La crisi di egemonia USA, di Michele Berti

La crisi di egemonia USA

In  questi mesi, con l’avvento di Trump, nel discorso pubblico è ricomparso prepotentemente il concetto di imperialismo come termine passepartout per interpretare la presente fase internazionale. Si affiancano al termine degli aggettivi come aggressivo, crudele, spietato. In realtà nessuno degli aggettivi che vengono usati riescono a specificare e definire in modo corretto il concetto di imperialismo che per definizione ha sempre avuto tali caratteristiche. Ma cosa si  intende per imperialismo in senso storico e politico? La genesi del termine è da attribuire a Hilferding anche se il suo uso diffuso si deve all’opera di Lenin che lo definì come lo stadio monopolistico del capitalismo, a cui corrisponde una formazione sociale ed economica contraddistinta da un’enorme concentrazione di produzione e capitale in chiave monopolistica, la fusione del capitale bancario col capitale industriale nel capitale finanziario gestito da una ridotta un’oligarchia finanziaria, un esteso uso dell’esportazione dei capitali e la ripartizione del mondo tra i trust internazionali.

L’imperialismo USA è quindi questo, una formazione economica e sociale che non può essere attaccata come un’etichetta ad un presidente, ma è una configurazione predisposta al dominio dello spazio altrui con metodi convenzionali e non convenzionali, assumendo il ruolo di dirigente con i soggetti alleati e di dominante con gli avversari. Non esiste quindi un imperialismo targato Trump o Biden, ma l’imperialismo USA che a seconda della fase, assume alcune caratteristiche nella gestione del rapporto tra governati e governanti nelle relazioni internazionali.

Le dinamiche, a cui gli aggettivi uniti al termine imperialismo si riferiscono, conseguenti alla discontinuità presentata dall’elezione di Trump, possono invece essere interpretate in modo efficace e coerente, con alcune categorie gramsciane come il concetto di egemonia, crisi di egemonia e crisi organica.

Gramsci, nei Quaderni del Carcere mette a frutto gli studi sulla dialettica e l’interazione tra distinti, riuscendo a sviluppare alcuni ragionamenti che sono utili  a decodificare gli eventi in questa confusa fase storica.

Iniziamo col definire la crisi di egemonia come la dimensione politico-ideologica di una crisi organica, ovvero di una fase di transizione in cui la distanza degli apparati ideologici e delle narrazioni funzionali ad una particolare struttura economica (sovrastrutture), diventa così grande rispetto alla struttura economica stessa, da non reggere. Le sovrastrutture devono quindi ad un certo punto tornare ad aderire alle strutture economiche, attraverso appunto una crisi organica.

La crisi organica statunitense ha origini diverse e intreccia svariati livelli, ne possiamo elencare alcuni senza nessuna pretesa di esaustività.

La sfera economica finanziaria sicuramente vede un arretramento degli USA, che in questi anni hanno sacrificato economia reale in favore di rendite e profitti finanziari. La de-dollarizzazione ovvero il processo iniziato anni fa di sostituzione in molti scambi commerciali della valuta americana come valuta di riserva e l’esplosione del debito USA. La divisione internazionale del lavoro che ha portato la Cina a superare la condizione di manifattura globale e assumere un ruolo centrale dal punto di vista economico e di riferimento per il Sud del mondo. La crisi di identità di una superpotenza senza alter ego e il fallimento del progetto universale e unipolare di “sceriffo globale”. La crisi sociale in atto negli Stati Uniti con  la divisione tra coste ricche e zone continentali deindustrializzate e impoverite, dinamica che bene si evince dall’analisi geografica dei risultati delle elezioni di novembre.

Tutti questi elementi portano alla frattura tra la narrazione del sogno americano e del “migliore dei mondi”, libero e democratico ma rigorosamente unipolare e suprematista,  e la realtà di una difficoltà crescente nel sostenere lo sforzo economico su scala globale in termini di strumenti di proiezione di potenza e presenza militare diffusa.

Tutto questo si è trasformato, dal punto di vista politico-ideologico, in una profonda crisi di di egemonia, ovvero una crisi del consenso a livello internazionale, che mina la credibilità e l’autorevolezza USA e costringe sempre di più ad usare la coercizione per perseguire i propri interessi nazionali.

Questa tendenza è in corso da anni, ma ha subito un’accelerazione con l’inizio dell’operazione militare speciale russa in Ucraina a febbraio del 2022 ed ora si assiste a quello che, sempre più sembra un riallineamento strategico a livello globale in vista della sfida dei prossimi anni con la Cina.

Emerge l’esigenza di una ricalibrazione degli ambiti di influenza USA, con il possibile ritiro in un’area imperiale continentale, il continente americano, con una nuova e aggiornata dottrina Monroe su scala geografica adeguata dal punto di vista di risorse e materie prime, in cui ricadono le partite di Canada, Groenlandia, Cuba e Venezuela.

Interessante anche il caso Canale di Panama, che rientra in queste dinamiche e dimostra, per chi ha ancora qualche dubbio, che le multinazionali come Blackrock sono prima di tutto strumenti di potenza USA e che il mito dell’1% delle multinazionali contro il 99% del mondo è solo un sudario con cui nascondere la regia dell’imperialismo americano. Unica eccezione a questo ragionamento, novità di questa fase, è il ruolo di Musk che avendo ottenuto una superiorità indiscussa nella partita dello spazio, ha dei gradi di libertà inediti rispetto al passato.

In questo ambito è necessario conoscere e comprendere a fondo gli strumenti di potenza degli interessi nazionali USA, codificati in numerose pubblicazioni di dottrina militare. Sono i DIMEFIL ovvero le braccia del sistema di dominio americano: Diplomazia, Informazioni, Militare, Economico, Finanziario, Intelligence e Law Enforcement. Ad ognuno di questi strumenti corrisponde una struttura organizzativa e dei riferimenti precisi e vengono tutti insieme coordinati efficacemente per ottenere gli obiettivi e gli interessi nazionali degli Stati Uniti.

Entrando nel dettaglio dello strumento economico (definito nei manuali come“economic warfare” o economic weapons”) i tagli alle agenzie come USAID o fondazioni come la NED (National Endowment for Democracy), sono indicativi della necessità di riorganizzazione in corso e vanno ad amputare in modo netto la capacità di soft power americana. I budget elevati che venivano destinati a questi strumenti provvedevano a finanziare ONG, giornalisti in paesi esteri, attivisti e “pare” anche qualche gruppo terroristico utilizzato come “proxy” o “sostituto”. L’attacco ad USAID ha sicuramente una componente legata alla presenza in queste strutture di elementi del Deep State democratico, ma sicuramente è legata anche alla necessità di ridurre i costi di queste attività legate alla creazione di consenso, perché non più sostenibili.

Spostando il focus sull’Europa, il vecchio continente sarà obbligato a fare i conti con queste dinamiche inventandosi un’autonomia e un “imperialismo europeo” dopo settantacinque anni di NATO a guida USA e il suo braccio economico, l’UE. Possiamo definire questo desiderio di imperialismo europeo un imperialismo castelli in aria, retorico e passionale, ma senza base economica e finanziaria, come definiva Gramsci l’imperialismo italiano con Crispi. In Europa è chiaro che i “chierici” della passata fase storica, impiegati nella macchina del consenso, rischiano la carriera e questo può portare a dinamiche molto pericolose, legate alla sopravvivenza di una classe dirigente politica e mediatica e alla loro reazione guerrafondaia e bellicista.

Rimane fuori campo il ruolo del nostro Paese, protettorato di fatto e obbligatoriamente allineato alla nuova dirigenza USA, a dimostrazione della sovranità veramente limitata a cui siamo sottoposti fin dal 1945. La penisola italica, portaerei nel Mediterraneo, è luogo di assoluto interesse militare (sono appena arrivate le B61-16 ad Aviano e Ghedi) e verrà tenuto stretto rispetto ad altri siti in contesto NATO.

La crisi di egemonia, che rappresenta la frattura tra governati e governanti anche a livello internazionale, come afferma Gramsci,  può essere ricondotta a due motivi principali: il fallimento di un’impresa politica su cui  la classe dirigente ha chiesto il consenso e/o l’ingresso nello scenario politico di nuove forze.

Sicuramente il fallimento del mondo unipolare e della costruzione europea rientrano nel primo ambito, la nascita dei BRICS a cui guarda con speranza tutto il Sud del mondo, rientra nella seconda possibile causa.

La soluzione di una crisi di egemonia può essere proprio l’avvento “dell’uomo della provvidenza”, un Trump che però in questo ragionamento diventa conseguenza e prodotto di un processo, non elemento estraneo ed esogeno a cui imputare ogni male. É il mostro che nasce quando “il vecchio mondo sta morendo e il nuovo tarda a comparire”.

L’effetto più visibile di una crisi di egemonia, elemento di attualità,  è  l’emergere in ogni contesto dei veri rapporti di forza, in purezza, non mediati dalla sovrastruttura e il ritorno alla pura economicità dei processi senza narrazioni di supporto.

Questi rapporti di forza si possono ben percepire andando oltre l’attività del front-man Trump e studiando le attività politiche del segretario del dipartimento della difesa Pete Hegseth, del dipartimento di Stato Marco Rubio e le dichiarazioni del vice J.D.Vance, i quali stanno costruendo una rete di accordi bilaterali, ricostruendo la forza perduta, partendo dall’esigenza di allontanare la Russia dalla Cina.

Sullo sfondo infatti rimane quella che John Pilger definì, in un suo meraviglioso e attuale documentario, “la guerra che verrà”, una nuova fase in cui gli obiettivi USA saranno legati al contenimento a tutti i costi della globalizzazione win-win cinese, con il relativo concentramento delle risorse di potenza nel quadrante indo-pacifico.

Questa fase di profonda crisi potrebbe essere un’ottima occasione per operare un ripensamento della costruzione ordoliberista europea e del suo ruolo internazionale. Peccato che classi dirigenti poco sagge, incapaci diplomaticamente e scollegate dai bisogni delle popolazioni, si sono infilate in un cul de sac che condanna l’Europa all’irrilevanza nelle relazioni internazionali e da cui pare si possa ora uscire – ci raccontano – solo con le armi e una guerra contro l’invasore russo. Intanto però i militari sul nostro territorio sono americani, non russi, facendoci ricordare il vecchio detto “la pecora passa tutta la vita con la paura del lupo. Alla fine, la mangia il pastore”. Insomma, l’antica e artificiale paura di vedere i cosacchi abbeverarsi nella fontana di Trevi, pare destinata a tornare di  moda.

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Le cause del fallimento politico della Francia nel Sahel, di Bernard Lugan

Interessante, anche se l’autore sembra dimenticare che l’approccio dogmatico ed astratto all’avventura militare nel Sahel è il corollario di una politica egemonica imperialistica, per quanto in declino; vittima non solo dei rivolgimenti interni a quei paesi ma anche dell’arrivo e del ritorno di nuovi attori esterni_Giuseppe Germinario

Nel Sahel, a dieci anni dalla trionfale accoglienza riservata alle forze francesi, e dopo che 52 dei migliori figli di Francia sono caduti per difendere i maliani che preferiscono emigrare in Francia piuttosto che combattere per il proprio paese, si susseguono manifestazioni antifrancesi . Convogli militari ora circolano sotto insulti, sputi e sassi. Sulla strada dalla Costa d’Avorio, la situazione diventa così difficile che inizia a sorgere la questione dell’approvvigionamento di Barkhane. A fine novembre 2021, in Niger, dopo la morte di diversi manifestanti che avevano bloccato un convoglio militare francese, il governo nigeriano ha incriminato Barkhane… La strategia francese di ridispiegare in Niger le forze precedentemente di stanza in Mali passerà quindi sotto la responsabilità di ‘atto di bilanciamento…

La situazione regionale è così degradata che, per paura di manifestazioni, il presidente Macron ha appena rinunciato ad andarci per incontrare i funzionari regionali. Forse andrà in una base militare solo per festeggiare il Natale con un’unità francese.

Perché un tale disastro politico? Dopo esserci cacciati dalla Repubblica Centrafricana accumulando i nostri errori, sperimenteremo un nuovo e umiliante fallimento, ma questa volta nella BSS?

Come continuo a dire e scrivere da anni, e come dimostro nel mio libro Le guerre del Sahel dall’inizio ai giorni nostri , i decisori francesi fin dall’inizio hanno fatto una falsa analisi vedendo il conflitto regionale attraverso il prisma dell’islamismo. La realtà, però, è diversa perché l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie che nessun intervento militare riesce a chiudere.

Al nord, è il risorgere di una frattura inscritta nella notte dei tempi, di una guerra etno-storica-economica-politica condotta dal 1963 dai Tuareg. Qui la soluzione del problema è tenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Dal 2012 ho continuato a dire che dovevamo trovare un’intesa con questo leader Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è prima di tutto per l’identità. Tuttavia, per ideologia, rifiutandosi di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che definiscono la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Il presidente Macron ha persino ordinato più volte alle forze di Barkhane di eliminarlo e che , fino a poco tempo fa, quando le autorità di Bamako stavano negoziando una pace regionale direttamente con lui… Già, il 10 novembre 2020, Bag Ag Moussa, il suo luogotenente, era stato ucciso da un attacco aereo.

Il conflitto nel sud (Macina, Liptako, regione conosciuta come i “Tre Confini” a nord e ad est del Burkina Faso), ha anche radici etno-storiche derivanti dal secolare scontro tra i Peul e varie popolazioni sedentarie. A differenza del nord, qui si svolgono due guerre molto diverse. Uno è l’emanazione di grandi fazioni Fulani raggruppate sotto la bandiera di AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ). L’altro infatti è prima di tutto religioso ed è guidato dallo Stato Islamico l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ). L’EIGS mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Al contrario, i leader regionali di AQIM, che sono etno-islamisti, hanno obiettivi principalmente locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.

Con un minimo di intelligenza tattica, giocando sugli equilibri di potere regionali ed etnici, si poteva rapidamente risolvere la questione del nord del Mali, che avrebbe consentito un rapido disimpegno consentendo di operare la concentrazione delle nostre risorse sulla regione di” 3 frontiere”, quindi contro l’EIGS [1] . Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dai capi militari di Barkhane, Parigi ha persistito in una strategia “americana”, “colpisce” indiscriminatamente i GAT (Gruppi armati terroristici) e rifiutando qualsiasi approccio “buono” … “À la Française” … come i nostri anziani avevano fatto così bene in Indocina e Algeria. La linea di fondo è che, per i leader francesi, la questione etnica è secondaria o addirittura artificiale, quando non è, secondo loro, romanticismo coloniale…

L’ultimo e caricaturale esempio di cecità ideologica è stata la reazione di Parigi al colpo di Stato del colonnello Assimi Goïta, avvenuto in Mali nell’agosto 2020. In nome della democrazia, del buon governo e dello stato di diritto, nozioni che qui rientrano nel surrealismo politico, La Francia ha tagliato i legami con l’ex comandante delle forze speciali maliane, la cui acquisizione è stata comunque un’opportunità per la pace. Avendo per le sue funzioni un giusto apprezzamento delle realtà sul terreno, questo Minianka, ramo minoritario del grande ensemble Senufo, non ebbe infatti alcun contenzioso storico-etnico, né con i Tuareg, né con i Peul, i due popoli in origine. i due conflitti in Mali. Ha quindi aperto trattative con Iyad Ag Ghali, che hanno ulcerato i decisori parigini. Bloccati nel loro a priori ideologico, questi ultimi non hanno preso la misura del cambiamento di contesto appena avvenuto, e hanno continuato a parlare di rifiuto di “trattare con il terrorismo”. Prendendo come pretesto questo colpo di stato, Emmanuel Macron ha deciso di ritirare Barkhane, che è stato inteso come un abbandono. E, per completare il tutto, avendo Bamako chiesto l’aiuto della Russia, la Francia ha minacciato, che è stata denunciata come neocolonialismo….

Sulla base di un ostinato rifiuto di prendere in considerazione le realtà sul campo, questo accumulo di errori ha quindi portato a un vicolo cieco. La domanda ora è come uscirne senza mettere in pericolo le nostre forze. E senza che la nostra partenza aprisse la porta a un genocidio di cui saremmo accusati. Come ricordo, in Ruanda, è stato perché l’esercito francese si era ritirato che c’è stato un genocidio, perché, se le forze del generale Kagame non avessero chiesto la loro partenza, questo genocidio di fatto non si sarebbe verificato.

Quattro lezioni principali devono essere tratte da questo nuovo e amaro fallimento politico africano:

1) L’urgente priorità è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e in caso affermativo, a che livello, e senza perdere la faccia.

2) In futuro, non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a vantaggio degli eserciti locali che abbiamo instancabilmente e senza successo addestrato dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente. E se lo sono, è per un semplice motivo che è che gli Stati, essendo artificiali, non esiste un vero sentimento patriottico.

3) Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e puntuali da parte delle navi, che eliminerebbero il disagio dei passaggi a terra percepiti localmente come un’insopportabile presenza neocoloniale. Sarebbe quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza delle nostre risorse marittime proiettabili.

4) Infine e prima, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che i vecchi governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o tributari ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, eppure questa è la realtà africana.

Per più di mezzo secolo in Africa, l’ossessione occidentale per i diritti umani ha portato a massacri, l’imperativo democratico ha provocato la guerra e le elezioni hanno portato al caos.

Più che mai è quindi importante riflettere su questa profonda riflessione che fece nel 1953 il Governatore Generale dell’AOF: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno ciò che cercano”… In una parola, il ritorno alla realtà e alla rinuncia alle nuvole.

[1] A tal proposito si rimanda al mio comunicato stampa del 24 ottobre 2020 dal titolo “Mali: fondamentale il cambio di paradigma”.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

TALEBANI E RIVOLUZIONE PASSIVA, di Teodoro Klitsche de la Grange

TALEBANI E RIVOLUZIONE PASSIVA

Mentre Kabul cadeva dinanzi all’offensiva dei talebani, molti ricordavano come la “dottrina” dell’espansione del modello democratico occidentale con la forza fosse stata condivisa – a quanto si leggeva – da almeno tre Presidenti U.S.A.: Clinton, Bush jr. e Obama e i loro consiglieri sia di destra che di sinistra.

Taluni ritenevano – non infondatamente, che fosse una derivazione degli interessi di potenza – politica ed economica – degli U.S.A. soprattutto, se non dell’intero mondo occidentale.

Nessuno – che mi risulti – ha ricordato, come da oltre due secoli, in varie formulazioni e declinazioni quella concezione è stata ripetuta. Esportava gli immortali principi dell’89, facendo la guerra alle monarchie europee (ed alle classi dirigenti) già la Convenzione francese nel 1792, sintetizzandola in una  frase efficace: “guerra ai castelli, pace alle capanne”, con il decreto del 15/12/1792.

Il che a prescindere dalle buone intenzioni (e dalla buona fede) era nient’altro che un programma di guerra civile europea. Che infatti infiammò il continente per quasi un quarto di secolo: le armate rivoluzionarie e poi napoleoniche trovavano molti alleati nei paesi conquistati, ma anche un “nuovo” nemico: i combattenti partigiani controrivoluzionari. I quali, ebbero un ruolo non secondario nella caduta di Napoleone. Fabrizio Ruffo, Empecinado, Andreas Hofer furono l’altro volto di una ostilità “irregolare” quanto profonda che, nel pensiero di Clausewitz, l’avvicinava alla guerra assoluta. Il richiamo agli immortali principi dell’89, servì a suscitare nemici almeno quanto a trovare alleati-seguaci, e fu comunque fertile nel provocare e aggravare l’ostilità. Non tanto perché presentarsi a casa d’altri con le baionette inastate e i cannoni rombanti non è propriamente il modo migliore e più rassicurante per farlo; ma soprattutto perché quegli immortali principi erano poco o punto condivisi dalle popolazioni invase.

Già lo aveva capito Vincenzo Cuoco il quale spiegava la breve esistenza della Repubblica partenopea (quattro mesi) col concetto di “rivoluzione passiva” destinato ad una notevole fortuna nel pensiero  politico italiano (a cominciare da Gramsci). Scriveva il pensatore napoletano che le idee importate dalla rivoluzione francese erano lontane ed astratte dagli usi e dai bisogni delle popolazioni meridionali, onde queste le consideravano estranee; per di più condivise da minoranze afrancesade: “le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse”. In questa situazione mancava il principale fattore aggregante dell’unità politica: l’idem sentire de re publica.

Nell’epoca delle rivoluzioni Sieyés e Thomas Paine confidarono nella condivisione di idee, valori, interessi, bisogni e costumi tra francesi e americani per sostenere la rivoluzione e le Costituzioni dei nuovi ordinamenti nonché delimitare i “confini” con chi non li condivideva (sia all’esterno che all’interno della sintesi politica). Renan ne avrebbe formulato, nel di esso concetto di nazione, una denotazione esauriente.

Il problema si presenta ancor più difficile quando nella storia moderna tale pratica si è collegata allo “scontro di civiltà”. Se a popoli facenti parte della stessa civiltà era ostico esportare certi principi, soprattutto con le armi, non era da meno, data la maggiore distanza, tra popoli di civiltà diverse; Toynbee ricorda i principali casi e personaggi che l’hanno tentato e, spesso, realizzato. In senso positivo (cioè riuscito), Pietro il Grande e gli statisti giapponesi della rivoluzione Meiji.

Tuttavia i tentativi riusciti avevano di solito due caratteri: di essere d’iniziativa interna, e spesso del potere legittimo (lo Zar o il Tenno), e non d’importazione armata. Anche se generarono rivolte e repressioni (gli Strelizzi e i Samurai) al limite della guerra civile, non c’erano “terzi interessati” a fomentare, indirizzare, sostenere i contendenti, e trasformare così il conflitto in guerra partigiana (contro il nemico esterno e interno). L’altro, che si proponevano di introdurre novità sì profonde nelle società tradizionali, ma non totali. Il fatto che fosse il potere legittimo ad introdurle era una garanzia a favore della non totalità delle innovazioni: cambia l’ordine, ma non l’ “ordinatore”. Oltretutto i cambiamenti erano comunque parziali, e volti ad acquisire ed utilizzare la tecnica e la scienza (e modelli istituzionali) occidentale, in funzione degli interessi e del sistema di valori delle nazioni in via di modernizzazione.

Questi elementi non ricorrono nella guerra afgana né nella fase anti-sovietica né in quella anti-americana, perché sia il comunismo che il capitalismo globalizzatore comportano la sostituzione del “sistema di valori” delle società tradizionali, con quello d’importazione; e così dei titolari del potere legittimo. A farne le spese è in particolare la religione, onde la guerra che ne consegue presenta un accentuato carattere di conflitto di religione, che Croce già notava nelle insorgenze anti-francesi del 1799.

I talebani, data la loro formazione di studenti di teologia, si può dire che in questo hanno un vantaggio culturale sui loro avversari, i quali pensano che la superiorità tecnico-scientifica occidentale possa sostituire (o depotenziare, anche se di molto) la fede.

Errore antico e ripetuto. Suscita stupore che, allorquando circa vent’anni fa furono decise le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, si fosse anche teorizzato il contrario, di poter esportare con la forza la democrazia e lo Stato di diritto in società  così distanti da quella del cristianesimo occidentale di cui fa parte la potenza “liberatrice”; il tutto in qualche decennio e con i gendarmi alla porta.

Ma fare ciò significa pensare di ripetere in pochi lustri quanto da noi è stato concepito e realizzato in più di tredici secoli: dalla lotta per le investiture alla tolleranza, dalla Magna Charta alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dall’editto di Rotari al Code civil.

Oltretutto è sopravvalutato il ruolo che  un “sistema di valori”, per quanto appetibile, può avere rispetto ai fondamenti di un potere efficace ossia l’autorità o la legittimità, che non si vede come possa avere un occupante straniero, anche se liberatore.

Neanche in una società occidentale democratica il potere di un occupante– o del di esso Quisling – è legittimo perché carente di qualsiasi riferimento al popolo sia ideale che procedurale (e concreto). E non si comprende perché l’Afghanistan dovrebbe fare eccezione.

Concludendo, la caduta di Kabul induce due considerazioni.

La prima è che se gli afgani (o buona parte di essi) è riuscita a vincere due guerre partigiane con le maggiori superpotenze del pianeta, difendendo la propria in-dipendenza, non è detto che la marcia, fino a qualche anno fa (asseritamente) trionfante della globalizzazione non possa trovare altre battute d’arresto, si spera in modi meno cruenti.

La seconda  che l’impresa iniziata dopo l’11 settembre era difficile. Oggi si risponde che è comodo e facile giudicare col…senno di poi.

Ma in realtà, qua si trattava di senno di prima. Cioè di valutare gli eventi del passato, le riflessioni che avevano generato da un lato (le difficoltà delle rivoluzioni passive) nel conformare (anche) le istituzioni politiche, le controindicazioni all’uso della forza, dall’altro i fatti più recenti (come la vittoria sull’occupazione sovietica). Tutti ben noti e determinanti per capire che il tentativo di esportare la democrazia e diritti umani con eserciti stranieri, quisling, collaborazionisti non sarebbe andato a buon fine. Neanche – anzi forse ancor più – se non fosse stato un ipocrita involucro per occultare la volontà ed interessi di potenza (politica ed economica). Perché, come scriveva Machiavelli, a credere questo si va appresso non alla realtà dei fatti ma all’ “immaginazione” che se ne ha – o se ne vuole avere, col risultato di trovare la ruina propria, cioè la sconfitta sul campo. Puntualmente avvenuta.

Teodoro Klitsche de la Grange

Venezuela! Apparenze e realtà_intervista a Giuseppe Angiuli

Le informazioni che ci arrivano dal Venezuela devono attraversare un filtro molto selettivo costituito dai partigiani del regime di Maduro e dai suoi più feroci avversari. Comprensibile nel clima di scontro aperto ormai generatosi per la contrapposizione durissima all’interno del paese e per il gioco geopolitico cruciale in atto in una area, l’America Meridionale, sino a poco tempo fa considerata il cortile di casa esclusivo degli Stati Uniti. Quel continente ha conosciuto innumerevoli tentativi di emancipazione quasi tutti naufragati, con l’eccezione di Cuba, in pochi anni. Il Venezuela proseguirà su questa falsariga? Buon ascolto, Giuseppe Germinario

Giuseppe Angiuli aderisce al  Centro Studi per la promozione del Patriottismo Costituzionale. E’ una associazione politica che si pone quale obiettivo fondante il recupero della piena sovranità per l’Italia nell’auspicabile contesto di un nuovo mondo a carattere multipolare. 

Il Centro Studi organizza e promuove dibattiti, convegni e riflessioni prevalentemente sulle seguenti tematiche: critica al modello di  finanz-capitalismo globalista, liberazione dell’Italia dai Trattati ultra-liberisti dell’€urozona, adozione di misure ed interventi di tipo keynesiano in economia, rilancio del ruolo dirigista dello Stato nel campo della programmazione economica, rafforzamento di un sistema di welfare moderno ed inclusivo, ripristino di un modello solidale e garantista delle relazioni di lavoro.