LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA MENZOGNA È UN RITORNELLO…

C’è un segnale inconfutabile che il governo Conte-bis sta per istituire nuove imposte o alzare qualche aliquota: e non è solo la proposta (di deputati del PD) dal nome buonisolidarista di “Contributo di solidarietà” sui redditi superiori a € 80.000,00, ma è che già i corifei delle élite decadenti hanno intonato di nuovo il ritornello ripetuto tante (purtroppo) volte negli ultimi 50 anni: lotta all’evasione! paghiamone meno paghiamole tutti! Dopo che è stato gorgheggiato a lungo, l’esperienza insegna,  segue, puntuale come la morte, uno o più aumenti (o istituzioni) d’imposta che, avrebbero lo scopo esternato di combattere l’evasione”, ma invece hanno quello praticato, di far pagare di più quelli che non evadono (i soliti). Risultato esternato che è peraltro poco (o punto) raggiunto . Facciamo un esempio. L’IVA, l’imposta che ha il maggior gettito dopo l’IRPEF, fu istituita nel 1972 e vige dal 1973; l’aliquota ordinaria nel 1973 era del 12%. Nel tempo tale aliquota ha avuto 9 variazioni: 7 al rialzo (ne dubitavate?) e 2 al ribasso. Con gli ultimi rialzi dei governi Berlusconi (sul piede di partenza) e Letta siamo arrivati al 22%.

Ossia l’aliquota è quasi raddoppiata. A che è servito il (quasi) costante rialzo? Sicuramente ad aumentare la predazione dei contribuenti i quali pagano per ogni cessione di beni e servizi soggetti all’aliquota ordinaria (quasi tutti) il 10% in più a Pantalone (obiettivo colto ma occultato). Quanto al fine esternato il calcolo è più difficile, per il carattere presuntivo e/o parziale dei dati. Comunque da dati (relativamente) affidabili si sostiene che dal 1980 al 2009 l’evasione dell’IVA è calata dal 20% al 14%; valutazioni diffuse alla CGIA di Mestre danno un’evasione stimata (totale, cioè di tutte le imposte e contributi) di circa euro 100 miliardi l’anno dal 2010 al 2015 (relativamente stabile) e per l’IVA, nello stesso periodo di circa 35 miliardi annui. I due aumenti, nello stesso periodo 2010-2015 che l’avevano portata dal 20% al 22% non sembra abbiano inciso affatto sull’evasione.

D’altra parte è noto come le sciagure – come la pandemia – stimolino l’appetito fiscale dei governanti. Amilcare Puviani scriveva che “il sopraggiungere di sventure pubbliche, il minacciare di pericoli nazionali e perfino l’esagerazione o addirittura l’invenzione di quelle o di questi, danno luogo ad attenuazioni degli effetti penosi immediati di imposte, opportunamente collegate a quegli eventi”; ghiotta occasione, quindi, per aumentarle. Pertanto è difficile per il governo PD-M5S resistere alla tentazione, specie per il PD ch’è abituato a cedervi.

Piuttosto è interessante notare come, da quasi cinquant’anni, tale argomento-principe per tosare i cittadini sia un asserto così poco ragionevole e smentito dai fatti.

Gli è che “pagare meno, pagare tutti” è affermazione che ha una qualche base: è vero ad esempio che un’imposta spalmata su un maggior numero di contribuenti, incide meno pro-capite. Se si aggiunge a ciò la proporzionalità dell’imposizione, il carico appare equamente ripartito, Ma se, come avviene (ed avveniva) spesso, non incide (di fatto o di diritto) su tutti e/o non lo fa proporzionalmente, indubbiamente la situazione si deteriora. Al punto che l’esenzione (totale o parziale) della nobiltà e del clero da molti oneri tributari fu una delle cause, forse la principale, della rivoluzione francese.

Scriveva Salvemini che nell’ancien régime le imposte “fuggivano quelli che avrebbero potuto pagare e si abbattevano su chi non era in grado di difendersi”. Possedendo gli ordini privilegiati circa un terzo delle terre francesi (in un paese agricolo!) la conseguenza era che i restanti due terzi dovevano soddisfare quasi integralmente i bisogni crescenti dell’amministrazione statale. Se l’affermazione è vera e si fonda su una semplice divisione da scuola elementare (il dividendo è il fabbisogno delle finanze pubbliche, il divisore il numero dei contribuenti, il quoziente il carico fiscale pro-capite) altri fattori, non puramente quantitativi e forse più determinanti, la condizionano.

Il primo dei quali è l’aumento del dividendo: se il carico fiscale aumenta, il quoziente è sempre più gravoso, anche se equamente ripartito. Altro è dividere un carico fiscale che, nell’Italia di un secolo fa, si aggirava intorno al 20% del PIL, altro oggi, che è oltre il 40%. Anche se equo è comunque troppo.

Il secondo è la destinazione del prelevato: se va a favore di certi ceti o classi, la disuguaglianza, cacciata dal prelievo, si riproduce nella spesa. Tutti pagano in modo uguale, ma alcuni ricevono disegualmente (i tax-consommers).

Il terzo, che il vertice impositore è un complesso politico-amministrativo che, come tutte le classi dirigenti, vive non solo per la politica, ma altrettanto di politica, come scriveva Max Weber. E quindi si appropria di parte della ricchezza prelevata. Quando peraltro la classe dirigente gode di poca considerazione, ha un consenso minoritario e un’autorità (non il potere, autorità) prossima allo zero, come quella italiana attuale, il problema è grave. E diventa gravissimo in un’epoca in cui il risultato economico (in termini di crescita del benessere individuale e collettivo) è decisivo. I governanti attuali, e quasi tutti i precedenti, hanno aumentato il prelievo e non hanno ottenuto altro che una venticinquennale stagnazione, la peggiore d’Europa. E tralasciamo altri rilevanti aspetti del “quadro” complessivo per esigenze di “redazione”.

Perciò è razionalmente superficiale e quindi poco o nulla “comprendente” ridurre a un solo aspetto, forse neppure il principale (ancorché importante) il complesso rapporto tra esigenze pubbliche e giustizia, autorità e consenso, doveri e diritti.

A furia di ripetere il ritornello suddetto, ormai da quasi mezzo secolo e dopo tali penosi risultati significa quindi solo contare sul presupposto che tutti gli italiani siano (detto in politicamente corretto) “diversamente intelligenti”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

uomini piccoli in momenti tragici. Una conversazione con il professor Augusto Sinagra

I momenti drammatici mettono in luce inevitabilmente i pregi e i difetti di un paese. La crisi epidemica e la paralisi economica hanno evidenziato l’abnegazione di tanti cittadini, ma soprattutto la mediocrità del ceto politico e di gran parte della classe dirigente, la precarietà degli assetti istituzionali. L’emergere di alcune figure politiche e di un buon numero di validi professionisti non riesce a compensare la sensazione di inadeguatezza. Il fatto di essere in buona compagnia in altre parti del mondo non è motivo di consolazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Peculiarità, di Antonio de Martini

m’aggio accattat’ a jurnata

Ieri ho liquidato in maniera scortese un lettore che mi chiedeva di spiegare perché a Napoli il Coronavirus è stato contenuto e nella meglio attrezzata Milano, no.

Succede quando devi rispondere a due/trecento notifiche e messaggi personali in un giorno e sei arrivato a sera.

Ora che é mattina, cerco di spiegare questa differenza tra Milano e Napoli che negli ultimi quattro giorni ha registrato un numero di decessi uguale a zero.

1) i partiti. A Milano le differenze politiche tra sindaco, regione e governo hanno occupato politici e giornalisti che hanno trascurato le esigenze reali.facevano interviste.

A Napoli, un sindaco ( e anche un presidente di regione) battitore libero hanno prestato immediatamente orecchio ai medici, tra i quali lo “ scopritore del vibrione” di cui ora non ricordo il nome.
Gli ordini non sono stati contestati da oppositori preconcetti. La quarantena qui é una tradizione.

2) l’intelligenza critica e vivace dei napoletani abituati ad arrangiarsi e a vedere con garbato scetticismo le “ linee guida” di enti distanti, ha fatto si che ci si industriasse a trovare una cura e non a sperare in un vaccino. La Magna Grecia ha reagito come la Grecia: immediatamente.

3) Napoli e la zona vesuviana hanno la densità di popolazione di Hong Kong o quasi. Il distanziamento e stato attuato semplicemente accentuando di poco le distanze e alcune profilassi erano gia in voga. Mentre la Confindustria ha visto nella Pandemia una occasione per bussare a cassa, la Camorra ha collaborato con le forze dell’ordine perché non poteva sperare in indennizzi.

4)il primo segnale nazionale di lotta contro il virus è venuto dall’ospedale Cutugno con l’uso di farmaci antiartrite. In contrasto con le direttive nazionali e internazionali che bandivano gli antinfiammatori.
Il medico napoletano come curatore del malato e non della malattia.

5) lo spirito ironico e tollerante e la naturale empatia partenopea, il fatalismo esistenziale, hanno certo contribuito più di altre caratteristiche a mantenere forte l’animo e predisporlo psicologicamente a reagire al male. Sia i malati che gli operatori.

6) l’essere resilienti a espellere nonni e genitori dal nucleo familiare ha limitato il numero dei focolai che hanno falcidiato il nord.
E ogni mediocre intelligenza medica ha capito che i malati « infettivi » non andavano mischiati con gli altri.

7) Sole e Mare hanno certamente aiutato a sintetizzare la vitamina D di cui tutti i morenti sono risultati carenti.

8.) Nel Napoletano famiglia e amici precedono il lavoro nelle priorità dell’individuo.
Il motto partenopeo é « m’aggio accattato a jurnata » : ho di che sfamare la famiglia per oggi; smetto e mi dedico ai miei affetti e hobbies o al riposo. Fiducia nella provvidenza e sistema immunitario al meglio.

Per capire appieno quel che vorrei esprimere, ma sento di non riuscirvi appieno, consiglio di leggere le pagine dedicate a Napoli da Goethe nel suo viaggio in Italia.

Lui scriveva meglio di me e non era intontito da 36 notti di galera.

Insomma, i napoletani sopravvivono, perché hanno capito i valori veri dell’esistenza e per definire il lavoro hanno un termine spettacolare: a fatica.

Ditemi voi perché dovrebbero morire anzitempo. Non é questione di razza superiore caro Giacomo Crasti , ma di sapere mettere al posto giusto affetti, lavoro, amori e ambizione, perché la vita ama chi la ama.

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III

Continuano le perplessità su effetti e conseguenze istituzionali del Coronavirus. Specie in relazione, (dato che grazie – al cielo – il contagio sta calando) alla cosiddetta “fase due”.

Avevo già scritto che mai Carl Schmitt era stato così citato dai media come dall’inizio della pandemia. Anche, per lo più, da intellos che conoscono il giurista per sentito dire o, al massimo, per letture sommarie. E quindi lo intendono male.

Il “nocciolo” del ragionamento schmittiano, condiviso da gran parte dei maestri del diritto pubblico, è che quando è in gioco l’esistenza comunitaria (e la vita), si devono tollerare le compressioni necessarie ai diritti, anche a quelli garantiti dalla Costituzione. Ma vale anche l’inverso: allorché la situazione emergenziale viene meno, devono cessare anche quelle limitazioni; così come queste vanno valutate in relazione non (o meno) alle restrizioni dei diritti (e dei valori) garantiti dalla Costituzione che all’effettiva attitudine (e risultato) a conseguire lo scopo prefissosi: l’eliminazione (o almeno il contenimento) dell’emergenza che le ha rese opportune. Ma non sempre il giudizio è positivo.

Come esempio (negativo) di un’emergenza strumentalizzata ad altri fini, abbiamo la crisi italiana del 2011. Il governo Monti osannato dai media come idoneo al compito di ridurre il debito italiano, proprio su questo conseguì il peggior risultato: in poco più di un anno e mezzo, a prezzo di sacrifici notevoli, riuscì a far aumentare il debito italiano dal 116,50% al 129,00% del P.I.L.

Oltretutto coniugando tale pessimo risultato a un aumento  delle imposte che ha ridotto il tenore di vita degli italiani. Peggio di così…..

Non pensiamo che il governo Conte bis otterrà un risultato simile al governo “tecnico”, non foss’altro perché le epidemie arrivano, crescono e cessano. I proclami di vittoria, soprattutto quelli confezionati dal governo  hanno quindi il limite dell’ovvietà, Più interessante è sapere il quando, il quanto e il come se ne uscirà. Ricorda Manzoni che durante la peste di Milano le autorità presero le prime misure di emergenza circa un mese dopo che le avevano deliberate cioè dopo che “la peste era già entrata in Milano”. Colla loro inerzia accrebbero i danni. Come scriveva Schmitt “conseguire un obiettivo concreto significa intervenire nella concatenazione causale degli accadimenti con mezzi la cui giustezza va misurata sulla loro adeguatezza o meno allo scopo e dipende esclusivamente dai nessi fattuali di questa concatenazione causale… significa infatti il dominio di un modo di procedere interessato unicamente a conseguire un risultato concreto”. E il bilancio – anche dell’adeguatezza dell’azione di governo – sarà possibile solo quando raggiunto il “contagio zero”.

Nello stato d’eccezione la sovranità mostra la propria superiorità rispetto alla norma: è stato Bodin il primo a definirla come summa in cives legibusque soluta potestas: quindi agli albori dell’elaborazione del concetto i connotati qualificanti già ne erano: la preminenza rispetto agli altri poteri (summa) e d’esser svincolata dalla normativa (legibusque soluta). Almeno dalle leggi, cioè dalla normativa posta dal potere e per volontà del medesimo, secondo il noto frammento di Ulpiano. La sfida affrontata dal sovrano nello stato di eccezione non è negare il diritto – e tanto meno l’ordinamento – ma di ri-creare una situazione normale in cui la norma possa tornare a poter essere applicata.

É nell’eccezione (e in modo in certo modo simile nel gouvernment de fait di Hauriou) che l’istituzione politica – cioè lo Stato (moderno) – mostra sia la propria essenza che la superiorità dell’istituzione rispetto alla norma. Dall’impossibilità o anche dall’inutilità di applicare norme in una situazione eccezionale, quindi a-normale, dimostra la necessità e la precedenza istituzionale della “creazione”, da parte dell’autorità, di una situazione in cui la norma possa avere vigore ed efficacia. Come scrive Schmitt  “Il caso di eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”.

E tale “creazione” non ha nulla a che fare con le garanzie dell’ordinamento – nel senso dei diritti individuali – affidate (per lo più) ai Tribunali, e in particolare al livello più alto, alle Corti costituzionali. La riparazione di un diritto trova proprio nel potere giudiziario il più adatto ad assicurarlo.

Ma nella situazione eccezionale il problema è garantire “la situazione come un tutto nella sua totalità”. A esser garantito non è l’interesse e la correlativa pretesa del singolo, ma la concreta applicazione di tutto il diritto attraverso il ripristino della situazione normale.

Ne consegue che è la situazione (eccezionale o normale) a determinare l’opportunità di promulgare, mantenere, far cessare le misure per fronteggiare l’emergenza. Così come è il risultato a determinare se, finita l’emergenza, l’azione delle autorità di governo sia stata congrua, e in che misura. Ora è troppo presto per formulare una valutazione definitiva.

Quanto alla fase due, ancora è da venire, e il giudizio sulla stessa anche.

Capisco la diffidenza di tanti italiani data l’esperienza che altre situazioni emergenziali (o, meglio presunte tali) sono state utilizzate dai governi per l’unico fine di sfruttare i cittadini, senza altro risultato (v. da ultimo quello “tecnico” citato) che realizzare il contrario dello scopo esternato. Ma ora è troppo presto per dare un giudizio: non lo è per avere fondati sospetti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Istituzioni e sovranità! La funzione dell’Esercito Italiano. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini

Da troppi decenni l’Esercito Italiano fatica a godere di quella considerazione indispensabile a garantire nel migliore dei modi l’esercizio della sovranità nazionale, la cura degli interessi nazionali stessi e la costruzione di una identità e coesione più solida del popolo italiano. Sempre presente nelle ricorrenti situazioni di emergenza interna al paese e costantemente impegnato in numerosi teatri operativi internazionali, questi ultimi a volte giustificati dalla presenza di interessi nazionali, a volte trascinato da strategie estranee, spesso viene relegato al riconoscimento di una funzione ausiliaria. Un atteggiamento che inibisce il peso politico di una istituzione fondamentale nella costruzione di una coesione nazionale lungi dall’essere ancora compiuta. La crisi dell’ideologia globalista sta riproponendo nella giusta dimensione il ruolo degli stati nazionali e la affermazione delle prerogative loro proprie. Le classi dirigenti italiane non sembrano ancora consapevoli delle implicazioni di questo cambio di paradigma. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini_Giuseppe Germinario

*Il Generale di Corpo d’Armata (ris.), Marco Bertolini, è nato a Parma il 21 giugno 1953. Figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein, dal 1972 al 1976, Marco Bertolini ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, è stato assegnato al il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle Forze Armate italiane – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate. Attualmente è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.

L’intervista ha preso spunto dall’articolo apparso sul sito www.ordinefuturo.it , link https://www.ordinefuturo.it/2020/04/14/considerazioni-in-tema-di-forze-armate/?fbclid=IwAR1-mMCh4_OTj74yS8-gPHsw7oYi9qHcsfmTY3iVCmX_dpwd0N9CbGnDYcY , a sua volta ripreso dal nostro sito il 15 aprile scorso

EMERGENZA E REGIME, di Vincenzo Cucinotta

Il discorso di Conte ha a parer mio tolto ogni residuo dubbio sulla portata delle decisioni che il sopraggiungere della COVID-19 comporterà nella struttura decisionale delle società e nell’ambito delle libertà individuali.

Gli stolti che purtroppo abbondano, guardano nel frattempo al dito, cioè al sacrificio dei settori produttivi pretendendo che sia questo il centro della questione. In questa descrizione caricaturale delle scelte che si vanno definendo oggi sulla base dell’infuriare degli effetti della pandemia, l’alternativa starebbe tra la sacra difesa della salute delle persone e gli interessi produttivistici dei capitalisti.

A partire da questa cecità problematica da combattere come è problematico descrivere un colore a un cieco, non v’è evidenza che basta. Costoro non sentono ragioni, se tu parli contro le misure di isolamento, sei un nemico della loro incolumità e contemporaneamente un alleato degli Agnelli e della loro avidità predatoria. La descrizione dei fatti è così rozza che seppure facilmente confutabile su un piano logico, diventa non scalfibile su un piano emotivo, tutto ciò che riduce l’isolamento è nemico della mia vita, e posta così la questione, diventa impossibile far cambiare opinione.

Dall’inizio dello scoppio di questa pandemia, mi sono sempre dichiarato contrario alle misure di isolamento non perchè non capisca come l’esposizione a questo agente infettivo possa risultare pericolosa, ma valutando l’alternativa, perchè alla fine dobbiamo comprendere se un’alternativa c’è e quale sia.

Credo che da questo punto di vista, come dicevo, il discorso di ieri sera di Conte sia illuminante.

A parte la questione della UE che ho affrontato separatamente, vengono in evidenza due aspetti.

L’uno è l’istituzione di una task force, espressione inglese che permette di mantenere una certa ambiguità sulle sue caratteristiche e compiti e quindi preferita a un suo analogo in italiano, formata dai fatidici tecnici dei quali a quanto pare non ci libereremo più almeno da Monti in poi.

Cosa non va in questa questione della task force? Non certo che il governo acquisisca pareri tecnici da competenti, potremmo perfino tollerare che si tratti di un organismo  collegiale che pure già modifica il senso della sua funzione, ma la cosa ben più grave, è costituita dal fatto che venga pubblicizzato, svolgendo così una funzione indipendente. Conte avrebbe potuto benissimo dotarsi di un comitato di persone che godono della sua personale fiducia, sarebbe stata cosa saggia, ma se dichiara urbi et orbi la sua costituzione, allora conferisce a questo organismo una sua autonomia. Non si tratterà quindi di un comitato interno che comunica soltanto in via più o meno riservata con il governo, ma diventa una specie di secondo governo. In questo senso, si viene ad alterare il delicato equilibrio istituzionale previsto dalla carta costituzionale, e come in queste settimane vediamo Borrelli andare in TV a tenere la quotidiana conferenza stampa, ci dovremo domani aspettare di vedere il sig.Colao al quale nessuno di noi ha delegato alcun potere colloquiare con noi, ovvero prendere decisioni su di noi. Purtroppo, abbiamo evidenze dello scarso spirito democratico esistente nel nostro paese come osservato ampiamente nel caso del governo Monti che ha ricevuto un’amplissima fiducia perfino dallo stesso Berlusconi all’uopo defenestrato, e il cammino irresistibile della modifica costituzionale con l’obbligo di pareggio di bilancio che è stata approvata in pieno clima bulgaro, e i Bulgari non se l’abbiano a male.

Stavolta, stiamo messi ancora peggio, non c’è alcuna procedura costituzionale che presieda alla costituzione di questa task force che ci dovrà dettare i nuovi termini di convivenza sociale, determinare quindi la nostra vita senza che si capisca in che senso siamo ancora in democrazia.

Il secondo aspetto è quello che vado dicendo da parecchie settimane, e cioè che le misure anti-coronavirus sono in linea di principio permanenti (e li stabilisce un Colao qualsiasi).

Riassumendo, noi stiamo cambiando la natura stessa del sistema politico della nostra patria e i connessi diritti individuali garantiti senza porre scadenze e conferendo poteri non meglio definiti a organismi improvvisati che Conte ha deciso di costituire con un meccanismo di composizione del tutto opaco, così che siamo autorizzati a credere che questi novelli sacerdoti gli siano stati segnalati per telefono da suoi sodali.

Ma per i nostri stolti, se non ci facciamo togliere le garanzie costituzionali, se non assecondiamo questa nuova ed anticostituzionale struttura dei poteri decisionali, siamo soltanto dei nemici della salute del popolo e al servizio dei capitalisti.

A questa descrizione rozza e fantasiosa delle questioni che abbiamo di fronte, e che derivano da motivi ideologici che è difficile far riconoscere agli interessati, non abbiamo da opporre né giornali, né TV, né il nostro numero, lottiamo usando le mani come chi non può fare altrimenti e sa che è l’ultima barriera prima che si costituisca un regime orwelliano, e lo faremo anche scontandone l’esito negativo perchè non sapremmo che fare altrimenti, difendere almeno la lucidità mentale magari per le generazioni che ci succederanno.

http://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-conte/14450

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE II

È inutile ripetere quanto già scritto (v. Coronavirus ed eccezione) su questo sito che le crisi sono spesso generatrici di cambiamenti decisivi; e questi quasi sempre – nascono da situazioni di emergenza. È l’eccezione e non la situazione normale l’acceleratore della storia.

Tocqueville, a proposito della rivoluzione francese scriveva che questa aveva compiuto bruscamente “con uno sforzo convulso e doloroso, …quanto si sarebbe compiuto a poco a poco, da se e in molto tempo”. La rivoluzione realizzò in pochi anni, e a prezzo di immensi dolori, quanto si sarebbe comunque realizzato. Perché iscritto nelle tendenze della storia, e in buona parte avviato dalla monarchia assoluta.

Certo tra crisi e cambiamenti la relazione non è simmetrica, nel senso che ogni crisi genera un cambiamento, ma è vero, come sopra cennato, che tutti (o quasi) i cambiamenti reali seguono una crisi,

E questa tendenza – quasi una regolarità – è sempre stata nella consapevolezza del pensiero politico giuridico, da Polibio a Machiavelli, da Spinoza ad Hauriou, da Santi Romano a Carl Schmitt. Proprio Machiavelli in un celebre capitolo del Principe (il XXV) ne da una spiegazione/descrizione nel rapporto tra fortuna e virtù.

Il segretario fiorentino ricorda che molti sostengono l’“opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno” tuttavia dato che gli uomini hanno il libero arbitrio, possono fronteggiare (l’avversa) fortuna con la virtù: e la fortuna “sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam ce ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”: ma proprio in Italia la situazione della penisola era dovuta alla mancanza nei governanti di “conveniente virtù” che invece non mancava in Francia, Spagna e Germania.

Ed è la fortuna – cioè la situazione critica che per così dire, “a dettare l’agenda”: per fronteggiarla il principe deve adattare “el modo del procedere suo con la qualità dei tempi”. Talvolta occorre essere decisi (ipotesi che Machiavelli ritiene maggiormente idonea) ma talaltra prudenti. É l’idoneità dei mezzi apprestati a conseguire lo scopo, data la situazione, a determinarne la validità.

Quando nei Discorsi passa da un discorso politico alla conseguenza politico-istituzionale (in un regime repubblicano) individua il rimedio nell’istituto della dittatura romana, la quale serve a fronteggiare la situazione emergenziale (“gli accidenti istraordinari”), e  a tal fine, rompere gli ordini (cioè prendere misure straordinarie in deroga alle leggi, valevoli per una situazione normale).

Nel corso della storia, in particolare in quella moderna, il rapporto “paritario” (o quasi) sostenuto da Machiavelli tra fortuna e virtù è stato spesso spensieratamente sostituito dalla fede nel progresso umano (non solo tecnico-scientifico, ma anche politico e “morale”) il quale farebbe si che l’esistenza della comunità potrebbe scorrere su un binario tranquillo, fino alla stazione d’arrivo. Anzi quella stazione sarebbe stata già raggiunta una trentina di anni orsono, con il crollo del comunismo e “la fine della storia” (Fukuyama docet). È chiaro che secondo i più (sprovveduti) seguaci di tale concezione, di misure d’eccezione non c’è bisogno, perché il controllo umano sul mondo attraverso la tecnica e quello sulla stessa natura umana con il “pensiero unico” è tale da allontanare qualsiasi situazione eccezionale. In primis la guerra che di tante crisi è stata quella più considerata. Ma, accanto a quella, meno drammatiche, ma assai più frequenti, ci sono crisi indotte dagli eventi naturali (terremoti, inondazioni, pestilenze, carestie). Anche se le emergenze provocate da eventi naturali, per lo più, non producono effetti politici e storici epocali, non è mancato il contrario. Secondo gli storici il crollo della talassocrazia minoica fu dovuto al maremoto causato dall’esplosione del vulcano di Santorini; la fine delle civiltà precolombiane alle epidemie dovute alle malattie diffuse dai primi marinai spagnoli sbarcati in America, e che facilitarono grandemente il compito dei conquistadores.

Ancor più possono pertanto produrre mutamenti non di civiltà, ma sicuramente di (costumi) legislazione e di forma politica. Se le misure eccezionali riescono a dominare la situazione (a batterla e urtarla scriveva Machiavelli con un paragone che probabilmente dispiace alle femministe) tornano, dopo la crisi, gli ordini normali; ma, talvolta è la crisi, anche dovuta ad eventi naturali, a portare cambiamenti, fino alle innovazioni di forma politica.

Credere il contrario, che la storia sia direzionale nel senso di un progresso lineare, cioè l’inverso dell’andamento ciclico familiare al pensiero politico e giuridico è quindi, in primo luogo, contraddetto dalla storia.

Peraltro lo stesso Fukuyama  “correggendo il tiro” del suo famoso saggio limitava (nel libro che ne seguì) la fine della storia alle forme politiche; e nell’opera stessa attribuiva la concezione direzionale della storia a due fattori, uno dei quali è la conquista tecnico-scientifica della natura. Ma se, per così dire, tale conquista non è ancora (totalmente) avvenuta, succede che la natura riprenda il proprio ruolo, peraltro solo parzialmente intaccato dalla scienza e dalla tecnica. Ed occorre costituire “ripari ed argini” (anche) nell’organizzazione dei poteri pubblici.

Perché, contrariamente ai corifei del progresso (ecc. ecc.) la natura (deus sive natura, scriveva Spinoza) torna sempre a bussare. Come cantava Orazio, natura expelles furca tamen usque recurret.

Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRINI SOL CONTRO TOSCANA TUTTA, di Antonio de Martini

GUERRINI SOL CONTRO TOSCANA TUTTA

Dopo la lettera dei tre generali ( altri due che non usano internet hanno solidarizzato, non sollecitati,in privato );
il ministro della Difesa Guerini ha rilasciato una imbarazzata dichiarazione in TV sull’apporto delle FFAA alla crisi epidemica elencando i trasporti funebri fatti, l’assistenza ecc.

Si è dilungato senza fornire numeri ( ad esempio per l’alluvione di Firenze furono usati 16.000 uomini agli ordini del comandante della Regione tosco-emiliana) ma non ha affrontato
Il cuore della polemica.

Se lo facesse diventerebbe il più popolare della compagine governativa in 48 ore.

L ’Esercito dovrebbe intervenire come corpo organico e in fase di pianificazione ed esecuzione delle attività, acquisti inclusi. Usare un muscolo senza cervello e nervi non è naturale.

In Israele che ha novemila contagiati e ad onta dello Stato di allarme permanente, l’esercito ha destinato un battaglione al completo.

Vuole un esempio minimo?
Se dei militari fossero andato a prendere le mascherine bloccate nella Rep Ceca, i doganieri ci avrebbero pensato due volte prima di bloccare la merce.
Di ottanta e passa medici morti , forse qualcuno si sarebbe salvato.

Il sospetto della totalità degli italiani – diventato certezza dopo la farsa delle mascherine- è che l’Esercito non venga coinvolto per poter lucrare su ogni passaggio delle operazioni di soccorso, ad ogni passaggio e decisione logistico-amministrativa e che anche l’assistenza caritatevole venga affidata a organismi non neutri che usano poi tornare a chiedere sostegno elettorale.
L’Esercito è la Patria vivente di tutti.

Sono certo, inoltre, che buona parte dei sospetti con cui sono visti i COVID bond potrebbero sparire se annunziassimo ai partner UE che sono anche alleati NATO. e hanno visto battersi i nostri soldati in Bosnia e Afganistan, che l’intera operazione verrà affidata allo stato Maggiore e al corpo della sanità militare, francesi, tedeschi e olandesi ( dichiarati responsabili della strage di Srebrenica ) avrebbero difficoltà a negare la collaborazione.

Caro Guerrini,
sarebbe una occasione anche per lei di mostrare che ha senso dello stato in quantità insolita in un governo di principianti e pesi piuma.
E salverebbe, oltre alla sua carriera, centinaia di vite utili per la ripresa.

RICEVO DAL GENERALE ALBERTO ZIGNANI – GIÀ SEGRETARIO GENERALE DELLA DIFESA – CHE LO APPROVA IN TOTO, IL DOCUMENTO STILATO DA DUE GENERALI SUL TEMA DEL COVID.
Riporto testualmente l’amara considerazione scritta dal Gen. Fernando Termentini insieme al Gen. Montagna, che condivido in toto.

Sta partendo una ulteriore task force dell’Ospedale Militare del Celio di Roma per Alzano Lombardo come se a Roma non ci siano o non ci saranno, nel prossimo futuro, problemi dovuti all’epidemia di COVID-19!

Mettiamo a disposizione uomini mezzi e materiali dopo che ci hanno deriso ed anemizzati.

Mettiamo a disposizione posti letto dopo che ci hanno tolto caserme ed ospedali militari che funzionavano bene con reparti infettivi sempre “pronti” (poiché era una “ossessione” di noi militari!!!!), ospedali come: Padova, Verona, Torino, Udine, Milano, Bari, Napoli, Palermo, etc accusandoci di essere “fuori dal tempo”, di essere dei “pessimisti” che epidemie, terremoti, alluvioni, cataclismi etc erano solo negli “incubi” di noi militari e che usavamo lo spauracchio di questi cataclismi solo per questioni di budget!

Così hanno deciso di smantellare una perfetta e ben rodata organizzazione di Difesa Civile con a Capo Prefetti e Vigili del Fuoco, che potevano contare sul concorso delle FF.AA. , preferendo costituire una nuova organizzazione elargendo centinaia e centinaia di milioni di euro alla”protezione civile” ma, chissà perché, quando ci sono EMERGENZE vere e non simulate e non esercitazioni “vasetto” tipo teatrino dove tutti si dicono “quanto siamo belli, quanto siamo bravi” ……. chiamano la Protezione Civile?

NOOOOOOOOOO

Chiamano lo Stato Maggiore della Difesa che in 24 ore fa partire team medici, unità sanitarie, ospedali da campo, ingegneri e altri tecnici e fa sgomberare caserme per dare posti letto, senza “sbattere i pugni sul tavolo”!

Prima ci hanno smantellato e continuano a farlo ma quando ci sono le VERE EMERGENZE… spariscono tutti i funzionari (da 10.000€ al mese) della Protezione Civile, tutte le “associazioni di volontariato” e le tanto decantate ONG sovvenzionate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, etc etc e tutti all’unisono (gli stessi che hanno contribuito e contribuiscono a smantellare le Forze Armate) urlano in preda al panico: “QUI CI VUOLE L’ESERCITO!”.

I TOPI SCAPPANO QUANDO LA NAVE AFFONDA.

Il generale della Guardia di finanza Carta lascia la direzione dei servizi segreti ( AISE) per assumere la presidenza di Leonardo ( ex Finmeccanica) facendo scoprire quali sono i veri interessi .l suoi e di chi lo protegge.

Un tempo , nemmeno troppo lontano era il capo dei servizi segreti a indicare chi avrebbe diretto Finmeccanica.

Conte ci metterà probabilmente l’ex capo della polizia che tanto gli piaceva e che non voleva mandare in pensione.

Come in ogni regime poliziesco che si rispetti i posti chiave vanno a esponenti della polizia ( De Gennaro -ENI; Carta -Leonardo; Pansa all’AISE ?)

Anche gli ultimi due segretari generali del PCUS erano ex capi del KGB.
Non è bastato a impedire il naufragio.

Quale futuro, dopo il Covid-19, di Angelo Perrone

 

Quale futuro, dopo il Covid-19

 

Nessun’altra epidemia ha mostrato le caratteristiche invasive e globali del Covid-19: abitudini stravolte, mente impaurita, smarrite antiche certezze. Una fase, pur gravissima, ma di passaggio, verso un futuro ancora da immaginare. Da dove ripartire? Là dove ci eravamo fermati: scuola e sanità, lavoro, infrastrutture, giustizia, istituzioni. Mettendo a frutto la lezione di umiltà e impegno civile che il presente suggerisce. Il cambiamento epocale non riguarderà i problemi da affrontare ma il modo di risolverli

 

di Angelo Perrone *

 

Non si parla che di coronavirus. E come fare diversamente?, verrebbe da domandarsi. C’è apprensione, sgomento, paura del futuro. Ci scambiamo telefonate e messaggi in cui ci chiediamo, a volte trattenendo il fiato: “come stai?, tutto bene?” Temiamo una risposta negativa, ma, poi, cerchiamo anche di darci così un po’ di conforto. Con stati d’animo alterni, apriamo il giornale, guardiamo la tv, vediamo dipanarsi giornate, che non sono più come prima.

 

Un susseguirsi di notizie, in Italia, Europa, nel mondo. Per lo più tragiche: i morti, i contagiati. Leggiamo che non c’è più posto nelle camere mortuarie, molti vengono caricati sui camion militari in cerca di un luogo dove essere cremati e trovare sepoltura. Senza parenti, perché non si può fare il funerale. Se ne vanno ad uno ad uno i ragazzini che erano su quell’altra trincea, nel ‘18. Ancora lenta la curva che indica la diminuzione dei contagi. Solo piccole incrinature nella lotta al virus: studi, sperimentazioni, prove sul campo, rese affannose dal tempo che manca.

 

Tabelle, diagrammi, e tante dissertazioni. Più o meno scientifiche, talvolta digressioni inutili, ripetizioni. L’insidia onnipresente della faciloneria in tante dichiarazioni. L’insopportabile uso delle polemiche per tornaconto politico. Come vanno realmente le cose e quando ne usciremo? Come sarà l’esistenza domani? Non riescono a dircelo né i decreti del governo né le statistiche degli scienziati. Nessuno lo sa, l’incertezza spaventa e allarma ancora di più, rendendo il futuro incerto.

 

Il sovvertimento delle abitudini ha già introdotto un cambiamento non solo negli stili di vita, ma nella mente. I riti di cui era fatta la giornata, non importa se piacevoli o stressanti, erano a modo loro tranquillizzanti. Creavano un routine, un ordine, uno spartito. Ci troviamo oggi spiazzati dalla mancanza di riferimenti. Dobbiamo costruircene di nuovi, in fretta. Ne siamo capaci?

 

Quello che abbiamo sotto gli occhi è che, in un tempo così breve, si è consumato un dramma: sono già migliaia i morti per il virus, la maggior parte tra i più deboli, anziani o gravemente malati. Se ne sta andando una generazione. 70 sono i medici, alcuni richiamati in servizio dalla pensione, che hanno già lasciato la pelle mentre provavano a salvare quella degli altri. Non è l’unico dato che tocchiamo con mano. Molte famiglie già non ce la fanno ad andare avanti. Sono milioni le domande di sussidio all’Inps. Nelle strade di alcune città sono apparse ceste ricolme di alimenti. “Chi ha bisogno prenda, chi può lasci”. Un soccorso spontaneo, alla buona.

 

Non c’è attività che non debba fare i conti con lui, il virus. Impossibile prescinderne. Che ne è del nostro lavoro, della scuola per i figli, oppure del divertimento o dello sport? Al tempo del coronavirus, nulla è più come prima, tutto è rimandato, perso, annullato, almeno modificato in peggio. Senza termini o scadenze prevedibili che indichino la via di uscita.

 

Proviamo a divagare quando ci sembra di soffocare, è naturale, ma si ritorna sempre lì. Molti musei o teatri, tanto per dire, sono accessibili gratuitamente da parte di chiunque, e così si possono vedere capolavori, ascoltare musiche, assistere a spettacoli senza spendere un cent. Una bella notizia in sé. Senonché, accade, bisogna dirlo?, perché questi luoghi sono chiusi al pubblico per il virus, e allora, al posto delle visite, sono stati creati tour virtuali. E così tante altre cose. Che il virus rende difficili o esclude. Come far prendere una boccata d’aria ai bambini chiusi in casa? Come curare malattie croniche o ottenere dei ricoveri, se gli ospedali sono impegnati con il virus? E se a prendere il Covid-19 sono donne in gravidanza?

 

Ci siamo dimenticati d’un botto quello che accadeva ieri? Ci siamo fatti trascinare altrove dalla musica assordante suonata sui balconi, dal silenzio fascinoso e stordente delle città vuote? Se fosse accaduto, saremmo entrati in una bolla d’aria. Lontani dalla realtà, non immersi in essa sino al collo come sta avvenendo. Impossibile trascurare tutto quello che prima animava le nostre discussioni. Sono problemi che pesano sempre sull’esistenza.

 

Alla svelta. L’Ilva: il dramma della salute in un’intera città, è sempre in stallo, come quello del futuro della siderurgia. Continua l’enorme spreco di denaro pubblico nelle casse di Alitalia, senza un piano industriale. La fuga all’estero dei giovani è ancora una perdita secca per il paese. La qualità della politica e il prestigio dei suoi rappresentati rimangono un problema irrisolto, dopo la crisi dei partiti, la svalutazione delle formazioni intermedie, il discredito della competenza e della professionalità.

 

Confrontarsi con il passato è utile, anzi necessario. A che punto eravamo quando è scoppiato tutto questo sconquasso? Cosa abbiamo lasciato in sospeso, o deve essere abbandonato? Proprio da lì si deve partire per capire cosa si deve cambiare oggi. Come eravamo e come saremo. Voltarsi indietro serve ad andare avanti.

 

Però, la bussola imprescindibile per orientarci è il presente, cioè l’esperienza che facciamo oggi di noi stessi, la valutazione dei problemi, la stima delle possibilità. E’ sempre problematico confrontare le epoche e le situazioni. Stabilire quale sia più gravida di conseguenze. Quali sfide siano complicate. Difficile equiparare il presente al passato. O indugiare a chiedersi, proprio ora, con il virus in casa, non sulla porta, perché non si parli d’altro. O se sia appropriato il linguaggio fatto di parole come guerra, battaglia, nemico, che evoca altri scenari. Non è il momento, non è il caso.

 

Ma poi è davvero così? Non si parla d’altro che di una malattia? Il Covid-19 ci ha messo a nudo nel profondo. Ha mostrato le nostre fragilità, la permeabilità dei confini da parte del male, la globalità mortale della sfida. Ma ha anche stimolato la nostra capacità di reazione. La necessità di solidarietà.  Un problema di tutti e per ciascuno. Questo virus ci fa da specchio, in pieno, rispetto alle scelte di vita, ai problemi da risolvere. All’esistenza intera in questo momento storico.

 

Il confronto con il passato nasconde l’insidia di una semplificazione involontaria e controproducente. Il nuovo è l’eterna ripetizione del già visto? Altri problemi, ma non più gravi di quelli del passato, rimasti irrisolti. Si rischia, mettendo il nuovo al posto del vecchio, di mistificare semplicemente la realtà? Come dire: mentre tutto cambia, tutto rimane com’era. Spostiamo l’attenzione altrove, ne rimaniamo invischiati, e cadiamo così in un inganno?

 

Il nuovo non ci proietta in una dimensione alienante se non lo vogliamo. La storia non si ripete uguale, e non è priva di senso: la precarietà della vita, l’insicurezza, la difficoltà di realizzazione personale attraversano tutte le epoche, ma in forme diverse. Necessariamente differenti sono e devono essere le risposte. Si rischia altrimenti di non apprezzare ciascun tempo in ciò che gli è proprio ed esclusivo. Di valutarne le esatte caratteristiche, difetti, ma anche aperture.

 

Non dobbiamo aver paura di fronte al nuovo che avanza e che, qualche volta, ci apporta anche del buono. Ci sono già abbastanza ragioni per essere perplessi. Chissà se riusciremo davvero a venirne fuori, a recuperare il tempo perso, a sanare tante falle: nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nel lavoro, nelle istituzioni. E chissà quando potremo uscirne con dei risultati. Tuttavia, non dobbiamo temere di immergerci nel presente, di comprenderlo, di analizzarne i caratteri. Anche per evidenziarne limiti e negatività. Pericoli. Potrebbe accaderci, se lo facciamo, di scoprire qualcosa di noi stessi, che ci possa tornare utile nel futuro. Come stiamo reagendo alle difficoltà, come stiamo giocando la nostra vita?

 

La disciplina, la solidarietà, la capacità di fare rinunce, la percezione del bene comune: forse sono tutte cose che potremmo mettere da parte, nel bagaglio individuale e collettivo, quando si tratterà di ricominciare, facendole fruttare domani. Perché allora non aggiungere un ultimo elemento, piccolo forse, ma non di poco conto? E’ il senso di commozione che ci accompagna in questi giorni di forzato isolamento e di brutte notizie, in cui cerchiamo di coltivare un po’ di speranza e fiducia. Abbiamo bisogno di tornare a emozionarci per una causa. Dietro la suggestione per le canzoni suonate sui balconi, lo sventolio di bandiere, le immagini dei luoghi famosi d’Italia avvolti dal silenzio e i camici bianchi negli ospedali, c’è solo questo: la sincerità, forse un po’ ingenua ma autentica, dei sentimenti, che chiedono di essere liberati.

 

* Giurista, si occupa di diritto penale, politica della giustizia e delle istituzioni. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

GOOD BYE U.E.!, di Giuseppe Angiuli

GOOD BYE U.E.!

 Il periodo che stiamo vivendo in questo primo semestre del 2020, ricco di tumultuosi cambiamenti del nostro stile di vita in coincidenza con l’influenza globale da coronavirus, sarà senz’altro ricordato sui libri di storia come un momento topico di spartiacque da una fase storica ad un’altra, un momento in cui un vecchio ordine in decomposizione cede spazio ad un nuovo ordine che prende forma e definizione in tempo reale sotto i nostri occhi.

A distanza esatta di un secolo dall’influenza spagnola – che fece da sfondo alla ridefinizione degli equilibri geo-politici successivi al primo conflitto mondiale – un’altra pandemia dalla natura ed origine ancora non ben chiarite sta facendo da contorno ad un passaggio storico in cui tanti nodi gordiani stanno venendo finalmente al pettine, lasciando stupefatti molti tra noi, a cominciare da coloro che Bettino Craxi 25 anni fa ebbe a definire «i declamatori retorici dell’Europa», fautori di un «delirio europeistico che non tiene conto della realtà».

Come i fatti nudi e crudi stanno a dimostrare anche agli occhi dei più duri di comprendonio, un’Europa politicamente unita è sempre stata ben distante dall’esistere realmente, se non nella fantasia dei ben foraggiati burocrati di Bruxelles, giacchè troppo distanti sono sempre stati i tratti distintivi umani, linguistici, culturali e antropologici che storicamente connotano le sue sedicenti componenti fondanti.

Nel frangente più duro per i popoli del continente europeo, stanno crollando come castelli di sabbia tutti i principali luoghi comuni che hanno segnato un’epoca: il dovere di solidarietà tra Paesi vicini, i presunti effetti virtuosi dell’austerità finanziaria, lo stesso vincolo del pareggio di bilancio, la demonizzazione in sé e per sé della spesa pubblica e degli aiuti di Stato all’economia, tutti questi discutibili assunti su cui si è basata la narrazione conformista dell’europeismo retorico che ci stiamo lasciando alle spalle, stanno dimostrando improvvisamente il loro carattere fallace.

Al futuro remoto non possiamo mettere mani ma oggigiorno diventa senz’altro evidente che un’Europa davvero unita non potrà sicuramente esistere nel XXI° secolo, giacchè per i sistemi economici opulenti dei Paesi nordici come Germania, Olanda e loro satelliti risulterà sempre più conveniente camminare da soli con le loro gambe (apparentemente) forti piuttosto che mettere a disposizione dei popoli sottomessi della fascia latino-mediterranea i loro surplus di bilancio.

Questa U.E. è sempre stata come la fattoria degli animali di George Orwell, ossia una pseudo-comunità in cui ci sono sempre stati dei soggetti «più uguali degli altri».

Ormai il re è nudo e forse qui in Italia soltanto i visionari del PD potranno ancora non per molto raccontarci le loro frottole e panzane sullo spirito solidale dell’Europa comunitaria.

Se ormai perfino un ultra-europeista come Mattarella è giunto a mettere all’indice apertamente gli egoismi dei Paesi nordici in diretta TV, vuol dire che il super-lager U.E. è ad un passo dalla sua implosione, con tutti i suoi folli corollari a cominciare da quella maledetta moneta unica che a noi italiani in questo ventennio è costata la rinuncia ad una parte molto significativa del nostro tenore di vita e del nostro welfare (ahi, quanto erano belli gli anni ’80 del secolo scorso, vero?!).

Al punto in cui la crisi delle istituzioni comunitarie è ormai giunta, risulta oltremodo difficile immaginare o prefigurare qualsiasi ripensamento o accomodamento della Germania sulle folli regole di austerità dei trattati U.E.: i tedeschi nella storia hanno sempre perso quasi tutte le guerre decisive (e credo che perderanno anche quella in corso) giacchè troppo spesso hanno dimostrato di mancare di un requisito fondamentale di natura pre-politica, ossia la duttilità di cervello.

Hitler non riuscì a mutare strategia militare nemmeno quando i carri armati sovietici erano già a 5 chilometri di distanza da Berlino ed egli continuava ad assicurare con sussiego e baldanza ai suoi sodali che la Germania avrebbe senz’altro vinto la guerra.

Chi può pensare seriamente che la sig.ra Merkel e la Ursula Von der Lakrimen possano oggi dimostrare, alla vigilia dell’implosione del lager U.E., più duttilità di cervello di quanta ne dimostrò il Fuhrer nel 1945?

La Germania ha segato essa stessa il ramo su cui era seduta.

E’ giunto il momento per noi italiani di mollarla al suo destino, esattamente come abbiamo fatto alla nostra solita maniera ignominiosa nel 1943-45 (ossia decidendoci all’ultimo momento, quando i giochi sono ormai fatti e senza ancora avere deciso una vera strategia di uscita).

E dobbiamo farlo non perchè gli anglo-americani (che sono gli unici veri fautori di questa manovra che porterà al prossimo collasso della U.E.) siano buoni e caritatevoli o perchè intendano venire a «liberarci»: piuttosto, dobbiamo farlo perchè, esattamente come nel 1943-45, oggi non abbiamo altra scelta che quella di uscire il prima possibile dal lager a conduzione germanica in cui ci siamo fatti rinchiudere per nostra insipienza e temerarietà.

 

STA NASCENDO UN ASSE POLITICO DRAGHI-MATTARELLA?

In tanti sono sobbalzati sulla sedia dopo avere letto l’intervento di Mario Draghi sulle colonne del Financial Times di mercoledì 25 marzo 2020.

«Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra», ha pontificato il super Mario nazionale con il tono stentoreo di chi non ha bisogno finanche di dimostrare la fondatezza dei propri assunti, potendo contare unicamente sul senso di prestigio e sulla deferenza suscitati nell’establishment italico dal suo ruolo e dalla sua stessa personalità.

Non crediamo di sbagliare se affermiamo che Draghi sia effettivamente uno degli uomini pubblici in assoluto più influenti tra quelli di nazionalità italica, da sempre legato ai circuiti più altolocati della finanza anglo-americana, a cominciare dal colosso Goldman Sachs con cui ha lavorato per un lungo periodo.

E quel cambio di mentalità oggi ritenuto così indispensabile ed improcrastinabile consisterebbe, ad avviso dell’ex Governatore della BCE, nel fatto che il principale problema da affrontare per le economie dei Paesi dell’eurozona non debba essere più individuato nell’inflazione (come da qualche decennio a questa parte ci era stato assicurato a reti unificate da tutti gli economisti neo-liberisti di scuola ortodossa) bensì nel pericolo imminente che «la recessione si trasformi in una depressione duratura».

E per scongiurare tale pericolo, lo stesso Draghi, ribaltando di 180 gradi quei medesimi postulati che sino ad ora lo avevano reso celebre quale sacerdote indefesso dell’austerità e dei vincoli di bilancio, ha proposto che i Governi dei Paesi europei ricorrano senza indugio ad «un aumento significativo del debito pubblico».

Pur non avendo egli spiegato attraverso quali forme e modalità dovrebbe realizzarsi tale auspicato incremento del debito pubblico, le sue parole hanno indubbiamente assunto l’oggettivo significato di una svolta strategica, di quel tipo di svolte a cui ricorrono i grandi generali, per l’appunto, in tempo di guerra.

Le reazioni a caldo degli osservatori più ingenui ed istintivi, quelli solitamente abituati a guardare il dito anziché la luna, si sono presto incentrate sulle critiche – legittime quanto ovvie e scontate – alle scellerate politiche di privatizzazioni e di austerità finanziaria che per un lungo periodo hanno visto nell’insigne super Mario uno dei più strenui interpreti ed assertori, quanto meno a partire dalla sua partecipazione al noto meeting che si tenne sul panfilo Britannia nel giugno 1992 (un consesso al quale, secondo alcuni bene informati, avrebbe discretamente preso parte anche Beppe Grillo, oggi sedotto dalle formose sirene orientali).

Ma volendo andare un po’ a fondo e provare a leggere tra le righe quale significato politico potrebbe racchiudersi nelle clamorose esternazioni di Draghi, noi proveremmo quanto meno a porci alcune domande.

Quali scenari per il breve e medio periodo si lasciano intravedere nel discorso dell’ex Governatore della BCE?

Che tipo di convergenze politiche inedite – se ve ne sono – risultano sottintese alle sue dichiarazioni?

C’è un nesso logico-politico-temporale tra l’intervento di Draghi sul Financial Times del 25 marzo scorso ed il quasi contestuale anatema anti-tedesco pronunciato da Sergio Mattarella in diretta TV la sera del 27 marzo, allorquando l’inquilino del Quirinale è apparso rivolgere un ultimo e disperato appello alle entità che reggono le sorti dell’€urozona, con delle parole che non lasciano scampo ad equivoci di sorta (avendo egli auspicato che esse «comprendano la gravità della minaccia prima che sia troppo tardi»)?

E come è spiegabile l’accoglienza positiva che verso un ipotetico Governo Draghi si è presto manifestata da personalità euroscettiche tra cui si segnalano il leader della Lega Salvini (intervenuto pubblicamente in Parlamento a favore di un ipotetico Governo guidato da super Mario) ed il direttore del quotidiano La Verità Maurizio Belpietro (autore di un editoriale con stile di panegirico, lo stesso giorno del discorso in TV di Mattarella)?

Sta forse nascendo un asse politico Mattarella-Draghi-Salvini-Meloni (con quest’ultima apparentemente più fredda di altri rispetto all’idea di un Governo di unità nazionale) che avrà il compito di accantonare la stagione di Giuseppi Conte e di assumere le redini del Paese nella fase immediatamente successiva ad una ormai assai probabile e quasi imminente implosione dell’€urozona?

Noi non disponiamo della palla di cristallo per potere fornire una compiuta risposta a ciascuno dei suddetti interrogativi.

Ciò nondimeno, siamo certi che nelle fucine della politica italiana ed internazionale oggi è in fase di preparazione uno scenario di grandi e importanti novità di portata storica.

Quanto al probabile ruolo che Mario Draghi intende ritagliarsi nella nuova stagione, riteniamo decisivo soffermarci su quella parte del suo intervento sul Financial Times in cui l’ex Governatore della BCE ha precisato che «livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

A quale componente del debito privato ha inteso riferirsi Draghi?

Forse a quel debito oggi detenuto dalle grandi banche d’investimento internazionali, i cui bilanci (a cominciare da quelli di Deutsche Bank) sono pieni zeppi  di derivati tossici e di cui oggi la comunità finanziaria occidentale intende scongiurare il fallimento a catena?

 

 

Giuseppe Angiuli

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