esplosione.
In secondo luogo, c’è stata una preponderanza di lesioni agli occhi, il che sembra implicare che i cercapersone abbiano suonato o emesso un segnale acustico, inducendo le vittime a portarli verso il viso per controllare il numero o il messaggio, dopodiché l’esplosione li ha colpiti direttamente negli occhi:
Sembra quindi la classica attivazione del telefono che si vede spesso nei film.
A proposito, ascoltate la dura condanna di Fu Cong, rappresentante cinese alle Nazioni Unite, nei confronti di Israele, che usa un linguaggio insolitamente forte:
Ora è chiaro che Israele sta disperatamente cercando di provocare Hezbollah per attaccarlo per primo, in modo da avere il casus belli e il consenso globale nel compiere un altro genocidio per coprire il primo in una sorta di schema genocidio-Ponzi.
La 98ª Divisione Ha’Esh dell’IDF completa il suo arrivo al confine libanese dalla Striscia di Gaza.
Ecco i media israeliani che mostrano il loro vero volto dichiarando che i civili libanesi sono indistinguibili dai “terroristi” di Hezbollah, un precursore del whitewashing del genocidio pianificato:
Ma ciò che è stato sottaciuto è la vera ragione per cui Israele è improvvisamente così disperato di espandere la guerra al Libano. Ci sono diverse ragioni, naturalmente, con importanza variabile; e anche se ognuna di esse svolge un ruolo, analizziamo le più significative.
1. In primo luogo, l’economia israeliana rischia di crollare, in parte a causa del fatto che la produttività dell’intero nord è stata interrotta dalle continue ripercussioni della lotta contro Hezbollah. Decine, se non centinaia di migliaia di coloni sono fuggiti, le fattorie sono state abbandonate, ecc. Netanyahu ha dichiarato apertamente, anche ieri in un nuovo discorso, che il nord deve essere “messo in sicurezza” per far tornare la gente, altrimenti può trasformarsi in una landa desolata e abbandonata, poiché gli israeliani non hanno lo stesso gusto di vivere in mezzo alle ostilità aperte degli arabi vicini, che hanno sottoposto a tali condizioni per anni.
La situazione si è aggravata oggi, quando Hezbollah ha scatenato un attacco di grandi dimensioni che ha perforato l’Iron Dome e ha colpito diversi quartieri. I danni non sembravano chiari, ma dai video pubblicati sembravano in fiamme case, auto, ecc.
Chiameremo questa ragione quella più evidente e apparentemente “ufficiale”, per motivi di ottica politica. Ma ce ne sono altre più profonde.
2. Un’altra ragione importante che pochi hanno colto o di cui hanno parlato è di carattere strategico più ampio. Israele non solo ha probabilmente dedotto che il suo tempo sta per scadere a causa del tramonto dell’impero statunitense, che è il suo principale sostenitore e fornitore, ma più specificamente, Israele potrebbe approfittare di una breve finestra di debolezza americana senza precedenti e di totale mancanza di leadership.
Come molti sanno, al momento non c’è letteralmente nessuno al “posto di guida” del ramo esecutivo. L’intero governo degli Stati Uniti è gestito in modo manageriale da operatori dello Stato profondo, membri del gabinetto, ecc. Dopo che Joe Biden è stato apertamente colpito mesi fa, è stato effettivamente messo in una sorta di cella di detenzione, dove sembra che gli sia stato ordinato di tacere, di tenersi lontano dai riflettori e, in sostanza, di far passare il tempo sotto la minaccia di conseguenze. Il Paese è ora interamente gestito da una serie di tirapiedi come Jake Sullivan, Antony Blinken, ecc.
Se avete bisogno di una prova di questo, basta osservare due video esemplari solo dell’ultimo giorno, che sono assolutamente scioccanti.
Il primo è quello di un Biden assolutamente sciupato, mentalmente inadeguato, dall’aria triste e cadente, che gracchia qualche debole introduzione alla moglie, che ora dirige senza precedenti la riunione del Gabinetto al suo posto. È la prima riunione di gabinetto dall’ottobre 2023, la prima in un intero anno, e a dirigerla non è Joe ma Jill, che siede al posto del Presidente:
Poi c’è stato l’incidente in cui il premier Modi, in visita, è stato umiliato da un Biden che sembrava aver avuto un errore nel presentarlo:
NY Post:
Il Presidente Biden, dall’aria confusa, ha annaspato e ha risposto ai collaboratori dopo aver dimenticato quale leader mondiale avrebbe dovuto presentare durante una conferenza stampa per un evento durante il vertice Quad di sabato.
Biden, 81 anni, avrebbe dovuto chiamare sul palco il Primo Ministro indiano Narendra Modi, ma sembrava non sapere quale dei tre capi di governo in visita avrebbe dovuto nominare.
Tornando indietro, tutto questo per dire che Israele potrebbe vedere la sua occasione storica per fare il maggior numero di danni e andare il più possibile “fuori copione” alla luce della storica crisi di leadership degli Stati Uniti. Israele potrebbe avere la possibilità di farla franca con un omicidio, non è un gioco di parole, senza troppe conseguenze. Ancora più diabolicamente, Israele potrebbe percepire l’opportunità, nella confusione del disastroso ramo esecutivo degli Stati Uniti, di trascinare gli Stati Uniti in una guerra più ampia con l’Iran.
In breve: si tratta di una strategia per sfruttare l’America nel suo punto più debole per ottenere il massimo guadagno.
3. Le ultime ragioni sono piuttosto accademiche: Il tentativo di Netanyahu di salvare il suo regime espandendo il conflitto all’infinito – non dissimile dalla trappola in cui si trova Zelensky.
Come ho detto in apertura, tuttavia, rimango scettico sul fatto che la guerra possa scoppiare in modo incontrollato, dato che al momento la parte iraniana-Hezbollah non sembra avere il gusto di un grande conflitto, e nemmeno il consenso tra i due. Dopo tutto, Hezbollah ha segnalato di aver espresso delusione e persino irritazione nei confronti dell’Iran per non aver portato avanti un’azione più ampia contro Israele.
Sembra chiaro che l’Iran non sia interessato a un conflitto su larga scala e che Hezbollah non sia intenzionato ad andare da solo contro Israele – il che non significa che non lo farà se assolutamente spinto sull’orlo del baratro. Ma il punto è semplicemente che i segnali sembrano suggerire che la Resistenza sia propensa a giocare il gioco lungo, dissanguando Israele da molti vettori diversi, un po’ alla volta. Ciò è ovviamente dovuto principalmente al fatto che l’Iran è consapevole del piano di Israele per spingerlo a una guerra su larga scala contro gli Stati Uniti, soprattutto in considerazione della nuova leadership iraniana, che si dice sia meno apertamente bellicosa.
Per esempio, proprio mentre scriviamo, Hezbollah avrebbe bloccato l’aeroporto di Haifa, nel nord, colpendo i suoi serbatoi di carburante:
Molti analizzano solo le ramificazioni militari unidimensionali e puramente cinetiche sul terreno, ma trascurano gli esborsi ancora più significativi di capitale politico che Israele sta perdendo sulla scena mondiale. All’Iran probabilmente sta bene guardare Israele perdere lentamente la sua posizione globale, diventando la pecora nera del mondo civilizzato, mentre il suo tessuto socio-economico e politico si disfa.
Quindi, quello che voglio dire è che, anche se Israele dovesse continuare a intensificare i suoi attacchi di massa in Libano, vedo la Resistenza giocare in modo molto più asimmetrico, con la continuazione dello status quo della guerriglia e degli attacchi alle infrastrutture del nord di Israele, piuttosto che prepararsi a un tipo di guerra convenzionale su larga scala. Questo è ciò che Israele vorrebbe, per ottenere il suo casus belli e trascinare gli alleati in un conflitto totale.
Molti vedono in questo modo l’Iran e i suoi alleati come “deboli”, umiliati, ecc. E così sia. È così che i grandi Stati civilizzati sopravvivono per migliaia di anni, non reagendo a ogni piccola provocazione.
Contrariamente alla falsa collocazione #9 di cui sopra, Israele esiste da appena 70 anni. L’Iran esisterà molto tempo dopo che le ossa di tutti i chiacchieroni sui social media si saranno ammuffite e trasformate in fosfato per i vermi, e gli stessi social media saranno diventati un battito di ciglia dimenticato nella distesa del tempo.
In Ucraina, ci sono un paio di aggiornamenti significativi che vale la pena osservare.
Per me, il più significativo è la notizia che la Russia intende iniziare a colpire le centrali nucleari ucraine:
Il motivo per cui questo è significativo è che da alcuni mesi si dice che la Russia abbia messo fuori uso oltre il 70% della capacità di produzione di energia convenzionale dell’Ucraina e che siano rimaste praticamente solo le centrali nucleari ucraine, con molti commentatori pro-UR che si chiedevano se Putin sarebbe stato “abbastanza uomo” da terminare definitivamente la rete elettrica dell’Ucraina.
Questa sembra essere la prima indicazione che Putin potrebbe aver deciso di togliere completamente l’energia all’Ucraina. Attenzione, questo non significa colpire le centrali nucleari in sé per creare catastrofi simili a Chernobyl, ma piuttosto le loro sottostazioni e le altre infrastrutture circostanti per “neutralizzare” efficacemente la capacità delle centrali di fornire, o almeno erogare, energia.
L’Europa si sta preparando a questa conseguenza, ma in un modo che lascia molto a desiderare, dato che la Russia può facilmente disattivare i suoi cosiddetti impianti smantellati e riassemblati:
La Russia ha anche colpito una nave nel Mar Nero che, secondo quanto rilevato, trasportava armi in Ucraina, dimostrando che la Russia ha la capacità di eliminare il cosiddetto “corridoio del grano” dell’Ucraina se volesse, ma le concede clemenza a sua discrezione.
Questo evidenzia ancora una volta come la Russia continui a distruggere le scorte di munizioni ucraine, compensando così la distruzione occasionale dei magazzini russi da parte dell’Ucraina, come si è visto di recente. Infatti, solo negli ultimi tre giorni, la Russia ha colpito più di mezza dozzina di depositi di armi, tra cui il porto di Odessa, la nave che era in viaggio per scaricare, e molti altri luoghi.
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Zelensky si è finalmente recato negli Stati Uniti per il suo grande, forse ultimo, tour:
Lui stesso apprezza la natura momentaneamente premonitrice della chiusura del sipario. Dal suo resoconto:
Questo autunno determinerà il futuro di questa guerra. Insieme ai nostri partner, possiamo rafforzare le nostre posizioni come necessario per la nostra vittoria – una vittoria condivisa per una pace veramente giusta. In questo momento si sta formando l’eredità dell’attuale generazione di leader mondiali, quelli che ricoprono le cariche più alte. Nei prossimi giorni avremo incontri con i leader del Sud globale, del G7, dell’Europa e con i capi delle organizzazioni internazionali, con molti di coloro che stanno contribuendo a consolidare il mondo. Avremo anche importanti incontri con i rappresentanti degli Stati Uniti. Una vera pace e una vera vittoria per l’Ucraina e per il diritto internazionale: questo è ciò di cui abbiamo bisogno.
Riuscite a indovinare la sua prima tappa nel Paese?
Scranton, PA, per implorare direttamente di persona un maggior numero di proiettili presso la fabbrica di proiettili da 155 mm della General Dynamics:
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Scranton, Pennsylvania. Ho visitato uno stabilimento che produce proiettili d’artiglieria da 155 mm. Ora, per i nostri guerrieri che difendono non solo il nostro Paese, non solo l’Ucraina, l’impianto aumenterà la produzione. Ho iniziato la mia visita negli Stati Uniti esprimendo la mia gratitudine a tutti i dipendenti dello stabilimento e raggiungendo accordi per espandere la cooperazione tra la Pennsylvania e la nostra Zaporizhzhia. È in luoghi come questo che si può veramente sentire che il mondo democratico può prevalere. Grazie a persone come queste, in Ucraina, in America e in tutti i Paesi partner, che lavorano instancabilmente per garantire la protezione della vita.
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Sappiamo tutti perché è negli Stati Uniti, per presentare il suo grande “piano di pace” ai suoi padroni. Ora, Bloomberg avrebbe appreso cosa contiene il piano.
A quanto pare il piano si basa sul fatto che Biden estenda un invito della NATO e dell’UE a Zelensky, per non parlare degli impegni per le forniture infinite di armi successive. Non ho idea di come questo possa creare la pace, ma suppongo che significherebbe una “vittoria” per l’Ucraina, se dovesse effettivamente accadere. Sfortunatamente, le possibilità che l’Ucraina ottenga un invito a uno di questi incontri sono inferiori a zero. Forse il vero piano è quello di far sì che gli Stati Uniti minaccino la Russia di invitare la NATO come conseguenza della mancata accettazione da parte della Russia di un accordo di pace sfavorevole. Ma ciò sarebbe insensato, dato che indurrebbe la Russia a combattere più duramente per sottomettere l’Ucraina e assicurarsi di non poterla mai minacciare come parte della NATO.
Questo è ora il principale problema che affligge l’establishment:
L’ultimo articolo del WaPo descrive uno stato di disordine nella classe politica occidentale quando si tratta di decidere come procedere contro una Russia chiaramente sfiduciata e inflessibile. Vedete, tutte le provocazioni, i giochi e i “trucchi” di pace avevano lo scopo di piegare la Russia all’influenza dell’Occidente, ma l’Impero sta scoprendo che, dopo decenni di rapporti con vassalli superficiali, confrontarsi con una delle ultime nazioni veramente sovrane rimaste al mondo è una cosa decisamente diversa.
La cosa più irritante è il consenso nazionale di Putin, un altro koan criptico per l’Occidente così abituato allo status di paria dei suoi leader tra un popolo governato solo in virtù di elezioni rubate, propaganda di massa e pugno di ferro.
Anche se Putin deve affrontare gli sforzi occidentali per isolarlo, sembra sempre più invincibile in patria. Il più formidabile sfidante di Putin, Alexei Navalny, è morto in prigione a febbraio. Ogni segno di dissenso politico viene rapidamente stroncato. Ciò che resta dell’opposizione russa è ora in gran parte in esilio. E nemmeno le imbarazzanti battute d’arresto militari, come la recente incursione dell’Ucraina nella regione russa di Kursk, hanno indebolito la presa di Putin sul potere.
L’Occidente si è trovato di fronte a una situazione difficile e difficile da gestire:
“Non ci sono scelte valide qui, ci sono solo gradi di cattiveria”, ha detto Samuel Charap, scienziato politico senior della Rand, aggiungendo che “accettare le condizioni russe che sono inaccettabili” sarebbe un errore. Ha invece esortato a “una combinazione di deterrenza e potenziali negoziati”.
L’articolo termina con la grande visione della lotta a Putin, che è in effetti la creazione di uno Stato profondo totalitario sovranazionale del nuovo ordine mondiale per governare l’Occidente in modo permanente, a prova di Trump e, in generale, a prova di futuro dell’ostilità antirussa dell’Occidente, in modo che nessuna forza veramente democratica possa emendarsi in seguito:
Poiché la Russia è una minaccia a lungo termine, ha detto Hill, anche le strutture per affrontare questa minaccia devono essere a lungo termine o Putin rivendicherà sempre il vantaggio. Ha esortato a dare una risposta più coerente, che abbracci tutte le amministrazioni, creando “una sorta di segretariato permanente” con gli alleati per mantenere una politica coerente nei confronti della Russia.
Trump, nel frattempo, ha suscitato incertezza. Si è vantato che il suo rapporto con Putin, Xi e Kim gli avrebbe permesso di risolvere rapidamente il mondo alle condizioni americane. Ma i legami sempre più stretti tra Mosca, Pechino e altri avversari complicano il quadro.
Un “segretariato permanente” per mantenere una politica “coerente” in perpetuo. Traduco il Newspeak: creare un’autorità centrale permanente che nessuna nazione “sovrana” possa mettere in discussione per assicurarsi che i leader populisti non possano mai ribellarsi alla dittatura totalitaria globalista e alla sua ricerca di asservire il pianeta sotto un unico dominio egemonico.
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Alla luce dell’articolo di cui sopra, in cui si parla della “schiacciante portata globale” della “propaganda” russa e della concomitante spinta alla dittatura globale per combatterla, è ora più chiaro che mai cosa intendano fare i controllori quando si tratta di politica di “disinformazione”.
Proprio oggi le Nazioni Unite hanno firmato il “Patto per il futuro”, che include il “Digital Compact”, un nuovo vasto potere di censura contro tutte le voci dissenzienti. Il Segretario generale António Guterres annuncia chiaramente l’assalto alla libertà:
C’è da stupirsi, quindi, che questo appello venga ripreso da tutto il mondo occidentale:
In apparenza, non è stata la settimana più bella per la Russia in guerra. Due nuovi depositi sono stati colpiti dopo il grande Toropets, che comprendeva il fratello minore del Toropets, il GRAU 23, a pochi chilometri a sud alla geolocalizzazione 56.36033513129649, 31.64913480746371:
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Come se non bastasse, il test dell’RS-28 Sarmat, di cui avevo dato notizia nell’ultimo rapporto, si è trasformato in un disastro: pare che il missile abbia fallito nel suo attracco al cosmodromo di Plesetsk, distruggendosi catastroficamente senza decollare:
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Ebbene sì, questa settimana la Russia ha subito una serie di battute d’arresto. Non tutte le settimane sono brillanti.
Tuttavia, è stata una settimana di contrasti e di estremi. Mentre l’Ucraina ha ottenuto alcune grandi vittorie morali, senza dubbio pianificate da tempo con un sacco di droni di lusso risparmiati per coincidere con il grande tour di vittorie di Zelensky negli Stati Uniti per concludere la guerra, la Russia ha attivato una serie di progressi, segnando oggi in particolare come il singolo giorno di maggior successo di probabilmente tutto l’anno, in termini di numero puro di catture.
Letteralmente su ogni singolo fronte la Russia ha catturato oggi importanti territori in quello che sembra sempre più l’inizio di quel crollo che Arestovich aveva cupamente previsto la volta scorsa. Ci sono state catture a Rabotino, Ugledar, Krasnoyarsk, Pokrovsk-Ukrainsk, Toretsk, Klescheyevka-Chasov Yar, fino a Makeevka verso la zona di Kupyansk.
Vediamo brevemente ogni settore:
Giorni fa ho riferito che Syrsky aveva iniziato a prelevare unità da Zaporozhye per rinforzare le linee di Kursk e Pokrovsk, ormai in rovina. Le forze russe ne hanno approfittato e hanno iniziato ad avanzare in diversi settori. Sono stati registrati avanzamenti a Rabotino e più a est lungo l’asse Urozhayne-Staromayorsk.
Le forze russe sarebbero avanzate a sud del villaggio di Makarivka in direzione di Velyka Novosilka. Dopo il consolidamento delle posizioni a nord di Staromayorske e Urozhaine, sembra che le forze russe abbiano ripreso le operazioni offensive in questa zona. Sulla sponda occidentale del fiume Mokri Yaly, le forze russe in motocicletta sarebbero avanzate dalle posizioni a sud delle fortificazioni di trincea in rosso. La fanteria si è poi probabilmente smontata e ha conquistato le posizioni tra gli alberi e i boschetti a sud di Makarivka. C’è ancora un’altra fortificazione di trincea sulla strada di Makarivka che l’Ucraina tiene prima che i russi possano entrare nell’insediamento.
Una grande notizia è arrivata con la segnalazione dell’utilizzo per la prima volta su larga scala e in modo sistematico di bombe a collisione russe sulla linea di Zaporozhye, che sembra preannunciare l’inizio di operazioni più attive in questa zona.
Spostandoci appena a est di lì, uno dei più grandi movimenti si è verificato a Ugledar, che le unità russe stanno quasi completamente avvolgendo ora. Diverse mappe da Deep State, Suriyak, ecc.:
Rapporto ucraino:
Infatti, si dice che il comandante del 72° a Ugledar sia stato licenziato subito dopo:
Alcuni resoconti sostengono addirittura che le forze russe abbiano iniziato a entrare nella città stessa:
Spostandosi ora più a nord, le forze russe presero diverse posizioni sull’asse Kurakhove, vicino a Gostre e Tsukuryne:
Julian Roepcke ha esclamato in particolare a proposito di questa direzione:
Ecco un video della 46a brigata aeromobile ucraina che difende Gostre, che mostra la vasta portata degli attacchi russi. Questo da solo ha dichiarato di aver coinvolto “52 veicoli russi”. Come al solito, hanno fatto del loro meglio con i trucchi di montaggio nel tentativo di mostrare qualche tipo di colpo, ma in realtà si osservano pochissime perdite di materiale russo e le forze russe hanno effettivamente catturato i loro obiettivi:
Uno dei problemi è che la maggior parte di questi video ora consiste in tagli rapidi di FPV che colpiscono “capannoni” in movimento, carri armati con enormi saldature anti-drone. Queste costruzioni sono note per ricevere spesso molti colpi di FPV. Un recente video di una squadra russa ha detto che il loro carro armato tartaruga “Tsar Mangal” ha resistito a oltre 100+ colpi di FPV. Quindi, vedere una clip di un FPV che atterra su un carro armato capannone non significa nulla e in quasi tutti i casi l’attacco è probabilmente fallito.
Il video sopra è composto da più di un intero battaglione di carri armati con potenzialmente centinaia di truppe di terra coinvolte, eppure la brigata ucraina ha potuto mostrare solo un singolo veicolo “in fiamme”, che potrebbe benissimo essere il loro, e non una singola vittima russa. Questa è una cattiva notizia per loro e indica un’operazione di assalto di enorme successo.
Più a nord, le forze russe avanzarono in profondità nella città di Toretsk:
Così come qui sul fianco:
“Birra” sopra dovrebbe essere Pivnichne.
Anche qui hanno compiuto una lunga avanzata parallela alla periferia, appena a nord di Niu-York, già catturata:
E a nord di questa regione arriviamo a Klescheyevka, dove le forze russe hanno fatto sorprendenti nuove avanzate:
Poi, lungo tutto il percorso verso nord, in direzione della zona di Kupyansk, la Russia ha compiuto diverse avanzate striscianti.
Da qui, da “Sandy” – che si suppone essere Pishchane – avanzarono verso il fiume Oskil:
A sud di lì, ma sullo stesso asse, conquistarono nuovi territori più a ovest di Makeevka e nelle vicinanze di Nevskoe:
Questi sono a ovest di Kremennaya sul confine tra Kharkov e Donetsk. Secondo il rapporto ucraino riportato di seguito, si è trattato di un assalto sorprendentemente grande per un settore così “sonnolento”:
L’esercito russo sconfisse il nemico a Nevsky, liberando di fatto il villaggio
▪️Ieri l’esercito ucraino ha confermato che le truppe russe hanno sfondato il fronte delle Forze Armate ucraine e sono entrate nel villaggio di Nevskoye durante l’offensiva in direzione di Krasnolimansk;
➖”I russi sono riusciti a sfondare la nostra difesa a nord di Terny con un assalto meccanizzato e sono entrati a Nevskoye”, ha ammesso ieri pomeriggio il militante del 24° battaglione d’assalto separato S. Bunyatov;
▪️Un altro militante, “Raver”, ha riferito in serata che i russi hanno attaccato con 32 veicoli blindati e hanno preso Nevskoye, e le truppe ucraine sono state costrette a ritirarsi dall’insediamento.
▪️Secondo le nostre informazioni, il gruppo “Ovest” ha praticamente liberato il villaggio di Nevskoye, il villaggio è in fase di sgombero e, dopo il suo completamento e consolidamento, la cattura del villaggio sarà annunciata ufficialmente.
RVvoenkor
Ecco una comoda mappa del Deep State che mostra i progressi nella zona di Kupyansk nel corso delle ultime settimane: il principale punto saliente centrale è Pishchane:
Qui si possono osservare i costanti progressi delle forze russe, nonostante la maggior parte abbia dimenticato questa zona “arretrata”.
Infine, anche lassù a Kursk, la Russia fece nuovi progressi, come sottolineava ancora una volta un inconsolabile Roepcke:
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La camera di risonanza ucraina è ora piena di trionfalismo incentrato sugli attacchi agli arsenali di Toropets, Oktyabirsk e Tikhoretsk, mentre l’AFU sta letteralmente crollando sotto i nostri occhi e cominciano a manifestarsi tutti i segnali di un crollo a valanga.
Come sempre, lo stile di avanzamento “a morsi” può sembrare irrilevante da una prospettiva perché un piccolo morso qui, un piccolo morso lì non fa una grande apparizione visiva su una mappa. Tuttavia, è innegabile che il fronte ucraino si sta incrinando e il fattore più dannoso di cui la maggior parte delle persone non è a conoscenza è che non importa davvero se l’Ucraina abbassa la mobilitazione a 19 o 21 come molti si aspettano che accada nei prossimi mesi. Questo perché i problemi non sono solo di pura manodopera, ma piuttosto di motivazione, addestramento e livello di abilità delle forze. La lamentela principale a questo punto al fronte è la mancanza di livello di truppe e motivazione a combattere. Ciò peggiorerà solo e i crolli della prima linea accelereranno fino a quando non inizieranno a sembrare piuttosto evidenti sulle mappe anche da lontano.
Tuttavia, per fare l’avvocato del diavolo e dare una possibilità alla controparte, fonti ucraine affermano di avere un ampio potenziale di mobilitazione, citando questo grafico recente che presumibilmente mostra le registrazioni obbligatorie per il servizio militare;
Ciò che afferma di mostrare sono oltre 4,5 milioni di ucraini “idonei al servizio” ancora nel bacino di registrazione. Questo sembra essere il resoconto più ufficiale possibile sulla forza lavoro ucraina totale rimanente.
Supponiamo che questo numero sia accurato: realisticamente parlando, una grande frazione di quel numero finirà per scappare in qualche modo e non adempirà mai a nessun tipo di obbligo di presentarsi all’ufficio di reclutamento quando sarà il loro momento. Quel numero è maggiore del 50%? Molto probabilmente, ma non sappiamo esattamente quanto.
In entrambi i casi, ciò potrebbe teoricamente lasciare oltre 2 milioni di ucraini ancora da combattere. Naturalmente, le attuali stime del Ministero della Difesa russo stanno stimando una media di circa 400-750.000 vittime ucraine all’anno, il che potrebbe esaurire la maggior parte di quella riserva in altri 2-3 anni di combattimenti.
Ora Ukrainska Pravda riporta che l’Ucraina recluta 6.500 volontari al mese:
Non sono sicuro se stiano distinguendo le reclute volontarie rispetto a un altro numero distinto di reclute mobilitate come questa di oggi:
In ogni caso, si tratta di una cifra irrisoria rispetto a ciò che sta incassando la Russia.
A proposito di perdite. L’ultima volta ho scritto del singolo cimitero in cui si dice siano state aggiunte 19.000 tombe di soldati. Ora le reti hanno prodotto un secondo esempio dopo che Zelensky ieri ha confutato con forza che l’Ucraina ha 80.000 morti in guerra. Ha avuto il coraggio di dire che il numero è “significativamente inferiore”. Di conseguenza, è stato studiato un secondo grande cimitero di Kharkov e la conclusione è stata che solo qui sono stati aggiunti 10.000 nuovi soldati, per un totale di quasi 30.000 se si aggiunge il cimitero precedente. Quindi, in due cimiteri campione si dice che siano state trovate 30.000 persone e ci sono centinaia e migliaia di cimiteri del genere in tutta l’Ucraina.
Bene, torniamo al tema dei cimiteri e, di conseguenza, delle perdite delle Forze Armate ucraine.
Dal momento che Zelya ha smentito i resoconti dei media sulle perdite nelle Forze armate ucraine (le fonti occidentali hanno segnalato 80.000 caduti), credo che l’argomento sarà interessante e pertinente.
Il nome “Bezlyudovka” parla da sé.
Il diciottesimo cimitero di Kharkov si trova alla periferia di questo stesso insediamento. Il suo volume è significativo, il che significa che non sarà difficile notare l’espansione del suo territorio. Ci sono circa 450 corpi per quadrato. Ci sono 96 quadrati nel cimitero. Poiché non tutte le celle hanno le stesse dimensioni, prenderemo 400 corpi e 80 celle come valori medi.
La capienza totale del cimitero è quindi di 32 mila salme.
Prima dell’inizio dell’SVO, nel 2020-21, 50×400=20.000 cittadini ucraini hanno trovato la loro ultima dimora.
Oggi il cimitero è quasi completamente pieno e continua a essere attivamente rifornito.
Poiché la popolazione di Bezlyudovka nel 2022 era di circa 10 mila persone, trascureremo il rifornimento del cimitero di civili; i numeri non saranno significativi.
Di conseguenza, risulta che circa 10 mila militari delle Forze Armate dell’Ucraina hanno trovato comoda sistemazione in questo cimitero.
In totale abbiamo esaminato solo 2 cimiteri e le cifre totali delle perdite delle Forze Armate ucraine si aggirano intorno alle 25-30 mila unità.
Quanti cimiteri ci sono ancora in Ucraina?
canale_antisettico
Alcuni ultimi aggiornamenti vari:
Un altro HIMARS sarebbe stato distrutto da Iskander da qualche parte nella regione di Sumy, vicino al confine:
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Apparentemente, sempre più spesso il drone russo Orion sta operando sul fronte settentrionale, distruggendo intere fasce di mezzi corazzati ucraini:
La cosa è stata notata ovunque, con il massimo esperto di radioelettronica dell’AFU, Serhiy Flash, che ha nuovamente preso nota delle loro firme elettroniche:
Attenzione PEP di tutti i livelli.
L’UAV Orion sta operando sempre più vicino ai confini. Questo è un Bayraktar russo su minimalka. Hanno paura di volare alle nostre spalle. Lavorano con i razzi lungo il fronte.
Hanno appena colpito una delle posizioni, i ragazzi intelligenti sanno già riconoscerla anche sugli analizzatori tascabili.
Zvezda ha pubblicato un articolo completo sulla rinascita dei droni UCAV pesanti:
Si tratta di un articolo dettagliato per gli interessati, che fornisce una panoramica dello sviluppo dei droni e spiega perché vengono ora utilizzati sul fronte di Kursk.
Il tuo supporto è inestimabile. Se hai apprezzato la lettura, apprezzerei molto se sottoscrivessi un impegno mensile/annuale per supportare il mio lavoro, così che io possa continuare a fornirti report dettagliati e incisivi come questo.
CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI COPRONO UNA PARTE DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 3.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIO
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Su PayPal, Tipee, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
Una intervista particolarmente interessante, apparsa originariamente sulla rivista norvegese ultraatlantista Geopolitika. Espone chiaramente, pur non facendone parte esplicitamente, il pensiero di una parte importante contigua al movimento conservatore statunitense che sostiene Trump. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Autonomia strategica: l’Europa può fare a meno degli Stati Uniti?
Gli europei parlano molto di un’Europa della difesa e dell’autonomia strategica. Ma questo è possibile nella pratica o è limitato a pochi concetti? Intervista a Justin Logan per conoscere il punto di vista americano.
Intervista con Justin Logan, direttore degli studi di difesa e politica estera presso il think tank conservatore americano CATO institute. Intervista di Henrik Werenskiold. Articolo originale pubblicato su Geopolitika. Traduzione a cura di Conflits.
I francesi sono stati i primi a promuovere l’idea dell’autonomia strategica europea. Qual è la sua opinione in merito? Pensa che sia possibile istituire un comando militare europeo unificato con una reale autonomia strategica?
Molti europei non vedono di buon occhio la continua ambizione della Francia di guidare l’Europa, ma dal punto di vista americano l’interesse degli Stati Uniti è quello di mantenere l’Europa divisa. Questa posizione deriva dal nostro coinvolgimento nella Prima guerra mondiale, nella Seconda guerra mondiale e nella Guerra fredda, durante le quali abbiamo cercato di impedire il dominio della Germania del Kaiser Guglielmo, di Adolf Hitler o dell’Unione Sovietica.
Dal punto di vista della realpolitik americana, l’obiettivo è quello di impedire a un paese di dominare l’Europa, consentendo al contempo all’Europa di difendersi, il che non dovrebbe essere troppo difficile. Se si confrontano l’economia e la popolazione dell’Unione Europea con quelle della Russia, non dovrebbe essere troppo difficile. Inoltre, se consideriamo le lotte della Russia in Ucraina, è chiaro che la Russia non è candidata a dominare l’Europa.
Abbiamo quindi raggiunto una situazione il più possibile favorevole dal punto di vista americano. In Europa possono persistere conflitti, instabilità e guerre, ma l’obiettivo centrale degli Stati Uniti di evitare che un solo Paese domini il continente è stato sostanzialmente raggiunto. Si tratta di uno sviluppo positivo che gli Stati Uniti dovrebbero accogliere con favore.
Pensa che l’Europa abbia già la capacità di difendersi dalla Russia senza il sostegno degli Stati Uniti? La guerra in Ucraina molto probabilmente si svolgerebbe in modo diverso senza il sostegno militare degli Stati Uniti.
È vero, ma gli Stati Uniti non sono impegnati come se l’Ucraina fosse un alleato della NATO, poiché non siamo direttamente coinvolti nei combattimenti. È quindi ipotizzabile uno scenario di guerra in Europa in cui gli Stati Uniti non combattono attivamente, ma sostengono lo sforzo bellico in altri modi. Possiamo fornire vari tipi di supporto, ma non personale militare in quanto tale.
Penso che un esempio pertinente del conflitto ucraino, che potrebbe essere applicato in modo più ampio all’Europa, sia la condivisione da parte degli Stati Uniti di ciò che chiamiamo ISR: Intelligence, Surveillance and Reconnaissance. Non solo abbiamo individuato i movimenti russi fin dall’inizio della guerra, il che è stato vantaggioso per lo sforzo bellico ucraino, ma abbiamo anche fornito supporto ISR all’esercito ucraino durante tutto il conflitto fino ad oggi, che è stato essenziale per loro.
Queste capacità potrebbero anche supportare l’Europa in caso di conflitto armato, dato che l’Europa non dispone delle nostre capacità satellitari e di sorveglianza. Potremmo quindi continuare a fornire questo supporto senza dispiegare truppe. Ciò non significa che smetteremmo di comunicare o di cooperare con gli europei, ma l’idea che gli Stati Uniti debbano essere il nodo centrale della difesa europea sembra fantasiosa.
Quindi sì, che sia attraverso la visione di Macron, l’UE o persino una potenziale alleanza franco-tedesco-britannica – che sembra strano menzionare – penso che troveranno la loro strada. Ma non ho preferenze particolari su come dovrebbe essere strutturata, se attraverso l’UE o un’alleanza tripartita.
Tuttavia, anche l’idea che la Russia possa estendere le sue attuali linee di rifornimento per diverse centinaia di chilometri in Europa ed essere efficace in un luogo come la Polonia sembra irrealistica, soprattutto con l’attuale livello di sostegno militare da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi europei. Può sembrare strano dirlo durante il più grande conflitto in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale, ma dal punto di vista degli Stati Uniti questa è una storia positiva. Abbiamo appreso che l’esercito russo sta cercando di polverizzare l’Ucraina, il che indica che abbiamo sopravvalutato le sue capacità militari.
Sì, è terribile per l’Ucraina e probabilmente per la Russia, ma è un bene per noi. Se i russi non riusciranno a sconfiggere rapidamente l’Ucraina, dovranno affrontare sfide enormi da parte di Paesi come la Francia o la Germania.
Quindi lei sta dicendo che l’attuale status quo è in realtà il migliore per gli Stati Uniti, perché vorrebbe che le capacità di difesa europee fossero decentralizzate, nel senso che non vorrebbe che un’unica entità controllasse tutto il potenziale militare del continente?
Non credo che lo status quo sia lo scenario migliore, perché gli Stati Uniti hanno attualmente 100.000 soldati di stanza in Europa e io non voglio avere 100.000 soldati in Europa. Non credo che la difesa dell’Europa richieda 100.000 soldati americani stanziati permanentemente nel continente. Quindi penso che se dovessimo iniziare a prendere le distanze dalla NATO, sia attraverso una “NATO dormiente” sia iniziando a ritirare unilateralmente le truppe dalla Germania, invieremmo un’altra onda d’urto nel cuore dell’Europa, proprio come ha fatto l’invasione russa dell’Ucraina.
Ma credo che un’ulteriore “onda d’urto per la sicurezza europea” sarebbe in realtà una buona cosa dal punto di vista degli Stati Uniti, perché costringerebbe la Zeitenwende, che attualmente è solo un trucco contabile, a trasformarsi forse in qualcosa di reale. In questo contesto, se guardiamo all’opinione pubblica tedesca sulle spese militari, vediamo che la domanda di un recente sondaggio era molto sfavorevole all’idea. La domanda era: “Dovremmo spendere di più per la difesa, anche se questo va a scapito di altre priorità nazionali, come il benessere sociale e le infrastrutture? E non è stata una maggioranza, ma una pluralità – il 46 o 47% dei tedeschi – a rispondere affermativamente a questa domanda.
Per quanto riguarda le altre opzioni, esse sono sostenute rispettivamente dal 30% e dal 20%. Mi sembra piuttosto sorprendente. Quindi, piuttosto che i tedeschi sprechino miliardi di euro in F-35 che non useranno mai, sarebbe bello se utilizzassero quelle risorse, o magari altre risorse, in un modo più intelligente che si traduca effettivamente in potenza militare sul campo.
In Europa è difficile per i politici sostenere i tagli ai programmi di welfare, alla spesa sociale e alla spesa statale che potrebbero essere necessari per aumentare la spesa militare. Un modo per ovviare a questo problema è quello di ottenere un maggior rapporto qualità-prezzo riducendo le ridondanze tra gli eserciti europei e migliorando la loro complementarità.
C’è un modo per renderli più complementari o è semplicemente impossibile a causa di questioni come il realismo politico, il nazionalismo, gli interessi nazionali e i troppi interessi divergenti tra i diversi Stati europei?
La risposta onesta è che non lo so, ma certamente ci sono modi per ridurre le ridondanze. Resta da vedere se stiamo parlando di una condivisione di sovranità o di qualcosa di molto più ambizioso. Si è parlato di un esercito europeo, che forse è inverosimile. Ma è indubbio che le ridondanze potrebbero essere ridotte. L’Europa ha decine di diversi eserciti, forze aeree, marine, ecc. con capacità ridondanti. Queste forze potrebbero certamente essere razionalizzate per diventare una forza combattente più efficace.
Queste risorse potrebbero essere utilizzate, posizionate, messe in comune e quindi applicate meglio. Ancora una volta, sono agnostico e incerto se questi sforzi debbano o meno essere incanalati attraverso l’Unione Europea o attraverso una sorta di accordo multilaterale tra gli Stati interessati. Ma in fin dei conti, o si crede che questi Paesi europei abbiano a cuore la loro sicurezza e la loro sopravvivenza, oppure no. Io sono nel campo di coloro che pensano di sì.
Ma sono molto contenti di poter contare sugli Stati Uniti e di fare affidamento su di loro il più possibile. Non li biasimo affatto; penso che siano intelligenti. Non sto criticando gli europei perché accettano servizi gratuiti; sto criticando noi perché li offriamo. C’è una metafora che mi piace usare: se vi invitiamo a cena e paghiamo il conto, e poi ci lamentiamo che gli europei non hanno pagato, è perché li abbiamo invitati noi. Beh, li abbiamo invitati noi. Era il nostro accordo e ci piace essere il giocatore più importante al tavolo. Personalmente, non mi piace; non ne vale la pena per noi.
Quindi penso che dovremmo iniziare a ritirare le truppe da Paesi come la Germania e comunicare chiaramente e amplificare il senso di minaccia. In altre parole, far sapere loro che hanno un problema serio da affrontare e vedere cosa succede. Credo che in uno scenario del genere gli europei si ricompatterebbero rapidamente. Ma non sono sicuro di come funzionerebbe. Molti diranno: “Oh, dobbiamo passare attraverso l’UE, abbiamo bisogno di obblighi di difesa”; oppure no, dobbiamo passare attraverso Parigi, oppure no, abbiamo bisogno di una versione più nazionale.
Ma dal punto di vista americano, non ha molta importanza come sarebbe organizzata alla fine. L’unico pericolo sarebbe se gli europei stessero letteralmente a guardare mentre l’esercito russo marcia attraverso l’Ucraina e la Polonia e pugnala la Germania al cuore. Penso che sia fantascienza. Non credo che sia una prospettiva reale dal punto di vista americano. E penso che gli europei, se costretti, faranno di più, in una forma o nell’altra, per compensare l’assenza di forze di terra americane.
Conduciamo un esperimento mentale. Supponiamo che l’Europa aumenti significativamente la sua capacità militare, acquisisca una maggiore autonomia strategica e diventi un polo di potere indipendente e militarmente competente nel sistema internazionale. Vede uno scenario in cui potrebbe usare il suo potere militare in modo da danneggiare gli interessi americani, per esempio nel Mediterraneo o nel vicino estero dell’Europa?
Penso che siamo così lontani da uno scenario del genere che sarò morto prima che accada. È vero che il mio orizzonte temporale è un po’ corto. Ma credo che siamo molto lontani da questo.
E penso che sia anche ironico. L’unica volta che sento questa dura argomentazione realista è da parte di internazionalisti liberali negli Stati Uniti che amano essere al centro della sicurezza europea. E io mi dico: “Aspetta un attimo, questa è un’argomentazione alla John Mearsheimer”. E tu sei un internazionalista liberale a tutti gli effetti.
Si tratta di punti di vista che si escludono a vicenda, quindi quale dei due ha ragione? Ma a volte le persone hanno entrambi i punti di vista allo stesso tempo, e questo è incoerente. Da un lato, ci preoccupiamo che l’Europa non si assuma maggiori responsabilità se noi facciamo meno. Dall’altro, molte delle stesse persone dicono che dovremmo stare attenti a ciò che desideriamo, perché se l’Europa si mette in regola, in qualche modo si schiererà contro di noi. Ma credo che questa prospettiva sia così remota che non dovremmo farci caso.
Non credo ci sia nulla di cui preoccuparsi in questa fase. E non penso francamente, nemmeno da realista, che gli interessi dell’Europa siano fondamentalmente opposti a quelli degli Stati Uniti. Penso che siamo fondamentalmente potenze dello status quo che si completano a vicenda nel sistema internazionale. Inoltre, penso che nel medio termine i problemi demografici dell’Europa porranno dei limiti reali alla sua capacità di proiezione di potenza, così come i problemi demografici della Cina e della Russia porranno dei limiti alla loro capacità di proiezione di potenza.
Sono quindi pronto a correre questo rischio, perché ritengo che tale scenario abbia una bassa probabilità di verificarsi. Penso che sia come un rischio di coda sull’asse X di una curva di distribuzione normale. Quindi, se arriviamo a un punto in cui questa è la preoccupazione numero uno degli esperti di sicurezza statunitensi, direi che siamo in un’ottima situazione, perché non c’è molto di cui preoccuparsi.
Torniamo al punto di partenza. Lei sostiene che l’Europa può essenzialmente occuparsi della propria sicurezza e che gli Stati Uniti possono più o meno ritirarsi completamente dal continente e concentrarsi al 100% sull’Asia orientale, seguendo l’argomentazione di Elbridge Colby?
Credo di andare ancora più lontano di Bridge. Credo che Bridge stia cercando di essere un po’ più moderato di me. Penso che l’Europa debba assumersi da sola la missione di deterrenza convenzionale. E che dire dell’ombrello nucleare? E le capacità ISR, che ho già menzionato?
È vero che questi elementi sono molto difficili da sostituire nel breve termine, in particolare la questione nucleare. Ma credo che la richiesta americana – non negoziabile – dovrebbe essere quella di non avere forze di terra in Europa; quelle truppe stanno effettivamente tornando a casa per sempre. Non solo, ma anche le basi navali nella penisola iberica e in Italia stanno scomparendo.
Penso che gli americani dovrebbero iniziare questa missione il prima possibile. Poi, se la gente inizierà a lamentarsi o a preoccuparsi dell’estensione della deterrenza o altro, potremo discutere di come affrontare la questione. Ma sì, gli interessi americani in Europa sono essenzialmente garantiti senza l’impegno militare americano.
Ora, se dovessi argomentare contro me stesso, direi: vuole davvero dire che Francia, Germania e Regno Unito potrebbero dissuadere la Russia dall’attaccare Estonia, Lituania o Lettonia? Credo che sia una buona contro-argomentazione. La mia risposta è che si tratta di una missione militare terribilmente difficile, con o senza gli Stati Uniti.
L’ambiente geografico permissivo è davvero difficile da superare. E a meno che non dislochiamo 70 o 80.000 truppe lungo il confine tra gli Stati baltici e la Russia, cosa che non faremo, siamo nella stessa barca, non è vero? In sostanza, speriamo che il bluff non venga mai scoperto. Perché raggiungere un livello di deterrenza tale da mettere a proprio agio Tallinn e Vilnius non è possibile senza gli Stati Uniti.
E non lo stiamo facendo ora. L’ex Primo Ministro estone, Kaja Kallas, ha recentemente affermato che, secondo gli attuali piani della NATO per la difesa in profondità, “il mio Paese verrebbe cancellato dalla carta geografica”. Credo che in linea di principio abbia ragione. Ma dal punto di vista di un realista americano della linea dura, sarebbe molto buono. Otterremmo una sorta di linea durevole e difendibile per proteggere gli interessi americani.
Ma se si cerca una sorta di posizione di difesa avanzata o di deterrenza per negazione a livello convenzionale contro la Russia nel Baltico, non è possibile. Sarebbe come dire che i cinesi cercano di proteggere Sonora dagli americani. Non è semplicemente possibile.
E c’è il deterrente nucleare e tutta una serie di altre cose che lo accompagnano. Ma se volete un margine militare confortevole negli Stati baltici, non lo otterrete in nessun caso. Questo è deplorevole. Quindi penso che una buona risposta alla mia argomentazione sia quella di dire che i Paesi baltici sarebbero vulnerabili con il vostro piano. E la mia contro-argomentazione sarebbe quella di dire che i Paesi baltici sono già vulnerabili ora. La geografia è un padrone crudele che ci governa tutti.
Oggi l’Europa acquista gran parte dei suoi equipaggiamenti militari dalle aziende di difesa americane. Queste aziende dipendono dal fatto che l’Europa sia il partner minore e non si impegni in programmi di approvvigionamento di difesa paneuropei, cosa che molto probabilmente comporterà l’autonomia strategica.
Pensa che gli interessi radicati all’interno dell’establishment militare e dei complessi industriali statunitensi possano ostacolare un reale cambiamento? Pensa che sarebbe dannoso per gli interessi americani se l’Europa smettesse di acquistare queste massicce quantità di attrezzature di difesa americane?
Certamente cercheranno di farlo, e di fatto lo stanno facendo. Quindi, nel senso stretto della base industriale americana della difesa, sì, è dannoso per i loro interessi. Ma nel senso più ampio di una posizione di difesa europea più autonoma, no. Lo vedo come un compromesso. Lo vedo come un compromesso.
Storicamente, gli americani hanno detto: ” Europa, dovresti spendere molto di più per la difesa, dovresti comprare equipaggiamento americano, e dovresti usarlo quando e dove ti suggeriamo di usarlo “. Questo è un pensiero fantasioso. Non credo che possa accadere.
Quindi, se vogliamo che l’Europa spenda di più, penso che sia più probabile che accada se l’Europa si procura più hardware militare europeo. In altre parole, persone come me si lamentano del complesso militare-industriale al Congresso. È molto difficile chiudere una linea di produzione, ed è molto difficile chiudere una base militare. Tutto vero.
Ma questo sarebbe vero anche in Europa, non è vero? L’aumento della produzione militare in Europa eserciterebbe una pressione al rialzo sulla spesa per la difesa, perché creerebbe dei collegi elettorali per tale spesa. Quindi penso che se siamo davvero seri e pensiamo davvero che l’Europa debba fare di più per se stessa, come io penso, allora una parte di questo approvvigionamento dovrà provenire dalla produzione europea.
E questo è un aspetto negativo dal punto di vista di uno dei cinque grandi appaltatori americani della difesa. Ma in politica internazionale il compromesso è ovunque. Credo sia importante non ridurre l’interesse nazionale americano agli interessi di Lockheed, Boeing e Raytheon. Con questo intendo dire che è una cosa che non si dovrebbe fare da un punto di vista politico elevato. Quindi sì, sarebbe certamente negativo per queste aziende se ci fosse una base industriale europea della difesa più grande. Ma per gli Stati Uniti, il cui debito ammonta attualmente a 35.000 miliardi di dollari, è una buona cosa.
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Domanda (ritradotta dall’arabo): Trasmettiamo questa intervista con il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov da Mosca, Russia. Grazie per aver trovato il tempo di parlare con Sky News Arabia.
Sergey Lavrov: Grazie per avermi invitato a farlo.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Sono lieto di incontrarla in questo momento storico, considerando che sono passati oltre due anni dall’inizio dell’operazione militare speciale in Ucraina. Mosca è ancora impegnata nelle sue richieste iniziali o possiamo sperare di vederla ammorbidire la sua linea per il bene della pace?
Sergey Lavrov: Non si tratta tanto delle esigenze della Russia quanto di quelle del diritto internazionale. Quando si chiede di risolvere il conflitto in base ai principi della Carta delle Nazioni Unite, si aggiunge sempre la frase “sulla base del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina”. Tuttavia, la frase sull’integrità territoriale è preceduta nella Carta delle Nazioni Unite dal requisito del rispetto del diritto delle nazioni all’autodeterminazione. È il diritto all’autodeterminazione che ha guidato tutti i processi di decolonizzazione, soprattutto in Africa. L’Unione Sovietica è stata tra i Paesi che hanno avviato questi processi. È su nostra iniziativa che nel 1960 è stata adottata la relativa Dichiarazione.
Le discussioni su cosa abbia la precedenza – l’integrità territoriale o il diritto delle nazioni all’autodeterminazione – sono iniziate all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel XX secolo. Queste lunghe discussioni hanno portato all’adozione della voluminosa Dichiarazione. La parte di cui parliamo ora dice chiaramente che tutti i Paesi devono rispettare l’integrità territoriale degli Stati i cui governi rispettano il diritto delle nazioni all’autodeterminazione e quindi rappresentano l’intera popolazione che vive nel loro territorio. È risaputo che i neonazisti che hanno preso il potere in Ucraina a seguito di un colpo di Stato nel febbraio 2014 non rappresentavano né la Crimea né il Donbass.
Anche prima di parlare del diritto delle nazioni all’autodeterminazione, la Carta delle Nazioni Unite afferma che ogni persona ha diritto a tutti i diritti umani senza distinzioni di alcun tipo, come razza, sesso, lingua o religione. Le leggi ucraine vietano l’uso della lingua russa in tutte le sfere della vita. Una legge recente ha vietato la Chiesa ortodossa ucraina canonica. In altre parole, coloro che chiedono di risolvere il conflitto sulla base della Carta delle Nazioni Unite dovrebbero leggerla più attentamente.
Domanda (ritradotta dall’arabo): La rivoluzione arancione è diventata il punto di partenza di tutto. Ci rendiamo conto che la Russia ora gioca un ruolo importante nella risoluzione dei conflitti sulla scena internazionale. L’operazione militare speciale è una pietra miliare importante nella trasformazione della comunità internazionale e dell’ordine mondiale? La Russia è pronta per ostilità più ampie?
Sergey Lavrov: Lei ha detto che il colpo di Stato è stato una delle fasi principali che alla fine ci ha portato alla situazione a cui stiamo assistendo. Questo colpo di Stato è stato indotto e sostenuto dai Paesi occidentali. In seguito, abbiamo avvertito per molti anni che il popolo russo, che ha trascorso tutta la sua vita nei territori incorporati nello Stato ucraino durante il periodo sovietico, non doveva essere trattato in questo modo. Per secoli il popolo russo ha sviluppato questo territorio, che non deve assolutamente essere trascinato nella NATO. Lo abbiamo avvertito per molto tempo. Ma, dopo aver nutrito, cresciuto e allevato i neonazisti, l’Occidente ha continuato inequivocabilmente a sostenerli come strumento di guerra contro la Federazione Russa.
È ovvio per chiunque capisca cosa sta succedendo e sappia cosa sia la giustizia, che la giustizia è dalla nostra parte. La giustizia implica che ogni persona ha il diritto di mantenere la propria identità, in base al modo in cui è stata cresciuta e ai propri desideri. La Maggioranza Globale, i Paesi africani, asiatici e latino-americani, sono diventati apprensivi dopo che l’Occidente ha iniziato a usare il regime neonazista ucraino come strumento di lotta contro la Russia. Tutti hanno iniziato a chiedersi su chi Washington avrebbe sfogato il suo malcontento la prossima volta e a chi avrebbe potuto non piacere. Ebbene, può non piacere a nessuno;
In questo senso, lei ha assolutamente ragione. L’operazione militare speciale ha un significato mondiale perché sostiene un ordine mondiale multipolare in cui tutti i Paesi, senza eccezioni, sono uguali. Vorrei ricordare ancora una volta la Carta delle Nazioni Unite. Essa afferma espressamente che l’ONU si basa sull’uguaglianza sovrana degli Stati. Gli Stati Uniti e i loro satelliti non rispettano e non onorano mai questo principio. La Maggioranza Globale è interessata a porre fine all’attuale stato di cose quando gli americani pretendono che tutti rispettino un ordine basato su regole, piuttosto che sul diritto internazionale. E le loro regole dipendono sempre dal capriccio di Dio, come diciamo qui.
Quando è stato necessario privare la Serbia del Kosovo, hanno proclamato la sua indipendenza senza alcun referendum. Dissero che il popolo del Kosovo stava esercitando il proprio diritto all’autodeterminazione. Alcuni anni dopo, dopo che i nazisti avevano preso il potere a Kiev, la popolazione della Crimea ha tenuto un referendum e ha optato per la riunificazione con la Russia, con numerosi osservatori internazionali che hanno monitorato l’evento. Gli americani hanno denunciato questo atto, affermando che violava l’integrità territoriale.
La maggior parte delle persone provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina con cui comunico, sanno di cosa si tratta. Gli Stati Uniti vogliono convincere tutti di essere un egemone e che nessuno può contraddirli, qualunque cosa facciano. Di conseguenza, gli Stati Uniti affermano che è necessario infliggere alla Russia una “sconfitta strategica” sul campo di battaglia. La vedono come una minaccia esistenziale per loro stessi, una minaccia alla loro egemonia. Se la verità dovesse prevalere (e certamente prevarrà), vedrebbero questa situazione come una loro sconfitta che evidenzia la perdita della loro reputazione, autorità e prestigio. Inoltre, molti smetterebbero di temerli.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Ha anticipato la mia domanda. Vorrei parlare della “sconfitta strategica” che l’Occidente desidera tanto. L’Occidente oggi è come un bambino che gioca con i fiammiferi. La Russia vuole un’escalation?
Sergey Lavrov: Nessuna escalation. Avete ragione, stanno giocando. Sembrano davvero avere una mentalità da bambini, anche se sono adulti che occupano posizioni di responsabilità: ministri, primi ministri, cancellieri, presidenti, ecc.
Da diversi mesi si parla di Russia che si limita a minacciare e a menzionare alcune “linee rosse”, che l’Occidente continua a superare senza che nulla accada.
In effetti, il Presidente della Russia Vladimir Putin ha recentemente commentato questa situazione a San Pietroburgo. Se verranno attuate, le iniziative di fornire all’Ucraina missili a lungo raggio statunitensi, francesi e britannici e di dare il via libera a colpire qualsiasi obiettivo all’interno della Russia significheranno che i Paesi della NATO sono in guerra con la Russia.
Per fortuna, a Washington ci sono alcune persone ragionevoli che se ne rendono conto. La NATO sta conducendo una guerra contro la Russia. Ma si tratta di una guerra ibrida, una guerra per procura che gli ucraini combattono per loro. Quando si tratta di sistemi missilistici occidentali a lungo raggio, è chiaro a tutti che gli ucraini non saranno in grado di usarli. Solo gli specialisti del Paese che ha realizzato le armi saranno in grado di puntarle, di fornire dati satellitari e di assegnare le missioni di volo.
Parlando della “sconfitta strategica” sul campo di battaglia, non voglio citare i politici occidentali, ma ci sono persone negli Stati Uniti e in Europa che hanno prestato attenzione durante le loro lezioni di storia e hanno imparato bene. Napoleone e poi Adolf Hitler hanno cercato di infliggerci una sconfitta strategica. Entrambi hanno radunato sotto i loro vessilli la maggior parte dell’Europa – Paesi che si erano obbedientemente sottomessi, che erano stati occupati e che avevano fornito i loro militari, i loro eserciti da comandare a Bonaparte e Adolf Hitler. Entrambe le campagne si conclusero con un disastro. Anche in questo caso, chiunque sia colto e conosca bene la storia ne è perfettamente consapevole.
Oggi, proprio come durante la Seconda Guerra Mondiale, la coalizione guidata dagli Stati Uniti (circa 50 Paesi obbedienti) ci sta aggredendo usando il regime ucraino per combattere, un regime palesemente nazista proprio come quello di Adolf Hitler.
In una situazione come questa, nessuno dovrebbe dimenticare il carattere del popolo russo. Lo stiamo vedendo in prima linea. I tentativi di agitare le acque o di seminare discordia nella nostra società portano sempre al risultato opposto. È più unita che mai e non vediamo altro modo che sconfiggere i nazisti, che stanno ancora una volta invadendo la nostra storia, la nostra terra e la nostra lingua.
Domanda (ritradotta dall’arabo): C’è una domanda nel contesto dei riferimenti all’uso di armi nucleari da parte della Russia. Conosciamo la dottrina della Federazione Russa in questo ambito. Ogni volta che le “linee rosse” vengono superate, ci si chiede dove si trovino realmente nel contesto delle armi nucleari.
Sergey Lavrov: Parliamo di “linee rosse” nella speranza che le nostre valutazioni e dichiarazioni vengano ascoltate da decisori intelligenti. È sciocco dire che premeremo il pulsante rosso, se domani non farete quello che vi chiedo.
Sono certo che i responsabili delle decisioni sono consapevoli di ciò che intendiamo in queste situazioni. Nessuno vuole una guerra nucleare. Lo abbiamo detto più volte.
Lasciate che vi assicuri che abbiamo armi il cui uso comporterà gravi conseguenze per i padroni del regime ucraino. Queste armi sono disponibili e in pieno stato di allerta.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Vorrei parlare del Medio Oriente, dei suoi sviluppi e in particolare del coinvolgimento dell’Occidente. Oggi si parla molto della partnership strategica della Russia con gli iraniani. Le notizie dicono che la Russia ha ricevuto missili dall’Iran e che la Russia, a sua volta, estende le tecnologie nucleari a quel Paese. Di questo si scrive e si parla. Qual è la sua risposta a queste accuse?
Sergey Lavrov: Lo stesso dicono della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Approssimativamente lo stesso. Interagiamo con l’Iran, la Corea del Nord o qualsiasi altro Paese dal punto di vista economico, politico e tecnico-militare; rigorosamente nel quadro del diritto internazionale, senza violare nessuno dei nostri impegni internazionali. Non significa nulla se gli Stati Uniti inventano dieci frottole al giorno, accusandoci di tutti i peccati mortali. O meglio, significa solo una cosa: non amano la Russia come rivale sulla scena internazionale.
Mi permetta di sottolineare ancora una volta che nelle relazioni con l’Iran o con qualsiasi altro Paese non violiamo alcuna norma del diritto internazionale, comprese quelle che regolano la cooperazione tecnico-militare.
Credo che l’Iran e i suoi vicini (le monarchie arabe e altri Paesi arabi) siano interessati a cooperare tra loro. Appartengono alla stessa regione ed è inevitabile che vivano fianco a fianco. Accolgo con favore il processo in corso tra l’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran. Hanno normalizzato le loro relazioni. Si sta promuovendo il dialogo anche su molte altre questioni. Sono convinto che sia nell’interesse dell’Iran e dei suoi vicini arabi stabilire relazioni di vicinato, normali e buone. Ciò consentirà di sviluppare la cooperazione economica a vantaggio di tutti questi Paesi e di collaborare più efficacemente sulla scena internazionale per sostenere gli interessi dei Paesi del Sud e dell’Est globale;
Domanda (ritradotta dall’arabo): Durante la visita di Joe Biden in Arabia Saudita, è stato detto che Cina e Russia potrebbero potenzialmente riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti nella regione. Può commentare questa affermazione? C’è davvero un vuoto lì? Quali sono le relazioni della Russia con i Paesi di questa regione? Vorrei anche sollevare il tema del conflitto palestinese-israeliano.
Sergey Lavrov: Per quanto riguarda il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, esaminiamo gli ultimi 50-70 anni, durante i quali gli Stati Uniti si sono posti numerosi obiettivi a gran voce e con orgoglio, il principale dei quali è stato quello di introdurre la democrazia in varie regioni del pianeta.
Prendiamo il Vietnam. Quali obiettivi erano stati annunciati? Quali sono stati raggiunti? Centinaia di migliaia di civili sono stati uccisi e sono state usate armi proibite. Nessun obiettivo è stato raggiunto. Sono saliti a bordo dei loro elicotteri e se ne sono andati.
Hanno trascorso ancora più tempo (20 anni) in Afghanistan. Non hanno fatto alcuno sforzo per sviluppare l’economia del Paese. Si sono vantati di aver soppresso la minaccia terroristica. Alla fine sono fuggiti. Abbiamo visto tutti il video di un aereo che quasi schiacciava gli afghani che cercavano di fuggire con loro. Hanno abbandonato al loro destino tutti coloro che hanno collaborato con loro, migliaia e migliaia di persone.
Oppure prendete l’Iraq. Quali obiettivi hanno raggiunto gli americani in Iraq? Ora si chiede loro di andarsene. Per più di due anni, il governo e il parlamento iracheno hanno detto di non avere più bisogno degli americani. Eppure, gli americani non vogliono andarsene. Cosa stanno cercando di ottenere lì?
Siria. Che cosa hanno ottenuto in Siria?
Ciò che sta accadendo tra Palestina e Israele è sconvolgente. Gli esperti faticano a ricordare una tragedia o una catastrofe umanitaria come questa. Sottolineo che tra poco sarà un anno. Alcuni mesi fa, in Occidente sono state pubblicate delle statistiche che hanno rivelato che nei dieci mesi dall’inizio dell’operazione israeliana sono morti venti volte più civili palestinesi che nei dieci anni di guerra in Donbass dopo il colpo di Stato del 2014. In Donbass sono state contate entrambe le parti: le persone che vivono in Donbass e quelle che sono rimaste nel territorio controllato dal regime di Kiev. In dieci mesi sono morte venti volte più persone che in dieci anni.
L’attacco terroristico avvenuto il 7 ottobre 2023 è stato oltraggioso. Tutte le persone ragionevoli lo condannano. Tuttavia, è inaccettabile rispondere a un crimine con un altro crimine, soprattutto attraverso il metodo proibito della punizione collettiva dei civili.
Lei ha menzionato il vuoto parlando della politica statunitense nella regione. Quando il 7 ottobre 2023 si è verificato l’attacco terroristico e Israele ha iniziato la sua brutale operazione, il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha dichiarato, nel suo intervento all’Assemblea generale, di condannare l’attacco terroristico. Ma non è avvenuto nel vuoto. Intendeva dire che le decisioni delle Nazioni Unite sulla creazione di uno Stato palestinese non sono state attuate per decenni. Non è rimasto quasi nulla dei territori che avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese.
Guardate la reazione della leadership israeliana quando Guterres ha detto che l’attacco terroristico non è avvenuto nel vuoto. Il rappresentante permanente di Israele presso l’ONU a New York (colui che all’epoca ricopriva questa carica) ha dato in escandescenze. Chiese che Guterres venisse destituito dalla sua posizione.
L’impunità è una qualità deleteria. Abbiamo detto più volte ai nostri colleghi israeliani che l’Unione Sovietica, il nostro Paese, ha fatto più di chiunque altro su questa terra per salvare gli ebrei e sconfiggere coloro che hanno scatenato l’Olocausto. Non sono stati solo gli ebrei a perire nell’Olocausto, ma anche un numero enorme di russi, bielorussi, ucraini, kazaki e altri popoli che vivevano sul territorio dell’attuale Russia o sul territorio dell’Unione Sovietica hanno perso la vita.
Quando alcuni funzionari giustificano le loro azioni dicendo che loro – il popolo ebraico – sono stati vittime dell’Olocausto e quindi possono essere perdonati, si tratta di una tendenza preoccupante. È un segno dell’eccezionalismo caratteristico della Germania di Hitler e della sua ideologia.
Ho molti amici in Israele. La stragrande maggioranza di loro capisce che la questione di uno Stato palestinese deve essere risolta e che sopprimere i diritti naturali del popolo palestinese è inaccettabile.
Domanda (ritradotta dall’arabo): A proposito di esportazione della democrazia (come dicono gli americani), cosa pensa la Russia dei processi democratici negli Stati Uniti e degli attentati alla vita di Donald Trump, che sono direttamente collegati all’Ucraina?
Sergey Lavrov: Gli attuali sviluppi negli Stati Uniti sono una manifestazione del loro “complesso di esclusività” e di superiorità, che abbiamo appena menzionato in relazione alla politica degli Stati Uniti in Medio Oriente e al sostegno di Washington alle violazioni delle autorità israeliane di tutte le disposizioni del diritto umanitario internazionale.
La democrazia di tipo americano è una loro invenzione. Se a loro piace quel sistema di potere statale, in cui la vittoria elettorale non è concessa al candidato per cui la maggioranza dei cittadini ha votato, ma all’altro candidato, che se lo tengano pure e lascino in pace le altre nazioni.
Ricordo di aver parlato con l’allora Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che criticò il nostro processo elettorale. Risposi che negli Stati Uniti le elezioni non sono dirette, ma in due fasi. Di conseguenza, un candidato che riceve una minoranza di voti a volte finisce alla Casa Bianca. Ha detto che ne sono consapevoli, ma che non è un nostro problema e che se ne occuperanno da soli. Non sarebbe opportuno applicare la stessa logica ad altri Paesi?
Alcuni Paesi, ad esempio nel Golfo Persico, sono a loro agio con la monarchia, e perché dovrebbe importare a qualcuno se la gente è soddisfatta della propria vita? La Cina ha un sistema di governo diverso e lo stesso vale per la Russia.
Quando gli Stati Uniti dicono di combattere per la democrazia, ingannano il mondo. Stanno combattendo per portare al potere persone che faranno gli ordini degli americani. Questo è quanto. Non stanno facendo nient’altro.
Credo che i politici americani, se chiedete loro perché parlano solo di esportare il loro modello di democrazia in tutto il mondo, e propongono di parlare di democrazia nelle relazioni internazionali, si rifiuteranno di farlo. Vi diranno che gli affari internazionali si basano su un “ordine basato su regole”. Tuttavia, la democrazia, così come definita nella Carta delle Nazioni Unite, si basa sull’uguaglianza sovrana degli Stati.
Prendete qualsiasi crisi che abbia coinvolto gli Stati Uniti dopo o anche prima della creazione dell’ONU. La politica estera statunitense non ha mai rispettato il principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati.
Quindi, visto che Condoleezza Rice mi ha detto che era il loro sistema e che dovevamo lasciarli in pace, dico agli americani che dovrebbero applicare questo principio anche agli altri Paesi. Hanno un sistema diverso. Lasciateli stare e non interferite negli affari degli altri.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Alcuni sostengono che il mondo ha bisogno che Donald Trump mantenga la poltrona [alla Casa Bianca] per i prossimi quattro anni, che questo gioverebbe al mondo.
Il presidente Putin ha recentemente fatto una battuta sulle elezioni statunitensi. Ha detto che la Russia ha sostenuto Kamala Harris. In che modo la Russia sta adattando la sua politica al futuro presidente? Quanto cambierà?
Sergey Lavrov: Era una battuta. Il Presidente Putin ha un buon senso dell’umorismo. Spesso scherza durante le sue dichiarazioni e interviste.
Non vedo differenze a lungo termine nel nostro atteggiamento nei confronti delle elezioni attuali o precedenti negli Stati Uniti, perché sono governati dal famigerato “Stato profondo””;
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si trova in uno stato fisico che gli impedisce di guidare il Paese da molto tempo. Ma il Paese continua a far girare questi “ingranaggi”. Continua la campagna militare attraverso l’agenzia del regime ucraino e in altre parti del mondo. Continua a bloccare tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che sollecitano un cessate il fuoco a Gaza e sulla sponda occidentale del fiume Giordano. La “macchina” è al lavoro. Ed è pronta ad affrontare qualsiasi rivale che possa minacciare il dominio americano.
Gli americani stanno spingendo la Cina come principale minaccia per il loro Paese. Hanno introdotto molte sanzioni contro la RPC (ma non tante quante contro la Russia). Stanno tagliando i canali con cui le moderne tecnologie arrivano in Cina, nel tentativo di rallentare lo sviluppo di questo settore. La Cina svilupperà le tecnologie da sola, ma ci vorrà un po’ più di tempo.
Cosa stanno facendo gli occidentali nei confronti delle esportazioni cinesi, soprattutto di auto elettriche, batterie per auto elettriche e altri prodotti? Mentre il Presidente Xi Jinping era in visita in Francia, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è venuta a Parigi e ha dichiarato pubblicamente che stava imponendo dazi del 100% sulle auto elettriche cinesi, perché, ha detto, i veicoli erano troppo economici e questo stava danneggiando i produttori europei. Ma dov’è la concorrenza leale che l’Occidente era solito promuovere come principio fondamentale? O l’inviolabilità della proprietà e molto altro? Tutto questo appartiene ormai al passato.
Non mi faccio illusioni sul leader statunitense. [Quando Donald Trump era presidente] ha avuto diversi incontri con Vladimir Putin. Sono stato anche ricevuto alla Casa Bianca un paio di volte. È stato amichevole. Ma l’amministrazione Trump ha regolarmente e costantemente introdotto sanzioni contro la Federazione Russa e tali sanzioni erano piuttosto pesanti.
Alla fine abbiamo concluso che l’autosufficienza era l’opzione migliore. Non riporremo mai più le nostre speranze nell’arrivo di un “bravo ragazzo” alla Casa Bianca o in qualsiasi altra capitale occidentale, che aiuti a raddrizzare le cose nel nostro Paese.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Abbiamo iniziato la nostra conversazione parlando dell’importanza del continente africano. La Russia vi ha ottenuto alcuni successi grazie alla cooperazione, anche militare, con diversi Paesi. Qual è la visione della Russia sul suo ruolo in questa regione?
Sergey Lavrov: Abbiamo visto questo ruolo per decenni, quando abbiamo sostenuto attivamente (ne ho già parlato) la lotta dei popoli africani per ottenere l’indipendenza, scrollarsi di dosso il giogo coloniale e porre fine alla politica dell’apartheid. Le nazioni africane e i loro leader apprezzano il nostro contributo allo sforzo per costruire un mondo migliore e garantire l’uguaglianza. Vediamo che le giovani generazioni di africani vengono educate al rispetto della nostra storia comune.
Non abbiamo mai tratto benefici unilaterali dalle nostre relazioni con i Paesi africani. Basti pensare ai numerosi impianti industriali che l’Unione Sovietica ha costruito nella Repubblica Araba d’Egitto. Oggi questi impianti sono la spina dorsale dell’economia e dell’industria del Paese. Attualmente stiamo costruendo una centrale nucleare e creando una zona industriale russa nell’area del Canale di Suez. Ne abbiamo discusso il 16 settembre 2024, quando il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty era in visita nella Federazione Russa.
Quando l’Unione Sovietica ha stabilito relazioni con altri Paesi africani, ha sempre contribuito allo sviluppo delle basi della loro economia sovrana e alla creazione di un sistema di istruzione. Ogni anno, decine di migliaia di africani continuano a studiare nelle università russe. I Paesi interessati hanno istituito associazioni di ex alunni delle università sovietiche e russe.
La nostra comune eredità storica predetermina l’attuale livello di amicizia e di cooperazione reciprocamente vantaggiosa. La Federazione Russa non era nelle migliori condizioni, sia sociali che economiche, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. A quel tempo, abbiamo dedicato molta meno attenzione all’espansione della nostra collaborazione con gli amici africani. Negli ultimi 15 anni, continuiamo a sviluppare queste relazioni dopo aver ripristinato l’economia e normalizzato la vita del nostro Stato e della nostra società.
Ad oggi si sono svolti due vertici Russia-Africa (nel 2019, a Sochi e nel 2023, a San Pietroburgo). Nel novembre 2024, Sochi ospiterà la prima riunione dei ministri degli Esteri russo-africani, in conformità con una decisione del vertice del 2023. Insieme ai nostri colleghi africani stiamo pianificando di tenere un vertice regolare due o tre anni dopo nel continente africano.
Abbiamo un programma fitto. La Commissione dell’Unione africana e il governo della Federazione russa hanno elaborato un piano d’azione fino alla fine del 2026. Esso comprende tutte le sfere della nostra collaborazione, tra cui l’economia e gli investimenti, nonché la sfera sociale, l’istruzione e gli scambi culturali. Possiamo constatare che i nostri amici africani sono sinceramente interessati (su base reciproca) ad ampliare la collaborazione.
Domanda (ritradotta dall’arabo): L’associazione BRICS si sta espandendo rapidamente, consolidando le sue posizioni e cooperando con diversi Paesi. Molti Stati vorrebbero unirsi ad essa. Allo stesso tempo, questa associazione sta affrontando alcune sfide. Come affrontate queste sfide? Qual è la sua idea di cooperazione di successo per il mondo intero?
Sergey Lavrov: La ricetta è molto semplice: è necessario rispettare pienamente il diritto internazionale. Prima di tutto, cito ancora una volta la Carta delle Nazioni Unite, questa implica il principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati e della non ingerenza negli affari interni degli altri. È necessario promuovere una collaborazione basata su un equilibrio di interessi che dobbiamo trovare. Proprio come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, la Lega degli Stati Arabi e il Consiglio di Cooperazione del Golfo, il BRICS funziona sulla base del consenso. Il BRICS è un’associazione basata su un atteggiamento di rispetto reciproco e sulla considerazione reciproca degli interessi degli altri.
Non esiste un principio simile nell’Unione Europea o nella NATO. Gli Stati Uniti sono l’egemone e non tollerano obiezioni alle loro politiche. L’Unione Europea e Bruxelles hanno creato una burocrazia che dice ai Paesi sovrani cosa fare. I cittadini non hanno votato per questa burocrazia. Hanno invece votato per i loro presidenti e primi ministri; e in seguito è stato istituito un sistema burocratico di comune accordo. Basta guardare il comportamento irrispettoso dei funzionari di Bruxelles al giorno d’oggi.
Una situazione simile è impossibile nei Paesi BRICS. L’associazione sostiene il principio del consenso reale, piuttosto che artificiale (quando qualcuno è costretto ad accettare), con l’obiettivo principale di trovare accordi che riflettano l’accordo reciproco di tutti i partecipanti. Non è facile. Più sono i partner, più è difficile trovare un accordo. Ci vuole più tempo per finalizzare un accordo basato sul consenso rispetto a una soluzione basata sul voto. Tuttavia, tali accordi sono molto più resistenti e praticabili di qualsiasi cosa imposta dall’esterno. Questo è l’intero e semplicissimo segreto.
La BRI sta sviluppando la cooperazione in campo economico e finanziario. C’è una nuova banca per lo sviluppo, che si sta rafforzando. C’è una cooperazione in politica, nella sfera umanitaria, nello sport, nell’istruzione e nella cultura. Quest’anno, in qualità di presidente dei BRICS, abbiamo già organizzato 150 eventi e ne abbiamo in programma altre decine. Tutti questi eventi sono di grande interesse e vedono la partecipazione di delegazioni, ministeri, parlamenti e organizzazioni pubbliche. Osserviamo gli eventi nei Paesi BRICS e notiamo il genuino interesse dei loro cittadini.
Ciò fornisce una solida base per lo sviluppo di un partenariato strategico all’interno dell’associazione. Attualmente i BRICS comprendono 10 Paesi, il cui numero è raddoppiato rispetto all’anno scorso. Più di 30 Paesi hanno già presentato domanda di interazione o di adesione all’associazione. Al vertice che si terrà a Kazan in ottobre, uno dei principali punti all’ordine del giorno sarà l’esame delle domande degli Stati che desiderano interagire e collaborare con i BRICS.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Volevamo discutere di un problema comune: il superamento dell’egemonia del dollaro e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti a Russia e Iran. Questa situazione era stata prevista in precedenza. In particolare, si era detto che il dollaro sarebbe stato usato come arma contro la Russia e l’Iran. Ora, nonostante tutto questo, la Russia vuole davvero che Donald Trump torni alla Casa Bianca?
Sergey Lavrov: Donald Trump ha denunciato la politica dell’attuale amministrazione che, come ha esplicitamente dichiarato, distrugge il ruolo del dollaro e mina la forza economica degli Stati Uniti, che si basa fortemente sul dollaro. Il debito nazionale statunitense è di 36.000 miliardi di dollari. I soli interessi sul debito nazionale statunitense ammontano a 1.000 miliardi di dollari all’anno. Senza contare il capitale del debito. Donald Trump ha dichiarato direttamente che le sanzioni imposte dall’amministrazione Biden, sfruttando la capacità del dollaro di essere una valuta di riserva globale, sono dannose per l’economia statunitense.
Sono d’accordo con lui. Inoltre, sono d’accordo non perché lo voglia, ma perché la stragrande maggioranza dei Paesi è già cauta su qualsiasi transazione nell’economia globale in cui sarebbe dipendente dal dollaro. Questa dipendenza persiste. È enorme, anche nella Repubblica Popolare Cinese, in India e nella maggior parte delle economie mondiali. Questa dipendenza è già stata riconosciuta come un fenomeno che mette a rischio lo sviluppo dei Paesi. Il dollaro viene gradualmente sostituito dai regolamenti in valuta nazionale.
Al vertice BRICS dello scorso anno, il Presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva ha suggerito che i BRICS dovrebbero prendere in considerazione la creazione di una piattaforma di pagamento alternativa che potrebbe essere utilizzata dai membri dell’associazione e da altri Paesi interessati. Questo compito è stato fissato per il vertice di Kazan, che sarà presieduto dal Presidente della Russia Vladimir Putin. Ci aspettiamo di ricevere dai ministri delle finanze e dalle banche centrali dei Paesi BRICS un rapporto su come creare piattaforme di pagamento alternative. Oltre il 90% del nostro commercio con la Cina avviene in valute nazionali che evitano il dollaro. Nel commercio con l’India, questa percentuale ha raggiunto il 60%. Stiamo iniziando a orientarci verso queste forme di interazione con la maggior parte dei Paesi. È chiaro che gli Stati Uniti continuano a stampare dollari e utilizzano queste banconote svalutate per mantenere la loro politica di pressione economica sugli altri Paesi. Tuttavia, questa epoca si sta avvicinando al suo declino.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Naturalmente non si possono dividere la politica, l’economia e le relazioni con l’Europa. Perché la Russia non ha tagliato le esportazioni di gas all’Europa nonostante il suo atteggiamento negativo nei confronti della Russia? Perché continua a inviare gas all’UE?
Sergey Lavrov: Siamo persone oneste. Abbiamo firmato contratti a lungo termine con l’Europa. Rispettiamo sempre i nostri obblighi, a differenza dell’Europa o degli Stati Uniti.
Abbiamo lavorato per decenni durante l’era sovietica, a partire dagli anni ’70, per sviluppare una cooperazione reciprocamente vantaggiosa nella sfera della fornitura di gas. È stato grazie al gas russo a prezzi accessibili che i settori energetici dell’Europa, e in primo luogo della Germania, e le loro economie nel complesso hanno avuto un andamento così positivo.
Il cancelliere Olaf Scholz ha dichiarato in un’intervista che è stata la Russia a tagliare le esportazioni di gas in Europa. Perché una persona adulta dovrebbe mentire? Tutti sanno cosa è successo. Quando Angela Merkel era cancelliere, gli Stati Uniti impedirono alla Germania di lanciare i gasdotti Nord Stream 1 e 2 e di utilizzare il più costoso – molto più costoso – GNL americano. Oggi l’Europa copre il suo fabbisogno energetico di base con il gas naturale liquefatto, compreso il GNL americano. Ma se qualcuno volesse acquistare il nostro gas, non ci rimettiamo ai nostri accordi. Siamo vicini. Ci sono gasdotti. Sebbene tre tratti del Nord Stream siano stati fatti esplodere, esistono altri percorsi per i gasdotti, anche attraverso l’Ucraina e la Türchia, attraverso il Mare di Mezzo. Se la cooperazione è reciprocamente vantaggiosa, perché darsi la zappa sui piedi?
Un anno fa, ho letto una dichiarazione del ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, che affermava che le industrie in Europa, compresa la Francia, pagavano l’elettricità quattro volte di più che negli Stati Uniti. Questo è esattamente ciò che volevano gli Stati Uniti.
Cercano sempre di sbarazzarsi dei rivali. Quando hanno visto la Russia come rivale, hanno creato un regime antirusso, russofobo e nazista in Ucraina e lo hanno messo contro il nostro Paese. Anche l’UE era un rivale per gli Stati Uniti. Non è più un rivale e non lo sarà mai, se interpreto correttamente le tendenze di sviluppo in Europa.
L’Europa si sta deindustrializzando. Quando uno dei migliori asset della Germania – l’industria automobilistica – inizia a trasferire la produzione in altri Paesi e la Volkswagen chiude i pantaloni e licenzia migliaia di dipendenti, è suggestivo.
La burocrazia europea sta seguendo obbedientemente la strada tracciata dagli Stati Uniti. Ma sempre più Paesi dell’UE si stanno rendendo conto che questo non è nel loro interesse, ma in quello del loro partner d’oltreoceano.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Non posso fare a meno di chiederle della Cina per descrivere completamente la situazione. Quando le relazioni di partenariato strategico saranno elevate al livello di una coalizione? Questo avverrà? Si sono svolte esercitazioni militari, comprese quelle nel Mar del Giappone. Le relazioni tra Russia e Cina si stanno sviluppando attivamente. È possibile affermare che i due Paesi stabiliranno una coalizione affiatata?
Sergey Lavrov: Queste relazioni sono le migliori di tutta la storia dei legami Russia-Cina. Sono proprio strategici.
Ci chiedono spesso quando ci muoveremo per stabilire un’alleanza militare. Non siamo obbligati a farlo. Organizziamo regolarmente esercitazioni militari, comprese quelle navali, terrestri e aeree. I nostri eserciti collaborano, mantengono relazioni amichevoli, imparano a condurre operazioni congiunte e si addestrano insieme. Tutto questo avviene senza alcuna alleanza di tipo NATO. Continueremo certamente la nostra collaborazione strategica in tutti gli ambiti, senza eccezioni.
Manteniamo un volume di scambi reciproci da record, che ha raggiunto circa 230 miliardi di dollari nel 2023. Questi volumi tendono ad aumentare ulteriormente. Manteniamo la più stretta cooperazione reciprocamente vantaggiosa nel campo dell’energia e di tutto ciò che è legato alle forniture di gas e all’industria dell’energia nucleare.
I nostri legami culturali, umanitari e di istruzione si stanno sviluppando. La lingua russa sta diventando sempre più popolare in Cina, mentre la lingua cinese sta diventando più popolare in Russia. Siamo due grandi Stati e due grandi nazioni, oltre che vicini immediati. Abbiamo interessi comuni nel facilitare la nostra sicurezza, soprattutto quando gli Stati Uniti stanno cercando di promuovere un sistema di tipo NATO nella regione dell’Asia-Pacifico e stanno creando vari blocchi, tra cui l’AUKUS, nonché altre organizzazioni trilaterali e quadrilaterali. Ovviamente, tutto questo viene fatto in funzione di un obiettivo apertamente dichiarato: contenere la Cina e la Russia. Dobbiamo essere vigili e questo ci avvicina ancora di più. Siamo partner naturali.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Quali sono le relazioni della Russia con gli Emirati Arabi Uniti? Abbiamo notato che queste relazioni hanno raggiunto un livello completamente nuovo. Gli Emirati Arabi Uniti svolgono un ruolo importante nel rimpatrio dei prigionieri di guerra russi e ucraini, un ruolo molto importante. Come si può commentare?
Sergey Lavrov: Le relazioni con tutti i Paesi arabi, senza eccezioni, comprese quelle con i sei Stati del Golfo Persico, si basano su incontri regolari tra i nostri leader e sui trattati firmati. Queste relazioni abbracciano tutte le sfere, senza eccezioni. Vorrei sottolineare in particolare la nostra collaborazione nell’ambito dell’organizzazione OPEC+ e del Forum dei Paesi esportatori di gas. Si tratta di una buona base materiale e oggettiva per il nostro partenariato strategico con gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e altri Paesi del Golfo Persico.
Infatti, i nostri amici degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita e del Qatar stanno dando il loro contributo alla risoluzione delle questioni umanitarie, nel contesto della nostra operazione militare speciale. Come avete notato, questo include lo scambio di prigionieri di guerra. Plaudiamo a questa cooperazione, che mira ad aiutare ad affrontare i destini della gente comune in linea con motivazioni genuine, piuttosto che per scopi di auto-pubblicità e PR.
Domanda (ritradotta dall’arabo): La mia ultima domanda riguarda il Libano. Il Ministero degli Esteri russo ha rilasciato una dichiarazione sugli ultimi sviluppi in Libano, ovvero l’esplosione di cercapersone rivolti a membri di Hezbollah. Si tratta di un’escalation. Dal momento che lei e il Presidente Vladimir Putin mantenete i contatti con tutte le parti in conflitto, come valutate la situazione?
Sergey Lavrov: Siamo contrari a qualsiasi escalation. Purtroppo, c’è chi cerca di scaldare la situazione al massimo, in particolare per provocare l’interferenza delle forze armate statunitensi nella regione. Questo è del tutto ovvio. Basta ricordare l’assassinio di Ismail Haniyeh durante la cerimonia funebre del Presidente Ibrahim Raisi nella capitale della Repubblica Islamica dell’Iran. Non riesco a immaginare nulla di più cinico. Apprezzo il fatto che la Repubblica Islamica dell’Iran non abbia avuto un crollo, come si suol dire, o non sia scivolata in azioni militari di risposta su larga scala. Si pensava che l’Iran avrebbe fatto qualcosa che avrebbe fatto interferire le forze armate degli Stati Uniti nella situazione.
Forse gli sviluppi intorno al Libano sono simili. Credo che Hezbollah si stia comportando con moderazione, considerando le sue capacità. Vogliono provocarlo con lo stesso obiettivo di rendere inevitabile l’interferenza degli Stati Uniti nella guerra. Credo che l’amministrazione Biden sia consapevole di questo pericolo. Ovviamente, non vogliamo che scoppi una grande guerra.
A questo punto, la cosa principale è ottenere un cessate il fuoco completo nella Striscia di Gaza e in tutti i territori palestinesi, risolvere prontamente le questioni umanitarie, riprendere le forniture di aiuti nei volumi richiesti e, ovviamente, avviare negoziati sostanziali sulla creazione di uno Stato palestinese come terzo passo necessario. Senza di ciò, le esplosioni di violenza in Medio Oriente continueranno.
Domanda (ritradotta dall’arabo):
Sergey Lavrov: Personalmente, ho buoni rapporti con molti dei miei colleghi israeliani, compresi quelli precedenti. Parlando della politica mediorientale, il Presidente Vladimir Putin sottolinea il pieno impegno della Russia per la sicurezza e gli interessi fondamentali dello Stato di Israele.
Non a caso ho menzionato la necessità di attuare le risoluzioni che richiedono di risolvere le questioni mediorientali sulla base di due Stati, in modo che due Stati indipendenti e sovrani, Israele e Palestina, esistano come buoni vicini, sicuri l’uno per l’altro e per l’intera regione. Questo approccio essenziale non ha bisogno di spiegazioni: è conforme agli interessi sia di Israele che della Palestina.
In tutte le nostre azioni sottolineiamo sempre che nessuna soluzione sarà praticabile se non garantirà la sicurezza di Israele, tra le altre cose, ma non a spese della sicurezza degli altri.
Tale retorica dovrebbe essere presa sul serio, non minimizzata, ma non dovrebbe neanche essere esagerata.
Lavrov ha rilasciato un’intervista illuminante a Sky News Arabia in cui ha spiegato cosa spera di ottenere la Russia parlando delle sue linee rosse. I Mainstream Media (MSM) sono convinti che siano prive di significato e che tutte queste linee possano essere attraversate senza timore della Terza guerra mondiale, mentre la Alt-Media Community (AMC) interpreta tutta questa retorica come un accenno a una risposta nucleare in quell’evento. Si scopre che hanno entrambi ragione e torto per metà, secondo quanto rivelato da Lavrov sui calcoli del suo paese:
“Sembra proprio che abbiano una mentalità infantile (l’Occidente), nonostante siano adulti e ricoprano posizioni di responsabilità: ministri, primi ministri, cancellieri, presidenti, ecc.
Da diversi mesi si parla del fatto che la Russia si limita a minacciare e menzionare alcune “linee rosse”, che l’Occidente continua a oltrepassare senza che accada nulla.
…
Parliamo di “linee rosse” nella speranza che le nostre valutazioni e dichiarazioni vengano ascoltate da chi prende le decisioni in modo intelligente.
È stupido dire che premeremo il pulsante rosso, se domani non farete come vi chiedo. Sono sicuro che i decisori siano consapevoli di cosa intendiamo in queste situazioni. Nessuno vuole una guerra nucleare.
Lo abbiamo detto più e più volte. Lasciate che vi assicuri che abbiamo armi il cui uso comporterà gravi conseguenze per i padroni del regime ucraino”.
Ricordiamo che Putin ha descritto l’espansione della NATO in Ucraina come il superamento di una linea rossa per la Russia durante il suo discorso del 24 febbraio 2022, in cui annunciava l’inizio dell’espansione speciale della Russia. operazione :
“Non possiamo restare inerti e osservare passivamente questi sviluppi. Sarebbe una cosa assolutamente irresponsabile da parte nostra. Qualsiasi ulteriore espansione dell’infrastruttura dell’Alleanza del Nord Atlantico o gli sforzi in corso per ottenere un punto d’appoggio militare nel territorio ucraino sono inaccettabili per noi… Non è solo una minaccia molto reale per i nostri interessi, ma per l’esistenza stessa del nostro stato e per la sua sovranità. È la linea rossa di cui abbiamo parlato in numerose occasioni. L’hanno oltrepassata.
…
Non ci dovrebbero essere dubbi per nessuno che qualsiasi potenziale aggressore andrà incontro a sconfitta e conseguenze nefaste se attaccasse direttamente il nostro paese… Non importa chi cerca di ostacolarci o, a maggior ragione, di creare minacce per il nostro paese e il nostro popolo, devono sapere che la Russia risponderà immediatamente e le conseguenze saranno come non ne avete mai viste in tutta la vostra storia. Non importa come si svilupperanno gli eventi, siamo pronti. Sono state prese tutte le decisioni necessarie a questo riguardo”.
Prima di procedere, ecco cinque briefing di base che i lettori potrebbero essere interessati a rivedere:
Ora analizzeremo tutto nel contesto della spiegazione di Lavrov sulle linee rosse della Russia.
Fin dall’inizio, il riferimento di Putin a questo era in relazione al motivo per cui aveva autorizzato l’operazione speciale, vale a dire per fermare la continua espansione della NATO in Ucraina, sebbene all’epoca clandestina. In seguito ha anche esplicitamente messo in guardia contro chiunque “attacchi direttamente il nostro paese”, cosa che la NATO non ha ancora fatto, sebbene consentire all’Ucraina di usare le sue armi a lungo raggio a tale scopo sarebbe un’esagerazione. Da allora, tuttavia, l’Ucraina ha attaccato direttamente la Russia in numerose occasioni, ma non è seguita alcuna risposta nucleare.
L’ultima parte del suo discorso sopra menzionato, in cui il leader russo ha avvertito di come “le conseguenze saranno come non ne avete mai viste in tutta la vostra storia” se “si frappongono sul nostro cammino o, a maggior ragione, creano minacce per il nostro Paese e il nostro popolo”, è la più controversa. Il modo in cui ha formulato il tutto implicava fortemente che le armi nucleari sarebbero state utilizzate se la NATO avesse trasformato il conflitto in una guerra per procura, ma a posteriori potrebbe aver alluso allo scenario di un attacco diretto della NATO.
In ogni caso, non si è ancora verificato alcun attacco del genere, né la Russia ha utilizzato armi nucleari nonostante il conflitto sia indiscutibilmente diventato una guerra di logoramento per procura con la NATO. Questa osservazione, unita al modo in cui il pubblico occidentale ha inizialmente interpretato le sue intenzioni, ha fatto pensare che la Russia non facesse sul serio nel ricorrere alle armi nucleari per difendere le sue linee rosse, incoraggiando così il “mission creep”. Tuttavia, per tutto il tempo, la NATO deve ancora oltrepassare la linea rossa definitiva di attaccare direttamente la Russia.
A questo punto è rilevante fare riferimento all’intuizione dell’ultima intervista di Lavrov. Come ha detto il massimo diplomatico russo, “Parliamo di ‘linee rosse’ nella speranza che le nostre valutazioni e dichiarazioni vengano ascoltate da intelligenti decisori. È sciocco dire che premeremo il pulsante rosso, se domani non farete come vi chiedo”. Ciò mette in contesto ciò che Putin intendeva rispetto a ogni linea rossa implicita, a parte quella su un attacco diretto della NATO contro la Russia.
L’espansione della NATO in Ucraina prima del 2022 ha esplicitamente oltrepassato la linea rossa della Russia, come lo stesso Putin ha descritto, ma né quella né la decisione del blocco di trasformare il conflitto in una guerra di logoramento per procura e gli attacchi diretti dell’Ucraina (anche contro i civili usando armi e intelligence della NATO) hanno portato a una risposta nucleare. Col senno di poi, le dichiarazioni fortemente formulate di Putin avevano lo scopo di scoraggiare gli ultimi due al fine di ridurre la possibilità che queste escalation degenerassero in una terza guerra mondiale, cosa che lui vuole evitare.
Hanno comunque continuato a farlo, ma con un graduale approccio di “bollitura delle rane” che ha dato alla Russia il tempo di adattarsi alla “nuova normalità” senza sentirsi abbastanza minacciata da intensificare drasticamente, riducendo così le possibilità della spirale di cui sopra. Mentre questa osservazione potrebbe sembrare suggerire che i media mainstream avessero ragione su come le linee rosse della Russia possano essere oltrepassate senza timore della Terza guerra mondiale, è importante ricordare che la NATO non oserà ancora oltrepassare la sua linea rossa definitiva di attaccare direttamente la Russia.
Considerando questo, sia i MSM che l’AMC avevano ragione e torto per metà. Il primo aveva ragione sul fatto che alcune linee rosse possono essere oltrepassate senza innescare una risposta nucleare, esattamente come ha appena confermato Lavrov, ma si sbaglia sul fatto che presumibilmente non ci sono linee rosse il cui attraversamento provocherebbe mai questo. Allo stesso modo, il secondo ha ragione sul fatto che una risposta nucleare è possibile se vengono oltrepassate determinate linee rosse, ma si sbaglia nell’implicare che l’attraversamento di qualsiasi linea rossa porterebbe automaticamente a ciò.
La conclusione è che il famoso discorso di Putin sulle linee rosse era principalmente inteso a scoraggiare un attacco diretto dalla NATO, con l’obiettivo supplementare di scoraggiare il coinvolgimento indiretto del blocco nel conflitto. Il primo è riuscito mentre il secondo no, né l’Ucraina è stata scoraggiata dall’attaccare direttamente la Russia, ma le linee rosse sono ancora alluse per trasmettere all’Occidente che certe escalation dovrebbero essere evitate. Tale retorica dovrebbe essere presa sul serio, non minimizzata, ma non dovrebbe nemmeno essere esagerata.
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Il progetto sionista d’insediamento in Palestina. Il contributo degli studi di settler colonialism
Diana Carminati1
1Università di Torino, Italia E-mail: carmidia@hotmail.com Ricevuto: 01/04/2020. Accettato: 30/07/2021. Come citare: Carminati, Diana. 2021. «Il progetto sionista d’insediamento in Palestina. Il contributo degli studi di settler colonialism». América Crítica 5 (2): 159-169. https://doi.org/10.13125/americacritica/5073
Abstract—This article is aimed to explain the real meaning of the Zionist project of a Jewish settlement in Palestine since the origin at the end of the 19th-century with Th. Herzl, and at the beginning of the 20th-century. The aim of the project was to settle there permanently the Jewish people coming from Europe, pushing the native population by all means “out of border”, and declare themselves as the sole natives. Unlike the apartheid that is achieved with a separation between natives and colonists, to which many proPalestinian activists relate, the settler colonialism organize itself through a progressive dispossession of land, resources and rights of [as regards] the native people. The scholars of settler colonialism, with their researches at the end of the 20th-century, claim that the “logic of elimination prevails on the logic of exploitation” and again “Settler colonialism is a structure not an event”. The article goes on with the analysis of settler colonial studies, also with the research of some Israeli scholars as Gershon Shafir, and put some other questions: How can we get to a decolonization in the present stage of neoliberalism? — Settler Colonial Studies, Palestinian Question, Zionist Settler Colonial Project , Neoliberalism, Decolonization.
Abstract—Obiettivo di questo articolo è spiegare il progetto del movimento sionista sin dalle origini, con Th. Herzl e poi agli inizi del 20° secolo, per l’emigrazione in Palestina di popolazione ebraica europea, il suo insediamento stabile in quei territori, spingendo la popolazione nativa, con ogni mezzo, “al di là dei confini”, per poter essere dichiarati come unici nativi. Il colonialismo d’insediamento non si struttura come l’apartheid, come sola separazione fra coloni e nativi, ma tramite una progressiva spoliazione di terra e diritti. Gli studiosi di settler colonialism, disciplina sviluppatasi a fine ‘900, affermano che la “logica dell’eliminazione prevale su quella dello sfruttamento” e che “il settler colonialism è una struttura non un evento”. L’articolo procede con l’analisi degli studi di S. C. compiuti anche da studiosi israeliani come Gershon Shafir, per porsi anche altre domande: come si può arrivare ad una decolonizzazione, nella fase odierna di neoliberismo? — Studi di colonialismo d’insediamento, Questione palestinese, Progetto sionista d’ Insediamento coloniale, Neoliberismo, Decolonizzazione.
INTRODUZIONE
Nel marzo 2011 alla SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra si tenne una Conferenza internazionale sul tema Past is Present: Settler Colonialism in Palestine. Lo scopo degli organizzatori (Palestine Societye London Middle East Institute) era quello di sviluppare gli studi comparati di Settler Colonialism sul tema del progetto sionista in Palestina. In Europa si taceva, quasi un tabù, sul sionismo, le sue politiche e le sue modalità strutturali e violente di spoliazione/espropriazione dei nativi, e del problema centrale di annessione illegale della maggior quantità di terra possibile in Cisgiordania, chiudendo i palestinesi in bantustan o cacciandoli con sistematici transfer. Nei media, fra gli intellettuali, nel mondo politico venivano trasferiti all’opinione pubblica concetti come occupazione, conflitto; nel mondo delle organizzazioni di solidarietà con la Palestina si riusciva a denunciare l’apartheid, come in Sud Africa. Ma si eludeva il problema del progetto di colonialismo d’insediamento cioè l’espulsione graduale di popolazione e annessione illegale di territori. Inoltre gli studiosi tendevano ad analizzare la questione palestinese come un caso “eccezionale” e a evitare di far emergere le questioni strutturali dominanti nel regime di colonialismo d’insediamento israeliano. La Conferenza alla SOAS offrì l’occasione per discutere tutto questo e dare un contributo più completo e approfondito, anche per chiarire e affrontare la questione del colonialismo d’insediamento presente oggi nel mondo. GLI STUDI DI Settler Colonialism COME SOTTOINSIEME DEGLI STUDI POSTCOLONIALI I primi studi di Settler Colonialism si avviano dagli anni 1985-‘90 e successivamente nel contesto neoliberista dominante del primo decennio del XXI secolo. Furono “una risposta australiana al consolidarsi e alla diffusione globale degli studi postcoloniali come discorso e come metodo”, come scrive Lorenzo Veracini, docente allo Swinburne University of Technology (Melbourne), e co-direttore della rivista Settler Colonial Studies(2010), in un intervento nel 2017 (Veracini 2017a). Lorenzo Veracini afferma nello stesso saggio: «gli studi di SC possono offrire un contributo per la comprensione del contesto settler, su quello che è stato il loro modo di agire e pensare nel passato, quali modalità di settler colonialism continuano e/o si rinnovano nel presente e se c’è una possibilità oggi e nel futuro, di procedere a “decolonizzare” anche dal loro interno i soggetti settler” (NdT)1 . Essi, afferma Veracini nell’intervento citato, dovrebbero essere parte (come soggetti agenti) della loro decolonizzazione. Gli studi di Settler Colonialism intendevano offrire un quadro interpretativo più preciso. Fra i primi importanti scritti quello di Patrick Wolfe, a fine anni ’90 (Wolfe 1999), che descrive come gli antropologi erano, sono inseriti [integrati] in una articolata forma di dominio. Caratteristica degli studi di Settler Colonialism è il loro carattere transdisciplinare e comparativo. In seguito, l’analisi di Wolfe prosegue con l’articolo sulla eliminazione dei nativi del nord America. (Wolfe 2017). Nel testo di Veracini (2016), scritto in memoria di Wolfe, morto nel 2016 , venivano messe in luce non solo le caratteristiche di Wolfe, come studioso “outsider”, le sue modalità di studi per lavori interdisciplinari e comparati, ma per aver proposto, dopo un lungo percorso di riflessione, alcuni nodi cruciali. In particolare, la definizione di Settler Colonialism come modalità di dominio distinto dal colonialismo, la sua continuità dal passato al presente, accompagnata dalla sempre più evidente e diffusa “logica eliminatoria” nella fase della globalizzazione. Al centro dell’analisi di Wolfe è l’affermazione che l’interesse principale degli invasori è l’accaparramento della terra con l’eliminazione dei nativi, considerati non forza lavoro utile, ma soggetti superflui al loro progetto. «I coloni vengono per restare [e sostituirsi ai nativi]. La logica dell’eliminazione prevale su quella dello sfruttamento», scrive Wolfe distinguendo così tra colonialismo e Settler Colonialism. Distinzione che Veracini riprende: «Se si arriva da fuori non è la stessa cosa dire “tu devi lavorare per me” o “tu devi andartene» (Veracini 2017b: 33). Per giustificare la loro espropriazione, espulsione e successiva eliminazione i nativi vengono “razzializzati”, stigmatizzati come non umani, “disumanizzati” per procedere alla loro eliminazione o, solo in seguito e in qualche caso, all’assimilazione biologica e culturale. Il colonialismo d’insediamento, afferma Wolfe nell’intervento del 2006, non prende di mira «una razza in particolare, perché una razza non può essere considerata come data; si costruisce in base all’obiettivo» (Wolfe 2017: 46). Il problema principale è quindi l’accesso alla terra, considerata nullius. «Qualunque cosa ne dicano i coloni», scrive Wolfe, che si occupa di mettere in correlazione Settler Colonialism e genocidio, e pubblica questo intervento su Journal of Genocide Research, «il motivo principale dell’eliminazione non è la razza o la religione, l’etnia, il grado di civiltà, ecc. ma l’accesso al territorio. La territorialità è l’elemento specifico, irriducibile del colonialismo d’insediamento» (: 58). La motivazione primaria è quella di farli progressivamente sparire e sostituirsi ad essi diventando nativi. Perché la terra, in particolare? Perché l’espansione in terra ‘vergine’, desolata, deserta, era l’elemento cruciale per il colonialismo d’insediamento. In queste terre vivevano indigeni ‘nomadi’, e il nomadismo diventa quindi uno stigma di superfluità, giustificazione per l’espulsione di popolazione non produttiva, e per l’inserimento di immigrati europei. Perché l’espulsione invece dello sfruttamento? Dopo l’accaparramento della terra, il problema dei coloni, e soprattutto in seguito dei burocrati governativi, divenne quello di distruggere ciò che veniva definita, con una categoria politica dell’occidente, la loro ‘indigeneità’, la loro identità indigena e i loro diritti sulla terra, cioè non solo la loro permanenza sulla terra, che era in proprietà collettiva, come insieme di tribù, ma l’identificazione con una cultura propria, che si opponeva al modo di dominio capitalista che allora si stava rafforzando anche nelle colonie. Il nomadismo e la proprietà collettiva diventano così il peccato originale da estirpare (: 58), occorreva distruggere in modo violento ogni traccia di quella cultura, appropriandosi di ogni cosa. Lasciando il ‘lavoro sporco «alla marmaglia di fuorilegge» che, soggiunge Wolfe, «proveniva generalmente dalle fila dei senza terra europei». Bianchi. In seguito si tentò di assimilare i nativi sempre in modo violento. L’articolo di Veracini, “Kill the Setttler in Him and Save the Man” (Veracini 2017a), cita, seguendo Wolfe, un libro di Ward Churchill (2004), che parla di trasferimenti forzati dalle scuole residenziali per giovani indiani delle riserve in famiglie di coloni bianchi, avvenuti sino agli anni ’60 in Canada e Stati Uniti del nord, e con rapimenti di fanciulli nativi fra gli aborigeni dell’Australia poiché era necessario acquisire la ‘cultura’ del mondo dei coloni e perdere la propria anima indigena. Se i coloni diventano in seguito nativi, il colonialismo d’insediamento tenderebbe successivamente a estinguersi. «Mentre il colonialismo riproduce sé stesso [. . . ] il colonialismo d’insediamento estingue sé stesso e giustifica il suo operato sulla base dell’aspettativa di una sua futura scomparsa» (Veracini 2017b: 35). Anche se poi in taluni casi, come si vedrà in Palestina/Israele «queste strutture antitetiche possono intrecciarsi» e non si può ancora oggi parlare di un colonialismo d’insediamento compiuto (Veracini 2013).
LA ‘ COLONIZZAZIONE SISTEMATICA’ NEL PENSIERO DI E. GIBBON WAKEFIELD
Le ricerche più recenti sul colonialismo d’insediamento hanno potuto trarre conferma dell’ideologia passata e presente ancora oggi, dal pensiero degli studiosi liberal dei primi decenni dell’800, che furono anche i primi organizzatori del Settler Colonialism. Nel 2015 Veracini scrive insieme con Gabriel Piterberg, prof. alla UCLA, USA, un articolo per approfondire il percorso dei Settler Colonial Studies (Piterberg e Veracini 2005). In esso viene ricostruita una genealogia del pensiero di studiosi liberal della middle class inglese negli anni ’20-‘30 dell’800, sul fenomeno delle migrazioni nei nuovi continenti, in Australia e negli Stati Uniti. Migrazioni e colonizzazione dapprima di detenuti (in Australia e Nuova Zelanda) e successivamente di gruppi sociali di middle class e di lavoratori poveri, che in Europa, in quella fase delle primi crisi del modo di produzione capitalista, erano già superflui. Veracini e Piterberg individuano in particolare uno studioso liberal, Edward Gibbon Wakefield (1796-1862) come teorizzatore principale (anche se prima di lui 1790-1810 vi furono federalisti USA a pensare a tale progetto) di una migrazione/colonizzazione ‘sistematica’ e quindi di un settler colonialism distinto dal colonialismo tradizionale. Con il progetto di colonizzazione ‘sistematica’, Wakefield pensava a una possibilità di inserimento degli immigrati nelle terre, definite terra nullius, abitate da indigeni, superflui, dietro pagamento di un ‘prezzo adeguato’ (sufficient price) per la terra (al governo inglese tramite le società private che si stavano costituendo e talora ai capi indigeni (Steer 2017)). Per evitare che fossero acquistate da immigrati che non avrebbero voluto sottomettersi alle regole della produzione capitalistica. Il pensiero di Wakefield è definito cruciale, a partire dallo scritto Letter from Sidney, del 1829, per la sua influenza, o per lo meno per la ricezione e i commenti, sul pensiero di Marx, e per aver posto al centro, seppure in modo non ancora del tutto consapevole, sia il concetto di accumulazione primitiva come modalità di dominio presente ancora nei primi decenni dell’8002 sia il concetto di relazione, definita poi più chiaramente da Engels e Marx, fra soggetti dominanti (i datori di lavoro) e dominati (i lavoratori). Gli autori riprendono Wolfe che aveva affermato nel suo saggio del 1999: «Le colonie settler non furono stabilite nella prima fase per estrarre surplus dal lavoro indigeno ma organizzate per l’espropriazione e il trasferimento degli indigeni e l’eliminazione delle società dei nativi. Che possedevano la terra e che erano refrattarie al sistema di produzione capitalistico»3 (Piterberg e Veracini 2005: 463–466). Aveva precisato Wolfe ed è questo il paradigma al centro della sua analisi :«I coloni erano venuti per restare – The invasioni is a structure not an event» (Wolfe 1999: 2). Importante è mantenere la terra per i nuovi immigrati europei.
ACCUMULAZIONE PRIMITIVA IN WAKEFIELD
Negli scritti di Wakefield emerge il concetto di accumulazione primitiva in una accezione particolare: È una accumulazione primitiva che procede e si trasferisce dall’Europa alle colonie. Affermano Veracini e Piterberg, che a partire da Wakefield, si sviluppa il concetto di una accumulazione ongoing, che prosegue nel tempo, anche se con molte trasformazioni. Vi è una intima connessione fra accumulazione primitiva della prima fase (fine 1600-1700) e settler colonialism agente in particolare nella seconda fase (dal 1800 in poi). Il legame fra loro è il concetto della separazione: lavoratori europei separati dalla terra, dalle case e dai loro mezzi di produzione e similmente gli indigeni delle terre d’oltremare, come pure i coloni sprovvisti di denaro sufficiente, obbligati quindi a vendere la loro forza lavoro per guadagnarsi la sopravvivenza. È una separazione coercitiva, violenta, con l’uso della forza militare e di mezzi legali coercitivi. Nel saggio gli autori citano R. Luxembourg e nella fase odierna lo studioso M. De Angelis (Piterberg e Veracini 2005: 465). Il concetto di terra nullius per le terre scoperte dagli europei, già definito sin dalla metà del secolo XV, con la bolla del papa Nicolò V del 1452, la Discovery Doctrine, fatta per il re del Portogallo e poi per Cristoforo Colombo, fu in quei decenni e per tutto il secolo un concetto dominante. Il transfer della terra nullius avveniva tramite un settler contract. Lo si trova nei trattati del governo degli USA con i nativi americani. Resta nella legge australiana fino al 1993. Il Settler Contract è una forma di contratto sempre unilaterale, una «specifica forma di espropriazione»: «le comunità indigene e la gente che abita quella terra sono assenti dal contratto, poiché diventano superflui nella formazione socioeconomica così definita dai coloni, che hanno avuto l’abilità di imporre a loro» (: 464–465)4 . Questa modalità violenta del capitalismo, il momento chiave della accumulazione primitiva, la si poteva trovare quindi anche «alla fine del mondo nella terra desolata» (: 465). La formazione di forza lavoro era basata esclusivamente su forza lavoro bianca (anche se si riscontra qualche raro esempio di lavoro temporaneo per i nativi. Colonie che venivano così definite pure settlements. Era un progetto di società nuova sulla base della terra espropriata. «Colonizzazione significa la creazione e l’incremento di qualsiasi cosa se non la terra. Dove non c’è nulla se non la terra». Anche se poi avverrà spesso una commistione della terra presa ai nativi e di forza lavoro (di lavoratori poveri senza risorse) (: 464–473). Nel 1833 Wakefield scrive England and America nel quale parla anche del fallimento di alcune colonie d’insediamento (Argentina e la costa ovest della Australia (West Holland). Perché questo fallimento? nonostante la terra buona, un buon clima, capitale e forza lavoro? Perché molti, venuti come lavoratori al seguito di qualche grande proprietario, tendevano poi a comprare con pochi soldi la terra e diventare proprietari. Quindi tendevano a non entrare nel sistema di «relazione della produzione capitalistica», così facendo non producevano il surplus, il plusvalore necessario al funzionamento del capitalismo. Marx descrive la ‘scoperta’ di Wakefield: «il suo grande merito fu di aver scoperto che il capitale non è una cosa, ma una relazione sociale tra persone che è mediata dalle cose [. . . ]. Il capitale è una relazione sociale di produzione. È una storica relazione di produzione» (Marx 2006; Pappe 1951). Come osserverà Marx successivamente, un altro punto, fatto emergere da Wakefield, stava al centro del processo di produzione capitalista: il legame fra terra, capitale e forza lavoro: «il regime capitalista incontrava ovunque [in Europa] la resistenza dei produttori che possedevano i mezzi di produzione, con i quali essi lavoravano e guadagnavano ricchezza per sé stessi con il loro lavoro invece di lavorare per arricchire un capitalista» (Piterberg e Veracini 2005: 473). L’espansione in terre ‘vergini’ e il loro sfruttamento erano un elemento fondante della rivoluzione industriale. Occorreva sempre più espropriare terra e mezzi di sussistenza ai più poveri in Europa per obbligarli a vendere la loro forza lavoro e diventare proletari e produttori di merci da vendere sul mercato anche nelle colonie. Afferma Wolfe: «Dietro al colonialismo d’insediamento c’era “il motore della macchina internazionale che collegava la lana australiana alle fabbriche tessili dello Yorkshire e, in via complementare, al cotone prodotto nelle diverse situazioni coloniali quali l’India, l’Egitto e gli Stati schiavisti del profondo sud» (Wolfe 2017: 55). Il progetto primitivo di Wakefield per una “colonizzazione sistematica” risultò in Nuova Zelanda un fallimento5 . Il pensiero di Wakefield rifletteva, in quei primi decenni, la previsione di una crisi del capitalismo e di tensioni tra classi e possibili rivoluzioni cartiste e socialiste in Europa (anni 1840-1860). Si voleva “esorcizzare” il mondo upside down (Piterberg e Veracini 2005: 471). Vissuto nella fase fra il 1820 e 1850, Wakefield tendeva, rispetto a quanto elaborato da Marx, a mantenere un equilibrio nel sistema sociale britannico facendo emigrare il surplus dei lavoratori eccedenti e poveri nelle terre d’oltremare (: 468–471). Il flusso dell’emigrazione fu deviato in seguito dalle colonie inglesi a quelle del Nord America. Marx aveva invece come obiettivo la lotta di classe, la rivoluzione in Europa. Wakefield, scrivono Veracini e Piterberg, privilegiava un mondo che si spostava dal dentro al fuori (turned inside out) piuttosto che la rivoluzione, un mondo turned upside down, come scriveva nel 1972, lo storico Christopher Hill. Marx dissentiva da Wakefield e pensava che la società settler puntava alla sua riproduzione, e a diventare essa stessa nativa, e non alla produzione: potevano produrre in parte per il mercato ma, come piccoli produttori per sé e le loro famiglie. Il pensiero di Wakefield fu per lungo tempo abbandonato dagli studiosi a vantaggio delle riflessioni su Marx e le sue teorie. Fu ricordato negli anni ’60 e poi ripreso da Patrick Wolfe negli anni ’90. Una critica a Wolfe da parte di Veracini e Piterberg viene fatta sul concetto della logica di eliminazione, come se fosse una modalità di dominio sempre funzionante, senza vie di mezzo e non anche un progetto dagli esiti dialettici o incompiuti. Spesso la logica dell’eliminazione si accompagna a quella dello sfruttamento. «In una la tensione dialettica fra sfruttamento ed eliminazione» (Veracini 2017a) con possibilità binarie di dominio e oppressione.
IL PROGETTO DEL SIONISMO PER UN COLONIALISMO D’INSEDIAMENTO IN PALESTINA
La Conferenza, Past is Present: The settler colonialism in Palestine, organizzata alla SOAS nel 2012, si inseriva nei settler colonial studies e affermava che «il colonialismo d’insediamento è il paradigma centrale per capire la ‘questione palestinese’: essa non è unica come viene rappresentata, con una minima somiglianza con altri conflitti coloniali. . . La conferenza cerca di comprenderla all’interno di analisi comparate del colonialismo d’insediamento, di rompere gli schemi e di ri-posizionare il movimento palestinese all’interno di una storia universale di de-colonizzazione». Importanti furono le ricerche della Oral History sulla Nakba e l’espulsione dei palestinesi come punto non originario della catastrofe palestinese. Negli anni’60, vi era già stata una prima riflessione critica riguardo alla costituzione dello Stato di Israele6 e del progetto sionista di fine ‘800, un progetto analizzato dallo studioso Fayez Sayegh (1922-1980), palestinese nativo della Siria ed educato a Beirut alla American University, dove insegnò. Nel 1965 Sayegh scrive The Zionist colonialism in Palestine, con una visione precisa della situazione e di quello che era stato il progetto sionista: fondare lo Stato degli ebrei ed ‘eliminare’ i palestinesi. Ma era un’analisi che, seppure molto puntuale, usava ancora soltanto l’elemento ideologico dell’alterità, della razza. «L’identificazione razziale sionista ha tre corollari: l’autosegregazione razziale, l’esclusività razziale e la supremazia razziale». Su questo era intervenuto nel 1967 lo studioso ebreo francese Maxime Rodinson, pubblicato sulla rivista di J.P. Sartre, Les Temps Modernes, con un intervento, Israel: un fait colonial?, che aveva suscitato molte critiche da parte degli israeliani. In Israele queste analisi sono state da sempre molto contestate. È sempre prevalsa la narrazione ufficiale imperniata sul mito del ritorno degli ebrei alla terra promessa da Dio ad Abramo. Per quanto riguarda Israele, affermava Veracini (2013), questa struttura non si può ancora definire come settler colonialism compiuto, ma un insieme di colonialismo e di settler colonialism: i nativi non sono ancora stati cacciati tutti e il problema demografico è sempre preoccupante. Questi studi, nel silenzio della sociologia più accreditata, hanno avuto spazio soltanto a partire dalla fine degli anni ’80. Fra molti e il primo in termini assoluti per l’ampiezza e profondità delle ricerche, si ricorda quello del sociologo israeliano Gershon Shafir, Land, Labor and the Origins of the Israeli-Palestinian Conflict 1882-1914, pubblicato nel 1989 (Shafir 1996). È una ricerca puntuale imperniata su di una motivazione non solo ideologica ma economica, cioè l’analisi del binomio terra/lavoro. E qui la riflessione e lo studio di Gershon Shafir appare «l’analisi più completa della base materiale della formazione della società israeliana», per la formazione di una nuova società, di ‘uomini nuovi’, in uno dei territori di colonialismo d’insediamento del ‘900: cioè la Palestina/Israele, che definirà tutta la questione palestinese. Così scrive il sociologo Gabriel Piterberg nel suo intervento alla Conferenza alla UCLA nel 2014 sul colonialismo d’insediamento. Shafir si pone in contrasto con tutta la sociologia israeliana sua contemporanea (Baruch Kimmerling compreso) e i suoi studi rappresentano un cambio di paradigma cruciale. Diventano una conferma per le analisi di alcuni studiosi del settler colonialism, come ad esempio l’intervento proposto nella citata Conferenza alla SOAS del 2011, di P. Wolfe, Purchase by Other Means (Wolfe 2012). Ma vediamo la storia delle prime emigrazioni ebraiche dall’Europa in Palestina. Poiché le grandi migrazioni ebraiche si dirigevano principalmente verso gli Stati Uniti. Tra il 1880 e il 1900 oltre un milione di ebrei emigrarono negli Stati Uniti dai paesi dell’Europa, in particolare dalla Russia e dall’est europeo. In quella prima fase pochi ebrei europei volevano emigrare in Palestina, preferivano gli Stati Uniti. Si stima che in Palestina emigrarono tra il 1882 e il 1914 da 50.000 a 70.000 ebrei, dal 1919 al 1948 la cifra è di circa 500.000 persone (C. Klein 2003). La causa prima di queste migrazioni è rintracciabile nelle politiche antisemite europee e nei pogrom, ma come aggiungono lo studioso Claude Klein e la filosofa Hannah Arendt (1986), anche nella estrema povertà degli ebrei dell’est europeo, diffusa in tutta Europa per la crisi economica, la Grande depressione della seconda metà del secolo XIX. Klein scrive nel suo saggio: «Il sionismo apparirebbe meno glorioso se si immaginasse che sia stato inventato [. . . ] per regolare i rapporti fra gli ebrei occidentali e gli ebrei orientali» (C. Klein 2003: 137). Cioè per dare una sistemazione agli ebrei poveri dell’Est7 . Nel 1896 il giornalista e scrittore Theodor Herzl pubblicava un libro, Lo Stato degli ebrei e scriveva che occorre creare uno Stato per gli ebrei. «L’idea di Stato ha questa forza» (Herzl 2003: 29), fa parte del sogno reale per tutto il popolo ebraico «L’anno prossimo a Gerusalemme» (: 29). Herzl, da intellettuale borghese non conosceva se non superficialmente il problema degli ebrei dell’Est europeo, ne vedeva solo gli esiti negativi nella loro emigrazione in massa, negli anni ’80-’90 a Vienna. In una sua annotazione importante in particolare sul piano ‘geostrategico’, relativa ai tempi, Herzl si chiede se è preferibile emigrare in Palestina o in Argentina? Se si opta per la Palestina «Per l’ Europa noi formeremmo là un elemento di muro contro l’Asia come l’avamposto della civilizzazione contro la barbarie» (: 44). Nel suo libro egli immagina e organizza in modo meticoloso questa grande “riconfigurazione demografica” degli ebrei nei termini di una migrazione, iniziando dai più poveri, abitanti nell’Est europeo e sottoposti ai pogrom e alla estrema povertà, nella fase della grande depressione in Europa del 1873-95, per convincere poi a seguire la piccola e media borghesia del Centro Europa, la più numerosa. Con un complicato meccanismo di acquisto di terre mediante due strutture importanti come la Society of Jews, che si sarebbe occupata dei problemi di diritto pubblico e privato e la Jewish Company, che avrebbe organizzato la raccolta di fondi per l’acquisto di terre, in particolare terre demaniali dell’Impero Ottomano. Tutto si dovrà svolgere su basi scientifiche. Ma non c’è traccia di problemi legati alla condivisione della terra con gli abitanti nativi. Nelle pagine del suo diario poco tempo prima egli aveva delineato un progetto di ‘transfer’ della popolazione nativa, povera, non ebrea. Pensa a un territorio non condiviso, con separazione dai gruppi che lo abitano. Nel suo diario, il 12 giugno 1895, scrive: (nella trad. dal tedesco in inglese) “We shall try to spirit the penniless population across the border” 8 . Ma questo progetto restava ancora in una fase di difficile soluzione e la terra di Palestina non era ancora stata definitivamente scelta. Nella prima immigrazione in Palestina (Prima Aliya) 1882-1904, di gruppi di ebrei russi, si era imposto il problema della terra e dei modi di acquistarla, poiché il regime proprietario era nell’Impero Ottomano molto complesso. Nel 1882 il Barone Edmond Rothschild aveva iniziato un progetto coloniale con l’acquisto di migliaia di ettari di terra nell’area poi chiamata Rishon Letzion (vicino alla attuale Tel Aviv), per lo sfruttamento di quelle terre usufruendo ancora della mano d’opera locale araba. Secondo alcuni studiosi recenti questo primo progetto fu fallimentare. Prese progressivamente piede l’idea di una struttura proprietaria solo a base etnocratica, degli ebrei, secondo il modello tedesco per la germanizzazione della Prussia Orientale. Nel 1901 fu costituito il Jewish National Fund e i fondi cominciarono ad affluire alla leadership sionista dei coloni, cioè a esperti come il sociologo Arthur Ruppin (nominato nel 1908 capo dell’esecutivo sionista in Palestina), che organizzò i primi kibbutzim collettivi, insieme a Nachman Zirkin e Ber Borokhov e altri. Si imponevano i problemi dei finanziamenti per l’acquisto della terra, che avvenivano tramite acquisizioni dai proprietari locali spesso assenti (gli effendi o funzionari governativi turchi o arabi), sia da piccoli proprietari indebitati e costretti a vendere, sia dallo Stato Ottomano come terra pubblica statale, sia come terra appartenente ai religiosi (Wakf), o terra dello Stato ma regolata con usufrutti di 5 anni per gli affittuari e reversibile se non ben coltivata (Wolfe 2012).
LA CONQUISTA DEL LAVORO (1904-1920)
Nella Seconda Aliya (1904-1914) la questione della terra ma soprattutto quello della forza-lavoro, diventeranno il problema prioritario. Gershon Shafir studia il problema nella fase 1904- 1916, nelle colonie-cooperative ebraiche che si costituiscono a partire dal 1909 (Degania) e che attuano l’esclusione della mano d’opera araba: è il progetto della ‘Conquista della forza-lavoro’. È una operazione necessaria per assicurare lavoro agli immigrati ebrei anche per il timore che essi possano nuovamente emigrare altrove. Ma è un’operazione che porta alla separazione del lavoro ebraico, che doveva essere meglio remunerato (secondo i criteri di migliori salari secondo standard europei) rispetto alla sovrabbondanza di manodopera araba molto meno costosa. È contemporaneamente un progetto economico, ma anche di distinzione e progressiva separazione ed esclusione della popolazione nativa. L’operazione fu attuata dal sindacato sionista laburista Histadrut, soprattutto a partire dal 1920, sotto l’Ammi nistrazione britannica (Piterberg 2015), con l’intensificazione di colonie autonome e collettive dei “kibbutzim” e “moshavim”. Durante gli anni ’20 il movimento sionista veniva rafforzato a livello teorico da una nuova formazione politica, il Revisionismo sionista di Vladimir Jabotinsky, che con il suo libro Il muro di ferro (1925), propugna non solo la separazione ma una risposta violenta al conflitto con gli arabi (Massad 2013). Le prime colonie ebbero in seguito, soprattutto negli anni ’30, un forte sviluppo con il sistema difensivo della “Torre e palizzata” (Bartolomei, Carminati e Tradardi 2015: 159–160); negli anni 1936-39, anni di importanti ondate migratorie, dopo l’avvento di Hitler in Germania, furono costruiti 57 avamposti difesi e fortificati (Koestler 1946) 9 . Il colonialismo d’insediamento in Palestina, afferma Shafir, è frutto di una progressiva lenta spoliazione, separazione, esclusione, dal 1904 sino al 1947, sfociata poi nella pulizia etnica, la Nakba del 1948-49. L’analisi dello studioso australiano Patrick Wolfe (2012) si concentra soprattutto sul ruolo avuto dal modello di separazione fra nativi e nuovi immigrati. Wolfe mette in evidenza come la ricerca di Shafir sull’accaparramento della terra in Israele da parte delle agenzie del movimento sionista sin dal primo decennio del ‘900, con l’espropriazione della terra dei nativi, tramite acquisti anche forzati e la Conquista del lavoro, cioè l’espropriazione del lavoro palestinese, cioè il divieto di occupare lavoro palestinese, ma rafforzare solo più forza lavoro ebraica per la costruzione, organizzazione di una società ebraica nuova di ‘uomini nuovi’, diventa paradigma fondamentale per la comprensione della strutturazione della società israeliana come pure settlement e in seguito per la formazione dello Stato. Pertanto, scrive Wolfe, il riferimento événementiel non può essere riferito alla Nakba, come unico punto di partenza (“a point of origin” (: 133)), di quello che è stato sempre chiamata la Catastrofe palestinese, uno spartiacque storico, ma a un progetto sionista strutturale già alle sue origini e nella sua fase più rilevante, la fase della seconda Aliya dal 1904 al 1914. Wolfe aggiunge anche un punto importante: i coloni invasori ebrei europei portavano con sé in dote non solo una categoria economica, l’accumulazione primaria, ma culturale, e cioè «specifiche ideologie di classe, razza e nazione che avevano in modo decisivo partecipato all’assoggettamento all’interno [del loro paese] e all’esterno» (138). E aggiunge infine: «La Nakba accelerò semplicemente, in modo molto radicale, i mezzi ‘slow motion’ per questi fini che erano stati gli unici mezzi disponibili per i sionisti mentre stavano ancora costruendo il loro stato coloniale» (Wolfe 2012: 159). Lo Stato di Israele – conclude Wolfe – deve le possibilità della sua attuazione non soltanto alla guerra del 1948-49 tra esercito arabo e gruppi armati ebrei della Haganah (e altri gruppi), conclusasi con la Nakba palestinese, con l’espulsione di 750.000 palestinesi, ma proprio alla fase di inizio secolo, con l’organizzazione di una struttura particolare di dominio, fondata sulla proprietà della terra e sulla separazione ed esclusione dal lavoro dei non ebrei e sostenuta dal progetto di un modello di Stato ebraico, di uno Stato cioè esclusivo degli ebrei, che tendeva alla espulsione, al transfer dei nativi (Pappé 2017: 162). La soluzione del transfer permane nei decenni e la si ritrova nel pensiero e nel diario di un funzionario sionista Joseph Weitz, nel 1967 ex capo del Dipartimento della colonizzazione della Agenzia ebraica, che scrive sul quotidiano Davar (Laburista) nel 1967, ma che riprende e cita dal suo diario del 1940: Fra di noi deve essere chiaro che non c’è posto (room) per entrambi i popoli in questo paese. . . Noi non potremo arrivare al nostro obiettivo di essere uno stato indipendente con gli arabi in questo piccolo paese. L’unica soluzione è la Palestina, almeno la Palestina occidentale (a ovest del Giordano) senza gli arabi. . . e non c’è altro modo se non di trasferire gli arabi da lì ai paesi vicini; trasferirli tutti; non un villaggio, non una tribù dovrebbe rimanere (Buck 1973) 10 . Con queste nuove ricerche venivano a essere messi in discussione alcuni punti cruciali della narrazione ufficiale sul progetto sionista, maggioritaria in Europa, diffusa a partire dagli anni ’80 in Italia e che ha pervaso l’intero campo politico e i media. È stata ed è, nel contesto italiano ed europeo, come abbiamo affermato nell’introduzione, una narrazione paralizzante, non contraddetta se non da pochi studiosi e attivisti definiti subito antisionisti e quindi antisemiti, dalla quale è derivata in questi decenni l’impossibilità di una discussione seria. Nel contesto generale, la storia della questione palestinese, sembra iniziare soltanto dal 1967 (fatta eccezione per l’evento Nakba del 1948) e l’obiettivo di lotta resta “fine dell’occupazione” e non “lotta di liberazione”, come per altri paesi occupati dal colonialismo occidentale. Da pochi anni la parola più accettata nel campo dell’attivismo pro Palestina è diventata quella di apartheid. Ma non basta a spiegare. . . e nasconde il vero obiettivo. . . Sarebbe quindi meglio parlare di “questione sionista”, cioè del rifiuto della critica delle origini dello Stato di Israele come stato fondato su un progetto di colonialismo d’insediamento. La narrazione ufficiale pone in secondo piano, cancella nell’opinione pubblica, le connessioni tra il progetto sionista di inizio ’900, come progetto di insediamento coloniale progressivo in Palestina, frutto dei disegni imperialisti occidentali e della politica economica israeliana sempre più inserita negli assetti mondiali del complesso militare-industriale occidentale. È invece una modalità di dominio etnico e di classe. Perché la situazione attuale dei Territori Palestinesi Occupati mostra il dominio di predazione e spoliazione da parte del capitale globale, non solo israeliano, delle risorse del territorio palestinese: acqua, cave, miniere, terre fertili come la Valle del Giordano, risorse turistiche e archeologiche, risorse del Mar Morto11 .
“IL settler colonialism NON È FINITO”. IL CAPITALISMO ESTRATTIVO ODIERNO E LE NUOVE ESPROPRIAZIONI
Lorenzo Veracini venne a Torino nel giugno 2015. E discusse con noi un intervento, presentato all’Istituto universitario Europeo di Firenze, che riassumeva un suo lavoro di riflessione (Veracini 2015) e sintesi di numerosi studi di questi decenni sul ripensamento di alcune categorie analitiche chiave del pensiero marxiano e in particolare quella di “accumulazione originaria”. ((Harvey 2009: 82–83), ma anche di N. Klein (2007), Saskia Sassen, S. Mezzadra, studiosi indiani e molti altri). Nel suo intervento, “Affrontare il colonialismo d’insediamento del presente” in sintesi analizzava il modo di produzione capitalista nella fase della globalizzazione. Sosteneva che il colonialismo d’insediamento “come modo specifico di dominio è diventato globale e definisce gli ordinamenti politici attuali”.
Egli poneva in primo piano la questione del settler colonialism nel presente e cioè di un modo di dominio globale, riprendendo sempre David Harvey, che non si espande più “mediante egemonia”, ma mediante un ritorno alla violenza extraeconomica e alla coercizione, secondo una “logica estrattiva”, che necessita sempre più di terra e sempre meno di lavoro, con un aumento considerevole dell’accumulazione per espropriazione senza riproduzione (espropriazione di beni collettivi e diritti conquistati nel corso di decenni con le lotte dei lavoratori (Veracini 2015)). È un «comando capitalistico sempre meno disposto a mediare e sempre più costretto a ricorrere agli apparati repressivi dello Stato e all’articolazione di forme di controllo privato o indiretto delle popolazioni» (Mellino 2014; Mbembe 2003; Comaroff e Comaroff 2011). Non più quindi un colonialismo d’insediamento e un’accumulazione primitiva di uno stadio iniziale dell’espansione coloniale del capitalismo europeo, ma un processo permanente di accumulazione per spoliazione che coinvolge nel presente il dominio sia sulla terra considerata sottoposta al “mondo della legalità” cioè l’Europa e la “terra libera”, senza legge, del Nuovo Mondo, (Lloyd e Wolfe 2017: 133–134). Il Settler Colonialism nella fase del capitalismo odierno ha bisogno, scrivono David Lloyd e Patrick Wolfe, citando Rosa Luxembourg di «nuove razze, che erano prima l’“esterno del capitale”». «Ora, nel momento in cui ci si è appropriati del mondo nella sua interezza», l’attuale crisi del capitale può non trovare più un altro fuori geografico, ma “necessita di altre razze”. E continua nella sua opera di razzializzazione all’interno della linea di confine tra i ‘territori della legalità’ e quelli ‘senza legge’ (: 132–135). Al colonialismo d’insediamento e alla sua struttura di dominio del presente, interessano sempre meno circuiti di riproduzione e sempre più una accumulazione per spoliazione senza riproduzione, trattando i lavoratori del mondo globale, specialmente nelle Zone economiche speciali (SEZ), come in Cina, India, Sud est Asiatico, Medio Oriente, come schiavi. Ma tende anche sempre più a considerare numerose popolazioni in tutto il mondo, come indigeni da espropriare dalle loro terre, a emarginare, a eliminare anche fisicamente, come fu agito nel secolo e mezzo precedente, negli USA, in Australia, Nuova Zelanda e Canada. Vedi nei decenni scorsi in Amazzonia, in Africa, nell’India centrale, nel sud est Asiatico. Occorre eliminare la forza lavoro indigena piuttosto che sfruttarla, i superflui devono “sparire oltre frontiera”, popolazioni da liquidare. Come si può vedere nella drammatica denuncia dell’attivista del popolo Yanomami Davi Kopenawa, pubblicata anche in Italia (Kopenawa e Albert 2018). «La periferia arriva direttamente al centro», afferma lo studioso israeliano dissidente Eyal Weizmann. Così mentre si creano enormi bidonville di esclusi nelle grandi metropoli del mondo, il Settler Colonialism sta iniziando le prove per “indigenizzare” tutti, anche i lavoratori europei, come ammonisce Lorenzo Veracini nel suo lavoro The Settler Colonial Present (Veracini 2015). Veracini sottolinea ancora nel testo del 2016 (Veracini 2016), una «crescente condizione comune tra gli indigeni e non indigeni», condizione che rende necessaria una «decisiva responsabilizzazione» dei non indigeni, per una «riconciliazione con gli indigeni» per sostenerne le lotte.
LA QUESTIONE “INDIGENA” DIVENTA, NELLA GLOBALIZZAZIONE, UNIVERSALE
La questione palestinese, come laboratorio di sperimentazione delle pratiche di dominio del neoliberismo, attuate con la pulizia etnica, la distruzione del paesaggio e dei villaggi, il memoricidio, le recinzioni, i dispositivi di controllo e di sorveglianza totali, la “costituzione di zone di morte” come scrive Nadera Shaloub-Kevorkian, palestinese di Haifa, docente universitaria, criminologa e specialista di diritti umani e come descrive Honaida Ghanim nel saggio “Necropolitica” in “Esclusi”, diventa, nella fase odierna, espressione della “universalità” della questione “indigena”. Ne hanno scritto Collins (2011a) e Balibar (2004). E allora, come scrive John Collins (2011b) «affrontare le strutture profonde della colonizzazione globale e le loro manifestazioni interconnesse, militarizzazione, de-territorializzazione, neoliberismo, distruzione dell’ambiente, è coltivare quella che in effetti è: una coscienza indigena». È riconoscerne l’importanza. La Palestina non può più quindi essere soltanto una questione eccezionale, e di pura solidarietà filantropica occidentale, da tenere ai margini, separata (Veracini 2015). Dal 2015 abbiamo pensato che fosse urgente trasmettere a un pubblico più ampio questo cambio di paradigma. Che fosse necessario riprendere ancora una volta a studiare, a “tenere la mente in movimento” per permettere anche ad altri una svolta che potesse rendere più consapevoli e coinvolgere tutti per agire e re-agire insieme contro il settler colonialism del presente. Ma alcune domande si pongono ancora, e cioè: Come resistere alle “nuove indigeneizzazioni”? Come agire, per una “decolonizzazione del settler colonialism” e cioè “Kill the Settler in Him and Save the Man” (Veracini 2017a)? Come non separare in nazionalismi settari e fratricidi le popolazioni native, ma riunirle in una lotta comune contro il potere distruttivo del capitalismo estrattivista globale?
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Arendt, Hannah. 1986. Ebraismo e modernità. Milano: Feltrinelli. Balibar, Étienne. 2004. “Universalité de la cause palestinienne”. Le Monde diplomatique. Bartolomei, Enrico, Diana Carminati e Alfredo Tradardi. 2015. Gaza e l’industria israeliana della violenza. Roma: DeriveApprodi. Buck, Peter. 1973. “Introduction”. In Israel: A Colonial Settler State?, a cura di Maxime Rodinson, 9–27. New York: Monad Press. Churchill, Ward. 2004. Kill the Indian, Save the Man. The Genocidal Impact of American Indian Residential Schools. San Francisco: City Lights. Collins, John. 2011a. Global Palestine. Oxford: Oxford University Press. Collins, John. 2011b. “Más allá del “conflicto”: Palestina y las estructuras profundas de la colonización global”. Política y Sociedad 48 (1): 139–154. Comaroff, Jean, e John Comaroff. 2011. Theory from the South: Or, How Euro-America is Evolving Toward Africa. London: Taylor Francis. 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NOTE
1 Questo campo di studi è stato oggetto di critiche e preoccupazioni sulla possibilità che nelle ricerche si potessero lasciare da parte,
emarginare gli studi transnazionali sugli indigeni. Gli studi di Settler
Colonialism, afferma Veracini, non vogliono privilegiare il soggetto
settler ed escludere il soggetto indigeno, né tentare una relazione
indigeno/non indigeno non sufficientemente analizzata.
2 Come descritto ampiamente da Marx per l’Inghilterra, nei secoli
precedenti tutto questo era avvenuto con le enclosures, l’espulsione
dei contadini poveri, la loro ricerca di lavoro, sia come proletari
sfruttati nelle città, e in seguito come coloni o lavoratori poveri nelle
colonie americane e in Australia.
3 Anche nel primo sionismo persiste il concetto di transfer
4 Si veda anche la nota su Charles W. Mills (Piterberg e Veracini
2005: 464) e, in epoca contemporanea, la legge israeliana del 1950
della Law of Absentees’ Property
5 Si veda lunga citazione di Marx sul fallimento del progetto di
Wakefield in Piterberg e Veracini (2005: ), 476
6 Sayegh lavora anche all’ONU. Ed è esponente dell’OLP negli
anni ’70. Fonda nel 1965 il Palestinian Research Centre. Negli
anni ’60-’70 Beirut era divenuta un centro importante per gli studiosi
palestinesi.
7 Così scrive Claude Klein, ebreo francese, giurista, emigrato in
Israele e docente alla Hebrew University di Gerusalemme, nella
prefazione francese a Lo Stato degli ebrei.
8 The proposal by Syrkin in 1898 for the transfer of Arabs from Palestine, seems to be the first published scheme of this kind. Although
Herzl had put forward his plans for the removal of the indigenous
population from the Jewish State, three years earlier, his proposals
were made in his private diary, and it was not until three decades later
that this was published. (Simons 2021; (Masalha 1992))
9 Scritto nel 1946, ma con riferimento agli anni 1938-46
10 Questa struttura mentale di gran parte dei coloni ebrei in Palestina (Pappé 2017), divenne linea politica sempre più dura soprattutto
dopo l’occupazione israeliana del 1967, con un’ altra pulizia etnica di
circa 400.000 palestinesi e immigrazione in Israele di coloni religiosi
ortodossi, approfondendo le discriminazioni. Seguiranno questa linea
politica i governi conservatori di Menachem Begin (1978) e successivi, ma anche quelli della sinistra, ad esempio, di Rabin nei primi
anni ‘90. Si veda anche il documento di Oded Ynon, del 1982 sulla
frammentazione del Medio Oriente.
11 Si veda anche il ritorno allo sfruttamento schiavistico della manodopera palestinese nelle Special Economic Zones nelle colonie
israeliane in Cisgiordania, nella Valle del Giordano, nelle zone vicine
alla frontiera giordana, studiate da Adam Haniyeh, Leila Farsakh e
altri economisti del gruppo di Al-Shabaka.
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Ieri sera Hezbollah ha effettuato un altro attacco su larga scala contro Israele, presentato come “rappresaglia” per la morte del comandante Fouad Shukr. Si è verificato il solito: Il cielo notturno di Israele è fiorito di costellazioni di razzi Iron Dome e i cittadini in preda al panico hanno affollato gli aeroporti per fuggire dal Paese.
Israele ha affermato di aver condotto un grande attacco preventivo che ha distrutto gran parte dello stock di razzi di Hezbollah prima che venisse utilizzato.
Un’imbarcazione IDF di classe Dvora è stata colpita da quello che sembrava essere un missile guidato di Hezbollah al largo della costa di Nahariya, nel nord di Israele, e almeno un membro dell’equipaggio è rimasto ucciso:
La cosa più notevole è che ci stiamo avvicinando all’anniversario di un anno, questo ottobre, dell’inizio della guerra di Israele contro Gaza, e ancora Israele non è stato in grado di sconfiggere completamente una piccola forza di Hamas. La Russia viene criticata per aver impiegato più di due anni per sconfiggere la più grande forza militare d’Europa, mentre il Paese che in passato era stato definito “l’esercito più avanzato del mondo” non riesce a sconfiggere una minuscola forza di guerriglia in un anno.
Questo fatto è confermato da molte fonti ufficiali:
Israele ha ottenuto tutto ciò che poteva militarmente a Gaza, secondo gli alti funzionari americani, che dicono che i continui bombardamenti stanno solo aumentando i rischi per i civili mentre la possibilità di indebolire ulteriormente Hamas è diminuita.
… un numero crescente di funzionari della sicurezza nazionale in tutto il governo ha affermato che l’esercito israeliano ha fortemente indebolito Hamas, ma non sarà mai in grado di eliminare completamente il gruppo .
Inoltre:
Le ultime operazioni militari di Israele sono state una sorta di strategia “Whac-a-Mole” agli occhi degli analisti americani. Mentre Israele sviluppa informazioni su un potenziale raggruppamento di combattenti di Hamas, le Forze di Difesa Israeliane si sono mosse per inseguirli.
Le Forze di Difesa Israeliane hanno continuato ad ammettere che la rete di tunnel di Hamas si è rivelata molto più vasta e più forte di quanto previsto da Israele e che, sebbene molti tunnel siano stati danneggiati, molti rimangono illesi e Hamas continua ad operare.
Attuali ed ex funzionari del Pentagono lamentano che Israele non ha ancora dimostrato di poter mettere in sicurezza tutte le aree di Gaza che ha conquistato, soprattutto dopo che le sue forze si saranno ritirate.
Ma un recente articolo della CNNrifiuta anche le modeste affermazioni di successo israeliano riportate sopra:
Netanyahu, che deve far fronte a crescenti pressioni internazionali per accettare un accordo per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi a Gaza, ha ripetutamente affermato che le forze israeliane si stanno avvicinando all’obiettivo dichiarato di eliminare Hamas e distruggere le sue capacità militari. Il 24 luglio, rivolgendosi a una riunione congiunta del Congresso, ha dichiarato: “La vittoria è in vista”.
Ma le analisi forensi delle operazioni militari di Hamas da quando ha condotto gli attacchi contro Israele il 7 ottobre, che si basano su dichiarazioni militari israeliane e di Hamas, filmati dal terreno e interviste con esperti e testimoni oculari, mettono in dubbio le sue affermazioni.
Nonostante il suo leader sia stato assassinato e abbia subito tutti gli altri “colpi” che Israele ha dichiarato di aver inferto, Hamas, scrive la CNN, continua a tornare in auge:
Eppure, la ricerca, che copre le attività di Hamas fino a luglio, mostra che il gruppo sembra aver fatto un uso efficace delle risorse in calo sul terreno. Diverse unità sono tornate in auge in aree chiave sgomberate dall’esercito israeliano dopo battaglie campali e intensi bombardamenti, secondo le nuove analisi, recuperando i resti dei loro battaglioni nel disperato tentativo di rimpolpare i loro ranghi.
In modo sorprendente, la CNN afferma che l’ala militare di Hamas, Al-Qassam, aveva 24 battaglioni pronti per la battaglia, e che l’IDF ha degradato solo un minuscolo 3 di essi:
L’ala militare di Hamas, nota come Brigate Qassam, è divisa in 24 battaglioni sparsi su tutto il territorio, secondo l’esercito israeliano.
Un anno di “forza militare più avanzata del mondo”, e riescono a degradare solo 3 battaglioni nemici? Nel frattempo, la Russia distrugge tanti battaglioni ucraini in alcuni giorni.
La Commissione chiarisce che 8 dei 24 battaglioni sono considerati pienamente “efficaci in combattimento”, mentre i restanti 13 sono stati in qualche modo degradati, ma continuano a funzionare in modo più sporadico e guerrigliero. Ma ammettono che Hamas sta lavorando attivamente per ricostituire tutti i battaglioni degradati.
Mentre Israele ha naturalmente respinto questi risultati, i militari statunitensi continuano a ribattere:
“Se i battaglioni di Hamas fossero stati in gran parte distrutti, le forze israeliane non starebbero ancora combattendo”, ha dichiarato il colonnello dell’esercito americano in pensione Peter Mansoor, che ha contribuito a supervisionare il dispiegamento di ulteriori 30.000 truppe statunitensi in Iraq nel 2007 – una strategia di controinsurrezione nota come “surge”.
“Il fatto che siano ancora a Gaza, cercando di eliminare elementi dei battaglioni di Hamas, mi dimostra che il Primo Ministro Netanyahu si sbaglia”, ha aggiunto. “La capacità di Hamas di ricostituire le sue forze combattenti non è diminuita”.
L’articolo cita civili palestinesi in fuga dal nord di Gaza, che hanno affermato che Hamas è più forte che mai e sta attivamente ricostruendo le proprie forze.
“Abbiamo iniziato a notare una rinascita di Hamas meno di una settimana dopo il ritiro di Israele dal nord di Gaza, a gennaio”, ha dichiarato Carter del CTP. “Abbiamo visto questo effetto continuare in tutta la Striscia… Questo è stato il processo di definizione dei battaglioni di Hamas”.
Un “soldato israeliano di alto rango” ha dichiarato alla CNN che le dichiarazioni di Hamas sulla ricostruzione sono vere e che hanno reclutato “migliaia” di nuovi membri negli ultimi mesi.
L’esperto Robert Pape ha dichiarato alla CNN che le azioni di Israele stanno solo rendendo Hamas più forte:
“Israele sta generando esattamente il tipo di rabbia politica aggiuntiva, il dolore aggiuntivo, l’emozione aggiuntiva che porterà altre persone a diventare combattenti”, ha detto Pape.
“L’effettivo potere strategico di Hamas sta crescendo”, ha detto. “Il potere di Hamas sta nel suo potere di reclutamento”.
In sostanza, riflette la tipica arroganza dell’Impero, che oggi si vede così spesso in tutto il mondo:
La cosa più notevole è che molti credono sempre più che la situazione stia portando alla dissoluzione finale di Israele. In un certo senso, si può sostenere che Netanyahu e il suo clan razzista di destra stiano deliberatamente favorendo un rinnovamento di Hamas, perché il loro piano B è quello di usare lo spettro di Hamas come scusa per continuare a devastare Gaza all’infinito finché tutti i palestinesi non saranno epurati, in un modo o nell’altro. Sarebbe uno scenario vantaggioso per Israele, se non fosse che la stessa società israeliana sta affrontando pressioni estreme a causa delle tensioni in corso.
Nell’articolo della CNN sopra riportato, un ufficiale israeliano di alto rango afferma:
In effetti, sempre più osservatori ritengono che Israele sia in una sorta di “spirale di morte”:
Mentre il generale israeliano Yitzhak Brik ha lanciato una sfera bomba l’altro giorno su Haaretz, dichiarando che Israele crollerà in meno di un anno:
Yitzhak Barik è stato definito “il profeta dell’ira” in Israele per aver previsto con precisione l’operazione Al-Aqsa Flood. Ora, in un editoriale per Haaretz, accusa il governo israeliano di “gettare polvere negli occhi” del pubblico mentendo sulla distruzione di Hamas.
Presumo che il Ministro della Difesa Gallant abbia già capito che la guerra ha perso il suo scopo. Israele sta affondando sempre di più nel fango gazanese, perdendo sempre più soldati che vengono uccisi o feriti, senza alcuna possibilità di raggiungere l’obiettivo principale della guerra: abbattere Hamas.
Il Paese sta davvero galoppando verso l’orlo di un abisso. Se la guerra di logoramento contro Hamas e Hezbollah continuerà, Israele collasserà entro un anno al massimo.
Cita la dissoluzione e la polarizzazione della società israeliana, le perdite economiche e il lento declino di Israele verso lo status di Stato paria. Afferma inoltre che Sinwar, il nuovo leader di Hamas, comprende la situazione e la sta deliberatamente trascinando per dissanguare ulteriormente Israele come nazione; in breve: “la guerra di logoramento sta funzionando a suo favore”.
Risparmia le sue condanne più gravi per Netanyahu stesso:
Netanyahu ha deciso di “morire con i Filistei” – in questo caso, i cittadini di Israele – solo per mantenere il suo potere.
Ha perso la sua umanità, la moralità di base, le norme, i valori e la responsabilità per la sicurezza di Israele. Solo sostituendo lui e i suoi compari al più presto si può salvare il Paese. Israele è entrato in una spirale esistenziale e potrebbe presto raggiungere un punto di non ritorno.
Conclude:
Ha ragione su quanto i leader israeliani siano diventati assolutamente feroci nella loro frustrazione per la comunità mondiale che non appoggia il terrore crudele e malvagio di Israele. Basti vedere il recente video dei commenti dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan dalla sua auto, mentre lascia la sede delle Nazioni Unite a New York:
Anche se il video appare doppiato, le sue parole sono state confermate da molti organi di informazione, tra cui il Jerusalem Post.
Ora, Haaretz riferisce anche di una lettera inviata dal capo dello Shin Bet Ronen Bar a Netanyahu e al Ministro della Difesa Gallant, in cui si afferma che il “terrore ebraico” sta ora minacciando l’esistenza stessa dello Stato di Israele.
Il capo dello Shin Bet israeliano, Ronen Bar, ha dichiarato in una lettera a Netanyahu, Gallant e altri ministri, pubblicata da Channel 12, che il “terrore ebraico” dei coloni in Cisgiordania e le incursioni di Ben Gvir nella Moschea di Al-Aqsa stanno causando “danni indescrivibili a Israele”.
In risposta ai suoi avvertimenti sul terrore dei coloni in Cisgiordania, Ben Gvir avrebbe chiesto il licenziamento di Ronen Bar e si sarebbe ritirato dalla riunione dei ministri, secondo la stazione radio dell’esercito israeliano.
I due scrivono poi del terrore sfrenato dei coloni ebrei in Cisgiordania:
In qualsiasi Paese normale, non ci sarebbero esitazioni nel fare la cosa giusta. Eliminerebbero la destra radicale dal governo e darebbero istruzioni ai servizi di sicurezza di trattare il terrore ebraico con la stessa gravità con cui trattano il terrore palestinese.
Ma finché il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich rimarranno al governo, sarà impossibile combattere il terrorismo ebraico. Finché il primo sarà a capo della polizia e il secondo dei territori occupati, il terrore ebraico saprà di avere l’appoggio di autorità superiori.
Se Israele continuerà a negare l’amara verità che un’erba selvatica ebraica cresciuta nei territori è ora fuori controllo, il terrore ebraico farà crollare Israele. Il fenomeno della “gioventù delle colline” si è da tempo trasformato in una piattaforma per commettere violenze contro i palestinesi”, ha scritto Bar.
In sostanza, quello che stanno dicendo è che Israele è ora apertamente governato da estremisti radicali che stanno trascinando l’intero Paese con loro. Le teste più sane in Israele chiedono un governo più moderato che riconosca che il terrore sfrenato e il genocidio non sono una strategia vincente a lungo termine. Purtroppo, i tipi Netanyahu, Ben-Givir e Smotrich sono troppo radicati in cima alla piramide del governo. Dopo tutto, alcuni di loro, come Ben-Givir, sono apertamente kahanisti, un’ideologia apertamente razzista che considera tutti gli arabi come nemici e lavora per privarli di qualsiasi diritto all’interno di Israele.
Vedo che le persone continuano a riferirsi a Israele come “il più grande alleato dell’America”, ma non riescono a nominare una sola cosa che Israele offra all’America come “alleato”.
Quando vengono sollecitati a nominare qualcosa, dimostrano la loro incapacità di distinguere tra un “alleato” e un “interesse”. Se si chiede loro di citare una cosa che Israele porta agli Stati Uniti, rispondono con cose del tipo:
“Un avamposto sicuro per la proiezione di potenza in Medio Oriente”.
Questo si chiama interesse: Israele facilita la protezione degli interessi imperiali americani in Medio Oriente, il che rende Israele stesso un interesse geostrategico americano, non un alleato.
Inoltre, si considera la mancata reazione dell’Iran all’assassinio di Haniyeh sul proprio territorio come debolezza o codardia. Ho espresso il mio parere che si tratta di una mossa intelligente: l’Iran vede che Israele sta lentamente soffocando a causa della pressione. Centinaia di migliaia di agricoltori e cittadini israeliani del nord sono fuggiti, molti dei quali hanno dichiarato apertamente che non torneranno mai più. L’economia israeliana è in caduta libera: il suo unico porto sul Mar Rosso, Eilat, è stato completamente chiuso per mesi e l’operatore portuale ha annunciato il licenziamento della maggior parte dei lavoratori.
Il 7 luglio 2024, l’amministratore delegato del porto ha dichiarato alla Commissione per gli Affari Economici della Knesset che negli ultimi otto mesi non c’è stata alcuna attività al porto e che stava chiedendo assistenza finanziaria. In seguito l’amministratore delegato ha dichiarato: “Bisogna riconoscere che il porto è in stato di fallimento”.
Si continuano a sfornare analisi che annunciano la fine dell’economia israeliana:
Gli indicatori economici parlano di una vera e propria catastrofe economica. Oltre 46.000 imprese sono fallite, il turismo si è fermato, il rating di Israele è stato abbassato, le obbligazioni israeliane sono vendute a prezzi quasi da “titoli spazzatura” e gli investimenti esteri, già scesi del 60% nel primo trimestre del 2023 (a causa delle politiche del governo di estrema destra israeliano prima del 7 ottobre), non mostrano prospettive di ripresa. La maggior parte del denaro investito nei fondi di investimento israeliani è stato dirottato verso investimenti all’estero perché gli israeliani non vogliono che i propri fondi pensione e assicurativi o i propri risparmi siano legati al destino dello Stato di Israele. Questo ha causato una sorprendente stabilità nel mercato azionario israeliano, perché i fondi investiti in azioni e obbligazioni estere hanno generato profitti in valuta estera, moltiplicati dall’aumento del tasso di cambio tra le valute estere e lo Shekel israeliano. Ma poi Intel ha annullato un piano di investimenti da 25 miliardi di dollari in Israele, la più grande vittoria del BDS.
È difficile indovinare il futuro senza esagerare con il recency bias, ma come si legge nell’articolo qui sopra, molti personaggi hanno ormai proclamato che l’era del sionismo stesso è giunta al termine, e un lento deflusso da Israele, una sorta di anti-Aliyah, continuerà a verificarsi fino a quando Israele stesso non cadrà a pezzi e si dissolverà.
Ho già dichiarato in passato che vedo la fine di Israele simile a quella dell’ex Rhodesia. L’unica possibilità di salvezza potrebbe essere che Trump vinca la presidenza e riesca a “salvare” Israele negoziando un qualche accordo, il che porterebbe alla fine a far uscire allo scoperto alcuni dei radicali, e allora Israele continuerebbe probabilmente a zoppicare per un bel po’ di tempo. Ma il Paese sarebbe molto indebolito a livello internazionale, poiché il danno d’immagine ha gravemente compromesso le prospettive future di Israele.
Inoltre, l’ascesa dei BRICS e del Sud globale in generale significa che l’Iran e altri Paesi avversari continueranno a guadagnare potere e ascendente, mentre gli alleati di Israele sono costantemente indeboliti sulla scena mondiale. Recentemente è stato dichiarato che persino bin Salman dell’Arabia Saudita è stato minacciato di assassinio a causa dei discorsi sulla sua riconciliazione con Israele, a dimostrazione del fatto che le tendenze si sono rivolte contro Israele nella regione.
Ho già detto in precedenza che Netanyahu e Zelensky sono due uccelli di una stessa piuma con gli stessi obiettivi disperati: devono trascinare gli Stati Uniti in una guerra globale più ampia per salvare i loro regimi e il loro Paese. Ma quello che non sanno è che sono condannati sia che ciò accada sia che non accada. Questo perché gli Stati Uniti non hanno il potere di vincere una guerra più ampia contro nessuno dei due avversari, e sia l’Ucraina che Israele sarebbero condannati al loro destino, con gli Stati Uniti che si sacrificherebbero nel processo.
È molto probabile che entro il 2050-2075 Israele faccia la fine della Rhodesia, o almeno che non esista più nella sua forma attuale. L’unica cosa che potrebbe salvarlo, o almeno fargli guadagnare tempo, è l’unica cosa che la sua leadership non permetterà mai: una soluzione a due stati.
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Oltre a sconvolgere il partner algerino sostenendo la giunta di Bamako nel suo tentativo di mettere alle strette i tuareg maliani, la Russia ha appena scoperto tragicamente la “complessità” della questione del Sahel. Tra giovedì 25 e sabato 27 luglio, nella regione di Tinzawaten, vicino al confine tra Algeria e Mali, una colonna dell’esercito maliano accompagnata da mercenari russi è stata annientata dai combattenti tuareg. Era chiaro che, dopo l’umiliazione della caduta della loro roccaforte di Kidal lo scorso novembre, i combattenti del Quadro Strategico Permanente per la Difesa del Popolo dell’Azawad (CSP-DPA), il nuovo nome della coalizione armata tuareg e moresca, avrebbero contrattaccato. Sebbene sia difficile fornire un bilancio definitivo delle vittime, i video ampiamente diffusi suggeriscono che sono stati uccisi forse una dozzina di russi, tra cui il comandante del settore settentrionale, oltre a diverse decine di soldati maliani. Dopo un arrivo trionfale, reso possibile solo dalla somma degli errori politici della Francia, i russi hanno scelto l’opzione peggiore di tutte: aiutare il Mali meridionale a conquistare il Mali settentrionale, in altre parole, tornare alla situazione esistente prima del 2011, quando è iniziata la guerra. La Russia ha quindi appena scoperto che nel Sahel qualsiasi soluzione approfondita richiede che si tenga conto delle realtà locali… cosa che la Francia si è rifiutata di fare e che spiega il suo fallimento. La radice del problema, la cui genesi spiego nel mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours (Storia del Sahel dalle origini ai giorni nostri), è che insistere sul fatto che i contadini neri sedentari del sud e i berberi nomadi o gli arabi del nord vivano nello stesso Stato è un’utopia che crea tensioni, poiché l’etnomatematica elettorale dà automaticamente il potere ai più numerosi, in questo caso i neri del sud, cosa che i settentrionali non possono accettare. Come nuovo arrivato nella regione, la Russia non ha capito che l’unica via d’uscita dalla crisi è riconoscere una realtà che spiega tutto, ovvero che un Mali “unitario” non è mai esistito – e che quindi è urgente pensare a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale. Qualsiasi altro approccio è destinato a fallire, e alla fine porterà alla coagulazione etnica attraverso un califfato islamico regionale… come è successo alla fine del XIX secolo… fino a quando la colonizzazione non ha liberato il popolo…
In Africa, tutto sembra andare a favore della Russia. Giorno dopo giorno, accumula un capitale di simpatia senza promettere sviluppo o democratizzazione, accontentandosi di affermare la propria non ingerenza negli affari interni e il riconoscimento della sovranità degli Stati africani. Dal 2018-2019 le relazioni della Russia con l’intero continente africano si sono intensificate, anche se tre Paesi – Egitto, Libia e Algeria – rappresentano ancora l’80% del fatturato del commercio estero russo con l’Africa. La base del successo della Russia in Africa è la cooperazione militare: Mosca ha firmato accordi di cooperazione tecnico-militare con 40 Stati africani. Il metodo russo è noto: i suoi rappresentanti propongono l’invio della milizia Wagner, ribattezzata Africa Corps, in Paesi in grave crisi di sicurezza, dove il governo centrale non controlla più ampie porzioni di territorio nazionale. È quello che è successo nella RCA e nel Mali, e che è attualmente in corso in Niger e Burkina Faso. Sconfortati dai successi di Mosca, alcuni osservatori parlano di una “politica delle iene”, con la Russia che si comporta, a loro avviso, come uno Stato “divoratore di carogne” che offre aiuti a Stati la cui situazione militare è disperata. Forse, ma i risultati ci sono, almeno per il momento, perché la Russia ha estromesso sia i francesi che gli americani dalla fascia sahelo-sahariana… In realtà, questa presentazione negativa serve ancora una volta a cercare di scagionare i leader “occidentali” dai loro errori. Infatti, anche se la politica della Russia in Africa non è chiaramente guidata dall’altruismo, ci si potrebbe chiedere se lo sia stata quella dell'”Occidente”. Il realismo dovrebbe portare gli osservatori a porsi un’unica domanda: siamo di fronte a una realtà di lungo periodo o siamo in presenza di una sorta di “tutto nuovo, tutto bello”? È a queste domande che è dedicato il presente dossier.
IL GRANDE RITORNO DELLA RUSSIA
Dal 2009, dopo due decenni di assenza, dalla Libia alla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso al Mozambico, dal Niger al Sudan e al Mali, la Russia ha fatto il suo ritorno in Africa.
Stretta nel cerchio ostile che la NATO sta chiudendo ogni giorno di più intorno a sé, la Russia ha deciso di rompere il proprio isolamento definendo una propria politica africana, ponendosi al centro delle vere strutture di potere e di influenza, ovvero le forze armate, e fornendo loro gli equipaggiamenti e i tecnici responsabili dell’addestramento e della manutenzione. Nel 2018, attraverso Rosoboronexport, la Russia è diventata il principale fornitore di armi all’Africa e sono stati firmati accordi militari con tre quarti dei Paesi africani. La Russia ha inoltre firmato accordi di estrema importanza con il Mozambico, che prevedono il “libero ingresso” delle navi militari russe nei porti del Paese. Mosca ha ora una base nell’Oceano Indiano, che garantisce alla sua flotta una presenza diretta sulle principali rotte di rifornimento petrolifero dell’Europa, ed è in fase di finalizzazione un accordo per la cessione di un porto del Mar Rosso da parte del Sudan (si veda più avanti nella recensione). La Russia ha stabilito o ristabilito relazioni diplomatiche con tutti i Paesi africani e nel 2019, 2022 e 2023 si sono tenuti diversi vertici Russia-Africa, l’ultimo dei quali ha riunito a San Pietroburgo 49 Paesi africani, 17 dei quali rappresentati dai rispettivi capi di Stato. In ogni occasione, Vladimir Putin ha confermato il ritorno della Russia in Africa, ribadendo tre idee che fanno la differenza con l’approccio occidentale: 1) la Russia non viene in Africa per saccheggiare il continente, essendo essa stessa ricca di risorse minerarie; 2) non ha un passato coloniale; al contrario, in passato l’URSS ha aiutato le lotte di liberazione; 3) non viene a dare lezioni morali agli africani. Non viene nemmeno a imporre loro diktat politici o economici, né le “singolarità” sociali promosse dall’ideologia LGBT o dalla “teoria del gender”. In questo modo, Vladimir Putin ha preso la strada opposta alla politica imposta da François Mitterrand nel 1990 a La Baule, una politica che ha provocato una crisi senza fine nel continente instaurando un disordine democratico duraturo. Per la Russia, nessuno sviluppo è possibile senza stabilità, il che significa sostenere regimi forti, e quindi eserciti… e non il cosiddetto “buon governo”. La Russia ha capito chiaramente che non ha senso imbarcarsi in questi progetti grandiosi e costosi in cui solo gli europei credono o fingono di credere.
TRA ALGERIA E MALI, LA RUSSIA DEVE SCEGLIERE
In Mali, le scelte politiche della Russia si scontrano con le priorità di sicurezza dell’Algeria. Eppure l’Algeria è il principale partner di Mosca nel Maghreb. Quanto all’esercito algerino, dipende dagli armamenti russi…
In Mali, ma anche in Libia [1] , gli interessi della Russia e dell’Algeria sono contrapposti. Fino alle ultime settimane, la questione era stata discretamente taciuta, ma il 2 maggio 2024 la diplomazia algerina ha rotto il tabù quando il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf, ha detto chiaramente al suo omologo russo, Sergei Lavrov, che la politica del suo Paese nel Sahel e in Libia era contraria ai suoi interessi. Sentito il messaggio, i russi hanno deciso di cercare di appianare le divergenze. La domanda è: come può Algeri continuare a essere un alleato strategico di Mosca quando i suoi interessi sono minacciati dalla politica russa? Basta uno sguardo alla mappa per capire che la questione sahelo-sahariana riguarda direttamente l’Algeria. I Tuareg, nomadi berberi che in passato non sono mai stati dipendenti da Stati regionali, vivono nelle vaste distese del Sahara che la Francia ha donato loro nel 1962. I Tuareg algerini appartengono a tre confederazioni, di cui solo una, l’Hoggar, ha il suo territorio, cioè le sue ex aree nomadi, interamente in Algeria. Non è così per i Kel Adrar (gli Ifora), che si estendono oltre l’attuale Algeria fino a coprire tutto il nord dell’attuale Mali, e per i Kel Ajjer, il cui territorio si trova in parte in Libia. Separati dai loro fratelli algerini, i Tuareg libici si sono divisi in tre gruppi (Oubari, Ghat e Targa).
L’Algeria segue gelosamente tutto ciò che accade nella zona saharo-saheliana perché, per essa, la logica del caos che vi sviluppa i centri di instabilità è una minaccia diretta alla sua stabilità e sicurezza. Tanto più che nel 2003, braccati dalle forze di sicurezza algerine, alcuni gruppi islamisti hanno trovato rifugio nel Sahara, nella zona tuareg. Nel 2007 si sono affiliati ad “Al-Qaida nel Maghreb islamico” (AQIM), un movimento nato dal GSPC (Groupe Salafiste pour la Prédication et le Combat) fondato in Algeria nel 1998. L’Algeria è impegnata nella regione fin dall’indipendenza. Nel 1963-1964, durante la prima guerra tuareg in Mali, il presidente Ben Bella autorizzò l’esercito maliano a inseguire i ribelli tuareg del Mali fino a 200 km all’interno del territorio algerino, cioè fino ai limiti settentrionali del Kel Adrar. Nel gennaio 1991, durante la seconda guerra tuareg in Mali, l’Algeria ha organizzato i negoziati tra il generale Moussa Traoré e il MPA (Mouvement populaire de l’Azawad) di Iyad ag Ghali, che hanno portato alla firma dell’Accordo di Tamanrasset del 5-6 gennaio 1991. Questa mediazione portò alla firma del Patto Nazionale l’11 aprile 1992, ma la pace non tornò, poiché il nord del Mali si trasformò gradualmente in una “zona grigia” in cui si rifugiarono i sopravvissuti del maquis jihadista algerino, collegandosi a trafficanti di ogni tipo e ad alcuni irriducibili della causa tuareg.
Il 23 maggio 2006 è scoppiata la terza guerra tuareg del Mali. Ancora una volta è stata l’Algeria a facilitare la firma degli Accordi di Algeri per il ripristino della pace e dello sviluppo nella regione di Kidal. Questi accordi sono stati firmati il 4 luglio 2006 tra l’Alliance démocratique du 23 mai pour le changement (ADC), movimento fondato da Iyad Ag Ghali, Ibrahim Ag Bahanga e dal tenente colonnello Hassan Ag Fagaga, e il governo maliano. La quarta guerra tuareg (2007-2009) è scoppiata l’11 maggio 2007, su iniziativa di Ibrahim Ag Bahanga, che aveva ripreso le armi. Ferito in combattimento, è stato curato in Algeria. Nel settembre 2007, si è staccato dall’ADC per fondare l’Alliance Touareg du Nord-Mali pour le changement (ATNMC) [2]. È seguito un apparente ritorno alla calma, che è durato fino al 2012, quando è scoppiata l’ultima guerra. E ancora una volta, l’Algeria era lì per cercare di porvi fine. Il 15 maggio 2015 è stato firmato l’Accordo di pace e riconciliazione di Algeri, ma le armi hanno continuato a parlare, poiché le autorità di Bamako si sono rifiutate di prendere veramente in considerazione le richieste dell’MNLA Tuareg. Poiché questi accordi non affrontavano i problemi fondamentali, ossia la questione della condivisione del potere tra Nord e Sud, congelavano solo temporaneamente gli antagonismi. Tuttavia, la partenza delle forze francesi da Barkhane ebbe l’effetto di scongelare la questione. Con l’aiuto di Wagner e poi dell’Africa Corps, i sudisti al potere a Bamako hanno avviato una riconquista del nord del Mali, conquistando la città di Kidal dopo che la giunta maliana aveva dichiarato di abbandonare l’accordo di pace di Algeri, firmato nel 2015 tra il governo di Bamako e i gruppi ribelli del Coordination des mouvements de l’Azawad. Di fronte a questa sconfitta, le varie fazioni del Coordinamento dei movimenti dell’Azawad si sono riorganizzate con l’appoggio di Algeri e, il 2 maggio 2024, hanno dato vita a una nuova coalizione, il Cadre stratégique permanent pour la défense du peuple de l’Azawad (CSP-DPA). D’ora in poi, con gli interessi contrastanti di Algeri e Mosca chiaramente esposti, la Russia dovrà fare una scelta. Poiché è difficile per la Russia tagliarsi fuori dall’Algeria, potrebbe scegliere di frenare l’ardore dei suoi alleati nella giunta maliana. Ma in questo caso, nasceranno delusioni che getteranno una nuvola sulla “luna di miele” tra Bamako e Mosca…
1-[Anche in Libia gli interessi di Algeri si scontrano con la politica della Russia. Anche in questo caso, il problema è chiaro: l’Algeria rifiuta la presenza di membri dell’Africa Corps che combattono a fianco del maresciallo Khalifa Haftar, il sovrano della Cirenaica, la cui ostilità nei confronti dell’Algeria è forte.
Sostenuto dalla Russia e non dagli Emirati Arabi Uniti, il comandante in capo dell’Esercito Nazionale Libico sta sfidando la legittimità del governo di Tripoli, sostenuto da Algeri.
SUDAN: LA RUSSIA COSTRETTA A CAMBIARE SCHIERAMENTO
Il Sudan è un alleato tradizionale, un tempo dell’URSS, oggi della Russia. Ma nell’aprile 2023 è scoppiata la guerra civile tra le Forze armate sudanesi (SAF) guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhane e la Forza di sostegno rapido (RSF) guidata da Mohamad Hamdane Dagalo, alias Hemedti. La Russia si trovò così stretta tra i due belligeranti e fu costretta a cambiare radicalmente la propria posizione.
Allo scoppio della guerra civile, la Russia era dalla parte di Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti”. Tuttavia, al di là del conflitto tra due generali, l’attuale guerra civile sudanese contrappone due grandi gruppi etnici. Da un lato, i nubiani che vivono lungo il Nilo, che costituiscono la spina dorsale del Paese e controllano l’esercito sotto il generale Abdel Fattah al-Burhane. Nel 2018, il presidente Omar Hassan al-Bashir ha firmato un accordo segreto con la Russia per stabilire una base militare a Port Sudan, sul Mar Rosso. Da quel momento gli Stati Uniti hanno iniziato a sovvertire il suo regime e nel 2019, proprio mentre stava per festeggiare i suoi tre decenni di potere e candidarsi per un nuovo mandato presidenziale, la protesta si è trasformata in rivoluzione. Nell’agosto 2019 l’esercito, che non voleva affrontare direttamente le folle, ha acconsentito alla partenza di Omar Hassan al-Bashir. Questo accordo di condivisione del potere tra il cosiddetto Consiglio militare di transizione e l’Alleanza per la libertà e il cambiamento, una miriade eterogenea di gruppi politici e ONG, non era altro che una costruzione artificiale. Così, nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 2021, il generale Abdel Fattah al-Burhane ha preso il potere, che già esercitava in larga misura attraverso il Consiglio di sovranità.
In seguito a questo colpo di Stato, forti manifestazioni di protesta scossero Khartoum e la RSF svolse un ruolo chiave nella loro feroce repressione. Poi, il 15 aprile 2023, è scoppiata la guerra civile tra il numero due del regime, Mohamed Hamdane Dagalo, detto “Hemedti”, capo delle Forze di sostegno rapido (Rsf), e l’esercito regolare fedele al generale Abdel Fattah al-Burhane, al potere dal colpo di Stato dell’ottobre 2021. Mosca si è trovata di fronte a una situazione complessa. Inizialmente, scommettendo sulla vittoria dell’Rsf, la Russia, che ha legami di lunga data con le Forze armate sudanesi (SAF), ha sostenuto l’Rsf, che controlla i giacimenti d’oro in Darfur e i confini con il Ciad e la Libia, attraverso i quali passano il contrabbando e il flusso di cercatori di fortuna verso l’Europa. Il sostegno al generale ribelle Hemedti ha creato ostacoli alla creazione di una base russa a Port Sudan, sul Mar Rosso. La morte di Prigozhin ha permesso alla Russia di cambiare politica, abbandonando la Rsf e sostenendo la Rsf. Questo riallineamento avvicinerà Mosca alla linea di Teheran nella regione. Dalla fine del 2023, infatti, l’Iran ha rafforzato le sue relazioni bilaterali con il SAF, in particolare attraverso la fornitura di armi e droni. A fine aprile 2024, durante una visita a Port Sudan, l’inviato speciale della Russia per il Medio Oriente e l’Africa, il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov, ha dichiarato che la Russia riconosceva il Consiglio di Sovranità Transitorio (TSC) guidato dal SAF come “legittimo rappresentante del popolo sudanese”. In seguito, la Russia si è impegnata a sostenere militarmente il SAF, facendo rivivere il progetto di una base navale permanente sul Mar Rosso. A dimostrazione dell’importanza del Sudan per la Russia, il ministro degli Esteri russo Sergueï Lavrov, nel 2023-2024, ha visitato il Paese due volte.
Somalia-Etiopia, un precedente cambio di campo da parte di Mosca
Nel 1969 sale al potere il capo dell’esercito somalo, il generale Siyad Barre, che, nel tentativo di superare il tribalismo che stava ipotecando il futuro del Paese, trova un diversivo nel nazionalismo pan-somalo, che prevede un conflitto con l’Etiopia per strappare a quest’ultima la regione dell’Ogaden, popolata da somali. L’URSS, che cercava di destabilizzare l’Etiopia, Paese alleato degli Stati Uniti, capì di avere un’opportunità in questo senso e diede alla Somalia i mezzi per attuare la sua politica fornendo equipaggiamenti militari. La Somalia, fino ad allora filo-occidentale, si rivolse al blocco sovietico e nel 1977, grazie alle armi fornite, il generale Siyad Barre lanciò il suo esercito nella guerra nella regione dell’Ogaden. Inizialmente l’esercito etiope fu spazzato via, ma ad Addis Abeba il colonnello Mengistu Haile Mariam, che aveva preso il potere, era marxista. Mosca si rese conto che era meglio ancorare la sua presenza regionale in un vecchio Stato, l’Etiopia, piuttosto che in Somalia, uno Stato in via di formazione, così l’URSS invertì le sue alleanze e abbandonò Mogadiscio a favore di Addis Abeba. L’offensiva somala nell’Ogaden fu quindi bloccata dalle forze etiopi, grazie al sostegno fornito senza la minima remora dall’URSS, che abbandonò la Somalia nel bel mezzo della battaglia.
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C’è una risata come quella delle fontane in quel volto che tutti gli uomini temono,
agita l’oscurità della foresta, l’oscurità della sua barba,
arriccia la mezzaluna rosso sangue, la mezzaluna delle sue labbra,
Perché il mare più profondo di tutta la terra è scosso dalle sue navi.
Hanno sfidato le bianche repubbliche su per i promontori d’Italia,
Hanno spinto l’Adriatico intorno al Leone del Mare.
Così inizia la poesia di GK Chesterton Lepanto – un’ode alla colossale battaglia combattuta tra la marina ottomana e un’armata cristiana coalizzata al largo della Grecia nel 1571. .
Lepanto è una battaglia molto famosa, che ha un significato diverso per persone diverse. Per un devoto cattolico romano come Chesterton, Lepanto assume la forma romantica e cavalleresca di una crociata – una guerra della Lega Santa contro il turco predone. All’epoca in cui fu combattuta, a dire il vero, questo era il modo in cui molti della fazione cristiana pensavano alla loro battaglia. Chesterton, da parte sua, scrive che “il Papa ha gettato le sue armi per l’agonia e la perdita, e ha chiamato i re della cristianità per le spade sulla Croce”. .
Per gli storici, Lepanto è una sorta di requiem per il Mediterraneo. Collocata saldamente nella prima età moderna, combattuta tra le potenze cattoliche del mare interno e gli Ottomani, all’epoca sulla cresta dell’onda della loro ascesa imperiale, Lepanto segnò un epilogo culminante del lungo periodo della storia umana in cui il Mediterraneo era il perno del mondo occidentale. Le coste dell’Italia, della Grecia, del Levante e dell’Egitto – che per millenni erano state il terreno acquatico dell’impero – furono oggetto di un’altra grande battaglia prima che il mondo mediterraneo fosse definitivamente eclissato dall’ascesa di potenze atlantiche come quella francese e inglese. Per gli appassionati di storia militare, Lepanto è famosa per essere stata l’ultima grande battaglia europea in cui le galee – navi da guerra alimentate principalmente da rematori – hanno giocato un ruolo fondamentale.
C’è del vero in tutto questo. Le marine in guerra a Lepanto combatterono un tipo di battaglia che il Mediterraneo aveva già visto molte volte: linee di navi da guerra a remi che si scontravano da vicino in prossimità della costa. Un ammiraglio romano, greco o persiano poteva non capire i cannoni girevoli, gli archibugieri o i simboli religiosi delle flotte, ma da lontano avrebbe trovato intimamente familiari le lunghe linee di navi che spumeggiavano sulle acque con i loro remi. Questa fu l’ultima volta che una scena così grandiosa si sarebbe svolta sulle acque blu del mare interno; in seguito le acque sarebbero appartenute sempre più a velieri con cannoni a canna larga.
Lepanto è stata tutto questo: un simbolico scontro religioso, una ripresa finale dell’arcaico combattimento tra galee e l’epilogo dell’antico mondo mediterraneo. Raramente, tuttavia, viene pienamente compresa o apprezzata nei suoi termini più innati, ossia come un impegno militare ben pianificato e ben combattuto da entrambe le parti. Quando Lepanto viene discussa per le sue qualità militari, spogliata del suo significato religioso e storiografico, viene spesso liquidata come una vicenda sanguinosa, priva di immaginazione e primitiva – un’inutile battaglia (lo stereotipo della “battaglia terrestre in mare”) con un tipo di nave arcaica che era stata relegata all’obsolescenza dall’ascesa della vela e dei cannoni.
Vogliamo dare a Lepanto, e agli uomini che la combatterono, il giusto riconoscimento. L’uso continuato delle galee fino al XVI secolo non rifletteva una sorta di primitività tra le potenze del Mediterraneo, ma era invece una risposta intelligente e sensata alle particolari condizioni di guerra su quel mare. Mentre le galee sarebbero state abbandonate a favore dei velieri, a Lepanto rimasero potenti sistemi d’arma che si adattavano alle esigenze dei combattenti. Lungi dall’essere un’orgia di violenza insensata, Lepanto fu una battaglia caratterizzata da piani di battaglia intelligenti in cui sia il comando turco che quello cristiano cercarono di massimizzare i propri vantaggi. Lepanto fu davvero il canto del cigno di una forma molto antica di combattimento navale nel Mediterraneo, ma fu ben concepita e ben combattuta, e le flotte turche e cristiane resero giustizia a questa venerabile e antica forma di battaglia.
Languore medievale
La battaglia di Lepanto è stata combattuta nel 1571, mentre l’ultimo articolo di questa serie di saggi si è concluso con una considerazione sulla battaglia di Azio del 31 a.C.. L’osservatore attento potrebbe notare che tra questi due eventi è trascorso un periodo di tempo significativo e chiedersi se sia possibile che in questo lasso di tempo sia accaduto qualcosa di interessante. In effetti, tra il I e il XVI secolo dell’era comune accaddero molte cose, ma relativamente poche di queste furono quelle che potremmo definire battaglie navali.
Dopo la vittoria di Ottaviano nelle guerre civili romane, il Mediterraneo tornò a essere una zona interna pacificata dell’Impero romano, che per diversi secoli non rese necessarie grandi operazioni navali. Solo dopo la disintegrazione della potenza romana pan-mediterranea, nel V secolo, l’Europa meridionale e il mare interno tornarono a essere un teatro di contesa, ma l’intensa competizione geopolitica del periodo medievale non portò a una significativa ripresa dei combattimenti navali. Tuttavia, vale la pena di considerare la guerra navale medievale, così com’era, come un preludio alla prima guerra moderna e a Lepanto. Sebbene frasi come “periodo medievale” e “Medioevo” possano assumere un significato un po’ nebuloso, ho sempre preferito datare l’epoca medievale dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 alla sconfitta di Bisanzio nel 1453, chiudendo il periodo con le due morti di Roma.
Per una serie di ragioni, la guerra navale ebbe un’importanza relativamente scarsa durante l’epoca medievale. Le battaglie navali erano relativamente rare e generalmente di dimensioni più ridotte rispetto al mondo arcaico: in quei molti secoli, ci furono poche operazioni navali anche solo lontanamente paragonabili alle grandi battaglie antiche di Salamina, Capo Ecnomus o Azio. L’Europa medievale disponeva di navi, naturalmente, le più numerose delle quali erano le modeste imbarcazioni a fondo piatto che costituivano la colonna portante delle flotte mercantili. In tempo di guerra, tuttavia, queste navi erano usate principalmente per trasportare gli eserciti e i loro rifornimenti, e di solito lo facevano senza contestazioni. Quando si verificavano battaglie navali, queste tendevano a essere questioni accessorie e non erano decisive per le guerre più grandi – in netto contrasto con l’epoca classica, in cui molti conflitti importanti erano decisi dal teatro navale.
La de-prioritizzazione della guerra navale in questo periodo deriva da un intreccio di fattori e preferenze strategiche. In primo luogo, c’era una carenza di capacità statale: gli Stati medievali non avevano i poteri estrattivi e le burocrazie di vasta portata che caratterizzavano i potenti Stati arcaici come Roma o la Persia. La debolezza e l’incertezza dello Stato si ripercuoteva su molti aspetti della vita politica e della competizione geopolitica, in particolare nell’arena navale, in misura sproporzionata rispetto all’impatto sul potere terrestre.
La differenza fondamentale tra la generazione di potenza di combattimento su terra e su mare nel periodo medievale risiedeva nel decentramento della preparazione militare e nel potere latente della società in tempo di pace. Ciò significa che, mentre le società medievali avevano il potere di creare rapidamente eserciti con le loro risorse in tempo di pace, questa capacità non si estendeva alle navi da guerra. Una classe di servitori militari terrieri (che chiamiamo popolarmente cavalieri) forniva una potenza di combattimento pronta, mentre i contadini potevano essere chiamati a combattere in caso di necessità. Inoltre, la lunga minaccia rappresentata dalle incursioni dalla periferia – vichinghi, magiari e così via – portò alla devoluzione della responsabilità difensiva. L’autorità reale centralizzata non era assolutamente in grado di reagire tempestivamente a tali minacce, e così la difesa divenne essenzialmente un affare localizzato, delegato de facto ai signori locali e alle risorse di combattimento della regione immediata. .
Poiché la maggior parte delle società medievali era organizzata per generare potenza difensiva terrestre dalle proprie risorse, gli Stati non erano, di norma, organizzati burocraticamente per mantenere flotte permanenti capaci, in quanto si trattava di forze che richiedevano un elevato dispendio di risorse, conoscenze specialistiche (sia per la costruzione che per il funzionamento) e spese significative anche in tempo di pace. Quando il supporto navale era necessario per una guerra, richiedeva una quantità significativa di tempo per essere accumulato e di solito faceva uso di navi mercantili, in quanto appaltare o requisire navi civili esistenti era più economico e molto più facile che creare una flotta da guerra appositamente costruita. Di conseguenza, le navi utilizzate nelle battaglie navali medievali – quando si svolgevano – tendevano a essere navi mercantili e chiatte, modificate per il combattimento.
Di conseguenza, le società medievali erano orientate alla guerra di terra, anche di fronte alle minacce provenienti dal mare. L’esempio più importante di questo fenomeno è rappresentato dai Vichinghi. Le rappresentazioni popolari dei vichinghi tendono a enfatizzare la loro straordinaria ferocia in battaglia, ma la vera “risorsa strategica” degli scandinavi che si scatenarono in Europa nel IX e X secolo era la loro straordinaria abilità marinaresca. La nave vichinga era un artefatto culturale sorprendente, in grado di navigare in mare aperto, pur essendo abbastanza maneggevole e poco profonda per risalire i fiumi e spiaggiarsi per un assalto anfibio. La capacità dei Vichinghi di attraversare il tumultuoso Mare del Nord e persino di avventurarsi nell’Atlantico settentrionale fino alla Groenlandia e alla costa nordamericana con galee a scafo aperto e a un solo ponte era davvero eccezionale.
Una cosa che la nave vichinga non era, tuttavia, era una buona piattaforma per combattere sull’acqua. Priva di qualsiasi armamento, si trovava troppo in basso nell’acqua per poter abbordare facilmente le navi nemiche, e ci sono pochi riferimenti a quelle che potremmo definire battaglie campali che coinvolgono le flotte vichinghe. Laddove tali battaglie si verificarono, come nella Battaglia di Svoldernel 999, il combattimento sembra aver riguardato l’unione delle navi per formare una fortezza galleggiante immobile, piuttosto che le manovre di una flotta riconoscibile. Sebbene l’abilità marinaresca e la costruzione di navi fossero un elemento essenziale per la diffusione e il potere dei Vichinghi, il mare aveva il ruolo di garantire alle forze vichinghe un’enorme mobilità e raggio d’azione, piuttosto che essere un’arena di combattimento. Tutti gli scontri più critici tra i Vichinghi e i loro avversari, come le battaglie di Brunanburh, Rochester, Edington, Maldon e Stamford Bridge, avvennero sulla terraferma. L’esempio dei Vichinghi è molto istruttivo, in quanto dimostra che anche in scenari in cui il mare era l’unico vettore di attacco per il nemico, le operazioni di flotta su vasta scala non erano semplicemente un ricorso strategico favorito. .
Il semplice fatto che nell’Europa medievale mancassero istituzioni dedicate alla guerra navale significava una corrispondente mancanza di ingegneria, addestramento e competenze specializzate. Di conseguenza, le marine medievali non disponevano di un sistema di armi che uccidesse le navi. Non si hanno notizie dell’uso di arieti, come quelli usati nelle marine arcaiche. Ci sono episodi in cui si registra l’uso di armi da fuoco – il più famoso è quello dei Bizantini, che usavano una miscela chimica di calce viva, nafta e zolfo per creare l’equivalente di un lanciafiamme medievale – ma in quasi tutte le circostanze il combattimento navale medievale si concentrava su azioni di abbordaggio e sullo scambio di colpi d’arco.
Poiché le navi da guerra medievali erano generalmente armate solo con le armi personali dei combattenti sul ponte, le metodologie tattiche favorirono gli sforzi per fortificare la nave, piuttosto che per eseguire sofisticate manovre in mare. Alcune di queste tendenze tattiche meritano di essere enumerate.
In una battaglia tra navi da guerra medievali, il pericolo più pressante e immediato proveniva dalle armi missilistiche degli uomini sul ponte nemico, comprese le balestre, i tiri di prua tradizionali, i giavellotti e, occasionalmente, le giare piene di calce caustica. Poiché all’inizio le battaglie erano uno scambio di armi missilistiche personali, uno dei modi più semplici ed economici per aumentare l’efficacia del combattimento era semplicemente aumentare l’altezza della nave, in modo che i propri uomini puntassero verso il basso sul ponte nemico e fossero protetti dai missili nemici dal parapetto della nave. Per tutto il periodo medievale, quindi, si verificò una tendenza concertata a fortificare le navi costruendo piattaforme di combattimento sempre più alte con una ringhiera protettiva in legno, in particolare a prua e a poppa della nave. Tali piattaforme di combattimento divennero l’origine dei termini forecastle e aftercastle come nomi per i ponti anteriori e posteriori, che rimasero in uso molto tempo dopo la scomparsa dell’utilità di tali “castelli” in combattimento. .
Considerati i parametri ristretti di un combattimento navale medievale come uno scambio di armi missilistiche e azioni di abbordaggio, l’altezza relativa e la qualità protettiva di queste piattaforme da combattimento erano spesso decisive in battaglia. L’esempio forse più significativo è la battaglia di Malta del 1283, che ebbe luogo nella “Guerra dei Vespri Siciliani”. Si tratta di una di quelle guerre medievali esoteriche che è quasi impossibile comprendere senza una grande quantità di letture specialistiche – combattuta tra Stati che non esistono più (principalmente la Corona d’Aragona, con sede nella Spagna sudorientale, e il Regno angioino di Napoli nell’Italia meridionale) per scopi che sono essenzialmente incomprensibili per noi.
Un’esposizione completa e doverosa di questo opaco conflitto esulerebbe dai nostri compiti in questo saggio. Ciò che è interessante ai nostri fini è che questa fu una delle poche guerre medievali in cui ci fu un teatro navale significativo, dato che si trattava essenzialmente di una guerra tra Stati spagnoli e italiani per la Sicilia e, in misura minore, per Malta, a circa 50 miglia a sud. Nel 1283, una flotta aragonese arrivò al largo di Malta e riuscì a intrappolare una flotta angioina di dimensioni simili all’interno del Porto Grande di Malta. La flotta aragonese aveva due fattori distintivi a suo favore: in primo luogo, era guidata da un ammiraglio molto capace di nome Ruggero di Lauria e, in secondo luogo, le sue navi erano state costruite con piattaforme di combattimento eccezionalmente alte (“castelli”).
Quando la flotta di Lauria giunse all’imboccatura del Porto Grande, egli la dispose in linea attraverso l’imboccatura e procedette a sferrare le sue navi con pesanti catene, formando una barriera unificata attraverso l’uscita. Diffidando di rimanere intrappolata nel Porto Grande, la flotta angioina sbarcò immediatamente dal suo ancoraggio protetto a Forte Sant’Angelo e si mise a remare per dare battaglia. De Lauria, tuttavia, contava sulla superiore altezza dei suoi ponti per riparare i suoi uomini dai proiettili nemici e ordinò ai suoi uomini di rispondere solo con un piccolo fuoco di balestra. Il caldo della giornata trascorse con la flotta angioina che scagliava inutilmente dardi di balestra, vasi di calce e giavellotti contro le alte piattaforme da combattimento aragonesi, provocando pochi danni e poche vittime. Una volta che gli angioini ebbero esaurito tutte le loro munizioni, de Lauria ordinò alla sua flotta di attaccare e i suoi uomini furono in grado di sparare sui ponti inferiori degli avversari, ormai inermi.
La battaglia di Malta è un’illustrazione molto utile del combattimento navale medievale, che contiene in miniatura molti dei principi più universali. Innanzitutto, la battaglia fu decisa tatticamente dall’uso di armi leggere come giavellotti e balestre, dato che le navi coinvolte erano disarmate, a parte le armi personali dei loro equipaggi. In questo caso, l’unico fattore determinante per la vittoria fu che le navi aragonesi erano più alte. La battaglia dimostrò anche che, sebbene rari e di solito su scala ridotta, i combattimenti navali medievali erano estremamente sanguinosi, poiché la parte vincitrice tendeva a massacrare gli equipaggi nemici. A Malta, gli Aragonesi uccisero circa 3.500 uomini angioini, prendendone solo una piccola parte come prigionieri.
Questa era una pratica standard dell’epoca. Nella battaglia di Sluys del 1340, ad esempio, una flotta francese tentò senza successo di replicare la tecnica di blocco di de Lauria, incatenando le proprie navi per impedire agli inglesi di entrare nel fiume Schelda. Sfortunatamente per i francesi, un forte vento iniziò a disordinare la loro formazione e la flotta inglese li attaccò mentre stavano lottando per mantenere la loro linea. Gli inglesi massacrarono i francesi fino all’ultimo uomo, uccidendone circa 16.000 in un solo giorno.
La battaglia di Malta, tuttavia, illustra anche i limiti della scala e dell’importanza operativa dei combattimenti navali in quest’epoca. Le due flotte che si scontrarono nel Porto Grande erano molto piccole, circa 20 navi per parte. Tuttavia, anche un ingaggio così piccolo – una scaramuccia per gli standard della Prima Guerra Punica – fu sufficiente a mettere in ritirata gli Angioini e a consolidare la reputazione di Lauria come miglior ammiraglio del Mediterraneo. Ancora oggi è generalmente considerato il più grande ammiraglio dell’epoca medievale, sulla base di una carriera in cui le sue flotte raramente superavano le 30 navi.
È diventato sempre più comune respingere il motivo precedentemente diffuso del periodo medievale come “età oscura” di sviluppo umano bloccato in Europa. Nonostante la frammentazione dell’autorità statale dopo la caduta di Roma, il Medioevo vide l’emergere di nuovi filoni dell’alta cultura europea, il consolidamento di embrioni di Stati moderni e importanti progressi nelle pratiche agricole e nelle tecnologie militari. Molti Stati europei, come l’Inghilterra del XIII secolo, godettero di periodi prolungati di notevole stabilità e prosperità.
Questo periodo, tuttavia, fu un’epoca buia per la scienza della guerra in mare. Con la devoluzione dell’apparato militare europeo per dare priorità alla prontezza della difesa locale, gli Stati non disponevano dell’apparato fiscale-militare centralizzato, delle competenze tecniche e delle infrastrutture logistiche per mantenere sofisticate marine militari permanenti. Ciò rendeva la battaglia navale una questione di convenienza, utilizzando varianti modificate degli ingranaggi civili. Le battaglie potevano essere estremamente sanguinose e avevano la tendenza a trasformarsi in un massacro totale delle parti sconfitte, ma questi impegni rimanevano misericordiosamente piccoli, con flotte che contavano decine di unità, piuttosto che le centinaia che si vedevano spesso nelle battaglie arcaiche.
La guerra navale come scienza e arte languì per secoli in Europa, in attesa della perfetta miscela di ingredienti che la rinvigorisse. Le esigenze della marina erano tre: sistemi fiscali-militari in grado di finanziare la costruzione di flotte, una logica economica che rendesse tali flotte un uso ragionevole dei fondi, e un sistema di armi in grado di distruggere le navi nemiche in modo definitivo, senza ricorrere a un raccapricciante combattimento ravvicinato. Avrebbero tutte e tre le cose: lo Stato, la Spezia e i cannoni.
L’avvento della vela e del tiro
Lo sviluppo dei sistemi d’arma altamente efficaci che conosciamo come navi di linea dell’epoca classica dei velieri fu il risultato di sviluppi sincroni nella tecnologia della navigazione e dei cannoni, insieme ai sistemi economici necessari per rendere fattibili queste navi complesse e costose. L’insieme di queste innovazioni ha prodotto il più potente sistema di proiezione di potenza mai visto, con navi che avevano il raggio d’azione e la navigabilità necessari per raggiungere un raggio d’azione globale e la potenza di fuoco e la capacità di portare una forza di combattimento flessibile e formidabile ovunque andassero.
Il segnale che ha dato il via al rapido sviluppo della marineria europea è stata la riconquista dell’Iberia nel XIII e XIV secolo. Questo lungo periodo di guerra prolungata contro l’occupazione musulmana stimolò il consolidamento di monarchie altamente militarizzate e assertive in Portogallo, Aragona e Castiglia, fungendo da esempio ideale del principio secondo cui, sebbene lo Stato faccia la guerra, la guerra fa anche lo Stato. La reconquesta produsse Stati con un nesso molto particolare di caratteristiche: erano mobilitati e avevano una capacità statale insolitamente elevata per l’epoca, possedevano un orientamento espansivo e assertivo motivato dal senso di una guerra cosmica in corso con l’Islam e – cosa più importante – si trovavano sulla prua atlantica dell’Europa, rendendo il mare il loro vettore naturale di espansione.
Non sorprende quindi che l’Iberia (il Portogallo in particolare) sia stata teatro di innovazioni particolarmente dinamiche nella progettazione delle navi e nella navigazione. All’inizio del XV secolo, i portoghesi stavano esplorando sempre di più la costa africana sotto la guida del principe Henrique, duca di Viseu, noto alla storia semplicemente come “Enrico il Navigatore”. L’imbarcazione preferita per queste spedizioni annuali era la caravella – un progetto indigeno portoghese caratterizzato da un basso pescaggio e vele lateen (triangolari). La caravella era ideale per l’esplorazione lungo la costa: poteva navigare in sicurezza in acque poco profonde e in prossimità del vento, e si rivelò un cavallo di battaglia ideale per percorrere la costa occidentale dell’Africa, con i navigatori portoghesi che elaboravano costantemente la forma del continente e misuravano costantemente la profondità. .
La caravella era tuttavia un’imbarcazione limitata. Era precaria (per usare un eufemismo) in mare aperto, sia a causa del suo sartiame triangolare (che in mare aperto era inferiore al sartiame quadrato caratteristico delle navi più grandi), sia per le sue dimensioni relativamente ridotte, che la rendevano angusta e pericolosa in caso di mare mosso. Soprattutto, però, si trattava fondamentalmente di una nave da esplorazione e scouting, che non aveva lo spazio di carico necessario per funzionare come nave commerciale a lungo raggio. La caravella poteva costeggiare la costa e tracciare le rotte verso i mercati stranieri, ma non poteva trasportare grandi quantità di merci preziose una volta raggiunti.
È un fatto storico ben noto che le esplorazioni spagnole e portoghesi in quest’epoca erano motivate dal desiderio di ottenere un accesso diretto ai ricchi mercati dell’est, condito dal fervore religioso di proiettare la cristianità in tutto il mondo. Situati all’estremità occidentale dell’Europa, gli Stati iberici erano tagliati fuori dai profitti delle vie della seta sia dalle potenze islamiche, che controllavano la costa levantina, sia dagli imperi mercantili di Genova e Venezia, che dominavano il commercio nel Mediterraneo. Quasi tutti sanno che gli spagnoli e i portoghesi volevano aggirare questi intermediari e procurarsi un accesso diretto al mercato.
Quello che è meno compreso, o almeno meno apprezzato, è che fu l’accesso a questi mercati a rendere finanziariamente possibile la rivoluzione navale europea. La costruzione di velieri più grandi e più resistenti al mare, come le pesanti navi a vele quadrecarrack, era astronomicamente costosa. Erano tra i prodotti ingegneristici più complessi allora esistenti e richiedevano un’enorme quantità di manodopera altamente specializzata (e costosa) per la progettazione, la costruzione, la manutenzione e il funzionamento. Quando la corona portoghese finanziò la costruzione di due grandi caraccai e di una nave da rifornimento da 200 tonnellate per il primo viaggio di Vasco de Gama in India, il navigatore Duarte Pacheco Pereira scrisse semplicemente: “Il denaro speso per le poche navi di questa spedizione fu così grande che non entrerò nei dettagli per paura di non essere creduto”. .
L’enorme spesa di questi vascelli era sopportabile per lo Stato solo grazie ai profitti straordinariamente elevati che si potevano ricavare dalle spezie, dai beni esotici e dalle specie come l’oro e l’argento che si potevano trovare in Africa (e presto nelle Americhe). Quando Sir Francis Drake circumnavigò il globo e tornò sano e salvo in Inghilterra nel 1580, il valore del suo carico (in gran parte saccheggiato dalle navi spagnole) era più del doppio delle entrate della corona inglese per quell’anno. Non c’è da stupirsi, quindi, se gli inglesi puntarono tutto sul progetto dell’impero marittimo.
Forse questo sembra ovvio ed elementare, ma sottolinea un aspetto strategico cruciale del potere marittimo nella storia. La proiezione di potenza navale, in modo piuttosto unico, ha il potenziale di autoperpetuarsi economicamente. Il raggio d’azione e la capacità di carico offerti dalla navigazione rendono l’oceano una via unica per sfruttare risorse economiche lontane e penetrare nei mercati esteri. Un imperium terrestre storicamente non ha offerto un sistema di sfruttamento economico scalabile altrettanto efficace dal punto di vista dei costi. Solo con l’invenzione della ferrovia – uno sviluppo tardivo nella storia dell’umanità – le potenze continentali come gli Stati Uniti e la Russia hanno avuto un modo economicamente vantaggioso per sfruttare le vaste risorse dei loro spazi interni. Gli imperi marittimi, al contrario, non hanno mai avuto a che fare con questo problema, e così la proiezione di potenza navale e la ricchezza hanno creato un singolare ciclo di feedback per gli Stati dell’Europa occidentale, in cui ognuno rendeva possibile l’altro.
L’età dell’esplorazione, guidata dagli spagnoli e dai portoghesi, ebbe quindi l’effetto di spalancare l’oceano agli europei, non solo nel senso che dimostrarono la possibilità di una navigazione globale, ma anche nello stabilire il circuito di retroazione economica che poteva consentire a uno Stato della prima età moderna di assumersi l’enorme onere fiscale e logistico di mantenere una marina. Una possibile allegoria moderna potrebbe essere lo sviluppo di metodi fantasmagorici per sfruttare economicamente lo spazio esterno – come la generazione di energia solare dallo spazio o l’estrazione di risorse minerarie dagli asteroidi – che potrebbero improvvisamente rendere la costosa esplorazione spaziale finanziariamente autosufficiente.
L’arrivo di velieri più grandi e più stabili coincise storicamente con la comparsa dell’artiglieria a polvere da sparo, fornendo la piattaforma definitiva per questo nuovo potente sistema d’arma. Le armi a polvere da sparo iniziarono a diffondersi in Europa alla fine del 1300, inizialmente sotto forma di cannoni di dimensioni irregolari che sparavano frecce, saette e pallini di pietra. Alla fine del secolo avevano acquisito un ruolo chiaro in battaglia come armamento difensivo che poteva essere montato in cima alle fortificazioni; i Bizantini usarono cannoni primitivi con grande effetto e sconfissero un tentativo dei Turchi di catturare Costantinopoli nel 1396; i Turchi avrebbero poi notoriamente usato decine di loro artiglierie di grandi dimensioni durante la conquista definitiva della città nel 1453. All’alba della prima età moderna, tuttavia, questo era ancora un sistema d’arma embrionale: letale, ma ingombrante, difficile da spostare e terribilmente costoso da produrre.
Non è un fatto di poco conto che le armi a polvere da sparo si stavano affermando come potente espediente sul campo di battaglia proprio quando l’età delle esplorazioni iberiche diede il via a una colossale espansione della costruzione navale. Le grandi navi a vela e i cannoni erano, dal punto di vista tecnico, un binomio perfetto, in quanto fornivano soluzioni ai rispettivi problemi. I primi cannoni moderni erano tremendamente pesanti e laboriosi da spostare e richiedevano grandi magazzini di polvere da sparo e pallini per funzionare. Questo poteva essere un problema logistico per le forze in marcia via terra, che potevano richiedere decine di cavalli per trasportare un singolo cannone. Per una nave di centinaia di tonnellate di stazza, tuttavia, anche una batteria di cannoni di dimensioni ragguardevoli non rappresentava un peso eccessivo. Il cannone, a sua volta, risolse il problema principale del combattimento navale medievale, fornendo finalmente un’arma per uccidere le navi.
Non deve quindi sorprendere che l’adozione di cannoni massicci in mare sia stata un’inevitabilità che si è verificata molto rapidamente. La nave ammiraglia di Vasco de Gama, la São Gabriel, trasportava venti cannoni nel suo viaggio del 1497, nonostante fosse solo una modesta caracca di 100 tonnellate, mentre l’inglese Mary Rose, varata nel 1511, aveva circa 80 cannoni di vario calibro. In combinazione con l’abilità dei combattenti a bordo – affinati da secoli di intense guerre intraeuropee e crociate – si trattava di un prototipo riconoscibile del sistema d’armamento che avrebbe esteso il potere europeo praticamente in ogni angolo della terra. La vela e il tiro erano arrivati. .
Questi sviluppi, lo ribadiamo, dipendevano totalmente dal loro contesto economico. Questi vascelli, sempre più grandi e sempre più armati, erano tra le imprese ingegneristiche più complesse e gli investimenti più costosi che uno Stato della prima età moderna potesse fare, e si giustificavano creando proprio l’espansione economica che rendeva possibili queste spese. Questo, tuttavia, non era universalmente vero. La Cina, ad esempio, raggiunse imprese straordinarie nella navigazione e nella costruzione navale, ma possedeva un vasto mondo interno e mercati colossali, che la rendevano in definitiva disinteressata (sia in senso economico che spirituale) ad andare all’estero in cerca di terre e ricchezze straniere. Nel frattempo, nel Mediterraneo, non c’era alcuna possibilità di una rapida espansione economica. Si trattava di un mare chiuso, con un perimetro completamente esplorato e intimamente conosciuto, con rischi e ricompense consolidati. In questi confini familiari, una forma di guerra più familiare avrebbe prevalso ancora per un po’.
Vecchia affidabilità: La galea nel primo periodo moderno
La prima cosa che salta subito all’occhio della battaglia di Lepanto come grande battaglia di galee è il ritardo con cui fu combattuta. Lepanto fu disputata nel 1571, quasi ottant’anni dopo che gli spagnoli avevano raggiunto le Americhe con Colombo e i portoghesi erano arrivati in India circumnavigando l’Africa. Lepanto ebbe luogo esattamente 60 anni dopo il varo della famosa nave da guerra inglese Mary Rose – un vascello a vela riconoscibilmente avanzato armato con circa 80 cannoni. .
Lepanto si colloca quindi temporalmente all’interno della prima età della vela. A quell’epoca, le navi a vela attraversavano interi oceani; la spedizione di Ferdinando Magellano aveva circumnavigato il globo e le navi a vela con cannoni a canna larga stavano diventando una presenza fissa in molte marine europee. Eppure, quando gli Ottomani e i loro avversari cattolici si scontrarono al largo della Grecia, lo fecero con navi a remi e con una metodologia di combattimento in gran parte simile a quella utilizzata da Romani, Cartaginesi, Greci e Persiani. Questo è evidentemente molto strano: in termini cronologici, sarebbe come se la marina americana lanciasse sortite in Vietnam con biplani d’epoca della Prima Guerra Mondiale.
Questo può dare l’impressione di una primitività o di una mancanza di immaginazione da parte dei praticanti della guerra di galea del XVI secolo. Mentre una caracca ben armata come la Mary Rose era irta di molte decine di cannoni pesanti, una galea mediterranea dell’epoca sarebbe stata armata al massimo con tre cannoni pesanti, puntati a prua della nave – dato che la fiancata di una galea era occupata da centinaia di rematori, era ovviamente impossibile montarvi dei cannoni. Sicuramente una nave così debolmente armata rappresentava un ritorno obsoleto e arcaico, un dinosauro nautico in attesa di estinzione? .
In realtà, la galea mantenne la sua utilità fino al XVI secolo a causa di una serie di fattori economici, strategici e geografici in gioco nel Mediterraneo. Gli uomini che combatterono a Lepanto non erano stupidi, ma stavano semplicemente praticando una forma di guerra ben consolidata che aveva dato prova di sé nell’arena unica del mare interno, e la galea come sistema di armi può essere apprezzata solo nel contesto di un più ampio sistema di guerra che prevaleva in quel tempo e in quel luogo. Nel 1526, ad esempio, l’ufficio bellico veneziano decise esplicitamente di sperimentare ulteriormente i progetti di galee, piuttosto che perseguire le caracche a vela in uso nell’Europa occidentale. Sarebbe necessario essere molto arroganti per presumere che Venezia, all’epoca uno degli Stati più istruiti, ricchi e sofisticati d’Europa, avrebbe preso una decisione del genere per ignoranza, piuttosto che per fondate preoccupazioni tattiche e strategiche.
Per iniziare a capire questo, dobbiamo vedere il Mar Mediterraneo come lo vedevano gli strateghi dell’epoca: come un unico e vasto litorale, o zona costiera. Il Mediterraneo è essenzialmente privo di coste, disseminato di isole e circondato da spiagge sabbiose, porti naturali e approcci poco profondi. Ciò ha creato un orientamento tattico fondamentalmente anfibio e in questo contesto la galea è rimasta il sistema d’arma preferito per secoli dopo l’avvento dell’artiglieria a cannone. Il punto cruciale è che i sistemi d’arma non esistono nel vuoto: non si trattava semplicemente di sostituire le galee con navi da guerra a vela, ma piuttosto di utilizzare queste imbarcazioni per portare avanti sistemi di guerra completamente diversi.
I vascelli a vela e con cannoni a sponde larghe che avrebbero finito per predominare nel mondo offrivano una nuova potente opportunità strategica: permettevano di controllare il mare.Questo non solo grazie al loro potente armamento (ogni nave possedeva la potenza di fuoco di una batteria d’artiglieria massiccia, e potevano quindi frantumare le flotte nemiche e affondare le navi da carico con facilità), ma anche grazie alla loro capacità di carico. Un veliero a grande profondità può trasportare centinaia di tonnellate di carico, consentendo di rimanere in mare per mesi e mesi: ciò fornisce una proiezione di forza permanente ed estremamente potente in mare. L’ultima manifestazione di questo controllo del mare è il blocco: dopo aver allontanato la flotta di superficie nemica, un’armata di velieri può esercitare un controllo soffocante sull’accesso all’oceano. .
Una galea non può fare questo. Con la maggior parte dello spazio dello scafo dedicato agli equipaggi dei vogatori, le galee hanno un rapporto carico/equipaggio molto scarso rispetto alle navi a vela e non sono quindi in grado di rimanere in mare per lunghi periodi di tempo. La galea non era quindi uno strumento per controllare il mare, ma un’arma per proiettare la potenza di combattimento dal mare alla terra, e viceversa. Nel Mediterraneo, la capacità della galea a basso pescaggio di operare contro la costa, di penetrare nei corsi d’acqua e di arenarsi sulla spiaggia era estremamente preziosa. .
La galea continuò quindi a ricoprire un ruolo critico in un sistema mediterraneo di guerra navale molto diverso da quello prevalente nell’epoca della vela. Si trattava di un sistema di combattimento che non si concentrava sulle grandi azioni di flotta e sui blocchi, ma sulla proiezione del potere verso terra, con l’oggetto principale di queste operazioni che erano le reti di basi che supportavano le operazioni delle galee a lungo raggio. Si trattava di uno schema intimamente familiare ai Romani, che vedevano la maggior parte dei loro conflitti navali risolversi attraverso il controllo di tali basi. Cartagine fu sconfitta nella Prima guerra punica attraverso la cattura o l’isolamento dei suoi porti e depositi, e nelle successive guerre civili romane furono Cesare Augusto e il suo ammiraglio, Marco Agrippa, a sconfiggere Antonio e Cleopatra colpendo la loro catena di basi di rifornimento e fortezze. Questa formulazione operativa di base non era cambiata molto all’inizio del periodo moderno e le reti di basi insulari rimanevano ancora l’oggetto principale dei combattimenti navali.
C’era però un’altra considerazione importante che manteneva la galea in vita: il costo e la disponibilità dei cannoni. Nel XVI secolo, i cannoni non erano ancora soggetti a una facile produzione di massa. I metodi di fusione dei cannoni (che producevano la canna in un unico pezzo fuso da uno stampo) stavano iniziando a comparire verso la metà del secolo, ma gran parte dell’artiglieria europea continuava a essere prodotta con varianti del metodo del cerchio e della doga, che saldavano faticosamente la canna insieme a più strisce di metallo, in modo simile al modo in cui una canna di legno sarebbe stata prodotta con assi. Sebbene i dettagli dei processi metallurgici siano forse interessanti per alcuni, il risultato era che i cannoni erano ancora molto costosi e in quantità limitata. Dato che le potenze mediterranee dovevano fornire cannoni sia per le navi che per le loro fortezze, conservando al contempo un numero sufficiente di pezzi per le loro forze terrestri in caso di assedio (sia gli spagnoli che gli ottomani, in particolare, mantenevano grandi forze terrestri che competevano con le loro marine per i cannoni), non sorprende che le galee armate in modo più modesto con una manciata di cannoni di prua siano rimaste in uso comune, mentre le navi a largo pesantemente armate hanno impiegato molto più tempo per entrare in gioco.
Così, quando le flotte si scontrarono a Lepanto, le imbarcazioni erano una variante raffinata ma intimamente familiare delle galee arcaiche che avevano solcato le acque del Mediterraneo per migliaia di anni. Tenendo conto di alcune variazioni tra le nazioni combattenti (di cui parleremo tra poco), una galea “standard” del XVI secolo era lunga circa 136 piedi e larga circa 18, spinta da circa 200 rematori che manovravano circa 24 banchi di remi. Le tecniche di costruzione navale notevolmente migliorate resero queste galee dei primi tempi molto più resistenti al mare rispetto ai loro predecessori antichi (a differenza delle galee ateniesi, non imbarcavano acqua e quindi non dovevano essere trascinate sulla spiaggia per asciugarsi), e naturalmente si distinguevano per la presenza di armi a polvere da sparo. Le galee di Lepanto possedevano una piccola batteria di cannoni pesanti che puntavano direttamente dalla prua e che, una volta sparati, si riavvolgevano sui loro supporti a ruota nello spazio tra i banchi di voga. Per la protezione dei fianchi contro gli abbordaggi, una serie di piccoli cannoni girevoli erano montati sui fianchi della nave e, naturalmente, una compagnia di fanteria di marina si aggirava sul ponte.
Il punto importante da sottolineare, tuttavia, è che gli aspetti di manovra di queste navi erano essenzialmente immutati dai tempi antichi. Questo sia perché continuavano a essere spinte dai rematori (e quindi si muovevano essenzialmente nello stesso modo delle navi arcaiche), ma anche perché la batteria di cannoni puntava in avanti dalla prua della nave – e quindi poteva essere puntata solo ruotando la nave in combattimento. Poiché il cannone puntava staticamente in avanti – proprio come gli arieti delle antiche navi greche e persiane – la nave si muoveva più o meno allo stesso modo in combattimento, mirando a sferrare un attacco d’urto sui fianchi e sulla poppa vulnerabili della nave nemica. Quindi, anche se i cannoni sono ovviamente molto più potenti di un ariete, queste navi erano ancora progettate per attaccare frontalmente. L’odore della polvere da sparo e lo scoppiettio dei cannoni erano nuovi, ma un antico ammiraglio che osservava da lontano avrebbe trovato i remi spumeggianti e le manovre della flotta confortevolmente familiari.
Fuori con un botto: La battaglia di Lepanto
Lo sfondo del grande scontro di Lepanto fu la lenta e inesorabile espansione del potere ottomano intorno al Mediterraneo orientale, che lo portò a scontrarsi con l’impero marittimo di Venezia. La posizione strategica e l’orientamento di Venezia erano molto simili a quelli dell’antica Cartagine: il loro “impero” consisteva in una rete di colonie e di basi disseminate lungo le coste e le isole dell’Adriatico e del Mediterraneo. La funzione critica di queste posizioni era principalmente quella di controllare la rotta marittima tra Venezia e la costa levantina, con una catena di basi e porti fortificati che proteggevano la navigazione che era la linfa vitale della ricca economia veneziana.
La posizione chiave che divenne la base della guerra ottomano-veneziana fu l’isola di Cipro. Da un punto di vista geostrategico, l’importanza di Cipro è di facile comprensione. Essendo l’isola più orientale sotto il controllo di Venezia, era il nodo critico che garantiva l’accesso veneziano alla costa levantina. Cipro, tuttavia, si trovava anche direttamente sulle linee di comunicazione marittime tra il cuore dell’Anatolia e le province ottomane in Egitto. In sostanza, Cipro si trovava all’intersezione di due rotte marittime critiche: una linea nord-sud tra l’Anatolia e l’Egitto e una linea est-ovest tra Venezia e il Levante. Non è quindi particolarmente difficile capire perché gli Ottomani la desiderassero.
Quando nel 1570 un’armata ottomana arrivò a Cipro, Venezia si trovò di fronte a una prospettiva strategica inquietante. Venezia era una potenza mercantile ricca ma scarsamente popolata, mal costruita per una lotta prolungata con i ben più potenti Ottomani. L’abilità navale dei turchi era ormai un fatto assodato: nel 1538, la marina ottomana aveva distrutto una flotta cristiana coalizzata nella Battaglia di Preveza (combattuta, tra l’altro, esattamente dove la Battaglia di Azio aveva avuto luogo circa 1600 anni prima). Un’altra decisiva vittoria ottomana, nella Battaglia di Djerba del 1560, aveva portato i turchi sul 2-0 nelle grandi azioni di flotta. Un terzo round non sarebbe stato una cosa da ridere e Venezia aveva bisogno di alleati.
Fu grazie all’intenso ed energico intervento di Papa Pio V che Venezia si assicurò l’assistenza della Spagna asburgica e dei suoi satelliti, con la formazione nel 1571 della “Lega Santa”. I termini dell’alleanza prevedevano che le flotte degli alleati si incontrassero a fine estate a Messina, sulla costa siciliana, per una campagna congiunta nel Mediterraneo orientale. Il comando della flotta congiunta sarebbe spettato a Don Giovanni d’Austria, fratellastro illegittimo del re spagnolo Filippo II.
E così arriviamo a Lepanto, il canto del cigno della galea, violento codicillo di una forma di guerra mediterranea vecchia di tremila anni. La battaglia fu plasmata e resa possibile da una serendipità spesso rara in guerra: entrambe le parti erano fortemente motivate a cercare una battaglia decisiva, il che significa che entrambe le parti avevano uno schema operativo accuratamente concepito e pensato in anticipo. Lepanto fu una battaglia voluta e pianificata da entrambe le parti, e sia i Turchi che la Lega Santa riuscirono a mettere in atto i loro piani di battaglia e a raggiungere lo schieramento desiderato.
La motivazione turca a combattere è facile da capire: avevano l’ordine esplicito del Sultano Selim II di portare in battaglia la flotta cattolica e distruggerla. Per quanto riguarda la Lega Santa, la loro dinamica era più sfumata e sottile e aveva molto a che fare con i tentativi di Don Giovanni di mediare un’alleanza scomoda.
I vari alleati costituenti avevano motivazioni diverse per entrare in guerra e, di conseguenza, diversi sensi di urgenza. Per gli spagnoli, la guerra con i turchi era soprattutto una questione religiosa, un altro capitolo della loro lunga lotta cosmica con l’Islam. Venezia, invece, combatteva per concreti interessi geostrategici, in particolare per salvare la sua colonia di Cipro. I Veneziani combatterono anche con un importante handicap. Poiché Venezia aveva una popolazione relativamente scarsa, la mobilitazione della flotta richiedeva il prelievo di pescatori, marinai mercantili e altri lavoratori civili. L’entrata in guerra comportava quindi un blocco totale dell’economia veneziana ed era estremamente costosa da mantenere. I Veneziani erano quindi fortemente motivati a concludere rapidamente la guerra. Don Giovanni doveva anche preoccuparsi dei vari alleati accessori, in particolare di Genova, che aveva aderito alla Lega Santa pur continuando a commerciare con gli Ottomani.
Don Giovanni dovette quindi pianificare una campagna intorno ai disaccordi strategici della sua coalizione, con la possibilità molto concreta che parte della sua flotta si ritirasse dall’alleanza o addirittura disertasse. Più la campagna si trascinava, più era probabile che questi aggravamenti si aggravassero; pertanto, anche lui, come l’ammiraglio turco Müezzinzade Ali Pasha, era determinato a condurre una battaglia decisiva il prima possibile.
Dopo essersi riunita in Sicilia alla fine dell’estate, la flotta della Lega Santa – circa 212 navi in tutto – attraversò l’Adriatico e arrivò all’isola di Cefalonia, al largo della costa occidentale della Grecia, il 6 ottobre. La massa della flotta turca, 254 navi in tutto, era di stanza a sole 65 miglia a est nella loro base navale di Nafpaktos, nel Golfo di Corinto. Il nome veneziano di Nafpaktos è Lepanto. Il giorno seguente, entrambe le armate uscirono per incontrarsi all’ingresso del golfo. Era il 7 ottobre 1571.
Per comprendere le considerazioni tattiche in gioco a Lepanto, dobbiamo innanzitutto capire che, sebbene entrambe le flotte fossero composte da galee, la forma di questi vascelli variava ampiamente, a causa delle considerazioni economiche e strategiche che le varie potenze dovevano affrontare. Lepanto diventa quindi un ottimo esempio della contingenza contestuale dei sistemi d’arma – lo vedremo esaminando le differenze tra le galee spagnole, veneziane e turche che combatterono la battaglia.
Possiamo iniziare con gli spagnoli. Nel XVI secolo, la Spagna asburgica aveva bisogno di mantenere una flotta permanente di galee in grado di difendere i porti spagnoli del Mediterraneo dai pirati e dai corsari che operavano dalla costa nordafricana, i famosi corsari di Barberia che all’epoca terrorizzavano il Mediterraneo occidentale, la cui portata e il cui potere divennero così grandi da costringere gli Stati Uniti a pagare un tributo per garantire un passaggio sicuro alle navi mercantili americane. Ma stiamo divagando.
In ogni caso, gli spagnoli dovevano mantenere una flotta permanente a scopo difensivo, ponendosi su un piano di guerra semipermanente nel Mediterraneo. Questo, ovviamente, è costoso, anche per uno Stato molto ricco come la Spagna del XVI secolo. Inoltre, il costo di una flotta di galee permanenti crebbe rapidamente nel XVI secolo. A causa di una serie di fattori intersecati, tra cui la ripresa demografica dell’Europa dopo la peste nera e l’afflusso di oro e argento dalle Americhe, i prezzi e i salari crebbero molto rapidamente nel XVI secolo, al punto che gli economisti a volte parlano di una “rivoluzione spagnola dei prezzi“. Questa rapida inflazione rendeva le flotte di galee molto costose da mantenere in modo permanente, in quanto faceva lievitare i costi dei salari degli equipaggi dei vogatori. .
Gli spagnoli aggirarono il crescente costo dei rematori rinunciando del tutto a quelli pagati, scegliendo invece di equipaggiare le loro navi con galeotti non pagati. Ciò risolse in gran parte l’onere dei costi della flotta, ma introdusse una nuova complicazione al problema del combattimento. I galeotti possono remare una nave quasi gratis (a parte i costi di cibo e acqua), ma per ovvie ragioni non possono essere armati. In un’epoca in cui era comune (come vedremo) che gli equipaggi dei vogatori fossero armati e si impegnassero in combattimenti ravvicinati durante le azioni di abbordaggio, l’uso di vogatori galeotti rischiava quindi di annullare gran parte del potere combattivo della flotta spagnola. Per ovviare a questo problema, gli spagnoli dotarono le loro navi di un consistente contingente di fanteria regolare spagnola, che all’epoca era tra le migliori d’Europa.
La presenza di grandi compagnie di regolari spagnoli a bordo conferiva alle galee spagnole un’enorme potenza in battaglia e un vantaggio significativo nelle azioni di abbordaggio, ma a scapito della velocità e della manovrabilità, poiché queste truppe aggiungevano ovviamente un peso significativo alla nave. Si può notare, quindi, come la progettazione della flotta crei una sequenza di compromessi: i salari elevati per i rematori spinsero gli spagnoli a impiegare i galeotti, i rematori galeotti li costrinsero a loro volta a riempire le loro navi di fanteria regolare, e il peso di questa fanteria rese la nave più lenta in combattimento.
Gli spagnoli scelsero di accettare semplicemente questi compromessi e di massimizzare la potenza di combattimento delle loro navi a scapito della mobilità, rendendo le loro navi più grandi, più alte in acqua e con un equipaggio molto più numeroso. A Lepanto, quindi, le navi spagnole erano di gran lunga le più grandi, le più potenti dal punto di vista tattico e le più deboli in termini di manovrabilità e resistenza. Per quanto riguarda la loro funzione in battaglia, servivano come enormi piattaforme d’assalto per la fanteria – con il rischio di essere superate dalle navi nemiche più leggere, ma letali quando si scontravano con il nemico.
A differenza degli spagnoli, Venezia non manteneva una flotta di galee in perenne assetto di guerra, e in effetti non poteva permetterselo data la sua base demografica molto più ridotta. Venezia – per convenzione “a corto di uomini, lungo di denaro” – non poteva certo permettersi di dedicare migliaia di uomini agli equipaggi di voga in tempo di pace. Invece, l’Arsenale veneziano – un prodigioso e avanzato complesso di cantieri navali e armerie – costruì e mantenne una grande flotta di galee che venivano tenute in deposito per i tempi di guerra. Mentre gli spagnoli tenevano la loro flotta sempre pronta, i veneziani mantenevano solo una piccola forza in tempo di pace e si appoggiavano invece a un’ondata di forza combattiva chiamando pescatori, contadini e braccianti a servire come rematori.
Essendo così svincolata dalle grandi spese di approvvigionamento permanente di grandi equipaggi di vogatori, Venezia non ebbe bisogno di adottare la misura di riduzione dei costi di trovare manodopera gratuita tra i coscritti, e le galee veneziane erano vogate da cittadini veneziani liberi che dovevano combattere in corpo a corpo quando necessario. Tuttavia, data la minore popolazione di Venezia e la mancanza di un grande esercito permanente da cui attingere la fanteria, era naturale che la flotta veneziana fosse meno entusiasta delle risse ravvicinate rispetto agli alleati spagnoli. Il punto di forza delle galee veneziane era quindi la loro artiglieria, che era di gran lunga la migliore del Mediterraneo, essendo più precisa e più leggera della concorrenza.
Si può quindi facilmente capire come fattori economici e strategici abbiano creato navi da combattimento nettamente diverse, pur condividendo la stessa forma di base di una galea a remi con cannoni a prua. La necessità di difendere costantemente le coste dalla pirateria portò gli spagnoli a mantenere una flotta permanente di navi pesanti remate da galeotti, che compensavano la loro immobilità con l’enorme forza combattiva della fanteria spagnola sul ponte. Al contrario, Venezia risparmiava tenendo la propria flotta in magazzino durante il periodo di pace, e metteva in campo navi più veloci e più piccole che si appoggiavano alla loro superiore artiglieria in combattimento. La Spagna asburgica era una potenza grande e popolosa con un corpo permanente di fanteria veterana; Venezia era uno stato ricco e tecnologicamente sofisticato con una popolazione più sottile. Le navi a Lepanto riflettono fortemente queste differenze.
Naturalmente, qualsiasi discussione sulle navi che combatterono a Lepanto sarebbe vuota senza menzionare la flotta avversaria degli Ottomani. La marina ottomana si differenziava in questo periodo per il semplice fatto che i turchi, a differenza dei veneziani e degli spagnoli, erano all’offensiva nel Mediterraneo. Le galee ottomane avevano quindi caratteristiche progettuali che le rendevano più adatte alle operazioni anfibie. Erano più basse nell’acqua e avevano un pescaggio inferiore rispetto alle navi cattoliche, il che consentiva loro di operare facilmente in acque poco profonde e di incagliarsi per sganciare le forze per le operazioni di terra. Essendo più leggere e più basse, tendevano a essere più manovrabili delle navi veneziane e soprattutto di quelle spagnole, e si distinguevano per il fatto che traevano gran parte della loro forza combattiva dal tiro con l’arco.
L’uso continuo di arcieri può sembrare strano, a questo punto del gioco, ma l’arcieria turca rimase letale fino al XVI secolo. Gli archi ricurvi preferiti dai turchi – retaggio dell’eredità della steppa ottomana – mantenevano un chiaro vantaggio in termini di gittata, precisione e cadenza di fuoco rispetto alle primitive armi da fuoco a polvere da sparo dell’epoca, e la presenza di un consistente contingente di arcieri sulle galee turche dava loro sia una solida forza sull’acqua sia un potente gruppo di fanteria che poteva essere sbarcato durante le operazioni anfibie. Anche le navi turche, come quelle veneziane, erano remate da uomini liberi, in questo caso soprattutto da volontari arabi che potevano combattere in caso di emergenza. Il solito motivo della schiavitù turca non si applicava a Lepanto.
Lepanto, quindi, nonostante fosse una battaglia di navi, tutte nominalmente note come “galee”, coinvolgeva navi con differenze significative nella capacità di combattimento e nella progettazione. Le navi spagnole erano navi a remi, pesanti e massicce, letali in azioni ravvicinate dove potevano abbordare con la loro potente fanteria. Le galee veneziane erano più veloci e favorivano la loro superiore artiglieria, mentre le navi turche erano le più manovrabili a Lepanto, più adatte a una mischia libera e vorticosa in cui potevano sfrecciare con disinvoltura intorno alla battaglia, scatenando il fuoco di prua e presentando un bersaglio in rapido movimento. Il compito dei comandanti a Lepanto sarebbe stato quello di organizzare la battaglia in modo da massimizzare i punti di forza delle loro navi.
Ali Pasha sapeva che avrebbe combattuto in netto svantaggio in una mischia congestionata con le navi cristiane più grandi e più pesantemente armate. Se la battaglia si fosse trasformata in uno scontro ravvicinato, la massa superiore dell’artiglieria cristiana e le marine spagnole pesantemente equipaggiate avrebbero lentamente ma inesorabilmente fatto a pezzi la sua flotta. La vittoria turca dipendeva quindi dall’apertura della battaglia disordinando la linea cristiana. Se le linee si sfaldavano e la battaglia diventava una mischia libera e vorticosa, le galee turche, più maneggevoli, potevano fare a pezzi la flotta cristiana, come avevano fatto due volte in passato a Preveza e a Djerba.
Il progetto turco per la battaglia si basava quindi su due diversi meccanismi per dividere la linea cristiana e aprire la battaglia, da realizzare facendo leva sulle due caratteristiche distintive della galea turca: il suo basso pescaggio e la sua superiore manovrabilità. Sull’ala destra turca (quella a terra, adiacente alla costa greca), l’intenzione era di portare la battaglia il più vicino possibile alla costa, sperando che nelle acque basse il pescaggio più profondo delle navi cristiane impedisse loro di allinearsi alla linea ottomana. Se l’ala destra dei Turchi fosse riuscita a spingere la battaglia nelle acque basse, avrebbe avuto buone probabilità di superare la linea cristiana e di raggiungere le retrovie della flotta. Poiché le galee, con il loro cannone puntato direttamente a prua, erano essenzialmente indifese se attaccate da dietro, la penetrazione delle agili navi turche nelle retrovie sarebbe stata una catastrofe per Don Giovanni.
Sull’ala sinistra turca (l’ala al largo, con il fianco sul mare aperto), c’era un’evidente opportunità di disordinare o girare il fianco della linea cristiana. È qui che Ali Pasha posizionò la preponderanza della sua flotta. In altri punti della linea, le due flotte erano in gran parte simmetriche nei numeri. Le ali a terra (destra turca, sinistra cristiana) contenevano rispettivamente 54 e 53 navi, mentre i centri contavano 62 navi per i cristiani e 61 per i turchi. Al largo, tuttavia, i Turchi avrebbero avuto un vantaggio numerico significativo, con 87 galee contro le 53 navi dell’ala sinistra cristiana. Così, mentre la formazione cristiana era essenzialmente simmetrica (con 53 navi in ciascuna delle sue ali), i turchi erano pesantemente appesantiti verso il mare aperto. Con navi più numerose e più veloci in mare aperto, Ali Pashi poteva contare su una ragionevole possibilità di girare il fianco cristiano o di separare l’ala sinistra dal centro; in entrambi i casi, si sarebbe aperta l’opportunità di penetrare nelle retrovie.
I turchi potevano quindi sperare di spezzare o disordinare la flotta nemica su una, o preferibilmente su entrambe le ali. In questo modo avrebbero probabilmente rotto la coesione della flotta cristiana e trasformato la battaglia in un corpo a corpo in cui le navi turche manovrabili avrebbero avuto un netto vantaggio. Il prezzo di questo schieramento, tuttavia, fu quello di costringere Ali Pasha ad accettare uno scontro frontale al centro, in cui sarebbe stato gravemente svantaggiato contro le potenti galee cristiane, soprattutto le massicce navi spagnole. Non c’erano prospettive realistiche di vincere il combattimento al centro: i turchi potevano solo sperare di resistere mentre le loro ali lavoravano per aprire la battaglia. Per avere le migliori possibilità di resistere al centro, Ali Pasha tenne una riserva di 52 navi, la maggior parte delle quali erano galee leggere (chiamate galeotte). Lo scopo della riserva turca era essenzialmente quello di sostenere il centro, colmando le lacune e reintegrando le perdite.
Qualsiasi studio corretto del piano di battaglia turco concluderà che era ben progettato e offriva ad Ali Pasha le migliori possibilità di vincere la battaglia con le risorse a sua disposizione, date le diverse qualità delle navi coinvolte. La vittoria turca dipendeva dal disordine della flotta nemica e dalla frammentazione dell’integrità della sua linea, e Ali Pasha fornì una ridondanza, con due opportunità di aprire i fianchi del nemico, sfruttando il basso pescaggio delle sue navi nell’ala di terra e confezionando un pugno sovradimensionato di galee veloci sul lato di mare. Accettò il rischio di scontrarsi con il potente centro spagnolo come costo del suo piano e prese le misure necessarie per far fronte alla situazione dotandosi di una riserva per rinforzare il proprio centro. Nel complesso, si trattava di un piano di battaglia intelligente, che dimostrava una forte comprensione delle qualità relative della flotta e bilanciava l’aggressività con la prudenza. Ali Pasha si è dato una buona possibilità di vincere la battaglia, facendo del suo meglio per mitigare le sue peggiori vulnerabilità. Il piano e l’uomo sono da lodare.
Sfortunatamente per Ali Pasha e la sua flotta, anche Don Giovanni aveva un piano che sfruttava in modo intelligente le sue risorse tattiche. Dallo schema di schieramento di Don Giovanni (è sopravvissuta una copia del suo ordine di battaglia che ci dà uno sguardo dettagliato all’organizzazione della flotta cristiana) è chiaro che egli comprendeva perfettamente le minacce alle sue ali e prese misure intelligenti per mitigarle.
Nell’ala a terra (la sinistra cristiana), egli ponderò la sua formazione in modo che le navi più leggere e manovrabili fossero più vicine alla costa. Soprattutto, l’ala sinistra era sotto il comando dell’ammiraglio veneziano Agostino Barbarigo, che comandava la sua ala dal bordo più a sinistra, più vicino alla riva. Normalmente, un comandante di sezione dovrebbe posizionarsi al centro della sua linea – ad esempio, Ali Pasha e Don Juan comandavano entrambi dal centro dei loro centri. Barbarigo, invece, mise la sua nave ammiraglia all’estremità della linea più vicina alla riva, collocandosi nel punto decisivo dell’azione. Questo dimostra chiaramente che i cristiani avevano previsto la manovra ottomana di girare il fianco nell’acqua bassa, e Barbarigo era sul posto per impedirlo. .
Don Juan, come Ali Pasha, aveva previsto una riserva per sé, con 38 galee al comando dello spagnolo Alvaro de Bazan. A differenza della riserva turca, però, che aveva il compito specifico di sostenere il centro, la riserva cristiana aveva più in generale il compito di rispondere a qualsiasi rottura della linea o fuga dei turchi nelle retrovie. Sia Don Giovanni che Ali Pascià accettavano e si aspettavano che le galee cristiane, tatticamente potenti, avrebbero prevalso nello scontro al centro; Ali Pascià aveva quindi bisogno della sua riserva per alimentare i rinforzi al centro. Don Juan, al contrario, era preoccupato per i suoi fianchi, e quindi la riserva cristiana doveva rimanere disimpegnata in modo da poter rispondere a eventuali sfondamenti su entrambi i lati.
Entrambe le flotte si presentarono quindi alla battaglia con piani di schieramento ben studiati e con una comprensione realistica di come avrebbero potuto vincere e perdere la battaglia. Non sorprende quindi che Lepanto sia stata una battaglia combattuta.
Le ali a terra si scontrarono per prime, verso mezzogiorno del 7 ottobre, e i combattimenti furono eccezionalmente feroci. La destra ottomana fece una corsa aggressiva per accartocciare il fianco cristiano lungo la riva, cercando di scivolare e raggiungere le retrovie. Barbarigo si oppose con un’incredibile dimostrazione di comando, facendo arretrare l’estremità sinistra della sua linea, in modo che si arricciasse lungo la riva per bloccare la corsa dei fiancheggiatori turchi.
Questa manovra da parte dell’ala cristiana sarebbe stata incredibilmente difficile: fare marcia indietro mentre si era impegnati in un combattimento estremamente violento senza perdere l’integrità della linea. È chiaro che le perdite cristiane in quest’ala furono pesanti e che il tiro con l’arco turco fu micidiale. Lo stesso Barbarigo fu ucciso a un certo punto della giornata, ma il suo controllo della linea e il suo decisivo movimento per bloccare l’attacco turco furono cruciali. L’estremità sinistra della linea di Barbarigo finì per ruotare il fronte di ben 90 gradi, in modo da trovarsi di fronte alla costa: il risultato fu che, invece di utilizzare le acque basse della costa per affiancare i cristiani, gran parte dell’ala ottomana si trovò intrappolata contro la costa, e alla fine della giornata la maggior parte della loro ala destra era stata annientata.
Al centro, la battaglia si svolse come previsto. Le galee turche si scontrarono con le massicce navi spagnole, con la nave ammiraglia di Don Giovanni, la Real che combatteva duramente al centro dell’azione. I turchi combatterono duramente, come fecero ovunque quel giorno, ma i cristiani avevano ponti più alti, più cannoni e i micidiali e pesantemente armati marines spagnoli per avere la meglio, e la superiore massa cristiana (non è un gioco di parole) macinò lentamente il centro ottomano. Poiché sia Don Giovanni che Ali Pasha comandavano dal centro delle loro linee, la scena fu messa in scena per un momento particolarmente cinematografico. La Real di Don Juan si bloccò con la nave ammiraglia di Ali Pasha, la Sultana, e un gruppo di abbordaggio di spagnoli riuscì a sopraffare il ponte dell’ammiraglio turco. Müezzinzade Ali Pasha fu ucciso e la sua testa fu consegnata a Don Giovanni mentre la battaglia infuriava tutt’intorno. .
I cristiani stavano conquistando il centro, ma questo era uno sviluppo previsto. Ali Pasha era morto, ma il suo piano era ancora operativo. I turchi avevano ancora un’opportunità concreta di vincere la battaglia sul fianco destro, dove la loro potente ala sinistra si dirigeva in mare aperto. Le ali su questo lato impiegarono molto più tempo a scontrarsi rispetto al resto delle linee; il comandante ottomano a sinistra, Uluj Ali, si impegnò in una lunga serie di manovre che attirarono l’ala cristiana, comandata da Giovanni Andrea Doria, sempre più al largo, mentre lottava per adeguarsi al suo fronte. Di conseguenza, si aprì lentamente un pericoloso varco tra la destra e il centro cristiano. Era il varco che Ali Pasha sperava di ottenere e la possibilità per i turchi di vincere la battaglia.
Dopo aver attirato l’ala cristiana fuori posizione, Uluj Ali lanciò tutte le navi che poteva nel varco della linea cristiana. Il momento di massimo pericolo per Don Giovanni si avvicinava, con le navi turche che si abbattevano violentemente sul fianco e sul retro del centro cristiano. Per un momento sembrò che l’attacco turco potesse iniziare a estendersi e a disordinare il centro, ma la situazione fu salvata dall’arrivo di rinforzi. Alcuni di questi provenivano dall’ala destra cristiana, dove molti capitani videro che Andrea Dorea era stato ingannato e decisero di staccarsi autonomamente per seguire i turchi verso il centro. Ma l’aiuto maggiore, che salvò la battaglia, fu l’arrivo della riserva cristiana. Il comandante della riserva, de Bazan, aveva osservato da lontano come Doria era stato messo fuori posizione, ed era perfettamente all’erta per entrare in battaglia all’arrivo dell’attacco turco.
Con la riserva cristiana che si abbatteva su di lui, Uluj Alì vide la scrittura sul muro e si diede alla fuga con il maggior numero di navi possibile. Le sue forze costituiranno la maggior parte delle navi turche fuggite da Lepanto. Il resto dell’imponente armata turca fu in gran parte spazzato via. Delle oltre 250 navi che Ali Pasha portò in battaglia, circa 190 furono distrutte o catturate.
E questa fu Lepanto. I Turchi avevano elaborato un piano di battaglia intelligente che dava loro reali prospettive di vittoria, ma Don Giovanni fece un uso altrettanto brillante delle proprie risorse e alcune dimostrazioni critiche di comando sotto pressione portarono alla vittoria della flotta cristiana. L’eccezionale gestione della battaglia a terra da parte di Barbarigo, che diede la vita pur mantenendo l’integrità della sua linea, impedì ai turchi di aggirare i cristiani lungo la costa. Al centro, le galee cristiane, tatticamente più potenti, e Ali Pasha furono uccise. Sul fianco di destra, i turchi riuscirono a incrinare l’integrità della linea cristiana mettendo fuori posizione Andrea Dorea, ma non riuscirono a sfruttare questo successo grazie alla tempestiva reazione della riserva cristiana. Mentre i fuggiaschi turchi scomparivano all’orizzonte, il sole tramontava sia sul giorno della battaglia sia sull’antica e venerabile era della guerra delle galee.
La battaglia di Lepanto fu senza dubbio una grande vittoria per la Lega Santa, che ebbe un effetto straordinario sul morale e sulla fiducia dei cristiani. Era la prima volta in un secolo che gli Ottomani venivano sconfitti in una grande azione di flotta. La battaglia era stata pianificata in modo eccezionale da entrambi gli ammiragli al comando, i comandanti di entrambi gli schieramenti avevano dato prova di una fermezza e di una competenza esemplari durante la battaglia (in particolare Barbarigo nell’ala di terra e Uluj Ali in quella di mare), e i soldati avevano combattuto duramente e con grande coraggio. Lepanto era stata una grande impresa delle armi cristiane, ma era stato un affare gestito da vicino che dimostrava che questo sistema di guerra mediterranea aveva raggiunto uno stadio molto avanzato.
Purtroppo per la vittoriosa flotta cristiana, la Lega Santa non fu in grado di sfruttare la vittoria, soprattutto a causa delle tensioni insite nell’alleanza. La vittoria a Lepanto non riuscì a salvare la colonia veneziana di Cipro, che cadde in mano agli Ottomani, e la flotta si disperse per tornare ai suoi vari porti d’origine. Quando l’armata si riunì l’anno successivo, gli Ottomani (una grande potenza con notevoli capacità statali) avevano già ricostruito la loro flotta con oltre 200 navi. Nel 1572, tuttavia, Don Giovanni non riuscì a portare gli Ottomani in battaglia e la flotta turca rimase indenne sotto la protezione della loro fortezza di Metone (la stessa Metone che Agrippa aveva catturato così brillantemente nella guerra di Azio). Nel 1573, dopo la morte di Papa Pio V, la Lega Santa non riuscì a schierare alcuna flotta e Venezia avviò trattative di pace unilaterali con la Porta Ottomana.
Gli Ottomani presero bene la sconfitta, ricostruendo la loro flotta e continuando lentamente a intaccare la periferia del Mediterraneo. Il Gran Visir turco commentò addirittura (si dice) all’ambasciatore veneziano:
Siete venuto a vedere come sopportiamo le nostre disgrazie. Ma vorrei che sapeste la differenza tra la vostra e la nostra perdita. Strappandovi Cipro, vi abbiamo privato di un braccio; sconfiggendo la nostra flotta, ci avete solo rasato la barba. Un braccio tagliato non può ricrescere; ma una barba rasata crescerà tanto meglio quanto il rasoio.
Duro, ma vero. Alla lunga, Venezia, con le sue ristrette risorse demografiche e la sua posizione geografica compatta, non avrebbe mai potuto competere con le potenze in ascesa che la circondavano, e oggi rimane nota soprattutto per le sue conquiste culturali e la sua bellezza fisica, piuttosto che per il suo impero.
Le flotte di galee della Lega Santa non erano tuttavia il problema strategico più pericoloso per gli Ottomani. Il vero pericolo si aggirava per l’Atlantico, sotto forma di vascelli a vela pesantemente armati che diventavano sempre più grandi e pericolosi a ogni passaggio.
Nel 1616, una flotta ottomana riuscì a tendere un’imboscata a una piccola armata spagnola che si aggirava nei pressi di Cipro. Gli spagnoli avevano solo 6 navi nel loro piccolo convoglio, che si trovarono ad affrontare non meno di 55 galee ottomane. Il problema, tuttavia, era che queste navi spagnole erano galeoni da battaglia, irti di cannoni e carichi di moschettieri. Sciamati dalle navi da guerra ottomane, più piccole e poco armate, gli spagnoli le fecero a pezzi con facilità, come leoni attaccati da tanti sciacalli. Al costo di soli 34 morti, gli spagnoli fecero naufragare 35 galee ottomane e uccisero 3.200 marinai turchi. Un insuperabile vantaggio tecnologico trasformò la battaglia in un tiro al tacchino.
Le galee erano diventate obsolete in un periodo di tempo relativamente breve. Quello che ho cercato di dimostrare in questa sede, tuttavia, è che all’epoca di Lepanto la galea conservava un ruolo importante in un sistema di guerra mediterraneo più ampio. I confini geografici del Mediterraneo continuavano a favorire le galee più economiche e più piccole, che potevano operare vicino alla costa, sostenere le operazioni anfibie e combattere all’interno di una rete di isole e basi costiere che costituivano la base della guerra mediterranea. Gli Ammiragli che combatterono a Lepanto non erano inequivocabilmente dei primitivi che si sfidavano con un sistema di armi obsoleto, né la battaglia fu una mischia insensata e caotica. Sia la flotta turca che quella cristiana si presentarono alla battaglia con piani elaborati con intelligenza e con una chiara comprensione delle proprie vulnerabilità e opportunità; inoltre, la battaglia fu ben gestita e ben combattuta. Lepanto fu, in tutti i sensi, una coda adeguata a questa antica forma di battaglia.
In ultima analisi, il vero nemico della galea era l’economia mondana. Le navi da guerra a vela a vela a fusoliera arrivarono a dominare i mari come batterie d’artiglieria galleggianti con una potenza di combattimento impareggiabile, ma l’esistenza di queste navi era dovuta al fatto che avevano creato le opportunità economiche che ne rendevano possibile la costruzione. La galea aveva sempre avuto senso nei confini del Mediterraneo, ma le nuove opportunità economiche create dall’Età dell’Esplorazione lasciarono l’economia e il mondo mediterraneo alle spalle, e la venerabile galea con essa.
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