Giuseppe Conte, Avvocato degli Italiani? Badi a Vincere a Genova_ di Piero Laporta

tratto da http://www.pierolaporta.it/giuseppe-conte-avvocato-degli-italiani-badi-a-vincere-a-genova/

Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio stanno compiendo errori strategici gravi, tuttavia ancora rimediabili, a patto di dare un’immediata sterzata al modo di fronteggiare il crollo del ponte di Genova.

La politica e il potere si reggono su due pilastri: le risorse e il consenso. Quest’ultimo è più fragile del ponte genovese e, come si sa,  mutevole di suo. Esiste tuttavia un elemento che – ben più d’ogni altro – determina repentini mutamenti del consenso: il sangue, la morte di innocenti. Tutte le rivoluzioni cominciarono a causa di guerre con spargimento di sangue innocente, per stragi  di popolazioni inermi o altre analoghe sconcezze.

Da mezzogiorno del 14 agosto, quando crollò il ponte Benetton a Genova, il sangue di 43 innocenti, schiacciati dal calcestruzzo malato è stato come un cannoneggiamento di gente inerme: chiunque sia in buona fede s’è reso conto che negli ultimi venti anni sono state svendute non solo le ricchezze dell’Italia ma anche le vite dei cittadini. Quel crollo è tuttora in grado di scatenare uno tsunami da travolgere e distruggere definitivamente, cancellarli dalla scena politica, il Partito Democratico e Forza Italia, primi responsabili dello sfascio e del crollo dell’Italia. Ebbene, questo governo è stato deviato, frenato prima che lo tsunami si scatenasse.

Mercoledì 15 agosto – il giorno successivo alla catastrofe genovese – 170 migranti erano nelle acque maltesi. Alle 3.40 della notte qualcuno – senza consultare il governo – ha dato uno strano ordine a due unità della Guardia Costiera italiana, affinché intervenisse a 17 miglia nautiche da Lampedusa per caricare i migranti. Circa cinque ore dopo, alle 8.20, è intervenuta nave Diciotti che ha imbarcato 177 migranti, all’insaputa del governo.

Se le due motovedette si fossero dirette – come è stato sempre fatto in casi analoghi – verso Lampedusa in condizioni di sicurezza, si poteva accendere il solito contenzioso con Malta e attendere la composizione da parte dell’Unione Europea. È arrivato invece l’ordine di trasferire i migranti sulla Diciotti e questa, portandosi a Catania, si è messa sotto l’occhio delle telecamere del mondo. È giunta a Catania, senza entrare nei porti di Pozzallo e Augusta, sui quali vige la competenza delle procure di Ragusa e Siracusa, note in passato per posizioni tolleranti verso l’immigrazione. Chi ha consigliato di andare a Catania sapeva che Luigi Patronaggio, procuratore capo di Agrigento, aveva pianificato di recarsi nel capoluogo etneo, per un’ispezione a bordo della Diciotti? All’ispezione è conseguita l’indagine per sequestro di persona, sostenibile proprio dalla procura di Agrigento.

In altri termini, dal giorno successivo al disastro di Genova, le prime pagine, invece di concentrarsi sui 43 morti ammazzati dal ponte crollato, sono state condivise con la Diciotti e Patronaggio. A  partire dal 18 agosto, dopo quattro giorni dal crollo, sfumate le cronache dei funerali, la Diciotti ha cancellato il crollo di Genova.

Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, questo è dilettantismo grottesco, neppure scusabile con l’inesperienza di governo.

Si dirà che il governo non vuole esporsi ad accuse di sciacallaggio. Le accuse di sciacallaggio sono arrivate comunque, intanto però il governo – mettendo in ombra il disastro genovese, a vantaggio della Diciotti – trascura l’interesse dello Stato, trascura l’interesse delle 700 famiglie di sfollati, trascura l’interesse delle famiglie dei 43 morti ammazzati.

Il governo, smetta di autocompiacersi per gli applausi ai funerali. Il governo smetta di lamentarsi per l’indagine a carico d’un suo ministro, mentre nessun indagato risulta dopo il crollo del ponte. Vogliamo scoprire oggi che certa magistratura fa politica? Questo non toglie che si debba agire con la risolutezza imposta dalla situazione e consentita dal potere governativo e politico, più vasto di quanto sia stato dispiegato sinora. Se Patronaggio prevale è solo responsabilità dell’autorità politica, in quanto controparte inerte. Il governo smetta di porre in cima alla sua agenda vicende artefatte come quelle della Diciotti; vicende artefatte a dodici ore dal crollo, facendosi prendere per i fondelli in modo elementare. Il governo proceda piuttosto e senza indugio a nominare un collegio di difensori, costituendosi parte civile e invitando ad associarsi come parti civili le famiglie degli sfollati, quelle dei morti, il comune di Genova e tutti i cittadini e le imprese in qualche modo coinvolti nel disastro.

Solo un gruppo di pressione siffatto può ottenere il risultato di controllare l’operato della magistratura genovese, risalendo alle responsabilità, per esigere risarcimenti non solo da Autostrade, ma da tutti i ministri delle infrastrutture, dai capi di governo e dalle burocrazie corresponsabili del disastro.

La concessione ad Autostrade è uno degli aspetti del problema, ma non è “il problema” nella fase di indagine sulle responsabilità. Alla magistratura genovese l’onere di stabilire se il disastro sia colposo o doloso. Il disastro tuttavia rimane: è un dato di fatto incancellabile, qualunque cosa dicano e facciano i ministri delle Infrastrutture da Antonio Di Pietro a Graziano Del Rio. Il governo ha il dovere verso se stesso, verso lo Stato e verso tutte le vittime, sopravvissute e non, di fare tutto il possibile perché, sotto l’occhio d’un collegio di esperti difensori, il diritto e la giustizia coincidano e siano salvaguardati. Di certo tale salvaguardia non ci sarà se si rimane inerti mentre si fanno affiorare documenti come la lettera – pubblicata da L’Espresso e sequestrata(!) dalla procura – datata 28 febbraio 2018, con la quale la Autostrade avvertiva il ministero delle Infrastrutture e il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova sullo stato critico del viadotto. Deve essere chiaro che tale documento non alleggerisce la posizione di alcuna delle parti in causa, tutt’altro.

Il consenso, come s’è detto, può essere cancellato repentinamente dal sangue, dalla morte di innocenti. Questo può accadere, anzi accadrà senz’altro, per quanti abdichino al dovere di difendere efficacemente quel sangue e quegli innocenti. L’unica vittoria efficace sarà l’individuazione dei responsabili e il risarcimento a loro carico di tutte le vittime del viadotto di Genova. Altro che profughi, Diciotti e Patronaggio. Se ne ricordi chi entrò a palazzo Chigi autonominandosi “avvocato degli italiani”. www.pierolaporta.it

LA TERRA SOTTO I PIEDI,di Roberto Buffagni

LA TERRA SOTTO I PIEDI

su Genova, in dialogo con Pierluigi Fagan e Alessandro Visalli[1]

 

E’ da un bel pezzo, non solo dal 14 agosto, che gli italiani si sentono mancare la terra sotto i piedi. Il crollo del ponte Morandi di Genova lo ha espresso con uno splendore metaforico accecante, perché è un correlativo oggettivo[2] perfetto.

Il crollo del ponte Morandi è il correlativo oggettivo di molte cose che finiscono, e finiscono male. Fine dell’Italia moderna di ieri, dell’Italia del miracolo economico, della giovinezza dei nostri padri o nonni, dell’abbondanza a portata di mano per tutti: il ponte Morandi, con il suo tracciato epico, il suo modernismo militante alla Le Corbusier, è figlio di quegli anni e di quelle ambizioni giovanili. Fine della modernità dell’Italia di ieri come ambizione sbagliata, come rincorsa tardiva, affannosa, volontaristica dei “paesi più avanzati”: l’Italia del miracolo economico non può permettersi i ponti in acciaio che paesi di più antica industrializzazione costruiscono da cent’anni, e parsimoniosamente getta il ponte Morandi nel deperibile cemento armato, ma senza rinunciare al tracciato avveniristico che ci fa fare bella figura, ci fa sembrare “un paese normale”. Fine della promesse de bonheur  della postmodernità, del sogno elettrizzante dei muri che crollano e dei confini che svaniscono, di libertà come infinito transito da un orizzonte a un altro orizzonte, senza soste, radici, termine: emblema i cento ponti, gettati dal nulla al nulla e scavalcanti il nulla, che troviamo sulla cartamoneta in euro, l’unica moneta pura della Storia umana; moneta senza terra e senza principe, sacramento del nulla che si transustanzia in Nulla senza materia sacramentale, ex opere operato della Tecnica, vessillo dell’Unione senza Unità e dell’Europa senza Europa. Fine dell’illusione che la promesse de bonheur della libertà postmoderna valga per tutti: i deplorables, i carnali che restano legati al suolo e alla materia precipitano nel baratro, gli pneumatici che transustanziano materia e vita in denaro volano, illesi s’incielano nell’Empireo delle corti di giustizia internazionali, dei grandi studi legali americani, delle aziende di public relations, trasportati e razionalmente giustificati dagli psichici al loro servizio. Per concludere: fine dell’illusione che l’Italia possa mai diventare “un paese normale”, cioè un normale paese capitalistico avanzato, come i paesi protestanti.

L’Italia non è mai stato, né potrà diventare mai finché esisterà come realtà simbolica, un “paese normale”, perché l’ultima impronta che ha modellato in profondità la patria interiore degli italiani è un possente movimento spirituale di difesa contro la modernità, la Controriforma cattolica. Finita, e finita molto male, la grande speranza giovanile della Cristianità europea, sostituito al principio del bene comune il criterio regolativo del male minore, spezzata la comunicazione tra l’aldiquà e l’aldilà nelle rappresentazioni del sacro, l’Italia ha iniziato a diventare un paese anormale pittoresco e spregevole, romantico e cialtrone, perché di volta in volta più arretrato o più avanzato degli altri paesi europei: siamo più arretrati quando la modernità va bene, siamo più avanzati quando la modernità va male: di qui anche la nostra meritata fama di “laboratorio politico”.

La protezione minuziosa e tirannica, premurosa e soffocante della Controriforma cattolica ha preservato, come un fossile nell’ambra, le sopravvivenze delle tradizioni pagane italiche, romane, greche, e ha lungamente riparato sotto la volta di un tempio invisibile la civiltà contadina con i suoi antichissimi costumi, cristiani e precristiani. La Modernità e la Storia premevano alle mura, s’infiltravano nelle vite personali, nei pensieri e nei sogni, ma l’incantesimo difensivo ha retto per secoli, in una lunghissima ritirata lenta e ordinata che solo molto di recente si è trasformata in rotta. Racconta il trauma del contatto diretto con la modernità illuminista e liberale trionfante il più grande poeta, insieme a Torquato Tasso, della Controriforma italiana.

Giacomo Leopardi[3] canta il confine del natìo borgo selvaggio, che da tanta parte/ Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude e dal quale cercò di evadere per tutta la vita, come trampolino verso l’assoluto (L’infinito); la speranza nel domani come illusione, creatrice di struggente bellezza e commovente, precaria gioia (Il sabato del villaggio); l’ incanto della civiltà popolare italiana come una fanciulla che la morte precoce rende eternamente giovane, bella e perduta come la patria, “membranza sì dolce e fatal”, sospirata in Va’ pensiero (A Silvia); il disorientamento di fronte alla Storia che incalza minacciosa come domanda infantile, smarrita, fiduciosamente rivolta alla vergine Luna, giovinetta immortal (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia); e sbriga il giudizio sul secol superbo e sciocco col sarcasmo delle magnifiche sorti e progressive (La ginestra).

Racconta la sconfitta dell’Italia controriformata, e la rotta disordinata degli italiani sul campo di battaglia della modernità “l’usignolo della Chiesa cattolica”, Pier Paolo Pasolini.

Ecco, ora la modernità è finita, e finita male; la postmodernità crolla, trascinando nel baratro molti italiani. S’inaugura in Italia – non a caso in Italia – quel che gli studiosi chiamano “il momento Polanyi”[4], che si manifesta anche con il sorprendente ircocervo del governo gialloverde. Se sia giusto o sbagliato, e come andrà a finire, non lo so. Per quel che mi riguarda: right or wrong, my country.

 

[1] [1] http://italiaeilmondo.com/2018/08/18/jaccuse-di-augusto-sinagra-e-uno-sguardo-dal-ponte-di-pierluigi-fagan/ ; https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-onesta.html ; https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-integrita.html ; https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-sicurezza.html

 

[2] Il “correlativo oggettivo” è un concetto centrale nella teoria letteraria elaborata da Thomas Stearns Eliot, elaborato in più saggi raccolti nel volume The Sacred Wood (1920). In sintesi: un’opera d’arte ben riuscita non descrive i sentimenti e le emozioni dei personaggi, ma li mostra per mezzo di un’immagine o un’azione che ne sia il correlativo oggettivoThe artistic ‘inevitability’ lies in this complete adequacy of the external to the emotion….” (“Hamlet and His Problems”). Un esempio di correlativo oggettivo ben riuscito è la scena in cui Lady Macbeth, dopo l’assassinio del re, si lava compulsivamente le mani.

[3] Giacomo Leopardi, naturalmente, non era credente, e anzi si è parecchio complicato la vita perché non volendo accettare incarichi nel governo pontificio e non disponendo di una rendita personale sufficiente, è sempre stato a corto di soldi. E’ un grande, grandissimo poeta della Controriforma perché lo spirito della Controriforma si oppone allo spirito del mondo moderno, e difende come può quel che resta del mondo antico. Che altro fa Leopardi? Che non sia cattolico e detesti i preti conta molto poco, direi nulla.

[4] V qui: http://tempofertile.blogspot.com/2016/08/karl-polanyi-la-grande-trasformazione.html

L’ANNO CHE VERRA’ E’ UN DEJA VU, di Antonio de Martini

Qui sotto un frizzante testo di Antonio de Martini. Alcune domande. Il quadro prospettato è del tutto verosimile; la trama tessuta dalla vecchia classe dirigente, sconfitta elettoralmente, ma predominante negli apparati istituzionali è adeguata al nuovo contesto politico?_Giuseppe Germinario

L’ANNO CHE VERRA’ E’ UN DEJA VU

Ispirato dalla atmosfera campagnola in cui vivo, mi sono chiesto quali siano o saranno i frutti di questo strambo governo.

I soli risultati certi sono la distruzione sicura di ogni ipotesi di un governo moderato di centro destra in grado di vincere le elezion e la contemporanea nascita di un forte partito di destra estrema.

In questo disegno c’è un elemento di bene e uno di male. Il bene è la distruzione di Berlusconi come personaggio politico e di conseguenza di “Forza Italia” che tornerà ad essere uno slogan sportivo.

Il male è che i governi moderati orientati a una politica di destra moderata saranno impossibili per lungo tempo. A destra si sta sostanziando l’ipotesi di un robusto partito di destra estrema cui il buon senso degli italiani non affiderà mai le redini del governo. A sinistra si sta predicando una ” strategia dell’attenzione” verso i 5 stelle.

Si tratta , a mio avviso, di un disegno preordinato cui sono tutti attivamente coinvolti, interessati e consapevoli.

I SEGNALI

a) Il movimento 5 stelle e la Lega stanno lasciando tranquillo il PD che sta riprendendo alla mano i suoi iscritti e simpatizzanti, così come la lamentela opposta che ” l’opposizione non esiste” significa che il PD – che sappiamo tutti esistere eccome- non attacca il governo, ma il solo Salvini, fortificando così la sua immagine di estremista di destra. ( si noti che nella Lega giovanile aveva creato il “gruppo comunista”). Da destra, al massimo si attacca il LEU, un piccolo lebrosario creato in laboratorio. La sinistra ha appaltato l’opposizione al venerando Cassese che mostra un attivismo notevole per l’età.

b) Di Maio, sta compiendo una serie di gesti ” di sinistra” come l’essersi scusato com Mattarella, aver privilegiato ” i lavoratori”, e aver reintrodotto il discorso “nazionalizzazioni”, aver scavalcato i sindacati sulla vicenda ILVA ecc. Tutti temi che ” suscitano l’attenzione della sinistra”. Si stanno creando le premesse di un connubio tra i 5 stelle e il PD.?

c) nessuno si è mai chiesto come mai la Lega si sia trasformata da movimento secessionista in movimento nazionalista senza nemmeno un dibattito sulla Padania o altro fogliaccio e senza un commento nemmeno dei giubilati interni.

d) nessuno si è mai posto il quesito di come mai Lusetti ( tesoriere della Margherita) si è appropriato di 50 milioni e ha transato per una ventina , mentre la magistratura ha posto una ipoteca di 50 milioni sulla Lega intera. Gli sceneggiatori non si fidano e hanno trasformato un reato individuale in reato di partito a garanzia del rispetto degli accordi?

Considererei io stesso questo post una farneticazione dietrologica se non avessi visto coi miei occhi la lettera , firmata dal generale de Lorenzo attestante che , per ordine dell’on Taviani, ministro dell’interno, aveva consegnato 250 milioni di lire all’on Almirante per consentire a lui di fare la parte dell’ “uomo nero” e agli altri di unirsi contro il “pericolo fascista”.

Ma dove vanno i marinai?, di Piero Visani

Sulla differenza tra potere e governo, un caso illuminante. Con una precisazione; le quinte colonne del potere nel Governo_Giuseppe Germinario

Ma dove vanno i marinai?

https://derteufel50.blogspot.com/2018/08/ma-dove-vanno-i-marinai.html?spref=fb

       Tra il 1990 e il 1993, la mia attività di supporto alla comunicazione dell’istituzione militare trovò un per me insperato supporto nel generale Goffredo Canino, all’epoca Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, che mi diede prova di condividere sinceramente e fattivamente la mia visione radicalmente ostile alle geremiadi sui “soldati di pace”. La cosa non sfuggì a un ambiente profondamente penetrato dalle culture dominanti (da quella cattolica della Comunità di Sant’Egidio a quella delle Sinistre, più forti di quanto comunemente si pensi all’interno degli ambienti militari) e partì non appena possibile la controffensiva, che si concluse con il famoso caso di “Lady Golpe”, Donatella Di Rosa.
       Chi l’aveva promossa era perfettamente a conoscenza del forte senso dell’onore del generale Canino, che con quel caso non c’entrava in alcun modo, ma che sicuramente avrebbe messo a repentaglio la sua personale carriera per difendere l’onorabilità dell’istituzione militare. E fu esattamente quello che egli fece, dando le dimissioni per difendere la reputazione di alcuni suoi sottoposti ingiustamente accusati dal potere politico e dalla canea mediatica.
       Si trattò di un’operazione da manuale, da parte di chi voleva togliere di mezzo Canino, condotta con spregiudicatezza e lucido senso dell’obiettivo da cogliere. Alla fine, infatti, fu aperta la strada a uomini in uniforme che avevano una visione molto diversa da quella di Canino o erano comunque disposti a legare l’asino dove voleva il padrone…
       Sorrido perciò nel vedere almeno una parte del nuovo governo gialloverde alle prese con un vertice della Guardia Costiera che sta sviluppando una politica del tutto opposta, sulla questione dell’emigrazione, a quella dell’esecutivo, senza che – per ora e credo ancora per molto – una sola testa venga fatta metaforicamente volare. Come ho scritto, ho visto teste – in ambito militare – volare per molto meno, talvolta anche per una sola parola o una dichiarazione di troppo. Qui invece si stanno accumulando atti ostili alla politica del governo in materia di immigrazione e – che la si condivida o meno – lo spoils system è uno strumento assolutamente legittimo in democrazia. Ma una parte consistente della classe politica italiana ancora non ha compreso che “il potere logora chi non ce l’ha” e alcuni di loro, anche se per il ventennio del centrodestra hanno creduto di averlo, non hanno capito niente e oggi, semmai, capiscono ancor meno. Così, se è vero che il PD ha perso qualsiasi credibilità a livello di opinione pubblica, ha saputo piazzare tutti i suoi uomini negli apparati dello Stato e li usa, oh se li usa, mentre altri credono di governare. Che ingenui…!
 
                                                                Piero Visani

ponti, di Elio Paoloni

Non sono facile all’indignazione: un’opera pubblica può cedere. Nella mia coazione a distinguere, a precisare, a gerarchizzare, le colpe verrebbero ripartite, soppesate, spalmate. L’avidità è una delle precipue caratteristiche umane. Che degli imprenditori si approprino di beni pubblici grazie ai compagnucci in politica, non è una novità del nostro paese. Che funzionari pubblici preposti ai controlli evitino di mostrarsi pignoli, per denaro o per vigliaccheria, rientra nell’ordine delle cose. La speranza è che la magistratura, benché frenata – o aiutata – da norme ipergarantiste, procedure farraginose e cronica mancanza di mezzi, finisca per evidenziare e sancire queste colpe. Sapendo che, molto probabilmente, si troverà un comodo capro espiatorio da ricoprire di soldi, un capro, di una certa età, magari, così, alla fine dei nostri celeri iter giudiziari, non andrà neppure in carcere. E consapevoli, s’intende, che altre tragedie ci attendono.

 

Ma questa non è la solita storia. I porci responsabili di questa tragedia non tacciono, non si sottraggono, non si coprono il capo di cenere. Continuano imperterriti a sventolare il vessillo della superiorità morale. Non perdono occasione di ricordarci che loro sono eticamente superdotati: accoglienti, elastici, pronti all’abbraccio. Che se li accusiamo di incuria facciamo sciacallaggio.

Costruttori di ponti. Odiano i muri, costruiscono ponti. Ponti navali, perlopiù. Che reggono bene perché Soros, il filantropo, è uno che, va detto, non bada a spese. I magliari invece hanno il braccino corto. Hanno rimandato e rimandato e rimandato. Si apprestavano – poverini – a far partire un piano di ripristino proprio a breve. Mancava giusto un cincinin! L’arte del rammendo non li esalta. Che attività prosaica la manutenzione! Priva di creatività, di afflato umanitario, di visibilità mediatica.

 

I Benetton e i loro compari sono un’anima sola nell’appoggio al disegno di sostituzione etnica, anche se in proprio i beneficiari dei balzelli autostradali prediligono la soppressione etnica; ma sulla storia dei Mapuche si è scritto abbastanza. E, anche qui, niente di inconsueto. Le multinazionali se ne fottono del destino dei popoli; li espropriano, li sfruttano e li massacrano, che c’è di nuovo? Di nuovo c’è che, invece di mimetizzarsi, i Maletton (copyright Veneziani) impongono campagne per gli svantaggiati, per i reietti della terra, per i migranti.

 

Che il ministro delle infrastrutture non si degnasse di rispondere alle interrogazioni sul ponte perché era occupato a digiunare per lo ius soli è stato ricordato in innumerevoli post; non credo tuttavia che siano davvero state colte tutte le implicazioni: non si tratta solo di una distrazione, non è che lo spocchioso ministro fosse occupato, come tutti i sinistri, in faccende lontanissime da quelle che riguardano la sicurezza dei cittadini. No, il ministro si stava occupando proprio dei ponti. Quelli di barche, volute dai mondialisti. Dopo aver contribuito a consolidare la posizione dei gabellieri in autostrada, contribuiva ad attuare il piano di invasione propagandato per decenni dagli stessi gabellieri con i manifesti di Toscani. Qui non si tratta più del consueto scambio appalti-finanziamenti tra politico e imprenditore. Si tratta di tradimento: la posta è la dissoluzione del paese.

 

Dissoluzione che passa per la spoliazione dei popoli del terzo mondo, destinati a inondare i paesi europei. Purtroppo, avendo i Benetton perpetrato la spoliazione in Argentina, l’unico sbocco è la decimazione dei Mapuche. A meno che, da grandi costruttori di ponti non ne facciano uno attraverso l’Atlantico.

 

Ci sarebbe parecchio da dissertare sulla simbologia dei ponti, che molto spesso erano opere militari (famoso un ponte che Cesare costruì in tempi brevissimi, tempi che un reparto di genieri moderni ha tentato invano di uguagliare). I ponti romani che resistono impavidi in tutto il mondo erano strumenti di invasione e di controllo dei popoli sottomessi, salvo poi divenire un ausilio alle invasioni barbariche. Ma torniamo ai ponti ideali.

 

Da trentacinque anni Benetton si occupa di colori. Della pelle. E’ del 1984 l’allusione, innocente, carina, che i mille colori dei maglioncini possano accostarsi ai tanti ‘colori’ dei ragazzi che nel mondo li acquistano. Già l’anno dopo il colore della pelle diventa centrale nelle immagini, ma siamo ancora a un buonismo da sillabario. Di cinque anni dopo è la foto della nutrice nera con neonato bianco. Nel 1991 lo scatto con angioletto bianco e diavoletto nero, deliziosi ma accusati di razzismo (è il boomerang dell’antirazzista, che dà eccessiva importanza al colore delle pelle, proprio come il razzista). Nel 1996 ci viene regalato “uno dei manifesti più belli della serie: il cavallo nero che monta una giumenta bianca. Sfondo limbo, animali scontornati, solo una striscia di sabbia bianca sotto gli zoccoli: impatto impressionante”. L’entusiasmo non è mio, ovviamente: trattasi del delirio di uno specialista della comunicazione. L’allusione allo stallone nero è greve e razzista ma anche profetica.

 

Dopo qualche anno di campagne incentrate su buoni propositi universalmente accettabili (ai quali non poteva mancare l’omofilia) nel 2011 parte una galleria di baci sulla bocca tra i leader del pianeta. Non più bimbi, adolescenti, persone comuni, ma Obama e Hugo Chávez, Benedetto XVI e Ahmed el Tayyeb, Mahmoud Abbas e Benjamin Netanyahu. Uniti al precedente scatto del nudo di Eva Robin’s, icona gender, veicolano un messaggio non troppo subliminale: la pace non può che passare per le unioni omosessuali. La coppia sterile è il futuro che si vuole imporre. Il genere indistinto, l’androgino chiuso in se stesso è il vertice dell’umanità. I colori di Benetton si dispongono ordinatamente nell’arcobaleno

 

Ed eccoci al manifesto pro immigrazione. Non più soltanto generica fraternità tra individui diversamente colorati ma esplicito riferimento alla meritoria opera delle ONG, esaltazione degli incursori in barcone. La cui destinazione finale è il mondo illustrato dall’ultima campagna, Nudi come, riferimento grottesco a un vago immaginario cattolico su Francesco ma anche pretesa un po’ tardiva di un Eden senza vergogna: nove ragazzini nudi che si abbracciano ma sembrano stipati, messi vicini a forza; soggetti anoressici, effemminati i maschi, prive di sensualità le femmine; tristi superfici di pelle bianca, ebano o gialla pronta a stingersi – come scriveva Paola Belletti su Aleteia – in un unico grigio fango. Una desolata pianura dove tutte le identità sono livellate fino al suolo. Non si saprebbe che fare, dove andare, per cosa battersi, chi amare in questo mondo distopico. Gli ‘accolti’, non indottrinati da decenni di politicamente correttissime trasmissioni tv e copertine de l’Espresso, sapranno bene invece per cosa e come battersi.

 

Subito dopo il crollo Toscani ha smesso di attaccare manifesti per vestire i panni di tecnico ANAS: “Ho sempre sentito che quel ponte era tenuto a un livello altissimo di qualità. Non sono un tecnico, ma ho sempre sentito che era seguito con dei parametri molto più ampi della media europea”. Negare ogni evidenza, sfacciatamente. E’ questo la loro mission. Lui ha “sentito”. Crede nelle Voci.

 

I ponti virtuali, quelli che i Maletton di tutto il pianeta apprestano sollecitamente, non sono soggetti a collaudi e ispezioni. Si ergono fieramente nell’orizzonte utopico, eterni, incrollabili. Ma anche da quelli precipitano corpi. Il miraggio che lorsignori hanno fatto balenare in Africa (degno del Collodi: la strada per il paese dei Balocchi che dopo una parentesi di pacchia si dirama infine nei sentieri dell’illegalità o della schiavitù) comporta la discesa negli abissi di centinaia di illusi, i più deboli. Difficile però inchiodare alle loro responsabilità i costruttori di ologrammi. Si può sperare di inchiodarli solo per i ponti reali. I ponti corrosi di questa Italia lasciata andare in malora. Tanto quelli che contano, i falsi pontefici, sono ben protetti dal Muro di Capalbio.

 

Negli anni ’90 il capo della pubblicità di Benetton contattò lo scrittore Tim Parks, l’inglese tifoso del Verona, per una collaborazione pubblicitaria. Restio ad associarsi al team che “si fa un dovere di scovare oggetti di compassione”, il romanziere riportava le parole che Roberto Calasso, ne La rovina di Kasch, aveva dedicato al marchese di Lafayette, eroe delle democrazie, il quale, sempre a caccia di popolarità, assumeva d’istinto la posa esemplare: da allora in poi “chi vuole il bene dell’uomo avrà dell’uomo un’immagine grossolanamente imprecisa, bonaria, ottusa, enfatica”. Diffidente verso il samaritano con la Nikon Parks continuava: “Com’è brava la televisione a mediare tra il mondo concreto delle persone che possiamo toccare e l’innocua astrazione del genere umano! Quei rifugiati sono persone reali ma non puzzano, non mendicano, non replicano mai. Che vicini ideali!”

Convinto dai dieci milioni del compenso Parks finì per collaborare a un progetto su Corleone e la mafia, vedendosi recapitare, sotto Natale, un pullover Benetton. Al primo abbraccio della figlia venne fuori un buco nella cucitura. “Forse – commentava lo scrittore – nell’interesse del genere umano, questo è un problema al quale Luciano Benetton farebbe bene a dedicare un po’ di attenzione”. Ora conosciamo altre cuciture alle quali Luciano ha dedicato poca attenzione.

https://eliopaoloni.jimdo.com/

costruttori di ponti, di Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2018/08/17/i-meriti-del-governo-conte_-le-implicazione-della-tragedia-del-crollo-del-ponte-morandi-a-genova/

Ho conosciuto la Treviso dei Benetton negli anni ’80. La famiglia godeva di grande prestigio e rispetto tra la gente. Era uno dei gruppi imprenditoriali che stavano guidando lo sviluppo vorticoso di una regione proprio quando il triangolo industriale del nord-ovest stava avviando un drastico processo di riorganizzazione e riduzione delle concentrazioni industriali, ma anche un allarmante ridimensionamento ed impoverimento dei più grandi gruppi. Quella famiglia riuscì a creare nuovi stabilimenti manifatturieri, ma anche una rete impressionante di lavoro a domicilio e decentrato che coinvolgeva decine di migliaia di veneti. Gli occhi più attenti colsero in quelle dinamiche i primi segni di un declino complessivo della qualità della produzione industriale e del peso delle industrie strategiche nonché le basi di uno sviluppo industriale alternativo fondato sulla precarizzazione e su una catena di valore meno significativa che comunque favoriva lo sviluppo di quella regione rispetto alle altre. Riuscì, assieme ad altre, pertanto a dare un grande impulso alla diffusione di una imprenditoria piccola e polverizzata fondata su elevati redditi famigliari tratti da attività ibride nella piccola agricoltura, da un assistenzialismo fondato su pensioni ed indennità concesse a man bassa, su lavori a domicilio e in fabbrica e su una sapiente politica creditizia delle banche popolari, rafforzate da rimesse e rendite provenienti soprattutto dalle estrazioni dalle cave. Il livello di organizzazione gestionale ed industriale di gran parte di quelle attività era letteralmente penoso ed infatti cominciò a scremare e declinare paurosamente già dalla fine degli anni ’90. Gli stessi Benetton, assieme a tantissimi imprenditori, iniziarono a trasferire massicciamente all’estero l’attività manifatturiera oltre a garantirsi il controllo di buona parte delle materie prime, la lana in particolare, con l’acquisto di centinaia di migliaia di ettari di terreno, soprattutto demaniale, in Argentina. Fu un colpo al prestigio popolare della famiglia. I Benetton riuscirono comunque a salvaguardare una aura potente di illuminati con un sapiente mecenatismo ed una grande capacità di comunicazione fondata su paradossi e su un concetto elementare di fratellanza universale tra diversi complementari alla diversità di colori e modelli delle proprie linee di abbigliamento. Quella comunicazione non era un mero involucro vuoto e artefatto. I pochi esterni che hanno avuto la fortuna di visitare i laboratori nei sotterranei del centro direzionale nei pressi di Preganziol rimanevano colpiti dal fervore e dall’entusiasmo, dalla creatività che sprigionava quell’ambiente e si trasmetteva anche alle istituzioni culturali e accademiche sino ai primi anni del 2000. Fu una delle basi della creazione dell’attuale intellighenzia, oggi così smarrita e autoreferenziale. La svolta definitiva in rentier e percettori di rendite avvenne con la privatizzazione delle concessioni pubbliche, per i Benetton nella fattispecie di quelle autostradali. Le motivazioni potevano avere una loro fondatezza nel tentativo di introdurre criteri privatistici nella gestione dei servizi che innescassero innovazione, organizzazione e controllo dei costi. La fede nelle virtù innate delle attività imprenditoriali e delle dinamiche di mercato condusse invece alla trasformazione della quasi totalità della grande imprenditoria privata superstite in tagliatori di cedole proprie e per conto terzi della peggiore risma. Un connubio tutto politico, sottolineo politico che creò l’attuale classe dirigente responsabile nei vari livelli del progressivo e disastroso declino del paese accelleratosi già a metà degli anni ’90. Quel mecenatismo e quell’illuminismo si rivelò di pari passo sempre più un involucro artefatto e cinico proprio di un ceto decadente e parassita, avulso.

Mi ha subito sorpreso la apatica, grottesca, manifesta indifferenza dei Benetton a ridosso della tragedia.

Con quegli antefatti e a mente più fredda, ad una settimana dalla tragedia del crollo del ponte, riesco a spiegarmi la rozzezza e l’impaccio impressionanti manifestati dai comunicatori della Società Autostrade e dalla famiglia Benetton.

I nostri illuminati purtroppo non sono soli nella loro mediocrità.

Il cardinale Bagnasco, nella scialba e anodina gestione dell’intera liturgia che ha regolato la cerimonia funebre ha raggiunto l’apoteosi del peggio nell’omelia, con la sua involontaria macabra ironia sui “ponti la cui funzione è solcare il vuoto e condurre a nuova vita le anime”. Ci ha pensato, paradossalmente, l’orazione dell’imam, nel suo italiano fortunatamente approssimativo, a ridare qualche goccia di ottimismo e qualche prospettiva di giustizia alla folla presente nella cerimonia. E’ stato, di conseguenza l’unico, tra i religiosi, ha ricevere applausi sinceri dagli astanti.

I Benetton, però e i loro accoliti hanno saputo fare di peggio nella loro freddezza, aridità d’animo, intempestività e mancanza pressoché assoluta della virtù fondamentale dei potenti in debito di autorevolezza: l’ipocrisia! Hanno dato il meglio della loro debolezza e del loro arroccamento sordo: la cieca arroganza!

Con le vittime appena incastrate tra le macerie hanno pontificato sulla necessità di accertare le responsabilità prima di ogni azione. Sollecitate una prima volta da Salvini a collaborare, hanno bontà loro sottolineato di aver concesso il passaggio gratuito delle ambulanze sull’autostrada; sollecitati ancora una volta dallo stesso Ministro a dare un segno di vicinanza ai familiari delle vittime, a qualche giorno di distanza hanno porto le condoglianze secondo lo stile proprio di un telegramma di convenevoli a un caro estinto; ulteriormente spinti a dare un qualche segnale di sostegno alla città, agli sfollati e alle vittime, anziché usare la discrezione e annunciare l’intenzione di contattare gli interessati e le istituzioni per concordare le modalità e l’entità del sostegno hanno strombazzato da parvenu ai quattro venti lo stanziamento di 500 milioni di euri. Badate bene! I due ultimi atti di comprensione umana sono scaturiti dai loro cuori solo dopo aver affidato a consulenti esterni la gestione della comunicazione, probabilmente con qualche sofferenza del cuore stesso posto troppo vicino al portafogli.

L’allucinante sordità di questo brandello emblematico di classe dirigente è stata purtroppo parzialmente offuscata dalla dabbenaggine comunicativa e dall’improvvisazione emotiva delle reazioni di alcuni ministri, in particolare di Di Maio, il quale fatica ad esibire il freddo aplomb istituzionale nelle risposte, nelle reazioni e nei sentimenti. Per il resto ad amplificare la “defaillance” dei manager e padroni ci sta pensando da par suo l’isterica reazione e difesa delle loro prerogative e dei loro comportamenti da parte dei dirigenti più esagitati e gretti del PD.

I baldi difensori dovrebbero meritare una amorevole attenzione a parte in proposito.

In un modo o nell’altro i costruttori di ponti di fratellanza in una umanità unita dall’ottimismo pubblicitario rischiano di cadere sulla cattiva costruzione e manutenzione di un ponte in cemento armato.

NUOVI COSTRUTTORI DI PONTI

In crisi un costruttore di ponti, ne viene fuori un altro. Questa volta si tratta di ponti galleggianti.

In queste ore la nave della Guardia Costiera “Diciotti” ha raccolto aspiranti immigrati da un barcone in Mediterraneo, adducendo una richiesta di soccorso. Il Governo di Malta, le cui motovedette stavano accompagnando il barcone, ha smentito tale richiesta e rincarato la dose affermando che i naviganti avevano rifiutato la loro offerta di soccorso essendo al sicuro sul loro mezzo. L’ammiraglio Pettorino, comandante della guardia costiera di nomina Gentiloni, ha coperto il comportamento della nave; i Ministri della Difesa, Trenta e degli Esteri Moavero hanno coperto senza smentita e con ogni evidenza l’ammiraglio Pettorino. L’obbiettivo è mettere in imbarazzo e ridicolizzare Salvini e le componenti politicamente più autonome del Governo. Attendiamo lumi da Mattarella. La Diciotti è stata artefice di un gesto analogo un paio di mesi fa. I Comandi della Marina Militare, meno di due anni fa, di fronte alle intenzioni di bloccare le partenze degli scafisti e i salvataggi in prossimità delle acque libiche ribadirono la loro intenzione di proseguire comunque con i salvataggi. Una Repubblica nella Repubblica. È tempo di fare pulizia nel Governo e nelle Pubbliche Amministrazioni. In autunno si annunciano tempeste e provocazioni pesanti. Difficilmente si riuscirà a sostenere la barra guardandosi nel contempo da nemici e da “amici”.

Buona fortuna agli italiani!

J’ACCUSE, di Augusto Sinagra e UNO SGUARDO DAL PONTE, di Pierluigi Fagan

Due testi lucidi e nel contempo emotivamente significativi. La gravità di quanto è successo del resto non può che sollecitare pulsioni e considerazioni all’altezza. Sono una sentenza senza appello alla vecchia classe dirigente, ma anche un monito a quella emergente_Giuseppe Germinario

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J’ACCUSE, di Augusto Sinagra

Il crollo del ponte di Genova con i suoi circa 60 morti (39 trovati e circa 20 ancora dispersi) è una tragedia nazionale che potrebbe tradursi in qualcosa di traumaticamente positivo. Ho ascoltato ignobilità che mai avrei pensato potessero uscire da bocca umana. Una per tutte: ci si preoccupa del calo in borsa di Atlantis ma non ci si è preoccupati dei piccoli risparmiatori di Banca Etruria dei Boschi o di Banca Veneta di Zonin. Ho ascoltato infamie sulle cause del crollo mentre vi sono le foto che le attestano. Ho ascoltato putride giustificazioni di quella banda di pescecani dei Benetton e dei loro complici. Ho appreso cose che ignoravo: un contratto di concessione che viene secretato come se dovesse essere tutelato un segreto militare o preservata una esigenza di sicurezza nazionale! Ho appreso di quel tale Gros Pietro che da Presidente dell’IRI poi diventa Presidente di Atlantis. Ho appreso di un tale Del Rio, medico e politico fallito, che Ministro delle Infrastrutture, non da seguito a ben due interrogazioni parlamentari del Sen. Rossi che denunciava il cedimento dei giunti, e lui si occupava dello jus soli. Ho appreso che in modo furtivo (come i ladri di notte) nella finanziaria 2017 si inserisce una proroga della concessione ai Benetton vent’anni prima della scadenza come originariamente prevista. Sapevo della legge last minute che subordina la perseguibilità della appropriazione indebita, ancorché aggravata per l’ammontare, alla querela di parte. E ora ne capisco il perchè: si trattava e si tratta di proteggere la cricca di Rignano dalla malversazione dei fondi Unicef destinati ai bambini affamati dell’Africa. Potrei continuare ancora ma lo schifo mi monta in gola. Ecco, io accuso una classe politica e di governo a tutti i livelli e senza distinzioni di Partiti, ignobile, fradicia e corrotta, che dal 1992, in esecuzione di un preordinato disegno criminoso, ha devastato l’Italia riducendola da quinta potenza economica mondiale a Paese del terzo mondo. Assumo, per quel poco che conto, la difesa di più di cinque milioni di poveri e ad essi anch’io voglio dare voce.
Accuso il figlio di Bernardo Mattarella il quale non ha trovato di meglio da dire (più o meno) che “gli italiani hanno diritto a infrastrutture sicure”. Il figlio di Bernardo Mattarella non ha trovato di più e di meglio da dire. Egli sproloqia quando parla di “far west“! Per lui uccidere per dolo eventuale e per volgare ruberia, circa 60 persone non è far west. Il figlio di Bernardo Mattarella non è molto acuto ma non è stupido. Lui che difende il pareggio di bilancio, l’euro, questa Unione Europea che fa solo schifo, che promuove l’invasione africana assieme al suo omologo Bergoglio, che costa miliardi di euro all’anno, si è chiesto con quali soldi andrebbero messe in sicurezza n Italia le strutture per renderle sicure? Chi dice queste cose si pone moralmente sullo stesso piano di chi ha provocato quei morti. Il problema non è revoca della concessione, esproprio, inadempienze contrattuali o altre cabale giuridiche. Il problema è un altro ed è quello di ricostruire lo Stato, e prima dello Stato la morale è la coscienza nazionale. Per professione e per convinzione sono sempre stato un legalista ma ora non più (se penso solamente al paventato pagamento di una penale di venti miliardi di euro agli assassini).
Ora non più. Non basta più la regola giuridica o la regola democratica. Occorre altro. Occorre un rivolgimento delle coscienze, un rivolgimento fisico, un fatto rivoluzionario. La rivoluzione non è illegittima in sè stessa. È l’esito che ad essa dà legittimità.
Genova per tanti motivi è una città simbolo. È la città dello scoglio di Quarto. È la città dell’Uomo di Staglieno. Ma è anche la città del ragazzo di Portoria.
A questo mio atto di accusa aggiungo l’auspicio e l’invito che gli italiani sian tutti Balilla come il ragazzo di Portoria: prendiamoli a sassate, facciamoli scappare, mettiamoli in galera e che siano Tribunali veramente popolari a giudicare questa feccia di uomini che ci hanno derubato dei soldi e del futuro, che ci hanno offesi e vilipesi, che ci hanno tolto una Patria.

Augusto Sinagra

UNO SGUARDO DAL PONTE, di Pierluigi Fagan

La metà delle famiglie che ha avuto lutto nei fatti di Genova, ha rifiutato i funerali di stato. La giuria popolare ha già emesso la sentenza: i ponti non debbono crollare, per nessuno motivo, se lo stato vuole privatizzare le responsabilità di gestione dei suoi/nostri beni, allora noi privatizziamo il nostro lutto. La sfera pubblica, comunitaria, è definitivamente infranta, popolo e stato, popolo e politica sono su due monconi di territorio opposti, oggi divisi dal ponte spezzato.

La frattura sembra ripercuotersi a tutti i livelli, anche tra popolo e costruttori dell’opinione che si rivelano esser parte organica di un potere che ha fallito clamorosamente. Quando si arriva a fallire, non si può pretendere dal fallito quell’intelligenza la cui mancanza è proprio la causa del fallimento. Richiedere l’osservanza dei tempi del diritto costituito, invocare il “dramma” delle ripercussioni su i mercati ed il diritto l’impresa, invocare la responsabilità su i messaggi che s’inviano a gli ”investitori esteri”, indicare a giudizio l’impreparazione della nuova classe politica lì da poco più di due mesi, omettere informazioni che comunque tracimano dalle fonti alternative, sono tutte ennesime conferme delle ragioni che hanno portato la fallimento: la perdita di contatto col senso comune.

Sul piano formale, l’attuale governo sta certo dando l’impressione di non esser esperto e del resto se è “nuovo” davvero e non riciclato o lavato con Perlana, difficile possa esserlo. Ma nel gioco di chi butteresti dal pilone, il popolo non sceglie il non esperto in gestione del dramma del ponte spezzato, ma l’esperto che non ha evitato che il ponte si spezzasse, la sostanza prevale sulla forma, ovvio per il senso comune, meno ovvio per chi ha privatizzato anche il senso.

La drammaturgia metaforica a questo punto potrebbe invocare anche l’immagine del “Sipario strappato”, l’ennesimo brutto spettacolo di quel dietro le quinte in cui personaggi pubblici della politica, s’intrecciano col potere dei soldi che distorce l’interesse pubblico in favore dei loro diritti di élite autonominata ed autogiustificata. Cose che per altro si sanno e si sanno da secoli non da mesi o anni, ma cose che si tollerano sino a che viene garantito lo standard minimo delle strutture di convivenza. Far crollare un ponte rompe quel contratto di sopportazione.

Forse solo la coincidenza con la festività ferragostana ha evitato di trovare tra le vittime anche il testimonial di un ultimo aspetto del dramma, la “Morte di un commesso viaggiatore”, quella figura che vive ai più bassi livelli della costruzione sociale intelaiata di scambi, scambi che presuppongono collegamenti e quindi ponti e sogni, sogno di poter scalare il telaio per darsi migliori condizioni di possibilità. Willy, il commesso viaggiatore anti-eroe del sogno americano tratteggiato nel dramma milleriano, scoperto di non poter più guidare la macchina per esercitare il suo lavoro e quindi privato dell’illusione di poter guidare il suo sogno, cerca un posto fisso ma non c’è nulla di fisso in quel sogno che diventa incubo. Quello che per lui diventa incubo è il sogno di qualcun altro che prospera proprio perché nel sistema non c’è nulla di fisso, tutto è flessibile meno il presupposto: qualcuno deve guadagnarci. Se non sei in grado di oscillare anche tu, i tuoi sogni e la tua famiglia, non servi, sei un servo che non serve. Willy quindi si suiciderà con la sua macchina per dare alla famiglia i proventi dell’assicurazione sulla sua vita che, svuotata del sogno, si affloscia su se stessa priva di senso.

Arriviamo così al ponte Morandi immortalato dalla copertina della Domenica del Corriere di fine anni ’60, alla rete autostradale e ferroviaria italiana che allora venne stesa per dar corpo al sogno del miracolo economico. Sogno, miracolo, costruzione sociale che ormai ha più di sessanta anni e sbiadisce nel ricordo, ricordo che svanisce con la morte stessa di coloro la cui anagrafe porta la data ultima a progressiva scadenza. L’Italia non ha un sogno, non spera più nei miracoli, non è in grado di fare progetti condivisi, litiga con se stessa, ha perso la sua consistenza comunitaria. L’onda lunga dei rancori verrà, nelle prossime settimane e mesi, alimentata da tutti coloro la cui vita dipende dalla circolazione in una città ed in un’area geografica che -privata della connessione- rallenterà, s’ingolferà, gripperà. Col ponte spezzato, si spezza il contratto silenzioso tra popolo ed élite, tra sogno e realtà, tra presente e futuro. E’ il momento di guardarci urgentemente negli occhi e trovare un nuovo tessuto il cui senso non potrà che esser condiviso da molti per reggere l’intera comunità, in tempi che si mostrano sempre più difficili.

[L’immagine è copiata da una vista ieri nella mia timeline che però non riesco più a ritrovare, mi scuso con l’autore/trice]

i meriti del Governo Conte_ In appendice le implicazioni della tragedia del crollo del Ponte Morandi a Genova, di Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2018/08/20/costruttori-di-ponti-di-giuseppe-germinario/

Siamo a poco più di due mesi dal varo inaspettato del Governo Conte. Inaspettato almeno per gran parte dei collaboratori di Italia e il Mondo, compreso chi scrive. Una sorpresa dettata dal diverso punto di vista da cui siamo partiti noi nel tentativo di individuare le tendenze culturali e politiche di fondo che stanno portando ad una destrutturazione e ad una ricomposizione delle forze politiche rispetto a quello adottato dai protagonisti in campo sulla base di esigenze tattiche immediate suggerite dalla contingenza delle scelte e dei comportamenti. Una discrasia ben illustrata da Roberto Buffagni nella sua ultima cristallomanzia. L’epilogo sorprendente è stato certamente assecondato se non proprio indotto da una particolare congiunzione astrale che ha ispirato le mosse partigiane e suicide del Presidente della Repubblica e riesumato il residuo spirito di sopravvivenza di un ceto politico, sconfitto elettoralmente e in drammatico debito di credibilità, fermatosi appena in tempo sul precipizio del peggior trasformismo. Tanto più che un eventuale accordo del PD piuttosto che di Forza Italia con il M5S avrebbe richiesto il sacrificio plateale di Berlusconi e di Renzi, le anime e le colonne portanti dei due partiti.

L’istinto di sopravvivenza e il predominio del punto di vista tattico dei personaggi in campo non sono però sufficienti a giustificare e determinare l’epilogo.

Un orizzonte più definito e più profondo può essere senz’altro offerto partendo dall’alto, puntualizzando il grande e inedito attivismo e l’inusuale impegno mediatico profuso dai promotori delle due internazionali o presunte tali, quella globalista guidata da George Soros già ampiamente consolidata e quella sovranista impersonata da Steve Bannon, entrambi americani. Un punto di osservazione che meriterà una apposita riflessione.

In questo articolo si partirà piuttosto dal punto di vista degli attori nazionali e dalle dinamiche più o meno calcolate innescate dai loro atti.

Il grande gioco geopolitico è certamente al di fuori della portata del nuovo governo, come del resto dei precedenti ormai da parecchi decenni a questa parte.

Non è un caso che il Segretario di Stato americano Pompeo, nel suo viaggio preparatorio del recente incontro con Putin in Finlandia, oltre alla Gran Bretagna abbia toccato solo Roma; nel suo incontro capitolino ha incontrato Conte, Di Maio e Salvini, dedicando a quest’ultimo le maggiori attenzioni e sottolineando con reiterata fermezza che l’intero ambito dei rapporti con la Russia, comprese le sanzioni, deve essere gestito in prima persona dalla presidenza americana.

Ciò non ostante il Governo si avvia a fungere da vera e propria cartina di tornasole in grado di mettere quantomeno a nudo l’ipocrisia, la precarietà e le debolezze del contesto nazionale e di quello euromediterraneo.

Su alcuni temi secondari, rispetto agli interessi ed indirizzi strategici, ma molto importanti rispetto ai processi di formazione dell’opinione pubblica e della coesione sociale, è già possibile verificare l’impronta e l’impatto iniziale dell’azione politica. Appunto perché secondari, sono ambiti nella cui azione si possono acquisire maggiori margini di autonomia.

 

IMMIGRAZIONE

Il primo banco di prova scelto dal Governo si è rivelato un pieno successo. Gli sbarchi sono crollati drasticamente. Si vedrà per quanto tempo. Attualmente le organizzazioni sono impegnate a cercare percorsi alternativi verso paesi più accondiscendenti oppure a riorganizzare le traversate in modo da arrivare direttamente ai punti di sbarco. Ci vorrà tempo per ritessere le fila di una organizzazione ormai abituata da anni ai salvataggi facili se non addirittura commissionati. Una volta ripristinata non farà però che innalzare il livello di scontro sempre che auspicabilmente il Governo riesca a mantenere la giusta determinazione.

Rimane il problema della gestione dei rimpatri e delle grandi sacche di lavoro nero e di malaffare. Ci vorrà tempo, i recenti fatti di Macerata, Moncalieri e Foggia dovrebbero riuscire a dare una ulteriore spinta; non mi pare che ci siano grandi movimenti organizzativi in proposito. Rimangono purtroppo alcuni punti oscuri da risolvere come il comportamento di ampi settori di comando della Marina Militare particolarmente propensi alle politiche di “accoglienza”.

È sul piano europeo che sembrano raggiunti i migliori risultati politici, sia pure ancora interlocutori. La richiesta di condivisione della gestione ha messo a nudo la spaccatura netta latente tra gli stati nazionali; gli accordi su base volontaria hanno rivelato una volta di più che l’Unione Europea consiste fondamentalmente in un accordo solvibile tra stati nazionali e il surrettizio passaggio dai cosiddetti “rapporti di cooperazione rafforzata” a quelli “su base volontaria” non fanno che accentuare questo aspetto e questa divaricazione dai propositi unitari. La solidarietà su base volontaria si sta rivelando in tutta la sua ipocrisia nei tentativi di rifilare le maggiori quote ai paesi dai governi per qualche motivo più accondiscendenti, come quello spagnolo. Una soluzione che si rivelerà presto una mina vagante in grado di destabilizzare ulteriormente quel Governo già fragile. Rimangono la meschineria sempre più sciatta della leader tedesca dei “volonterosi” impegnata più che altro a tentare di rifilare ai paesi europei originari di prima accoglienza gli ultimi arrivi indesiderati e le rodomontate di Macron, imperterrito nelle sue politiche di destabilizzazione nel Mediterraneo pressoché a costo zero per il suo paese. Può rivelarsi, quello della solidarietà europea, nel medio termine un boomerang che arrivi ad alimentare e legittimare i flussi migratori illegali e incontrollati. Un argomento che verrà affrontato nell’articolo che esaminerà il futuro del Governo Italiano dal punto di vista delle dinamiche geopolitiche.

RAI E SISTEMA DI INFORMAZIONE

Le elezioni del 4 marzo e la formazione a giugno del nuovo governo hanno accelerato un processo di stretta normalizzazione del sistema di informazione tradizionale.

Già prima delle elezioni l’ipotesi di un governo costruito sull’asse Renzi-Berlusconi era servita da guida agli indirizzi editoriali del Gruppo Mediaset e dei quotidiani legati al gruppo.

Con la svolta politica di primavera quella ipotesi è rimasta sorprendentemente all’ordine del giorno. La7 ha accentuato scandalosamente e sfacciatamente, specie nelle ore serali, la propria partigianeria filopiddina; Mediaset da par suo ha epurato i propri staff con il benservito a Belpietro, uno dei due esempi di editori autonomi in Italia e Giordana affidando la redazione di un canale in quota renziana.

La nomina di Marcello Foa a consigliere d’amministrazione, in predicato di diventare Presidente della RAI, ha rappresentato il classico significativo intoppo nella realizzazione del progetto. La canea e la sollevazione di scudi del vecchio establishment politico e dell’universo mediatico sono impressionanti. Mettere in discussione così rozzamente l’integrità, la capacità professionale e l’attitudine alla funzione di garante di un tale professionista, senza alcuno scrupolo nella rimozione di condolidati rapporti di lavoro ultradecennali, ha rivelato il legame simbiotico del sistema informativo con i centri di potere sempre meno credibili e sempre più smarriti. Anche su questo il comportamento del “liberale” Berlusconi è emblematico sia dello stato dell’arte che della statura dei personaggi.

La stampa e la televisione non detengono più il monopolio dell’informazione e della formazione dell’opinione pubblica, ma sono ancora uno strumento importante e con una gerarchia precisa che consente una manipolazione controllata. Le reti di informazione e socializzazione telematiche sono canali alternativi sino ad ora efficaci anche se caotici e pletorici, quindi dispersivi e propensi a creare nicchie. I sistemi di manipolazione, legati per lo più al controllo dei server centrali di trasmissione e gestione dei dati, sono indiretti e sofisticati, legati alla manipolazione degli algoritmi che decidono della facilità di accesso. Strumenti al di fuori della portata di azione dei ceti politici periferici i quali devono accontentarsi di attività di disturbo e di segnalazione, il più delle volte pretestuosa. Anche qui la via della censura e dell’oscuramento si sta aprendo con minori vincoli legali e possibilità di contrasto delle decisioni. La recente chiusura di infowars, negli USA, rappresenta un primo grave segnale; le ricadute di credibilità sui gestori delle reti sono però molto pesanti.

Sta di fatto che la vicenda ha contribuito a mettere a nudo il complesso sistema di relazioni e manipolazione del sistema informativo e a far venire allo scoperto le reti coperte di collusione.

IL DECRETO DIGNITA’

È forse il provvedimento dalle implicazioni più significative in grado di mettere in evidenza le debolezze di fondo delle due forze politiche e la loro capacità di superarle.

Se con il “job act” Renzi ha voluto sancire una prova di forza con il sindacato, indebolendone strutturalmente la capacità di contrattazione collettiva e di gestione dei contenziosi individuali, con la limitazione e giustificazione dei contratti determinati e la reintroduzione dei voucher presenti nel “decreto dignità” il sindacato è rimasto paradossalmente ai margini anche in un tentativo di avanzamento dei diritti dei lavoratori dipendenti. È proprio il concetto di autonomia sindacale ed autonomia contrattuale, quindi delle modalità di contrattazione, così come imposto dalla CISL ed acquisito da tempo ormai dalle due altre organizzazioni, che sta venendo meno. I tempi di un intervento legislativo diretto sulla questione della rappresentanza e della titolarità dei diritti di contrattazione, sino ad ora prerogative gelosamente detenute dalle associazioni sindacali, sono ormai maturi. Le ragioni sono oggettive, legate ad una frammentazione del mercato del lavoro difficilmente gestibile con i tradizionali strumenti di azione sindacale; sono anche soggettive, con un gruppo dirigente autoreferenziale, legato sempre a doppio filo con il vecchio ceto politico e sempre meno rappresentativo di una base sindacale dagli orientamenti politici sempre più incompatibili e lontani da essi.

Il merito dei provvedimenti legati ai lavori occasionali e ai contratti a tempo determinato colgono un problema reale. Da una parte la presenza di lavori occasionali e la necessità di una loro copertura assicurativa e previdenziale cui associare in qualche maniera il riconoscimento di una pensione sociale oggi concessa indiscriminatamente e oggetto di clamorose speculazioni assistenziali specie tra gli immigrati. Dall’altra il fatto della estensione abnorme del contratto a tempo determinato anche in settori ed aziende nei quali l’oggettività di un rapporto continuativo è lapalissiana. La canea organizzata in maniera scontata da Forza Italia e settori di Confindustria e apparentemente paradossale dal PD rivela il carattere ormai opportunistico, retrivo e reazionario di queste forze, tanto più evidente in quanto permangono i pesanti limiti imposti dal job act in materia di giusta causa nei licenziamenti individuali e di regolamentazione delle procedure dei licenziamenti collettivi. Un atteggiamento che dice tutto sulla incapacità di queste forze di proporre una rinascita qualitativa del paese. L’illusione d’altro canto permane ben riposta nella speranza che sia la mera regolamentazione normativa a risolvere il problema della diffusione del lavoro precario e illegale.

Dal versante delle imprese il provvedimento coglie un altro punto debole delle precedenti politiche, quello delle delocalizzazioni e dell’uso opportunistico degli incentivi agli insediamenti. Si tratta però ancora di un atteggiamento passivo utile a contenere gli atteggiamenti predatori. L’aspettativa implicita è che ciò creerebbe spazi all’arrivo di imprenditoria cosiddetta sana. Anche su questo l’opposizione ha rivelato un atteggiamento del tutto supino alle dinamiche di mercato. Rimangono però i limiti della mancanza di una politica economica attiva che punti allo sviluppo di nuova e più grande imprenditorialità radicata nel paese e di nuovi settori da costruire e ricostruire prima che scompaia definitivamente la memoria e il patrimonio di conoscenze. Eppure nel mondo sono ormai numerosi i paesi emersi dal sottosviluppo con queste politiche. Gli stessi Stati Uniti stanno ripensando drasticamente politiche di tutela del patrimonio tecnologico, di compartecipazioni che favoriscano l’imprenditoria locale che per altro sono state liberale in modo selettivo.

QUI PRO QUO

In realtà il ceto politico emergente, presente soprattutto nei due partiti di governo fatica ancora a pensare che non esistono classi, ceti e settori sociali portatori di per sé di innovazione, distruzione creativa e di emancipazione, fossero anche i settori imprenditoriali più dinamici o gli ambienti sociali più precarizzati. Una fatica legata all’infatuazione persistente verso le politiche “dal basso” e verso le virtù innate del popolo sia nella sua versione democraticista che federalista strisciante.

Il sentore di questo limite per fortuna inizia a serpeggiare in settori di questo ceto politico emergente, nella Lega molto più che nel M5S.

L’ipotesi di riorganizzazione della Cassa Depositi e Prestiti (CDP) orientata al finanziamento della media e piccola industria rappresenta un indizio di tale presentimento più che una consapevolezza. Ma è un obbiettivo ancora estemporaneo che prescinde da un piano di rientro dall’estero del debito nazionale, di recupero ad uso interno della raccolta del risparmio, di creazione di un apparato tecnico in grado di progettare e gestire le grandi opere pubbliche e i processi di industrializzazione e formazione di imprenditoria completamente distrutto e disperso negli anni ’90, dopo il pesante degrado subito negli anni ’80. Manca la consapevolezza del ruolo strategico della grande industria nei settori di punta e dell’importanza del controllo e della riorganizzazione degli apparati pubblici e statali con una definizione chiara delle gerarchie.

Una consapevolezza paradossalmente più presente e razionale all’estero visto che mi è capitato di leggere alcuni articoli di riviste specializzate americane che sostenevano la progettazione anglo-italiana dell’aereo multiruolo Tempest, alternativo a quello franco-tedesco, anche per consentire la sopravvivenza del patrimonio tecnologico nell’avionica di Finmeccanica. Si tratta certamente di un sostegno interessato, ma quantomeno rivelatore della ben maggiore consapevolezza altrui dei problemi di casa nostra.

Manca soprattutto, con l’eccezione di una cerchia ristretta di consiglieri di Salvini e della componente più ostracizzata dei tecnici al governo, la contezza del fatto che dovessero essere perseguite in maniera più o meno coerente queste politiche si troveranno a scontrarsi con il nocciolo duro della trama delle politiche e delle normative e prassi comunitarie le quali vanno ben al di là dei limiti di deficit e degli obblighi di rientro del debito.

Non solo! Saranno dinamiche le quali, se messe in atto, faranno emergere allo scoperto all’interno stesso dei due partiti le componenti pronte a rimpolpare quelle forze reazionarie, per il momento disorientate, tese allo statu quo del paese.

Nel M5S sull’immigrazione sono già sorte le prime voci “autorevoli” di dissenso, sulle grandi opere infrastrutturali la fronda si presenta ben più minacciosa e determinata, mentre il grande supervisore alternativo, da mesi in viaggio negli Stati Uniti, illuminato dai suoi incontri con esponenti del Partito Democratico americano e da esponenti della Silicon Valley, gli stessi del Renzi di cinque anni fa, confortato dal lauto contratto con Mondadori non esita a richiamare sulla retta via. Nel federalismo strisciante e surrettizio possono trovare spazio le forze disgregatrici nella Lega nonché sostenitrici della riproposizione classica del centrodestra.

Un processo in divenire durante il quale saranno le aspre condizioni di conflitto a temprare e formare le forze più determinate, ma largamente inesperte secondo ricomposizioni ancora tutte da decifrare. Nel contesto geopolitico, soprattutto l’avvento di Trump, ha aperto nuovi spazi che non permarranno ancora per molto nell’attuale incertezza; in questi ambiti il Governo ha ritrovato un dinamismo quasi sconvolgente rispetto alla palude remissiva cui ci avevano abituati i precedenti. Un dinamismo però ancora ampiamente subordinato alle strategie altrui e soggetto quindi alla mutevolezza capricciosa delle decisioni e degli eventi. Un aspetto che affronteremo nel prossimo articolo.

IL CROLLO DEL PONTE MORANDI A GENOVA

Durante la stesura dell’articolo è piombata la tragedia del crollo del ponte di Genova. Non si può certo definire un evento e un ambito minore. Si tratta probabilmente di un evento di gran lunga più dirompente dei fatti connessi alla morte di Pamela Mastropietro a Macerata e al sottobosco e coperture che faticano ad emergere in quell’ambiente. Le sole conseguenze economiche e sociali sono di per sé drammatiche e rischiano di condannare tragicamente uno dei poli del vecchio triangolo industriale e la logistica del Nord-Italia. Da questo evento, se ben gestito politicamente, potranno emergere visivamente le condizioni e le collusioni che hanno consentito il sopravvento, l’affermazione e l’alimento dagli anni ’90 della classe dirigente che ha ridotto in queste condizioni il paese. Una classe dirigente che ha subordinato come mai in altre momenti della storia dell’Italia unita il paese agli interessi e alle contingenze politiche esterni; una classe dirigente che ha contribuito a trasformare definitivamente la quasi totalità della grande imprenditoria privata in un consorzio parassitario ed assistenziale grazie alle privatizzazioni soprattutto di Telecom e delle reti di comunicazione e dei servizi; ha distrutto e abbandonato gran parte del ridotto ceto manageriale nazionale costruito in oltre quarant’anni e esposto alla speculazioni e agli istinti di una rete commerciale predatoria buona parte dei ceti medi produttivi dell’agricoltura e della piccola industria. Il muro isterico di difesa eretto intorno a Società Autostrade dalla stampa e dai partiti attualmente all’opposizione rivelano il nervo scoperto da una simile tragedia. Le risposte di Conte, Toninelli e Di Maio sembrano dettate dall’istinto e dall’indole tribunizia. Il retaggio antindustrialista e contrario alle grandi opere pesa nella credibilità del M5S. Chiedere la decadenza immediata della concessione ha certamente un effetto mediatico immediato ma rischia di trascinare, alla luce dei testi conosciuti e pubblici dei capitolati di concessione, in un contenzioso e una diatriba esposta ai polveroni e alle manipolazioni. Meglio sarebbe arrivare ad una sorta di commissariamento dei servizi di controllo ispettivo di Ministero dei Trasporti e ANAS, a un rapido censimento delle opere da risanare, ad un risanamento a tempi stretti della rete a carico dei concessionari con la spada di Damocle del ritiro delle autorizzazioni. Porterebbe alla resa dei conti nel gruppo societario e allo sfilacciamento in poco tempo della rete di relazioni e cointeressenze che hanno tenuto in piedi questo sistema grazie alla drammatica riduzione dei margini di rendita prossimi venturi. Solo disarticolando quel sistema si potrà poi infierire e porre nel frattempo le basi politiche e tecnico-organizzative di una rifondazione. Potrebbe essere il momento giusto per recuperare nello Stato e negli apparati quelle leve indisponibili, ma sino ad ora silenti, a protrarre lo stato di fatto e indispensabili a dare corpo ai programmi e alle migliori intenzioni.

Con una avvertenza. I tempi e i contenuti della comunicazione devono essere dettati dagli uomini di governo piuttosto che da organi di informazione in evidente debito di vendite e credibilità. Se non si riesce a gestire dignitosamente questo figurarsi quali difficoltà potranno sopraggiungere a tenere la nave con il profilarsi delle nubi cupe d’autunno tanto più che l’ombrello trumpiano rischia di essere ulteriormente indebolito dalle prossime elezioni d’autunno e dalle vicende giudiziarie prossime venture. Le inchieste giudiziarie in corso, l’attentato alla sede della Lega di Treviso sono solo dei preavvisi di una tempesta che punta alla reinvestitura esterna sotto mentite spoglie di una vecchia classe dirigente capace solo di attendere gli eventi e a maggior ragione ancora più nefasta per il paese che verrà.

 

 

Del Manifesto politico di Carlo Calenda, di Alessandro Visalli

Del Manifesto politico di Carlo Calenda.

tratto da https://tempofertile.blogspot.com/2018/07/del-manifesto-politico-di-carlo-calenda.html

pubblichiamo queste interessanti considerazioni di Alessandro Visalli con lo scopo di alimentare il dibattito sulle profonde trasformazioni in corso del panorama politico italiano_Giuseppe Germinario

A fine giugno 2018 l’ex Ministro Carlo Calenda ha proposto apparentemente di sua iniziativa la formazione di un’alleanza repubblicana contro i populismi. L’ex Ministro (governi Renzi e Gentiloni), fresco di tessera del Partito Democratico (6 marzo 2018) viene da una carriera di manager (in società finanziarie, nella Ferrari sotto Cordero di Montezemolo e poi come responsabile marketing di Sky) e di funzionario di Confindustria (assistente del presidente con Cordero da Montezemolo dal 2004 al 2008), successivamente entra in politica, ovviamente ancora con Cordero, quando fonda Italia Futura e nel 2013 quando viene candidato in Scelta Civica. Malgrado la sua mancata elezione Letta lo nomina viceministro allo Sviluppo Economico e viene confermato da Renzi inizialmente come viceministro, poi è promosso ministro.

Con un simile curriculum il figlio di un giornalista e di una regista è naturalmente più che titolato a indicare la strada della sinistra liberale che da lungo tempo ha perso le sue radici novecentesche, per ricercarle più indietro. Con il suo “Manifesto politico”, dunque Carlo Calenda lancia il suo guanto di sfida e dopo indimenticabili tentativi come quello di Pisapia si candida a federare le disperse forze della sinistra contro l’orda dei barbari che avanza.

Detto in questo modo è un progetto del tutto velleitario, ma non è l’unico a ragionare sulla rotazione dell’asse politico dal destra/sinistra del novecento al centro/periferia (o all’alto/basso) dell’era populista che si avvia ancora una volta. Lo ha fatto, aiutato in modo decisivo dal sistema elettorale a due turni, il francese Macron (che è il modello di successo dell’area governista), lo vorrebbe fare lo sconfitto Matteo Renzi, dopo la slavina che lo ha travolto insieme a tutta la sinistra italiana (ma anche la destra berlusconiana gli è andata dietro, per non parlare delle microformazioni di centro confindustriale di cui Calenda è espressione). Si tratta dell’ultimo episodio del disgelo che, dopo molti avvertimenti inascoltati, ha mosso la parte inferiore della stratificazione sociale, portandola ad esprimere nelle urne tutta la sua rabbia e il suo risentimento. Nel 2016 abbiamo avuto la Brexit, poi la sconvolgente elezione di Trump, il referendum italiano, le elezioni francesi con la crescita elettorale di Mélenchon e la scomparsa del Partito Socialista, di recente le elezioni tedesche e l’emergere di canditati francamente socialisti in USA nelle importantissime primarie di New York (sulla traccia di Sanders).

In questo quadro a dir poco confuso leggiamo il Manifesto; l’avvio ha respiro e parte con una franca ammissione:

Caro direttore. Dall’89 in poi i partiti progressisti hanno sposato una visione semplificata e ideologica della storia. L’idea che l’avvento di un mondo piatto, specchio dell’Occidente, fondato su: mercati aperti, multiculturalismo, secolarizzazione, multilateralismo, abbandono dello stato nazionale, generale aumento della prosperità e mobilità sociale, fosse una naturale conseguenza della caduta del comunismo si è rivelata sbagliata.

Dall’ammissione di un errore di prospettiva storica, ovvero di aver creduto alla narrazione della destra americana, che voleva nella sconfitta del suo co-egemone ed avversario storico derivarne la conseguenza del totale controllo, ideologico e pratico-materiale, del mondo, consegue un esito che interessa l’oggi.

Oggi l’Occidente è a pezzi, le nostre società sono divise in modo netto tra vincitori e vinti, la classe media si è impoverita, la distribuzione della ricchezza ha raggiunto il livello degli anni Venti, l’analfabetismo funzionale aumenta insieme a fenomeni di esclusione sociale sempre più radicali.

Questa è la base sociale che determina una netta conseguenza politica che si è manifestata in modo evidente in Italia nelle elezioni politiche di marzo.

La democrazia liberale è entrata in crisi in tutto il mondo e forme di democrazia limitata o populista si vanno affermando anche in Occidente. La Storia è prepotentemente tornata sulla scena del mondo occidentale.

Ma Calenda, mentre sembra prendere atto di una discontinuità radicale, non rinuncia egualmente ad una parte essenziale della narrazione di questi anni: anche se bisogna ammettere a denti stretti che l’occidente popolare si è impoverito, però l’altra metà del mondo si è arricchita. Insomma la globalizzazione ha un segno complessivamente positivo, va in direzione del sol dell’avvenire.

Viceversa la globalizzazione ha portato benessere in Asia e in molti paesi emergenti, dove aumentano i divari sociali e culturali, ma in un contesto di crescita generale. Anche all’interno delle società Occidentali la competizione e i mercati aperti hanno portato allo sviluppo di eccellenze produttive e tecnologiche che sono però ancora troppo poche per generare benessere diffuso.

Chi ha letto qualche libro di Branko Milanovic (ad esempio “Mondi divisi”) sa che neppure questo è così semplice: l’ineguaglianza complessiva è in realtà aumentata dagli anni settanta, colpendo molte economie deboli (gli effetti li vediamo nelle migrazioni), mentre è diminuita in alcune aree nelle quali alla manodopera a buon mercato, disponibile a farsi sfruttare dai capitali occidentali in favore dei consumatori occidentali, si è unita a Stati forti in grado di difendersi dal “Washington Consensus” e dai suoi guardiani (FMI e BM). In sostanza in questi anni i paesi già ricchi sono cresciuti poco (ca. 2% all’anno), quelli di mezzo sono calati, quelli deboli sono precipitati e pochi paesi molto grandi (dunque con Stati molto forti) sono cresciuti moltissimo. Ma di questi (in sostanza Cina e India, insieme ad alcune “tigri asiatiche”) soprattutto alcune aree costiere o comunque fortemente interconnesse. Si è avuto, d’altro canto, un vero e proprio crollo dei paesi ex-ricchi non occidentali, in sostanza sono cresciuti sette paesi (Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Malaysia, Botswana, Egitto) quindi, ovviamente India e Cina, e sono invece declinati molti paesi (Nicaragua, Iran, Angola, Croazia e Serbia, Algeria, Colombia, Argentina, Costa Rica, Messico, Venezuela, Uruguay) per i più vari motivi. Dal punto di vista individuale, invece, sono cresciuti i redditi medio-bassi (in India e Cina soprattutto) e sono calati vistosamente quelli delle classi medie inferiori occidentali, mentre nel decile più ricco i redditi hanno avuto un’impennata. Il mondo, dice Milanovic, ha complessivamente il 77% di poveri, il 7% di classe media e il 16% di “ricchi”.

Insomma, non si tratta di un trionfo neppure sotto questo profilo. Quel che è accaduto è l’effetto di una “grande partita”, un effetto della quale è citato di passaggio nella parte finale del manifesto, che ha visto indebolirsi in modo cruciale le “logiche territorialiste” (Arrighi) di organizzazione del potere, in favore di “logiche capitaliste” che sono rivolte solo all’autoaccrescimento a qualsiasi costo. Questa dinamica si è prodotta per effetto del raggiunto stato di sviluppo delle forze produttive (al termine del cosiddetto “trentennio glorioso” e sulla spinta della decolonizzazione e di altri fattori anche tecnologici) in competizione le une contro le altre e mal contenute dagli involucri statuali che hanno portato a partire dagli ultimi anni sessanta ad una tendenziale riduzione del saggio di profitto per gli investimenti “territoriali”, e quindi al “disimpegno” (Streeck). A questo punto gli agenti economici utilizzando le infrastrutture messe a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, progressivamente hanno spostato gli investimenti sul terreno finanziario e questo si è espanso in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.). La fase finanziaria è quindi da considerare una sorta di cura a breve termine per il “ristagno dei capitali” (secondo la dizione di Hicks) e quindi effetto dell’esistenza di una sovrabbondanza di capitali “liberi”. Ma una sovraccumulazione è intrinsecamente instabile e porta a continue tendenze al crollo, fino a che, secondo la ricostruzione storico-economica di Arrighi, nel “sistema-mondo” non interviene nuovamente la “logica territorialista” ad assorbirli (spesso nelle spese del sistema militare-industriale). Ma perché questo accada è necessario che si riformi un “ordine mondiale”, e al momento questa è la posta del gioco. Secondo questo schema idealtipico Trump sarebbe il primo segnale di una inversione di logica (in questo senso un accenno anche nella recente intervista a Kissinger).

Fino a che non ci sarà un accumulo di forze preminente la fase resterà instabile: da una parte un declinante network globalista (ad occhio costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri.

Il nostro fa parte sicuramente, per formazione, frequentazioni ed inclinazione, del primo, ma vorrebbe anche raccogliere parte della forza che si sta addensando nel secondo polo. Il Manifesto è espressione di questo tentativo.

Ma torniamo a noi; stringendo lo sguardo, per Calenda:

L’Unione Europea è figlia di una fase “dell’Occidente trionfante” da cui ha assunto un modello di governance politica debole, lenta e intergovernativa. L’Eurozona al contrario ha definito una governance finanziaria rigida ispirata da una profonda mancanza di fiducia tra “Sud e Nord”, incapace di favorire la convergenza, gestire gli shock senza scaricarli sui ceti deboli e promuovere la crescita e l’inclusione. Tutte queste pecche sono frutto di scelte degli Stati membri e non della Commissione Europea o dell’Europa in quanto tale.

Non è chiaro cosa sia “l’Europa in quanto tale”, ma la descrizione è sostanzialmente corretta, salvo che la descrizione della scelta è senza soggetto, non sono certo “gli Stati” che hanno scelto, ma una specifica coalizione sociale ed economica che ha governato le scelte dell’Unione e dei suoi principali stati membri ed era rappresentata in Italia dai partiti della seconda Repubblica che hanno perso il 4 marzo. Senza compiere questa analisi, che avrebbe fornito il necessario punto di vista, per condurre una proposta realmente discontinua Calenda passa a guardare direttamente il quadro politico che vorrebbe federare:

La crisi dell’Occidente ha portato alla crisi delle classi dirigenti progressiste che hanno presentato fenomeni complessi, globalizzazione e innovazione tecnologica prima di tutto, come univocamente positivi, inevitabili e ingovernabili allontanando così i cittadini dalla partecipazione politica.

Sembrerebbe che con questa sottolineatura si iscriva nella lunga schiera di chi accusa l’involuzione tecnocratica, espressamente teorizzata negli anni novanta (ad esempio da La Spina e Majone in “Lo stato regolatore”) o temuta (ad esempio da Robert Dahl in uno dei suoi ultimi interventi, o da Peter Mair nel suo ultimo libro postumo). In realtà non lo fa, perché non spiega perché le classi dirigenti, trovandosi bene in esse, hanno presentato come inevitabili e positivi fenomeni nei quali alcuni (loro) vincevano e altri (la maggioranza) perdeva. E perché per farlo hanno cercato per anni di ridurre la democrazia con dispositivi tecnici maggioritari la cui funzione principale non era l’efficienza, ma la possibilità di ricevere una delega da minoranze fattesi maggioranze per opera della legge, da ultimo il 4 dicembre. Ma da qui va ancora più in fondo:

Allo stesso modo l’idealizzazione del futuro come luogo in cui grazie alla meccanica del mercato e dell’innovazione il mondo risolverà ogni contraddizione, ha ridotto la narrazione progressista a pura politica motivazionale. Il risultato è stato l’esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni rappresentanza di chi quella paura la prova. I progressisti sono inevitabilmente diventati i rappresentanti di chi vive il presente con soddisfazione e vede il futuro come un’opportunità.

Come sostengono in molti (ad esempio Luca Ricolfi) quelli che chiama “i progressisti” (non nominandoli come “sinistra”) hanno ristretto la propria base ai soli vincenti della globalizzazione, chi vive bene nelle grandi città, è interconnesso e soddisfatto, e quindi vede il mondo con ottimismo. Ma questi sono una piccola minoranza e diminuiscono sempre di più (per una semplice analisi sociologica si veda Bagnasco “La questione del ceto medio”).

Ed allora?

I prossimi 15 anni saranno probabilmente tra i più difficili che ci troveremo ad affrontare da un secolo a questa parte, in particolare per i paesi occidentali.

La sfida si giocherà da oggi al 2030. In questa decade le forze del mercato, della demografia e dell’innovazione porteranno a una drammatica collisione a meno di non correggerne e governarne la traiettoria. L’invecchiamento della popolazione porterà il tasso di dipendenza tra popolazione in età lavorativa e popolazione in età pensionistica vicino al rapporto di 1 a 1. Ciò avrà due conseguenze rilevanti: l’insostenibilità dei sistemi pensionistici e la diminuzione strutturale del tasso di crescita delle economie. Negli ultimi 65 anni infatti un terzo della crescita è derivata dall’aumento della forza lavoro. L’effetto potenzialmente positivo su stipendi e occupazione della riduzione di forza lavoro (meno persone dunque più domanda e meno offerta) sarà controbilanciata, dall’automazione. Ad un aumento della produttività derivante dall’innovazione tecnologica vicino al 30 per cento entro il 2030, corrisponderà la scomparsa del 20-25 per cento dei lavori che esistono oggi. L’aumento della produttività e la diminuzione dei posti di lavoro non si distribuiranno in modo omogeneo nei diversi settori. Le nuove professioni che si svilupperanno con l’innovazione saranno in grado di coprire i posti di lavoro perduti solo se politiche pubbliche adeguate verranno messe immediatamente in campo.

Se ciò non accadrà aumenteranno le diseguaglianze tra categorie di lavoratori e lo squilibrio tra salari e profitti.

Questa analisi in molte forme diverse sta diventando mainstream (naturalmente nei dettagli e nelle soluzioni si nascondono le differenze, oltre che nella diagnosi delle cause), l’abbiamo appena letta da The Guardian (che è un poco come dire da La Repubblica inglese).

Anche per Calenda la situazione è dunque ad un turning point: la velocità e la magnitudo del cambiamento sarà tale da assomigliare alla crisi che descrive Carl Polanyi nel suo capolavoro (“La grande trasformazione”).

Il cambio di paradigma economico avverrà ad una velocità mai sperimentata nella Storia. Le nostre democrazie, colpite da una gestione superficiale della globalizzazione, non possono sopravvivere a un secondo shock di dimensione molto superiori. Lo scenario che abbiamo sopra descritto richiederà un impegno diretto dello Stato in una dimensione mai sino ad ora sperimentata.

Come accadde allora, anche per Calenda, il desiderio di protezione delle masse sconvolte e minacciate dalla paura richiederà l’intervento dello Stato (nell’intervallo tra le due guerre lo abbiamo avuto in forme diverse in USA e UK, in Germania e Italia, in Russia).

Da qui si passa alla cronaca:

L’Italia anello fragile, finanziariamente e come collocazione geografica, di un occidente fragilissimo, è la prima grande democrazia occidentale a cadere sotto un Governo che è un incrocio tra sovranismo e fuga dalla realtà.

E quindi si passa alla parola d’ordine. Si passa alla missione di federare le forze:

Occorre riorganizzare il campo dei progressisti per far fronte a questa minaccia mortale. Per farlo è necessario definire un manifesto di valori e di proposte e rafforzare la rappresentanza di parti della società che non possono essere riassunti in una singola base di classe.

Un’alleanza repubblicana che vada oltre gli attuali partiti e aggreghi i mondi della rappresentanza economica, sociale, della cultura, del terzo settore, delle professioni, dell’impegno civile. Abbiamo bisogno di offrire uno strumento di mobilitazione ai cittadini che non sia solo una somma di partiti malandati e che abbia un programma che non si esaurisca, nel pur fondamentale obiettivo di salvare la Repubblica dal “sovranismo anarcoide” di Lega e M5s.

Dunque quel che Calenda propone è una alleanza interclassista che superi il partito classista (dall’alto) al quale si è da poco iscritto e che abbia l’ambizione di sottrarre lo spazio di difensori del popolo interpretata dalle forze emerse come vincitrici dal voto. Quelle forze contro le quali si è alzata, forte, la reazione della difesa di classe sotto vesti europeiste ed interpretata dal Presidente (lo abbiamo commentato qui), ma che poi hanno dato comunque forma ad un governo con profonde differenze. In estrema sintesi la mia opinione è, diversamente da Calenda, che il paese il 4 marzo si sia spaccato su una linea che attraversa le sue borghesie e, insieme, che lo attraversa geograficamente. Si è manifestata la defezione che covava da tempo di parte della borghesia nazionale verso quella componente della borghesia coinvolta più profondamente con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Peraltro la precisa coincidenza di un attacco a fondo alla logica mercantilista, condotto da Trump, e della defezione della borghesia nazionale da questa in ultima analisi danneggiata è davvero singolare. Quella che al momento governa il paese con un consenso che sfiora il 60% è una strana coalizione che va: dalle Piccole e Medie Imprese, impegnate nel mercato interno e poco interconnesse con i mercati globali; ai professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati; agli operai e impiegati di detti settori; ai precari e, infine, alla parte più attenta dei disoccupati. Resta fuori da questa coalizione: la parte meno attenta e più disperata, che va sull’astensione; la media borghesia tutelata e parte del mondo dei pensionati più abbientil’alta borghesia e la grande industria internazionalizzata con parte dei suoi lavoratori che rappresentano l’aristocrazia del lavoro. Gli ultimi strati continuano a garantire il loro sostegno ai partiti tradizionali, impegnati nel progetto mondialista ed europeo, ma ormai si dividono più o meno un 40-45% del Parlamento e almeno una decina di punti in meno nel paese.

Certo, questa coalizione “populista” (che in realtà unisce due populismi molto diversi) è come l’acqua e l’olio, instabile e contraddittoria: gli interessi degli uni, PMI e professionisti, in quanto datori di lavoro debole, potenzialmente sono in aperto conflitto con quegli degli altri, operai e precari, bisognosi di sostegno per recuperare forza negoziale.

In questa potenziale frattura tra la protezione sociale e la protezione individualista Calenda pensa probabilmente di potersi inserire, recuperando spazi di consenso, anche oltre la “coalizione della rendita” evocata abbastanza chiaramente dal Presidente Mattarella nel suo discorso (vedi “Post-democrazia e crisi italiana”). Pensa in sostanza di ripetere in forma diversa l’operazione, fatta da Salvini, di saldare un più largo consenso a partire dall’egemonia di alcuni interessi e di una cultura ben radicata nella piccola borghesia con inclinazioni nazionaliste. Quindi di riaggregare i ceti popolari che sono sfuggiti ai Partiti di centro europeisti intorno ad una operazione egemonizzata questa volta da quella “coalizione della rendita” che Mattarella vuole mobilitare dall’alto. Una operazione politica, quindi, che parli sì di protezione e che recuperi l’interesse nazionale solo nei limiti compatibili con i processi di accumulazione resi possibili dai mercati aperti e dal processo di integrazione europeo.

Si tratta di un compito realisticamente impossibile: l’apertura implica messa in competizione e questa determina necessariamente la retrocessione dei diritti e delle garanzie accumulate a partire dal primo “momento Polanyi” nella prima parte del novecento. Ciò almeno per qualche decennio e fino a che la maggior parte degli abitanti del mondo non si sia incontrata a mezza strada con il primo miliardo (come arriva onestamente ad ammettere Branko Milanovic nel suo ultimo libro “Ingiustizia globale”). È chiaro che la prospettiva di Milanovic pone insormontabili problemi sia di tenuta democratica, dato che la rivolta continuerà, sia di tenuta ecologica, ma la soluzione di Calenda è di gran lunga al di qua del necessario.

Calenda non sembra voler prendere atto che non si può avere insieme la conservazione delle élite estrattive, alle quali è legato, e la protezione dei perdenti che queste naturalmente producono. Per dare gambe a questo inane tentativo delinea quindi un programma fin troppo dettagliato per un “Manifesto”:

Le priorità di questo programma sono:

Tenere in sicurezza l’Italia. Sotto il profilo economico e finanziario: occorre chiarire una volta per tutte che ogni riferimento all’uscita dell’Italia dall’euro ci avvicina al default. Deficit e debito vanno tenuti sotto controllo, non perché ce lo chiede l’Europa ma perché è indispensabile per trovare compratori per il nostro debito pubblico.

Sotto il profilo della gestione dei flussi migratori proseguire il “piano Minniti” per fermare gli sbarchi. Accelerare il lavoro sugli accordi di riammissione e gestione dei migranti nei paesi di transito e origine secondo lo schema del “Migration Compact” proposto dall’Italia alla UE. Creare canali di ingresso regolari e selettivi.

Occorre infine ribadire con forza la nostra appartenenza all’Occidente, all’alleanza atlantica e al gruppo dei paesi fondatori dell’Ue, come garanzia di stabilità, sicurezza e progresso.

L’architrave è posto all’inizio, senza mettere in questione la finanziarizzazione dell’economia e dunque le sue “formazioni predatorie” (definizione di Saskia Sassen), e restando ben allineati con l’egemone sfidato, la gestione dell’immigrazione appare solo una concessione allo spirito populista. In un altro quadro potrebbe essere un elemento di una strategia di riequilibrio tra lavoro e capitale indispensabile per riattrarre valore nella società.

Proteggere gli sconfitti. Rafforzando gli strumenti come il reddito di inclusione, nuovi ammortizzatori sociali, le politiche attive e l’apparato di gestione delle crisi aziendali in particolare quando causate dalla concorrenza sleale di paesi che usano fondi europei e i vantaggi derivanti da un diverso grado di sviluppo per sottrarci posti di lavoro.

Approvare il salario minimo per chi non è protetto da contratti nazionali o aziendali.

Allargare ad altri settori fragili il modello del protocollo sui call-center per responsabilizzare le aziende e impegnarle su salari e il no a delocalizzazioni.

Alcune misure sono opportune, ma non a caso nella scelta tra reddito paternalisticamente concesso nei limiti della “inclusione” e gli schemi di lavoro garantito che sono portati avanti nelle componenti più consapevoli della sinistra socialista, sceglie decisamente la soluzione compatibile con l’impostazione liberista (proposta anche dallo stesso Milton Friedman).

Investire nelle trasformazioni, per allargare la base dei vincenti, su infrastrutture materiali e immateriali (università, scuola e ricerca). Finanziare un piano di formazione continua per accompagnare la rivoluzione digitale. Proseguire il piano impresa 4.0 e portare a 100.000 i diplomati degli Istituti Tecnici Superiori. Implementare la Strategia Energetica Nazionale e velocizzare i 150 miliardi di euro previsti per raggiungere i target ambientali di CoP21. Aumentare la dotazione dei contratti di sviluppo e del fondo centrale di Garanzia per ricostituire al Sud la base industriale che serve per rilanciarlo. Rivedere il codice degli appalti per velocizzare le procedure di gara. Mantenere l’impegno sulla legge annuale per la concorrenza. Prevedere un meccanismo automatico di destinazione dei proventi della lotta all’evasione fiscale alla diminuzione delle tasse, partendo da quelle sul lavoro.

Da questo punto il quadro dell’ispirazione ideologica si chiarisce: non si esce dallo schema della “terza via”, si tratta di superare una crisi determinata dall’indebolimento dei rapporti di forza sociali e dalla debolezza della domanda che ne consegue, intervenendo solo a livello individuale, in continuità con le politiche liberiste, con riduzioni delle tasse e politiche dell’offerta.

Promuovere l’interesse nazionale in UE e nel mondo. Riconoscendo che non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea di nazione. Al contrario abbiamo bisogno di un forte senso della patria per stare nel mondo e in UE. Partecipando al processo di costruzione di una Unione sempre più forte, in particolare nella dimensione esterna (migrazioni, difesa, commercio), tra il nucleo dei membri storici ma ribadendo la contrarietà all’inserimento del fiscal compact nei trattati europei e all’irrigidimento delle regole sulle banche. Promuovere la rimozione dei limiti temporali sulla flessibilità legata a riforme e investimenti approvata sotto la Presidenza italiana della UE. Sostenere la conclusione di accordi di libero scambio per aprire nuovi mercati al nostro export, ma mantenere una posizione intransigente sul dumping rafforzando clausole sociali e ambientali nei trattati.

La contraddizione che deriva dal voler tenere insieme, sotto egemonia dall’alto, interessi contrapposti si manifesta in sommo grado in questo passaggio, nel quale l’astuto richiamo del concetto di nazione e financo di patria è reso incongruamente funzionale alla “costruzione di una unione sempre più forte”, con determinazione di elementi essenziali di politica estera (e dunque di posizionamento nella distribuzione delle risorse e nella tutela differenziale dei diversi settori e attori) in comune. Calenda non sembra assolutamente comprendere che la capacità di perseguire i propri interessi implica la tutela di uno spazio di indipendenza proprio nella politica estera e di difesa; non esistono politiche neutre.

Ancora più contraddittoria la pretesa di aprire gli accordi di “libero scambio” e contemporaneamente non farlo, per “mantenere una posizione intransigente sul dumping”. Il mondo è un luogo nel quale le regolazioni e le condizioni materiali sono enormemente diverse. Metterlo in contatto senza filtri significa fare scambio “libero”, non farlo significa “proteggersi”. Calenda sceglie il primo, ma se ne vergogna e cerca di coprirlo con qualche retorica a poco prezzo.

Conoscere. Piano shock contro analfabetismo funzionale. Partendo dalla definizione di aree di crisi sociale complessa dove un’intera generazione rischia l’esclusione sociale. Estensione del tempo pieno a tutte le scuole. Programmi di avvio alla lettura, lingue, educazione civica, sport per bambini e ragazzi. Utilizzo del patrimonio culturale per introdurre i bambini e i ragazzi all’idea, non solo estetica, di bellezza e cultura. E’ nostra ferma convinzione che una liberal democrazia non può convivere con l’attuale livello di cultura e conoscenza. L’idea di libertà come progetto collettivo deve essere posta nuovamente al centro del progetto di rifondazione dei progressisti.

Qui siamo esattamente al “istruzione, istruzione, istruzione” di Tony Blair.

Il crocevia della Storia che stiamo vivendo alimenta paure che non sono irrazionali o sintomo di ignoranza. Abbiamo davanti domande epocali a cui nessuno può pensare di dare risposte semplicistiche.

  • La tecnologia rimarrà uno strumento dell’uomo o farà dell’uomo un suo strumento?
  • lo spostamento di potere verso oriente, conseguente alla globalizzazione innescherà una guerra o avverrà, per la prima volta nella Storia, pacificamente?
  • Le nostre società sono destinate a una stagnazione secolare?

Occorre affermare con forza che la paura ha diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei cittadini.

La competenza non può sostituire la rappresentanza come l’inesperienza non può essere confusa con la purezza. Questo vuol dire prendersi cura del presente e gestire le transizioni piuttosto che idealizzare il futuro, esorcizzare le paure e affidarsi alla teoria economica e alla meccanica del mercato e dell’innovazione tecnologica, come processi naturali che rendono ogni azione di Governo inutile e ogni processo dirompente inevitabile.

Per fare tutto ciò occorre tornare ad avere uno Stato forte, ma non invasivo che garantisca in primo luogo ai cittadini gli strumenti per comprendere i processi di cambiamento e per trovare la propria strada NEI processi di cambiamento, ma che non butti i soldi pubblici per nazionalizzare Alitalia o Ilva. Stato forte vuol dire burocrazia efficiente e dunque una rivoluzione nel modo di concepire, regolare e retribuire la pubblica amministrazione. L’Italia ha bisogno poi di un’architettura istituzionale che coniughi maggiore autonomia alle regioni con una clausola di supremazia dell’interesse nazionale che consenta di superare i veti locali.

In questo ultimo passaggio dello Stato Forte, ma debole (ovvero non invasivo) e orientato solo a consentire ai cittadini di farsi strada da soli, di trovare ognuno la “propria” strada, è contenuta ancora una volta l’essenza del pensiero liberal che Clinton, Schroder e Blair (appena preceduti da Mitterrand) promossero negli anni novanta. In questi passaggi è manifesta la direzione egemonica che si cerca di rimettere in piedi, un progetto guidato dalla solita borghesia che ce l’ha fatta, che sempre ce la fa, ma con uno sguardo “compassionevole”.

Esiste un altro nemico da battere ed è il cinismo e l’apatia che di una larga parte della classe dirigente italiana. Dai media alla politica, dalle associazioni di rappresentanza agli intellettuali l’idea che ogni passione civile sia spenta e che si possa contemplare “Roma che brucia” con la “lira in mano” godendosi lo spettacolo, è diventata una posa tanto diffusa quanto insopportabile. La battaglia che abbiamo di fronte si vince anche sconfiggendo il cinismo dei sostenitori di un “paese fai da te”.

Si può fare: L’Italia è più forte di chi la vuole debole!

In definitiva ad una prima impressione quella di Calenda può sembrare un’analisi coraggiosa ed un programma riformista forte, ma si tratta solo di una minestra riscaldata. Una minestra senza sapore con un vago colorito anni novanta, nella quale la parola “sinistra” non appare neppure una volta e con buona ragione.

Cosa c’è di credibile in un programma che si vorrebbe a difesa dei meno protetti dalla globalizzazione e contro il governo impolitico dei tecnici e che poi elenca minuziose micropolitiche di cui non lascia intravedere la direzione? Nel quale l’obiettivo appare meramente riattivare lo sviluppo senza andare ad incidere nell’assetto del mondo che questo sviluppo impedisce per i più?

Del resto se l’analisi si svolge, a ben vedere, tutta entro le coordinate culturali del liberismo imperante, al più filtrato dalla fallimentare ipotesi della “terza via”, la soluzione non può distanziarsi in modo sostanziale dallo schema: accettazione della competizione e sostegno a chi ce la può fare, contenimento con piccolissime concessioni per gli altri.

Ma per evitare che si arrivi a ripetere le tragedie del novecento serve molto più della minestra riscaldata e del liberalismo compassionevole.

Occorre ben altro: bisogna svolgere politiche coordinate sia contro il mercantilismo di Bruxelles e per il recupero di quote di sovranità fiscale (che implica quella monetaria), sia per ripristinare la forza del lavoro nei confronti del capitale (grande e piccolo). È indispensabile riposizionare l’economia del paese verso il mercato interno anche con opportune forme di protezione e riequilibrando la distribuzione tra salari e profitti. Bisogna farla finita con il “libero commercio”, nel senso che il commercio deve compiersi su piani di effettiva parità, e per questo occorre definire accordi e stabilire regole e condizioni. Bisogna immediatamente riassorbire parte dell’esercito di riserva (continuamente alimentato dall’immigrazione, che va modulata in funzione delle capacità di civile assorbimento ed integrazione, e accuratamente coltivato dalle politiche di austerità) e garantire a tutti i diritti sociali, dove per tutti si deve intendere anche gli immigrati presenti sul territorio nazionale. I diritti sociali si devono rendere possibili in primo luogo attraverso un piano straordinario di opere pubbliche (edilizia popolare, infrastrutture, scuole e servizi alle famiglie), di protezione del territorio dalle vulnerabilità, di conversione energetico-ambientale dell’economia, e quindi di potenziamento del pubblico impiego con almeno due milioni di nuove assunzioni a tempo pieno (a partire proprio dalle strutture di accoglienza e sostegno che devono essere pubbliche, per sottrarle alle logiche del profitto altamente finanziarizzato contemporaneo).

Ma ciò non può certo essere compiuto da questa coalizione, né dalla “alleanza repubblicana” proposta da un davvero poco credibile Carlo Calenda.

Dovremo aspettare che qualcuno prenda da terra la bandiera e trovi il coraggio di alzarla, come altrove sta avvenendo.

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