Le rane bollite, di Giuseppe Germinario

Quatto quatto, sornione il vero vincitore di questa tornata elettorale è stato paradossalmente chi non vi ha partecipato e ha agito per vie indirette. Pur con qualche ombra, Mario Draghi.

Non il Presidente del Consiglio bensì il funzionario, l’emissario incaricato di mettere ordine nello stallo e nelle fibrillazioni sterili di un ceto politico allo sbando, di gestire il PNRR rispettando principi e direttive comunitarie, di ridefinire i criteri europei di compatibilità delle finanze pubbliche, soprattutto di fungere da terzo in grado di ricondurre le eventuali pulsioni autonomiste europee nei tradizionali canali filoatlantisti.

Proprio le novità su quest’ultimo aspetto rischiano però di ridimensionare e circoscrivere localmente la sua missione; l’esito delle elezioni tedesche porterà probabilmente al varo di un governo ancora più filoatlantista. Se a questo dovesse aggiungersi una vittoria troppo netta di Macron, il cerchio si stringerebbe ulteriormente e l’azione dell’emissario non più indispensabile. Resta comunque la qualità del personaggio, superiore di molte spanne al livello del ceto politico che infesta lo scenario italiano; qualità, però che rischiano di essere offuscate da una eccessiva e troppo prolungata esposizione, del tutto inusuale e controproducente in tempi ordinari per uomini di potere abituati a muovere leve e tessere trame in modo riservato. Una dinamica destabilizzante, già all’opera da alcuni anni negli Stati Uniti, che potrebbe innescarsi e sfuggire al controllo anche in Italia.

La tifoseria mediatica si è invece concentrata tutta sul palcoscenico. Ha levato sugli scudi la clamorosa vittoria del PD, ha deposto nelle ceneri la débâcle della Lega; con qualche circospezione ha sottolineato il tracollo del M5S e la crescita di Fratelli d’Italia. Una sicumera che, tra le varie cose, tiene in scarsa considerazione il carattere locale delle elezioni, l’importanza della differente qualità dei candidati e soprattutto la debolezza del radicamento militante e la ridotta capacità di influenza e di richiamo alla fedeltà dei partiti nazionali.

La realtà offre quindi tinte meno nette almeno nel primo caso.

Più che una vittoria e una travolgente avanzata, l’esito elettorale del PD sembra annunciare la fine, si vedrà se definitiva o temporanea, di una tendenza verso il tracollo, interrotta più per dabbenaggine e limiti evidenti degli avversari che per merito proprio; una interruzione o una pausa per altro molto più appariscente nei grandi centri urbani e nelle città che nella provincia e nelle periferie del paese.

La Lega offre un quadro molto più complesso da decifrare. La rappresentazione mediatica del disastro appare verosimile solo rispetto alla proiezione irrealistica tracciata sulla base dell’esito delle elezioni europee del 2018; in un contesto più equilibrato si può considerare ancora più una situazione di stallo tendente verso il ribasso che di vero e proprio collasso con punte di crisi più accentuate nelle grandi realtà urbane e di confermata scarsa significanza nel Sud e parte del Centro Italia. Una condizione di crisi latente accentuata dalla fallimentare gestione leghista dell’emergenza pandemica in alcune aree della Lombardia; fattore però destinato a restare meno determinante in un contesto di elezioni politiche generali nel quale la contestuale disastrosa gestione nazionale della crisi pandemica, specie del secondo Governo Conte, spingerà ad un generale comportamento omertoso di tutte le parti politiche. Crisi resa endemica e sempre meno gestibile dal dualismo, appena tollerabile in una fase ascendente di consenso e di opposizione al governo, tra l’aspirazione conclamata a costruire un partito nazionale, dedito all’interesse nazionale e la realtà di un radicamento e di una formazione politico-culturale di una classe dirigente localistica e particolaristica, sensibile tuttalpiù in maniera opportunistica alle sirene universaliste dell’europeismo.

Un dualismo appunto irrisolvibile nell’attuale contesto politico se non con la riproposizione di un altro dualismo, ancora più precario e problematico nel tempo, con una componente conservatrice egemone preferibilmente esterna alla Lega, già proposto a suo tempo durante l’apogeo della leadership di Berlusconi, ma irrealizzabile date le caratteristiche ed i limiti evidenti di Fratelli d’Italia, il partito al momento emergente del centro-destra.

Da questo punto di vista appare evidente e ormai sancita dal responso elettorale l’incapacità del gruppo dirigente della Lega di inserirsi nei centri decisionali e nei settori, presenti soprattutto nelle grandi aree metropolitane, le quali dovranno trainare nel bene e nel male i processi di ristrutturazione economica e riconfigurazione della formazione sociale, nonché determinare la collocazione geopolitica del paese; gli rimane una capacità residua di contrattazione legata al suo radicamento particolaristico.

Non è purtroppo una caratteristica esclusiva della Lega; riguarda piuttosto l’intero arco della rappresentanza politica, compresa quella del PD.

Nella loro pochezza, ne hanno offerto una rappresentazione plastica i discorsi di commento dei due partecipanti all’accesso al ballottaggio alle comunali di Roma: Gualtieri per il PD, Michetti per il centrodestra.

Il primo tutto teso alla missione universalistica, europeista di Roma nella veste di capitale d’Europa, con qualche concessione compassionevole alla condizione materiale della città e di gran parte dei suoi cittadini; il secondo con la sua enfasi esclusiva ai problemi particolari di degrado dei quartieri con qualche riferimento demagogico ai fasti imperiali passati e con nessun riferimento al ruolo e all’immagine di una capitale di una nazione e di uno stato nazionale.

L’uno espressione di una élite universalista in realtà arroccata e del tutto dipendente da scelte esterne, l’altro proteso in una difesa confusa e demagogica di interessi popolari talmente indefiniti da essere rinchiusi in prospettive particolaristiche ed immobilistiche. Entrambi incapaci culturalmente, non solo politicamente, di coniugare il ruolo politico e geopolitico di una capitale e di una nazione con la costruzione di una formazione sociale più equa, dinamica e coesa.

Lo specchio esatto di quello che è in grado di offrire il quadro politico e dirigenziale nazionale.

Per i media nazionali, detentori sedicenti dell’orientamento della pubblica opinione, l’aspetto dirimente di questa elezione è invece la sconfitta del populismo e del sovranismo.

Il sollievo evidente quanto infantile sotteso a questo giudizio è esattamente proporzionale alla compiacenza indegna con la quale hanno gestito la vergognosa vicenda degli “affaires” Morisi e Fidanza-Lavarini; indegna molto più per la gestione giornalistica che per il merito dei fatti e delle trappole probabilmente orchestrate all’uopo.

Il giudizio sul populismo, a parere dello scrivente, ha un qualche fondamento; ma solo nel merito, non nel carattere definitivo della sua sconfitta. Se per populismo si intende l’attitudine a “servire il popolo”, a scambiare per strategia, tattica e programma politico slogan, proclami ed aspirazioni generiche di un ceto politico emergente il quale tende a nascondere i propri limiti e il più delle volte le proprie reali ambizioni e finalità dietro le pulsioni ed aspirazioni popolari da questi ovviamente e univocamente interpretati, la crescita dell’astensionismo, lo stallo legato alle improbabili e improvvise giravolte, alla volubilità rappresentano certamente l’indizio di una crisi di credibilità tanto di questi che del ceto politico elitario e progressista che intende contrapporsi e sostituirlo, ma che in realtà finisce per rimanere arroccato nelle sue enclaves.

Quella tra populismo e sovranismo è però una associazione possibile, ma non inestricabile, la cui scissione potrebbe creare teoricamente condizioni più favorevoli all’affermazione più matura di quest’ultimo.

Se per sovranismo si intende il fatto che lo stato nazionale e la formazione di una classe dirigente nazionale sono condizioni necessarie ed indispensabili ad affrontare le dinamiche multipolari e i processi di globalizzazione; se con esso si esprime di conseguenza la necessità di modificare, ampliare e potenziare le prerogative statuali in grado di consolidare l’identità e la coesione di una formazione sociale e sostenere il confronto geopolitico, il discorso, con buona pace degli universalisti e dei lirici europeisti, è tutt’altro che chiuso. Può essere tutt’al più rimosso, pratica dei quali gli universalisti, specie progressisti, sono maestri, ma con conseguenze tragiche nel tempo delle quali si cominciano a intravedere diversi aspetti nel nostro paese. È la chiave che consente di individuare i giusti strumenti per cambiare e ridefinire il sistema di relazioni e di rapporti nel continente europeo in modo tale da affrancare i paesi e le nazioni dalla condizione di asservimento , di paralisi e di incapacità cui ci ha condotti l’Unione Europea e la NATO.

La crisi pandemica, la profonda riorganizzazione delle catene produttive, l’invenzione di nuovi prodotti e l’annunciata scomparsa di alcuni tradizionali, lo spostamento del centro di confronto nel Pacifico sono tutte condizioni oggettive che potrebbero facilitare il sorgere di forze “sovraniste”, meglio definire nazionali più mature nel perseguire propositi di contestuale coesione e dinamismo sociale ed indipendenza e autonomia politica nelle decisioni.

Nella fattispecie la riorganizzazione della componentistica nella industria dell’auto e della meccanica, l’attuale conformazione dell’industria agroalimentare, le scelte energetiche e in materia di difesa, lo stesso comparto finanziario, settori alcuni dei quali forniscono le basi di una stretta ed asfissiante dipendenza economica dalla Germania in primo luogo, base della propensione culturale al particolarismo della Lega ed alla sua soggezione politica ai centri bavaresi potrebbero essere la molla per la trasformazione positiva di queste forze politiche o per la creazione, dalle loro ceneri, di una formazione politica più matura in grado di comprendere la complessità delle dinamiche, di adottare le migliori strategie e tattiche, di conquistare la testa non solo le pulsioni dei ceti più dinamici.

Non è escluso, tra l’altro, che la potenza di queste dinamiche inducano soprattutto parti della Lega a risolvere il dualismo che la costituisce e con esso scindano alla fine il partito stesso prima che arrivi a consumarsi.

Nella componente progressista, quella purtroppo meglio predisposta al “buon governo”, un processo del genere attualmente non appare neppure ipotizzabile. Nello schieramento opposto il particolare radicamento sociale è oggettivamente più favorevole a questa trasformazione; rimangono l’enorme ritardo culturale e la volubilità e volatilità estrema del suo ceto politico, retaggio del populismo d’anteguerra e del particolarismo autocelebrativo ad impedire la nascita di una espressione politica matura.

Per governare processi complessi di questa portata occorre infatti un ceto politico solido ed autorevole capace di orientare pulsioni ed interessi, piuttosto che rimanere strumento ed ostaggio di questi. Le attuali condizioni di esercizio della democrazia, assieme al dissesto istituzionale, non fanno altro che alimentare queste dinamiche sino a portarle presumibilmente a condizioni di rottura, con i suoi esponenti destinati a finire come rane bollite, grazie alla loro sostanziale inconsapevolezza della posta in palio.

La velocità sempre più repentina con la quale ascendono e tramontano i leader politici da oltre venti anni a questa parte sono il sintomo di tale condizione.

Una dinamica che rischia di trasformare l’esperimento temporaneo della gestione della scena politica da parte di un tecnocrate-decisore, quale è Draghi, in qualcosa di più duraturo. Una tempistica che rischia di logorare e compromettere ulteriormente non solo il ceto politico, ma anche la stessa classe dirigente di solito preposta a gestire le cose con modalità solitamente più riservate, ma già di per sé impedita da evidenti limiti di capacità e comprensione, anche essa circoscritta sempre più al ristretto “particulare” perfettamente compatibili e propedeutici a subordinazione ed asservimento scevri da ogni ambizione.

IL CATASTO DELLA DISCORDIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL CATASTO DELLA DISCORDIA

Questa settimana sul “teatrino” della politica è andata in scena la pièce del catasto, con i soliti ruoli: il centrodestra in quello dei Gracchi, a difendere il popolo dei tartassati, il PD nell’usuale personaggio del moralgiustizialista (che produce giustizia con il portafoglio degli altri) un Arpagone in cipria e merletti; e il resto della compagnia in personaggi di contorno.

Data la reazione tutt’altro che entusiasta dell’opinione pubblica, il PD ha dovuto ridimensionare rapidamente l’iniziale consenso anche perché, a parte la solita “estrema” sinistra, si è trovato a corto di alleati.

Tuttavia è il caso di comprendere perché gli argomenti del PD (e compagni) sono usati e perché funzionano sempre meno.

La giustizia. Ch’è argomento sia di carattere offensivo, nel senso di promuovere l’avanzata sia difensivo, per proteggere la ritirata. Nel caso, fugacemente utilizzata nel primo, assai più nel secondo.

Dato infatti che i contribuenti sanno benissimo che si parte facendo appello a commoventi discorsi di giustizia, solidarietà, ecc. ecc., ma si finisce per mungere chi le tasse già le paga, i piddini si sono serviti della “giustizia” con la correzione della parità di prelievo, ossia volta a riequilibrare il prelievo tra i contribuenti e non per aumentarlo.

Tuttavia i contribuenti – a parte le reiterate esperienze dei risultati contrari alle esternazioni simili – forse si sono ricordati che la manovra fu già fatta (in tono minore) una dozzina di anni fa con le c.d. micro-zone; ma che io sappia a tutti i professionisti che se ne sono occupati (da me contattati), me compreso, non risulta che ci fosse un sono contribuente cui la “riformina” non avesse regalato un aumento d’imposta; oltretutto nello stesso periodo in cui il governo Monti con la sagacia economica che lo caratterizzava, istituiva l’IMU con enormi aumenti dell’imposizione. Il danno così risultava aggravato ad onta dell’intento giustizialista esternato: l’unica redistribuzione prodotta era quella dalle tasche dei governati a quelle dei governanti.

La credibilità. Dato ciò, perché una classe dirigente richieda (con successo) un sacrificio ai governati occorre che abbia autorità e legittimità. Churchill poteva farlo, promettendo lacrime e sangue agli inglesi, sia perché lo era, sia perché c’era da affrontare un nemico formidabile come la Germania nazista. Ma alla sinistra (o sedicente tale) italiana contemporanea, autorità e legittimità mancano del tutto. A provarlo sono due fatti: l’uno, decisivo, che non sono mai andati al governo (dal 2008 in poi) per aver vinto le elezioni, cioè per volontà del corpo elettorale (quindi popolare) ma solo per decisione di altri e/o per manovre di palazzo. L’altro, secondario ma rivelatore, che non fanno, di conseguenza, nelle loro argomentazioni, alcun riferimento ai desiderata del popolo, ma ad altro: “ce lo chiede l’Europa”, “lo ha detto Greta”, “faremo cose magnifiche” (ma le esperienze insegnano il contrario), “lo sostengono i tecnici” e così via.

Tra commoventi appelli alla solidarietà, mozioni degli affetti, futuro paradisiaco, c’è tutto l’armamentario della propaganda (neanche granché raffinata).

E qua casca l’asino; perché se il governo Draghi ha di per sé il pregio di essere il più credibile tra i governi italiani degli ultimi quindici anni, il premier non ha la vocazione a perderla, in particolare per manovre mediocri. Onde ben fa Draghi a ripetere che questo è il momento di dare quattrini ai cittadini e non di toglierli. Finché è coerente, la sua credibilità non ne risente.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE, di Pierluigi Fagan

L’EUROPA IN TRANSIZIONE DI FASE. Nella logica dei sistemi, le transizioni di fase sono cambiamenti strutturali dello stato, logica o ordine interno del sistema. Considerando l’Europa politica (l’UE) un sistema, vediamo di fare una fotografia aggiornata di quella che sembra proprio una transizione di fase.
La notizia, ed è una vera e propria notizia, è che Italia e Francia starebbero per firmare un trattato bilaterale, sul tipo di quello a suo tempo firmato da De Gaulle ed Adenauer agli albori della Comunità europea (1963), poi rilanciato nel famoso trattato di Aquisgrana (2019) tra Francia e Germania. Di questo hanno discusso nel recente incontro di Marsiglia Macron e Draghi, per cui pare che ora la bozza approvata a Parigi sia in ultimo esame a Roma per poi arrivare alla firma. I temi dell’accordo sono vari ma alcuni sono più rilevanti di altri.
Il tema fondamentale però, non è un contenuto dell’accordo ma l’accordo stesso. Gli accordi bilaterali Francia e Germania erano di corredo alla ragione prima sottostante la stessa idea di Comunità e poi Unione europea ovvero incatenare tra loro le due potenze continentali che hanno dato vita a una lunga sequenza di guerre lungo gli ultimi tre secoli. Erano quindi accordi diciamo “difensivi”, a difesa dal pericolo del riproporsi di una sregolata competizione diretta. Ma i singoli stati europei oggi, non vivono più una fase in cui il primo pericolo è interno, ma esterno. Russia, Cina, Medio Oriente, Africa, pandemie, nuove tecnologie, corsa allo spazio, precario sviluppo economico, migranti, difesa, demografia, ecologia, sono la sempre più problematica agenda del mondo a cui ci si deve politicamente adattare.
In più, l’atteggiamento americano verso l’Europa inaugurato da Trump, pur con stile diverso, viene conformato nei fatti da Biden. Gli USA hanno problemi loro, strategie loro, nuovi egoismi quali nascono dall’essere sottopressione e vivere una fase di contrazione di potenza. Tra cui l’ossessione cinese che invece per gli europei, tale non è affatto, anzi. Tanto per dirne una, il prossimo 24 settembre, Biden farà un vertice QUAD con Australia, India e Giappone ovvero l’asse Indo-Pacifico, il vero contesto primo delle preoccupazioni americane ovvero il contenimento della Cina. A tale proposito, spero siano fake news quelle che spifferano di una eventuale intenzione americana di aprire una propria base a Taiwan. Lo spero proprio, la reazione cinese potrebbe esser imprevedibile.
Passando dalla fase “difensiva” a quella “progettuale”, i francesi hanno dovuto prender atto che ciò che gli unisce alla Germania è davvero poco, se si esce da una logica di relazione di convenienza limitata, senz’altro meno di quello che li unisce all’Italia e più in generale ai paesi latino-mediterranei. Potenza della geo-storia, questa logica a lungo trascurata per dominio della logica puramente economicista. Da un paio di anni, la Francia capeggia per molti versi le richieste verso l’Europa del gruppo latino-mediterraneo di cui, in tutti i sensi, fa parte anche se da sempre coltiva una sua schizofrenia interna che vagheggia un asse franco-carlomagnesco.
In più, i tedeschi sono anche loro in transizione di fase. Lo sono perché lo è l’Europa ed il mondo (vedi “globalizzazione”), ma anche perché dopo sedici anni, perderà la sua capofamiglia, la signora Merkel. Tra undici giorni si vota per il nuovo Bundestag e nuovo Cancelliere. Al momento, si prevede un successo SPD ma soprattutto un crollo verticale di CDU/CSU, tanto da presentare l’ipotesi di un governo SPD-Verdi-Liberali con i democristiani fuori, una vera novità tellurica. Ma è prematuro fare congetture sull’esito del voto, però si possono fare tre considerazioni. La prima è che la Germania termina la sua lunga stabilità in accordo ad una relativa stabilità del quadro mondiale. La seconda è che l’eventuale coalizione “semaforo” è più numerica che politica. La terza è che sarà molto importante capire come e se si sposteranno gli equilibri interni alla Germania in rapporto ai problemi europei cosa che in sostanza si capirà quando verrà stabilito il ministro delle finanze, pare non prima di dicembre. I tedeschi impiegano molto tempo a fare un governo di coalizione dopo le elezioni, poi dura tutta la legislatura. Noi facciamo governi di coalizione in una settimana, poi durano qualche mese.
Due questioni, più di ogni altra, si presentano in chiave europea. La prima è la riforma del Patto di Stabilità. Qui si stanno già da tempo muovendo i pezzi sulla scacchiera con Francia-Italia e paesi latino-mediterranei da una parte e Austria, Finlandia, Paesi Bassi, Danimarca, Lettonia, Slovacchia, Svezia e Repubblica Ceca, dall’altra. In gioco, ovviamente, le questioni di bilancio, il debito comune e tutta la cascata di dettagli architettonici dell’economia e finanza dell’Unione per i prossimi anni che i latino-mediterranei vorrebbero più simili agli ultimi due che non ai precedenti intercorsi tra il 1997 e l’inizio della pandemia. Ma è forse la seconda questione la più importante. All’interno della Commissione, gli italo-francesi vorrebbero portare il principio di maggioranza semplice rompendo il paralizzante dogma dell’unanimità. Ad occhio, infatti, gli otto paesi detti “frugali” contano -tutti assieme- un terzo di popolazione dei cinque latino-mediterranei e gli interessi delle nazioni si pesano, non si contano solo come diceva il buon vecchio Cuccia a proposito delle azioni nei consigli di amministrazione. E’ ovvio che questo nuovo principio sovvertirebbe le logiche unioniste ed è quindi ovvio si aspetti di vedere cosa succede in Germania per capire i margini di manovra di tale possibile innovazione che procurerebbe qualche strappo politico di una certa rilevanza.
A latere, ci sono anche le questioni sulla nuova forza armata di pronto intervento europea con seimila effettivi tra esercito-marina-aeronautica. Piccola forza, ma di una certa rilevanza politica e geopolitica. La forza, infatti, presuppone un comando politico e questo, di nuovo, deve prodursi per maggioranza semplice stante che tale forza sarebbe in pratica fatta da francesi, italiani, spagnoli e tedeschi ed agli interessi geopolitici di questi risponderebbe. Interessi geopolitici che per Spagna, Francia ed Italia, non possono che esser mediterranei (Africa, Medio Oriente, Turchia) come geo-storia indica con precisione.
Ci sarebbe molto altro da dire ed approfondire su tutte queste ed altre questioni, ma qui siamo su un formato che ci limita. Aggiungerei solo due cose.
La prima è che dell’eventuale nuovo trattato italo-francese abbiamo anticipazioni, ma ovviamente nessun contenuto preciso. Il tono però sembra complesso e non solo formale. Si prevedono, almeno nelle intenzioni, forti intendimenti comuni certo economici, ma anche politici, culturali, geopolitici, insomma qualcosa di più che non una amicizia occasionale. Il che, lo diciamo chiaramente, ci piace assai. Chi segue questa pagina da più tempo, saprà che per quanto alle mie analisi, il futuro auspicato è quello di una vera Unione politica dei paesi latino-mediterranei, costituzionalizzata e parlamentare, quindi democratica e politica. Lo richiede l’adattamento al mondo dei prossimi trenta anni. La sovranità non è un principio astratto, si deve difendere con la potenza ed oggi, nessun singolo stato europeo ha la potenza adeguata. E quanto a “potenza” non ci sono solo questioni militari, si tratta anche di nuove tecnologie, investimenti e ricerca, politiche energetiche, questioni demografiche, peso geopolitico, peso economico-finanziario-monetario, peso culturale. Naturalmente questo prescinde da simpatie ed antipatie, anche da Macron e Draghi, non sottostima il pericolo che la Francia pensi di dominare la relazione a proprio egoistico vantaggio. Non so se mai si farà, come e quando, però dai contenuti che emergono del trattato una certa propensione a davvero unirsi ad altri per aver maggior massa che è presupposto della potenza necessaria a far qualsiasi cosa, sembra emergere. Ma siamo alla prima riga di un lungo romanzo ipotetico. Vedremo.
La seconda è che Italia e Francia sono i due soli paesi europei in cui si applica il Green Pass con una certa decisione. I due paesi hanno una quota vaccinati (completi) simile intorno al 67%, più bassa di Spagna e molto più bassa di Portogallo. I greci, invece, stanno più indietro. L’obiettivo mai esplicitato ufficialmente, ma quello che si ritiene a grana grossa tale, è arrivare il prima possibile almeno ad una copertura del 75%. Questo darebbe ragionevole garanzia (“ragionevole” per quanto lo permetta lo stato attuale delle conoscenze su questo virus che, come tutti notano, è quantomeno incerta) di un più limitata circolazione del virus, limitata cioè “gestibile” senza ricorrere di nuovo alle zone colorate, alle chiusure o limitazioni segmentate o addirittura a nuovi lockdown. E’ la capienza ospedaliera che fa da termine ultimo, fatto questo noto da due anni ma su cu i governi tacciono per pudore e cattiva coscienza e gli anti-governisti tacciono perché vanno appresso ad una loro nuvola di diversi presupposti per sostenere la loro narrazione sulla dittatura biopolitica ordita a Davos che ha come obiettivo ultimo la sola Italia perché “chi doma l’Italia doma il mondo”. Potenza degli immaginari. Problemi di gestibilità invece, attiverebbero di necessità nuove norme limitanti che limiterebbero la ripresa economica che limiterebbero lo spazio di agibilità politica per andare in Europa a richiedere di estendere in permanenza forme di debito comune e minor ossessione sulle politiche di bilancio. Quindi i due governi italiano e francese sono quelli che vanno più per le spicce, hanno fretta e non possono sbagliare, questo è per altro noto a tutte, ripeto “tutte” le fazioni politiche di governo e non in Italia che infatti stanno zitte, assecondano o giocano a fare la forza di lotta -su twitter- e di governo -nei fatti-. Fallire la ripresa economica e fallire l’utilizzo dei miliardi -per quanto condizionati- dati dall’UE, sarebbe la morte per il progetto di parziale modifica della logica UE italo-francese. E si tenga pure conto che Macron, ad aprile, va ad elezioni e sulla carta, pure non proprio per lui promettenti.
Bene, il post è ricco, lo saranno immagino anche i commenti. Tutti benvenuti eccetto quelli che invece di trattare l’argomento nel suo insieme ovvero nel suo complesso, estrapoleranno singoli fatti per esprimere qualche inutile, più o meno biliosa, convinzione personale non poggiata su analisi razionali. Del tutto da evitare, invece, polemiche sulle faccende Covid, il post non è su quello. Per vostra conoscenza non sono favorevole al Green Pass, lo sono personalmente verso i vaccini, preferirei lo sviluppo di forme di cura a casa per evitare le temute invasioni ospedaliere, trovo l’intera gestione di comunicazione del problema Covid delirante con distribuite responsabilità tra Governo, circo mediatico ed una certa parte di area critica egemonizzata da vari tipi di deliri anche psichici, ma non è di questo che il post invita a discutere.

 

Giorgia Meloni en français_a cura di Giuseppe Germinario

Non siamo soliti riprendere interviste di leader politici italiani. La stampa italiana offre sin troppo spazio e piaggeria ai nostri pressoché inutili protagonisti. L’intervista del settimanale francese “Valeurs Actuelles” https://www.valeursactuelles.com/ a Giorgia Meloni rappresenta quindi un’eccezione alla regola e una conferma che un minimo di chiarezza di termini la si può trovare su lidi stranieri. I motivi sono il fatto che Giorgia Meloni si avvia a qualificarsi come leader di un centrodestra che all’avvicinarsi delle elezioni sembra sempre più destinato a sparigliarsi in parallelo ai problemi di stallo e di decomposizione dello schieramento avverso. Una eccezione giustificata dalla maggiore coerenza delle posizioni assunte nel merito e nel tempo, facilitate dalla postura politica e dalla strutturazione storica del partito. Una coerenza che dovrà fare i conti con i punti critici della sua costruzione analitica. “L’Europa delle Nazioni” è il richiamo sul quale si appoggia la leader nel tentativo di prospettare una nuova costruzione europea; la costruzione di un asse latino-mediterraneo lo strumento per riequilibrare i rapporti di forza interni all’Europa. Manca però una riflessione sul sostanziale fallimento di quella prospettiva, del tutto ignorata e osteggiata dagli altri paesi europei. Una mancanza non casuale in quanto nell’intervista vi è un grande assente, gli Stati Uniti d’America, il vero dominus dell’Occidente. Un egemone che per perpetuare la propria posizione ha bisogno di giocare su almeno tre poli europei debilitati in competizione che di due aree più caratterizzate che potrebbero spingere la Germania a posizioni più autonome. In questa ottica le rivalità europee possono essere viste in funzione della ricorrente conquista di un rapporto privilegiato con gli USA, piuttosto che una dinamica di sganciamento da questi, specie con la probabile permanenza di Macron in Francia e della componente più atlantista della CDU-CSU in Germania. La finestra aperta dall’avvento di Trump si è ormai chiusa e la collocazione geopolitica della Meloni e di FdI non sembra dare adito a dubbi. La Meloni, in sovrappiù, è stata la maggiore artefice, in un gioco speculare con i progressisti, della riproposizione della dinamica destra-sinistra alternativa e complementare al processo di assorbimento nello schieramento liberal-progressista promosso da altre forze. Uno scotto il cui pagamento non dovrà tardare a pagare sulla sua coerenza, viste le fibrillazioni e la frenesia “statica” delle dinamiche politiche italiane. Buona lettura_Giuseppe Germinario

GIORGIA MELONI:“È ORA DI COSTRUIRE UN’ALLEANZA TRA NAZIONI DELL’EUROPA LATINA”
La figura emergente della destra
L’italiana spiega le ragioni
della sua lotta e di ciò che vuole
per il suo paese. Ci dice anche lei
come un’alleanza franco-italiana
può cambiare l’Europa.
Intervista di Antoine Colonna

Rifiutando, a differenza di Matteo Salvini, di entrare a far parte del governo di Mario Draghi, hai affermato la tua linea e ora sei in testa ai sondaggi.
Hai anche appena rifiutato la fusione con Berlusconi. I compromessi non sono il tuo forte?

Ci impegniamo per gli italiani a non appoggiare i governi di sinistra e il Movimento 5 Stelle (M5S), perché noi crediamo che la convivenza con loro possa portare solo a compromessi al ribasso, che i promotori non sono utili all’Italia, soprattutto in questa fase storica. La storia di questa legislatura ha purtroppo dato ragione: il governo Lega-M5S non ha avuto un impatto, il governo M5S-Partito Democratico è stato disastroso e accompagnò l’Italia negli abissi durante la pandemia e il governo Draghi non è comunque riuscito a fare il cambio di passo che molti si aspettavano.
Per quanto riguarda il partito unico di centrodestra, ho fondato Fratelli d’Italia (FdI) proprio perché ho capito che il partito unico di centrodestra (il Popolo della Libertà, di Berlusconi, all’epoca) non aveva funzionato e aveva gradualmente emarginato la rappresentazione delle idee di destra. Ecco perché preferisco una coalizione unita di centrodestra ma plurale al partito unico. non ho intenzione portare i nostri elettori, un’altra volta, su vecchie strade che si sono già rivelate infruttuose e mi sembra che gli italiani apprezzino la chiarezza di queste posizioni, che riempie di orgoglio.
Sei stata recentemente eletta alla guida del partito ECR (Conservatori e Riformisti europei). L’hai spesso menzionato l’idea di un’Europa confederale, proposta dal generale de Gaulle. È questa ancora la tua idea?
Assolutamente, questa è la visione alternativa che noi vogliamo portare alla Conferenza sul Futuro d’Europa, che è stato appena lanciato dall’Unione europea ma che è concepita come un semplice podio che porta ad un risultato prestabilito in direzione federalista, senza alcun spazio all’autocritica. La sua tesi è allo stesso tempo semplice e sbagliata: se l’Europa non funziona
non è perché non ha abbastanza potere; togliamo quindi la sovranità agli Stati nazionali, lascia che passi a Bruxelles e tutto andrà di bene in meglio. La gestione dell’attuale crisi sanitaria, dove il tentativo della Commissione Europea di subentrare agli stati si è rivelato un disastro, ha recentemente negato questo principio.
Crediamo nell’idea che l’Unione Europea non debba fare altro che farle bene, non dovrebbe fare tutto, ma agire solo nei settori in cui può portare un reale valore aggiunto ai suoi cittadini. Ad
esempio, per quanto riguarda il Gafam, la concorrenza sleale dei mercati extraeuropei, dumping fiscale, sicurezza delle frontiere, lotta al terrorismo e sinergie in politica estera; deve rispettare la sovranità nazionale, dove risiede la vera democrazia, e il principio di sussidiarietà, che porta il potere di scelta dei cittadini valorizzando le specificità di ogni nazione e di ogni popolo. Il famoso slogan “L’Europa delle nazioni” di cui parlava anche de Gaulle.
In questo contesto, che futuro vuoi per l’euro?

L’euro è una moneta, come tale uno strumento, mentre negli ultimi anni si è trasformato in un fine; i risparmi dei cittadini di alcuni paesi, Italia al prima posto, si sono piegati alla sua stabilità. Inoltre, è
una moneta nata male, con una forza definita più in base alle esigenze tedesche rispetto alle esigenze europee, in cui l’Italia è entrata ancor peggio con un tasso di cambio troppo alto. Quando un’area valutaria comune si crea anche tra economie diverse, è necessario fornire compensazioni tra coloro che beneficiano del moneta unica e coloro che essa svantaggia. Non è stato così e, dopo la crisi finanziaria del 2008, la Banca centrale europea ha dovuto svolgere questo compito, anche se parzialmente e indirettamente, al fine di evitare l’implosione della zona euro, ma questo ha dato origine a nuove tensioni tra i paesi cosiddetti “frugali” e paesi più indebitati come l’Italia.
La nostra economia è profondamente interconnessa e, con l’altissimo livello del nostro debito pubblico aggravato dalla pandemia, sarebbe impossibile uscirne. Quello che è certamente necessario, invece, è una riforma approfondita delle norme di accompagnamento.
Pensa, ad esempio, che dal 1 gennaio 2023, il patto di stabilità potrebbe essere ripristinato in vigore con i parametri di riduzione di debito in vigore prima della pandemia; è follia e provocazione inaccettabile.
Sarebbe come massacrare la società e uccidere aziende anche quando dovrebbero ricominciare. E questo annullerebbe tutto il lavoro, anche imperfetto, eseguito sul fondo per il recupero e resilienza.
Con l’emergenza Covid, gli italiani però, tra i più fiduciosi nella costruzione europea, sentivano di essere traditi da Bruxelles. Quali tracce quando la crisi se ne andrà?
I primi mesi hanno sicuramente lasciato un po’ di tracce, come se pensassimo in Europa che
noi italiani avevamo una responsabilità specifica nell’innescare la pandemia.
Purtroppo abbiamo avuto solo la sfortuna di fare da cavia per tutti, permettendo ad altre nazioni europee di osservare ciò che stava accadendo e di evitare i nostri errori. C’era
certamente responsabilità politica nei dettagli attribuibili al precedente governo e Fratelli d’Italia furono i primi a evidenziarli fortemente. Ma la percezione che avevamo dell’Europa era pessima: mentre chiedevamo respiratori e maschere, altri paesi dell’Unione Europea impedivano le esportazioni, i nostri autotrasportatori erano bloccati alle frontiere e, in un pomeriggio, Christine Lagarde [Presidente della Banca European Central, ndr] ha bruciato dozzine di miliardi di euro di denaro italiano con un solo comunicato stampa. Un disastro. Poi venne l’idea di un debito comune per finanziare la ripresa, un’idea giusta anche se si tratta di un tuffo tardivo, che porterà molti soldi per l’Italia ma con troppe condizioni politiche grazie alle quali pagheremo il conto. Infine, c’è stata la cattiva gestione della questione vaccini, con contratti opachi scritti sulla sabbia e la comunicazione confusa che ha creato incertezza tra i cittadini. In breve, l’Europa della pandemia ha molto da farsi perdonare.
Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno molte vicinanze. Noi stiamo parlando di un “trattato del Quirinale” sul modello di quello dell’Eliseo che la Francia ha firmato per il riavvicinamento franco-tedesco. Cosa ne pensi?
Trovo paradossale che chi sostiene allora l’azione da campioni dell’europeismo, agisce attraverso trattati bilaterali, ammettendo di fare quello che diciamo da tempo, vale a dire che le strutture comunitarie attuali non sono in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini europei. Detto questo, io non so se un’iniziativa simile al trattato sul modello franco-tedesco sia la più efficace, ma sono convinta che i nostri due paesi devono cercare un nuovo modo per impostare le proprie relazioni. In passato, purtroppo, ai nostri occhi le autorità francesi sull’Italia sembravano più concentrarsi sulle possibilità di acquisire i nostri beni e parti preziose del nostro sistema di produzione piuttosto che concentrarsi sullo sviluppo di una partnership strategica; cosa che ha generato il risentimento dell’opinione pubblica italiana verso il tuo paese. Anche questo è spiegato dal fatto che accanto alla determinazione con con cui la Francia ha sempre difeso il suo interesse nazionale, abbiamo assistito alla facilità con la quale i leader italiani erano pronti a svendere i nostri interessi. È quindi necessario ricreare un clima di fiducia, amicizia e cooperazione tra i nostri due popoli, perché noi
abbiamo così tante sfide comuni da superare.
Vorresti un’alleanza latina tra Francia e Italia? Credi che questo sia un movimento necessario per controbilanciare il peso della Germania?
Assolutamente. Fino ad ora, la Francia spesso ha preso la guida di un asse mediterraneo, ma solo per ragioni opportunistiche, per aumentare il tuo potere contrattuale al tavolo con la Germania, senza molto successo. È tempo di passare dalla tattica alla strategia, provando a costruire una vera alleanza tra nazioni dell’Europa latina, grazie alle somiglianze in termini di identità, storia, lingua, tradizioni, costumi, valori, vocazione; la geopolitica e le emergenze da affrontare possono dare un impulso nuovo e alternativo al progetto Europeo. Se un minimo di pressione coordinata tra Italia, Francia e Spagna sulla Germania è bastato a tenerla lontana dalle sirene di paesi del Nord e per convincerla a porre uno strumento di redistribuzione come il fondo di stimolo, immagina cosa potremmo fare se ci organizzassimo come i paesi di Visegrád o della Nuova Lega Anseatica. Ci sono molti argomenti sui quali una forte cooperazione tra i nostri paesi potrebbe portare l’Europa a un cambio di passo. Pensa a un cambiamento nei paradigmi economici che governino l’Unione Europea o al superamento di iniziative inefficaci come il Trattato di Dublino e il Patto migratorio per la gestione dei flussi migratori e, più in generale, la strategia per il Mediterraneo e l’Africa
dove l’Unione brancola nel buio ma dove la sinergia tra Italia e Francia potrebbe favorire
stabilizzazione di aree come il Sahel e Nord Africa, prevenendo, da un lato, la proliferazione del terrorismo islamista e, dall’altro il contenimento della penetrazione di potenze straniere come Turchia e Cina.
Poi c’è la questione dell’industria manifatturiera, dove entrambi ci inseriamo nella grande tradizione che è stata soffocata dalle redini dell’Unione Europea e dove potremmo, al contrario, cooperare per raggiungere l’Asia e l’America in termini, ad esempio, di tecnologia in prodotti all’avanguardia e di alta qualità generale. Inoltre Italia e Francia sono due nazioni il cui gigantesco retaggio culturale è un vettore di influenza e soft power nel mondo; un strumento in grado di garantire all’Europa un posto al sole sull’attuale scena internazionale; insomma non una semplice reazione alle tendenze egemoniche tedesche, ma l’ambizione di un vero progetto strategico che mira a costruire un nuovo modello di Europa, di identità sociale e geopolitica, che mette le persone e non i mercati al centro.
Quanto alla Francia, come vede il suo futuro politico? Cosa ispirano Emmanuel Macron, Xavier Bertrand, Marine Le Pen, Éric Zemmour, Marion Marechal a cui a volte vieni paragonata in termini di linea politica?
Seguo gli sviluppi politici francesi con grande curiosità e, da osservatore esterno, mi è sempre dispiaciuto vedere un sistema politico bloccato in cui gli elettori che non si identificano con la sinistra sono incapaci di avere una rappresentanza unificata. Certo, conosco le ragioni storiche di
questa situazione, ma spero che prima o poi saranno superate. Da quando sono stata eletta Presidente dei Conservatori Europei, mi sforzo ad operare per favorire lo sviluppo di un partito di
destra in tutto il continente che non tradisce valori e che possano trasformarli in una offerta politica matura, concreta e credibile, in modo che non siano emarginati, ma che diventino azione di governo. Noi costruiamo una famiglia politica che possa fare affidamento su forti realtà nazionali e
affermati ovunque, a cominciare dall’Italia, Spagna e Polonia, e con partnership in tutto l’Occidente. In questo panorama, ovviamente posso guardare solo con grande interesse una nazione importante come la Francia e siamo pronti a collaborare con chiunque nel tuo paese condivida questo progetto.
Hai appena pubblicato una storia scritta in prima persona: Io sonoGiorgia, che rieccheggia la tua celebre frase: “Io sono Giorgia, sono una donna, Sono una mamma, sono italiana, sono cristiana! Puoi sentire che la tua esperienza, l’assassinio del giudice Borsellino, ti ha segnato.
Come se volessi “aggiustare” la società…
È vero, le stragi mafiose del 1992 sono state la scintilla che mi ha portato all’attivismo politico. Ero molto giovane, ho visto un’Italia tradita da una classe politica corrotta eattaccata al cuore da un contropotere mafioso. Non potevo accettarlo e ho scelto di bussare alla porta dell’unica forza politica che era estraneo alla mafia e alla corruzione. Vedi, per me la politica è sempre stata prima di
tutto una lotta per il bene della mia patria, che ho sempre vissuto come la mia famiglia allargata secondo questo principio di comunità che trae origine in famiglia e si estende a cerchi concentrici
come ci ha insegnato Aristotele.
Quindi mi sono sempre sentita in dovere di agire per difenderla, per garantirle il benessere, per riparare le sue ferite. Questo è quello che si intende politico per me, prima ancora che potere, nomine e dinamiche elettorali; questo è anche il motivo per cui ho deciso di accettare di raccontare la mia storia in un libro, qualcosa che di solito non faccio di mia spontanea volontà, proprio per aggirare il filtro delle ricostruzioni giornalistiche, che si limitano ovviamente a un resoconto parziale e strumentale dei propri interessi; spiegare alle persone la vera natura della missione
che sto perseguendo. Vederlo come il più venduto è stato una sorpresa straordinaria, perché ha confermato che gli italiani volevano conoscere meglio la natura della mia passione e del mio impegno politico. È vero che attraverso queste pagine si può capire molto del mio carattere e quindi anche sul mio modo di intendere la vita e la politica, che sono entrambe guidate dallo stesso principio guida: non fare niente non sono completamente convinta.
Tra le grandi sfide che attendono l’Italia, c’è la demografia. Come? “O” Cosa?
restituire alle donne italiane “il diritto di essere”madre”?

Fin dalla sua creazione, Fratelli d’Italia ha preso l’iniziativa nel proprio programma elettorale dell’emergenza demografica e il sostegno alla famiglia come pilastro economico, sociale e valoriale della nostra Comunità. Avevamo ragione, perché, dieci anni dopo queste domande sono più che mai
attualità e non abbiamo smesso di lavorare ogni giorno per affermarlo, sia in Italia che in Europa, dove, come presidente dei conservatori europei, combatto quotidianamente contro i tentativi della sinistra di imporci politiche che vanno nella direzione opposta sostenendo che l’immigrazione compenserà il declino demografico dei popoli europei.
La verità è che viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che ci definisce è sotto attacco. La nostra identità nazionale è sotto attacco, e ancora di più il ruolo della famiglia, diritto alla vita, libertà educativa dei genitori e nostra identità sessuale. Cercano di rompere ogni punto di riferimento dell’identità e della comunità dell’essere umano per svuotarlo di qualsiasi arma di difesa
e modellarlo a immagine e somiglianza di interessi di mercato. Ecco perché non lo facciamo,
non dobbiamo aver paura di rivendicare e riaffermare questi valori, ma soprattutto, una volta al governo, dobbiamo essere pronti a dare risposte concrete, a partire da regimi fiscali favorevoli alle famiglie, asili nido gratuiti e di sostegno per le giovani madri che scelgono di non abortire.
Il tuo prossimo grande appuntamento politico saranno le elezioni comunali di Roma, il prossimo ottobre. Prendere Roma, non è simbolicamente molto di più di prendere una città?
Roma è la nostra capitale e, negli ultimi anni, ha sofferto della cattiva gestione del movimento 5 stelle. È quindi soprattutto una città che dobbiamo salvare da un declino inaccettabile per ciò che rappresenta, per la sua storia di faro della civiltà europea e per la cultura millenaria che incarna. Lo stesso giorno si svolgeranno anche le votazioni in altre importanti città italiane, come Milano, Torino, Napoli e Bologna. È una tendenza diffusa in tutta Europa che la destra è forte nelle province ma incapace di esprimere un’offerta politica tale da convincere la maggioranza degli abitanti nelle grandi città, i cui profili economici e sociali sono sicuramente più elitari e quindi meno consapevoli delle conseguenze negative del sistema in cui viviamo. Io credo che la destra debba colmare questa lacuna dall’espressione di proposizioni e classi dirigenti leader in grado di portare il diritto di amministrare i centri maggiori, come fa Fratelli d’Italia, che – pur essendo un partito relativamente giovane – governa già due importanti regioni del centro-sud Italia (Marche e Abruzzo) e città come
Catania, Cagliari, Verona •

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…, di Teodoro Klitsche de la Grange

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…

Scusate se insisto; ma la discussione sulla “riforma” Cartabia ha ridestato gran parte dei luoghi comuni sulla giustizia. Uno dei quali è che, sanzionando comportamenti di amministratori e funzionari si sarebbero indotti gli stessi a non decidere; col risultato di rendere (ancora) più inefficienti le P.P.A.A. italiane. Vero è che l’attenzione si è focalizzata su un reato specifico cioè l’abuso di potere (art. 323 c.p.) la cui formulazione è così vaga da prestarsi ad interpretazioni plurime (e contrastanti).

Se è certo che detto reato si presta a strumentalizzazioni (anche) politiche, lo è altrettanto che escludere, ridurre o rendere inefficaci le sanzioni non può che incentivare a commetterlo. Funzione della sanzione è, come scriveva Carnelutti “Sancire, significa fondamentalmente, in latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve… in quanto la sanzione garantisce l’osservanza dell’ordine etico, converte il mos in ius perché meglio congiunge, così tiene uniti, gli uomini nella società”; ma aggiunge “non v’è alcun motivo per riservare al castigo il carattere della sanzione: serve a garantire l’osservanza dell’ordine etico il premio al pari del castigo; praticamente e, per ciò, storicamente, il premio ha però una importanza assai minore”.

Per cui a seguire il ragionamento di Carnelutti non sanzionare vuol dire non avvalorare (almeno) la norma. Resta il fatto che senza sanzione il precetto è zoppo: ma non è detto che a sanzionarlo debba essere la prescritta irrogazione di una pena dal giudice penale. In effetti, come scriveva il giurista, la sanzione può essere la più varia: al punto che può consistere in un premio per chi osserva (e fa osservare) il diritto.

Nella specie l’inconveniente della prescrizione di pena è stato aumentato dalla legge Severino, che ha previsto sanzioni “politiche” a carico di amministratori di enti pubblici, anche in caso di sentenze non definitive (compresa la sospensione e decadenza dall’ufficio) come l’impossibilità di ricoprire la carica per la quale erano stati scelti dal corpo elettorale. Per cui rende più appetibile per togliere di mezzo un amministratore scomodo, di ottenere una sentenza penale di condanna dalla quale consegue la sospensione o la decadenza dalla carica.

Circostanza la quale unitamente al fatto che si tratta di sentenze non definitive (ma politicamente efficaci) ha indotto molti a ritenerla incostituzionale. Un primo passo per evitare ciò sarebbe l’abolizione della legge Severino, fatta, come tutti hanno capito, non per amore di giustizia, ma per il fine di parte di mandare a casa Berlusconi, a dispetto del popolo italiano che s’intestardiva a volerlo come proprio governante. Che è, per l’appunto, uno dei quesiti dei referendum Lega-radicali.

Ma, oltre a ridurre l’appetibilità e le conseguenze politiche, togliendo la suddetta normativa, la sanzione può essere utilmente ricondotta alla conseguenza di una condanna civile e amministrativa.

Non nel senso, però, di togliere l’amministratore dall’incarico, ma utilizzando la vasta gamma di sanzioni previste dall’ordinamento. All’uopo rinforzandole e rendendone meno saltuaria l’applicazione. Prendiamo ad esempio la c.d. astreinte, cioè la sanzione pecuniaria a carico dell’amministrazione che non adempie una sentenza (!!!), malgrado l’obbligo relativo risalga (almeno) alla Destra storica (v. all. E, L. 2248/1865). In Italia è stata prescritta dall’art. 114 (lett. E) del c.p.a. (D.Lgs. 02/07/2010 n. 104), la quale è una delle poche disposizioni (forse l’unica) che nella seconda Repubblica, ha previsto un rimedio a favore dei creditori delle P.P.A.A., tra una miriade di precetti volti a tutelare le amministrazioni dalle pretese altrui, derogando al diritto comune.

Ebbene (ingenuamente?) il precetto è stato formulato premettendo l’eccezione “salvo che ciò sia manifestamente iniquo”: è bastato questo per allargare a dismisura il perimetro dell’iniquità (??), oibò, di chiedere alle P.P.A.A. di adempiere a sentenze e giudicati nei modi stabiliti dai giudici e dalla legge. C’è una sterminata messe di decisioni giudiziarie limitanti l’applicazione dell’astreinte perché sarebbe “manifestamente iniquo” sanzionare uno Stato “in bolletta” come la Repubblica italiana. Ovviamente tale giurisprudenza burofila ha dimenticato quanto scriveva Jhering del diritto romano “classico” che “La pena pecuniaria era il mezzo civile di pressione, onde il giudice usava, per procacciare ed assicurare l’osservanza agli ordinamenti suoi. Un convenuto, che si rifiutasse a fare ciò che il giudice gl’imponeva, non se la cavava col semplice pagamento del valore della cosa dovuta” (il corsivo è mio). Basterebbe eliminare quell’inciso per ottenere un ridimensionamento del garantismo burofilo. Ancora meglio associarlo, ex art. 28 della Costituzione, ad una sanzione pecuniaria – anche modesta – a carico del funzionario inadempiente. E di esempi così ne potrei fare diversi, a costo di annoiare il lettore, più di quanto abbia già fatto.

Piuttosto tornando a Jehring, il giurista tedesco sosteneva che il tardo diritto romano aveva debilitato il senso del diritto attraverso mitezza e umanitarismo. Da quello “robusto ed energico” repubblicano si era passati a una fiacchezza contrassegnata dal miglioramento delle “condizioni del debitore alle spalle del creditore”. Ai nostri giorni il maggior debitore è lo Stato: per cambiare andazzo, come si chiede l’Europa, basta non eccedere in mollezza, peraltro neppure generale, ma burofila. Come sosteneva Jhering “credo che si può stabilire questa massima generale; le simpatie verso i debitori sono segno di un periodo di fiacchezza. Il titolo di umanitario è esso stesso che se lo eroga”; il contrario, praticato nei regimi decadenti consiste ne “l’umanità di san Crispino, che rubava cuoio ai ricchi per farne stivali ai poveri”. E chissà che, ai giorni nostri, i pagamenti ai grandi creditori sono stati ritardati quanto quelli ai quisque de populo? Non mi risulta d’averlo letto.

Speriamo che i giudizi di Jhering possano ispirare anche la (di esso collega) Cartabia.

Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE

Siamo tornati a chiedere lumi a Machiavelli sulla crisi dei 5 stelle e il contrasto Conte-Grillo e ce l’ha gentilmente concesso.

Cosa ne pensa della vicenda Conte e del Movimento 5 Stelle?

Il Conte non era un politico ma un privato onde “Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, com poca fatica diventano, ma assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti”.

Infatti una volta insediato, a comandare è stato qualcun altro: Conte al massimo pesava per metà. Perchè questi governanti si reggono “sulla volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado: non sanno: perché, s’e’ non è un uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedele”. Con buona pace dell’ “uno vale uno” (tale quando voti, non quando governi).

Quindi la caduta del governo Conte 1…

È la conseguenza di quanto ho appena ripetuto. Conte era la “testa di legno” di Salvini e Grillo. Durava finchè lo volevano loro.

Ma c’è un sistema per consolidarsi, o almeno conservare il potere conseguito “per arme altrui”?

Conte sapeva di non avere i voti, che sono per voi quello che per me erano i soldati.

Dato che non l’aveva, doveva procurarsene di propri, perché coloro che “così di repente sono diventati principi”, per conservare il potere debbono creare, una volta insediati al potere “quelli fondamenti” cioè ai tempi vostri, voti. Ma quando stava al governo, sia con la Lega che con il PD, poco ha potuto fare.

Ora che è fuori dal governo è assai difficile.

Scrissi che è meglio preparare i “fondamenti”, ossia i mezzi e condizioni per esercitare il potere, prima; nel caso di nomina per fortuna, almeno quando il governante s’è insediato; ma quando l’ha perso non l’ho considerato, perché raro anzi rarissimo.

Quindi fuori dal governo?

Può promettere ma poco, a meno che non trovi tanti sprovveduti, dei Messer Nicia, per capirci. Con i quali si può essere “larghi a promettere ma nell’attender corti”. Invece i suoi possibili seguaci, anche se digiuni di Stato (e di politica) quanto agli affari propri, sono dei Licurghi. Capiscono subito che può mantenere poco, e quindi poco (al massimo) manterrà. Ancor più per aver ridotto il numero dei parlamentari. Come scrissi al principe nuovo occorre assicurarsi dei nemici, procurarsi amici, punire i traditori, farsi amare e temere dal popolo: il tutto presuppone di stare al potere. E Conte ora non ci sta.

Ma potrebbe avere ancora il consenso degli elettori?

Che non aveva quando fu nominato al potere. E perché? Quando se l’è guadagnato? Se lo ottiene sarà sempre poco per tornare al posto di prima. Se invece lo consegue per “arme altrui” cosa tanto rara, di tornare al comando sempre per volontà degli stessi – il problema si ripropone comunque. Guarda un po cosa successe al vostro Monti: perse il governo, conseguendo poi alle elezioni europee con la propria lista, meno dell’1%: chi lo aveva designato pochi anni prima l’ha lasciato in naftalina, a scrivere articoli. Non crediate che siano più generosi col Conte. In politica la gratitudine, anche se talvolta necessaria, è merce rara.

Teodoro Klitsche de la Grange

In Mali, ma come pedine di un gioco altrui_con Antonio de Martini

Terminata ingloriosamente l’avventura in Afghanistan al seguito del contingente americano, è in procinto di partirne una nuova in Mali, per ora con la task force Takuba e probabilmente nell’intera Africa Subsahariana al seguito della Francia. Il punto di partenza è diverso. In Afghanistan cominciò tutto con una marcia trionfale, con nobili propositi ostentati e con un desiderio di vendetta necessari a carburare disegni geopolitici complessi. In Mali l’attore principale è da tempo un figlio di un dio minore; cerca di raccogliere i cocci di una impresa infame e fallimentare in Libia nel disperato tentativo di preservare la propria zona di influenza succedanea di un passato coloniale. Le insegne sono le stesse. Si tratterebbe di combattere il terrorismo e il radicalismo islamico; la credibilità è ormai consunta e i mezzi a disposizione sono insufficienti. Quelle motivazioni rischiano addirittura di accecare la lucidità operativa e strategica. La natura dei conflitti in quell’area è soprattutto di origine tribale ed etnica; il vessillo antiislamico rischia di compattare fazioni avversarie tra di loro altrimenti in conflitto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vjnr9r-in-mali-come-pedine-di-un-gioco-altrui-ne-parliamo-con-antonio-de-martini.html

A METÁ DEL GUADO TRIBUTARIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

A METÁ DEL GUADO TRIBUTARIO

Il documento conclusivo licenziato dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato su una riforma fiscale complessiva è notevole per cose scritte e anche per quelle non scritte.

Partiamo dalle prime. Da (almeno) cinquant’anni si sentono ripetere luoghi comuni sulla situazione fiscale, ed economica in genere, connotati dal carattere di edulcorare la maggiorazione del prelievo a carico, s’intende, di tutti, ma soprattutto di quelli che subiscono le attenzioni del fisco più rapaci. E, in genere, di ottundere, mistificare, illudere i contribuenti.

Nel documento tali luoghi comuni sono quasi tutti smentiti (anche se non esplicitamente, ça va sans dire). Esaminiamone alcuni. “Il problema principale dell’economia italiana, da cui derivano molte delle altre criticità, è un tasso di crescita del PIL sostanzialmente inferiore a quello dell’area-euro” e subito dopo “Tutte le analisi macroeconomiche concordano nell’includere il mal funzionamento del sistema fiscale tra le principali determinanti del nostro problema di crescita” (il corsivo è mio).

Credevamo, a sentire i ciarlatani del regime, che il problema principale fosse quello dell’evasione (ossia della violazione). Apprendiamo invece non solo che non è quello, ma che probabilmente l’evasore di un sistema così controproducente è un patriota che ha salvato (purtroppo solo i propri) quattrini delle pubbliche dissipazioni.

Secondo punto: si legge che la tassazione sul lavoro (e non solo) “è nettamente superiore alla media dell’area euro. In particolare, l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro è pari al 42,7%”. Ma il seguito è anche più interessante “L’eccessivo carico tributario sul lavoro è un problema anche in virtù del trend di riduzione della quota di redditi da lavoro sul PIL, passata dal 68% del 1970 al 52% del 2018”. Quindi jobs acts e tutta la chincaglieria mediatica sul costo del lavoro è, in termini macro economici, una litania volta ad occultare la riduzione delle retribuzioni (e altro). C’è poi l’applicazione della curva di Laffer (“regolarità” economica così semplice ed evidente che solo ai Balanzoni di regime non appare tale) “È ragionevole ritenere, inoltre, che, da un lato, aliquote marginali effettive elevate o altamente variabili possono spingere i contribuenti di alcune fasce di reddito a sottrarre reddito all’imposizione fiscale… la struttura delle aliquote marginali effettive presenti nel nostro sistema imposte-benefici è altamente inefficiente nonché dannosa per la crescita economica”. Laffer è riabilitato.

La semplicità legislativa. Si legge che “la complessità del nostro sistema tributario (è) uno dei maggiori ostacoli alla crescita economica” ed anche, aggiungiamo, maggiore incentivo alla corruzione, ad applicare il famoso detto di Tacito corruptissima res publica plurimae leges. In particolare occorre sottolineare quanto afferma il documento sullo “Statuto del contribuente” riforma tanto strombazzata dai governi di centrosinistra “È purtroppo però un fatto largamente accertato che lo Statuto del Contribuente sia la norma meno rispettata del nostro ordinamento giuridico”. Verissimo, ma non siamo d’accordo con la “soluzione” proposta: costituzionalizzare lo Statuto del contribuente, perché tutte le recenti costituzionalizzazioni, da ultimo quella dell’art. 111 Cost., si sono rivelate delle solenni affermazioni sulla carta di quello che, al contrario, si legiferava, ma soprattutto si praticava nelle amministrazioni. Erano cioè delle derivazioni (nel senso di Pareto) preventive. Assai meglio, per garantire che sia rispettato, seguire il consiglio di Gaetano Mosca, da me citato nel mio ultimo articolo: sanzionare con una grossa multa il funzionario che non rispetta lo Statuto del contribuente. State sicuri che se quella sanzione verrà istituita e soprattutto applicata, lo Statuto del contribuente sarà osservato almeno quanto in Inghilterra l’habeas corpus.

Da notare infine il paragrafo sul contrasto all’evasione fiscale. Al posto del cinquantenario ritornello “paghiamone meno, paghiamole tutti”, con cui si accompagna l’aumento delle imposte a chi già le paga, si osserva che “vi è bisogno di un’evoluzione culturale da ambo le parti: ciascuna di essere deve allo stesso tempo mutare i propri comportamenti in senso virtuoso e abbandonare i pregiudizi nei confronti della «controparte»… Lo Stato deve allontanare ogni tendenza a considerare il contribuente un «evasore che ancora non è stato scoperto»”, e il contribuente deve internalizzare i benefici di pagare le imposte. E il documento ribadisce “che il perseguimento di tale strategia sia un processo di natura culturale travalica, non di poco, i confini di un documento di indirizzo, e forse persino di ogni atto normativo” (il corsivo è mio).

Anche qui si concorda: su cose che non risultano dal common sense, poco può fare il legislatore. Ma assai può il popolo sovrano, mandando a casa coloro che hanno creato un sistema siffatto e la cui credibilità è sotto-zero. Al punto che anche cose condivisibili, se proposte da certe forze politiche sono percepite con diffidenza o rigettate tout-court dalla maggioranza dei cittadini.

E quello che manca? Non sappiamo se sia dovuto ad una preventiva delimitazione dell’indagine o ad un’omissione (voluta); ma resta il fatto che se non si rimodella (verso la parità delle parti) la giustizia tra privati e pubbliche amministrazioni, le migliori intenzioni rischiano di rimanere almeno in gran parte tali.

Tale problema nel documento non è affatto considerato, e l’omissione rischia di compromettere l’encomiabile sforzo di ridurre idola e mistificazioni. Perché se i diritti del contribuente e i doveri delle pubbliche amministrazioni (e dei funzionari) non sono giudicati da magistrati indipendenti, e soprattutto i relativi processi denotati dalla “parità delle armi”, rischiano di essere i diritti di “un dio minore” cioè diritti enunciati ma non (o poco) applicati.

Ma su questo ho già scritto tanto, onde non posso far altro che rinviarvi il lettore.

Teodoro Klitsche de la Grange

Ciarpame mediatico, di Giuseppe Germinario

Il quotidiano “la Repubblica” del 20 giugno scorso ha pubblicato da pagina 45 un lungo articolo, a nome di Gianluca di Feo e Floriana Bulfon, dal titolo “Bergamo_virus, spie e vaccini”. L’articolo è purtroppo disponibile solo a pagamento e non può, quindi, essere riprodotto integralmente alla fonte https://www.repubblica.it/esteri/2021/06/17/news/bergamo_virus_spie_e_vaccini-306329555/?ref=RHTP-BH-I295744712-P13-S4-T1 , ma disponibile comunque integralmente su https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/bergamo-virus-spie-e-vaccini/ar-AAL7nOl?li=BBqg6Qc

Il 21 giugno ha risposto a stretto giro di posta l’ambasciatore russo a Roma, Sergey Razov. Qui sotto il testo della lettera aperta:

Stimato Direttore,

ha richiamato la nostra attenzione l’ampio articolo intitolato “Bergamo, virus, spie e vaccini” pubblicato sul Suo quotidiano il 20 giugno, in cui il giornale ripercorre i fatti di marzo-aprile 2020, quando un gruppo di medici virologi ed esperti disinfettatori russi ha operato nel Nord Italia.

Tre righe e mezzo dell’articolo contengono l’ammissione che “i soldati russi a Bergamo hanno fornito assistenza concreta, curando decine di pazienti, durante le ore più buie della storia recente e disinfettando decine di centri per anziani”. Le restanti quasi 500 sono una congerie di invenzioni sul contenuto reale di quella che sarebbe stata una missione militare dell’intelligence russa nello spirito delle “guerre ibride”, “una campagna di disinformazione e propaganda”, con addirittura elementi della “competizione per riscrivere la mappa geopolitica del pianeta”. Tentare un’analisi dettagliata di tutta questa serie di invenzioni sarebbe una perdita di tempo. Prendiamo in considerazione solo alcuni fatti.

Ricordo bene come un anno fa questo stesso giornale e un certo numero di altri media italiani cercò, senza alcuna prova, di individuare la natura spionistica della nostra missione che avrebbe tentato di ottenere informazioni sulle strutture militari italiane e della NATO a Bergamo e Brescia, dove erano impegnati i nostri specialisti. I chiarimenti in merito al fatto che quelle aree erano state individuate dalle autorità italiane sono stati semplicemente ignorati. C’è voluto più di un anno perché gli autori di “La Repubblica” ammettessero finalmente quello che era ovvio e cioè che le strutture militari italiane e della NATO, come è risultato, non erano l’obiettivo della nostra missione umanitaria (pare non siano avvezzi a scusarsi per la palese disinformazione, attivamente diffusa nella primavera del 2020).

Ma, come si dice, ciò che è storto non si può raddrizzare (Ecclesiaste 1:15). Ora gli scrittori di “La Repubblica” ci attribuiscono la colpa di aver inviato in Italia i nostri migliori medici virologi ed epidemiologi, dotati di grande esperienza (è vero, ne abbiamo orgogliosamente parlato fin dall’inizio), di aver utilizzato sul posto un moderno laboratorio mobile, che avrebbe analizzato “la struttura genetica del virus e inviato i dati a Mosca con il sistema satellitare di comunicazione criptata”. Sì, anche allora abbiamo parlato di questo laboratorio mobile che era impegnato esclusivamente nel monitoraggio della salute del contingente, nella messa a punto delle metodiche e delle dosi di protezione immunitaria, nell’analisi PCR e nella genotipizzazione. (A proposito, effettivamente abbiamo registrato casi di infezione da coronavirus tra i nostri militari che hanno lavorato nelle zone più pericolose d’Italia). Di quali altri compiti e possibilità nascoste di questo laboratorio possono parlare gli autori, se loro stessi ammettono che nessun estraneo ha potuto accedervi.

Poi, l’affermazione forse più ridicola e sacrilega dell’articolo: “il vaccino Sputnik V è nato dal virus italiano”. (I russi hanno rubato il COVID italiano?!) Gli autori cercano di tracciare un legame causale e temporale diretto tra il lavoro della nostra missione e l’invenzione del vaccino russo. E cioè: i dati clinici acquisiti in Italia “con un’operazione di spionaggio” avrebbero permesso ai nostri specialisti di produrre un vaccino nel più breve tempo possibile. I conti non tornano. Fonti sanitarie e militari in Italia – dice il giornale – confermano che “i russi non erano autorizzati a portare campioni e provette fuori dagli ospedali dove curavano i pazienti”. Inoltre, la Russia ha iniziato a testare lo Sputnik V su volontari già a giugno e ad agosto questo vaccino è stato il primo al mondo ad essere certificato. È chiaro anche a un profano che l’invenzione del vaccino non poteva che essere il risultato di molti anni di ricerca su altre malattie virali.

È assolutamente ovvio che il lavoro eroico dei nostri militari in Italia, durato ben 46 giorni, ha fornito una certa esperienza nella comprensione del pericolo di questa malattia, della velocità e delle peculiarità della diffusione dell’infezione, arrivata in Russia, com’è noto, tre o quattro settimane dopo l’Italia. E questa esperienza è stata debitamente utilizzata per sviluppare le nostre misure contro la pandemia. Ma dove sarebbe qui il crimine?! Si tratta di un percorso di collaborazione assolutamente naturale e generalmente accettato, che peraltro prosegue ancora oggi. Al momento, l’Istituto Spallanzani di Roma sta conducendo studi clinici scientificamente importanti sul vaccino Sputnik V con la partecipazione di specialisti russi. Altre prove sono previste nell’ambito del rispettivo Memorandum di cooperazione firmato nell’aprile di quest’anno. Se il giornale Repubblica dedicasse anche solo un centesimo del suo voluminoso materiale a tale lavoro comune, volto a combattere l’epidemia, a nostro parere offrirebbe un servizio migliore e più interessante ai lettori dell’autorevole quotidiano.

E infine, un’ultima cosa. Gli autori definiscono Bergamo “un campo di prova per nuovi conflitti ibridi”. Noi invece partiamo dall’assunto che questo è il luogo in cui al popolo italiano in difficoltà i vertici e il popolo della Russia hanno disinteressatamente dato una mano. Qui sta la principale divergenza con la redazione del giornale, la cui politica provoca la nostra reazione a questo genere di informazioni.

L’Ambasciatore della Russia in Italia

21.06.2021

L’articolo è un concentrato di rara intensità di infantilismo meschino e vile in un panorama giornalistico che certamente non brilla per serietà e fondatezza di analisi.

L’ambasciatore ha avuto buon gioco quindi nel replicare con ferma diplomazia, senza neppure infierire.

Non ce n’era del resto bisogno.

Su quali comportamenti e intenzioni hanno avuto da recriminare i nostri segugi colti da sospetta crisi olfattiva?

A denti stretti hanno dovuto ammettere che lo scopo reale della missione sanitaria russa non era lo spionaggio delle installazioni militari o quantomeno non ci sono elementi sufficienti a suffragare l’ipotesi; sempre che non si possano considerare tali le inevitabili sbirciatine dai finestrini nel lungo viaggio di avvicinamento a Bergamo. Il bersaglio era però ancora più importante: catturare la Covid italiana, portarsela in Russia e carpirne i segreti; sperimentare sul campo le proprie procedure di gestione di una pandemia e di guerra batteriologica, analizzare quelle adottate da un paese occidentale, verificare l’andamento epidemiologico e patologico della sindrome. Come spiegarsi altrimenti il livello così alto e specialistico e la natura militare dei protagonisti, in particolare la loro provenienza dai laboratori chimico-biologici militari? L’accusa velata era di ricondurre il loro interesse alla logica della guerra batteriologica più che alla finalità umanitaria; accusa velata, ma strumentale e maldestra vista la analoga attività svolta da tanti laboratori americani, francesi ed inglesi civili e militari sparsi nei propri paesi e nel mondo. I missionari in colbacco del resto non hanno sentito ragioni nel condividere i dati acquisiti, la sofisticata strumentazione in possesso con gli ospitanti così smarriti in tanto tragico caos. Hanno così ingannato “Giuseppi” e l’intera compagine governativa, piombando come falchi su di un paese smarrito, prendendo alla sprovvista i custodi della sicurezza del paese, carpendo i segreti del mostriciattolo per ricavarne un efficace vaccino in colpevole anticipo rispetto agli amici occidentali, per trarne insegnamenti utili nella gestione ormai prossima a venire della pandemia nel loro paese.

Il senso di privazione che pervade i nostri due segugi è evidente, ammirevole, ma tardivo. In un quotidiano che per trenta anni ha sostenuto attivamente e con entusiasmo, pur in buona compagnia, la spoliazione e la privazione di beni del proprio paese, ai pochi giornalai di buon cuore non è rimasto che aggrapparsi al poco che è rimasto in Italia, difendendolo a denti stretti. In quel poco è rimasto evidentemente la Covid 19 italiana. I tapini non si sono accorti per altro di dare involontariamente ragione ai rivali cinesi i quali, per nascondere le proprie magagne, hanno cominciato a vendere nel mondo l’insinuazione dei virus nazionali, compreso quello tricolore.

L’angoscia da privazione non fa che fissare i pregiudizi e impedire di porre correttamente le domande e soprattutto di porle alle persone giuste.

Hanno accusato i russi di strumentalizzare a fini geopolitici e di propaganda il loro intervento; li hanno incriminati di lesa maestà per aver tentato di scombussolare l’Unione Europea; si sono risentiti, colti da un malinteso orgoglio nazionale, per i loro giudizi sferzanti sulla gestione italiana della pandemia.

Hanno dimenticato in buona sostanza di essere dei giornalisti e di porre le giuste domande:

  • come mai non ha funzionato la solidarietà europea nei momenti più acuti della crisi pandemica?

  • Da dove arriva l’ostracismo al vaccino russo e il fallimento della ricerca scientifica europea?

  • Come mai le implicazioni e il conflitto geopolitici hanno riguardato non solo i paesi dichiarati ostili (Russia e Cina), ma anche quelli “fratelli ed amici”?

  • Come mai il Governo e il paese si è affidato alla improbabile coppia costituita da un manager-finanziere di terza fila (Arcuri) e da un contabile della Protezione Civile (Borrelli), con la consulenza esclusiva di virologi impegnati più che altro ad apparire sugli schermi, piuttosto che ad una struttura composta da esperti di logistica, igienisti, manager della salute nella quale i militari avrebbero dovuto avere un ruolo di primo piano e non di serventi tuttofare?

  • Come mai il Governo non è stato in grado di concordare le modalità di intervento e di scambio delle informazioni con tutti gli interlocutori internazionali, oltre che con russi e cinesi? Anni fa ad un alto ufficiale americano fu chiesto come mai tante basi erano state spostate dalla Germania in Italia. Da buon anglosassone la risposta fu lapidaria: “in Germania per muoversi occorre compilare protocolli di almeno dieci pagine, in Italia una telefonata.”

  • Come mai si sono omesse le analisi epidemiologiche e diagnostiche che accelerassero l’individuazione dei decorsi e la definizione di terapie efficaci?

  • Come mai è quasi completamente saltata quella medicina di base e preventiva sulla quale dovrebbe fondarsi il sistema sanitario nazionale, stando almeno alle dichiarazioni fondative di principio come pure è rimasto impolverato il piano di emergenza nazionale?

  • Come mai in una situazione di grave emergenza non si è risolto rapidamente il disordine istituzionale e lo si è piuttosto strumentalizzato per scaricarsi reciprocamente le responsabilità della cattiva gestione della crisi?

Le giuste domande, ma alle persone giuste: al ceto politico italico, alla sua classe dirigente e ai suoi quadri amministrativi, agli alleati o sedicenti tali piuttosto che alla missione russa rea di aver fatto quello che avrebbero dovuto fare tutti. Le cui giuste risposte avrebbero probabilmente consentito di non pietire interventi esterni a scatola chiusa e di non porre alla radice il problema.

Si sa purtroppo che l’orgoglio nazionale serve a suscitare le migliori energie di un paese, ma anche, spesso e volentieri, a coprire le peggiori magagne e speculazioni.

La soluzione non può arrivare da segugi di tal fatta. Sono parte in causa di una categoria a pieno titolo corresponsabile di una gestione fatta e condizionata da allarmismo, disinformazione, schizofrenia, superficialità e irresponsabilità. Una gestione che ha ridotto l’emersione di un problema serio ad una manipolazione inquietante senza una soluzione di continuità prevedibile in una emergenza senza fine. Un vero e proprio ossimoro. Mario Draghi è arrivato a risolvere alcuni dei problemi posti. Probabilmente ci riuscirà, ma non sarà la gran parte del paese a giovarsi del risultato. Lo abbiamo intravisto negli ultimi due vertici mondiali del G7 e della NATO sui quali continueremo a soffermarci.

Ai due segugi, dal cuore ingrato e dall’indole meschina, non rimane che replicare a loro volta a due semplici domande: a chi, a quale pifferaio devono rispondere dei loro sproloqui infantili e mal posti? Non certo ai lettori, vista la crescente disaffezione. Siete voi stessi agenti terminali di una guerra ibrida?

LA DIASPORA DEI COMPAGNUCCI DELLA PAROCCHIETTA, di Antonio de Martini

LA DIASPORA DEI COMPAGNUCCI DELLA PAROCCHIETTA
Lanciando l’idea di un candidato italiano competente e affidabile a segretario generale NATO per rafforzare l’immagine del patto Atlantico nell’immaginario collettivo, mi si é rivelato un mondo.
Dopo D’Alema che si è scoperto la vocazione del miliardario ritirandosi tra barca e vigneti, Minniti che si è sistemato a Leonardo, Martina a vicenonsocchè della FAO, la fuga degli esponenti PD dal partito che fu di Gramsci e Di Vittorio prosegue con Enrico Letta e la Mogherini che pare vogliano candidarsi a segretario Generale della NATO.
L’unico che non é riuscito a sistemarsi – per ora- é Rutelli cui é fallito il colpo – tentato con insistente approssimazione – di passare all’UNESCO.
Sistemazione precaria per Renzi che fa …conferenze da ottantamila a marchetta in paesi disagiati ma danarosi.
L’idea che il partito servisse a trovare una sistemazione a disoccupati era ampiamente nota, ma la credevo limitata agli uscieri.
Vedo invece che – prevedendo come donna Letizia Bonaparte – l’imminente crollo della congrega – gli uomini e donne di vertice stanno spendendo le ultime risorse per abbandonare il TITANIC e sistemare la famiglia.
Appartenere a un’area politica che abbia votato l’adesione al patto Atlantico e essere competenti nel campo per essere candidati, non serve: per posti da trecentomila dollari annui più immunità diplomatica, ci si toglie i guanti e si pretende in curriculum almeno sei mesi da segretario del PD.
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