RAPPORTO CONFIDENZIALE, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa, dalla sua postazione particolare, ci introduce amabilmente ormai da alcuni anni tra i retroscena e nei meandri della politica americana attraverso affreschi ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/crepe-nellimpero-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-il-19-marzo-2012-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/ ) e rapidi flash ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/la-rivolta-degli-sceriffi-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-su-www-conflittiestrategie-it-il-18-giugno-2016/ ). Adesso tocca ad uno dei dinosauri di quello scenario, pur pesantemente acciaccato ormai, ad essere oggetto di attenzioni: Hillary Clinton. Se la rappresentazione offerta dalla CNN dovesse essere corretta, c’è da rimanere esterrefatti. Possibile che un politico di quel livello, dal curriculum così impressionante, sia capace di una analisi ed una interpretazione così rozza e squinternata dell’esito delle recenti elezioni presidenziali? Ad un politico ancora in attività, seppure sulla via del tramonto, non è possibile pretendere un giudizio obbiettivo, indipendente dalle conseguenze politiche. Colpisce, però, la rozza strumentalità delle accuse e l’incapacità di cogliere la novità e l’efficacia della conduzione della campagna elettorale del suo acerrimo avversario; il mix di raccolta di dati, gestione, intervento mirato sul territorio, uso combinato di tecniche tradizionali e innovative. Un errore imperdonabile , per una professionista della politica. Ci sarebbe da prendere atto di un fallimento quasi esistenziale di questa classe dirigente formatasi negli anni ’90 e successivi in un agone senza veri competitori e avversari politici, se avversari possono chiamarsi i vari Boris Eltsin, Scalfaro, Letta, D’Alema, Ciampi, Merkel, Sarkozy. Una classe dirigente abituata evidentemente a vincere facile e poco avvezza allo scontro duro con competitori reali. Una classe dirigente che ha infatti dilapidato in pochissimi anni un potenziale egemonico apparentemente superiore a quello dell’Inghilterra del secolo XIX. Lascio al più autorevole Campa il compito di discettare in futuro della condizione del suo paese. Preme sottolineare, piuttosto, la conferma della condizione peregrina della nostra classe dirigente, in particolare della cosiddetta sinistra. Abbiamo visto, in questi anni recenti, dirigenti qualificati, come Massimo d’Alema, gonfiare talmente di compiacimento il proprio gracile corpo da insufflare persino le proprie gote al cospetto e nelle grazie ostentate di Hillary Clinton; abbiamo visto i suoi numerosi epigoni, in particolare di genere femminile, tra questi la Dassù, la Pinotti, la Mogherini, accorrere affannosamente e senza ritegno, al momento dell’assegnazione del loro incarico istituzionale, nemmeno dai diretti referenti istituzionali americani, ma attraverso i sensali, capaci di aprire loro almeno le porte di servizio ( http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/giuseppe-germinario/.  ) Una progenie politica che, evidentemente, ha evitato di analizzare seriamente gli errori e i meriti del proprio passato;  ha semplicemente rimosso gli antefatti e, con questo, pronto a assorbire dai più potenti il peggio, trascinando il paese lentamente nella attuale disastrosa condizione, pur di sopravvivere a se stessi. Sembrano ormai destinati a soccombere; ma non è detto che il paese, pur liberatosi dal fardello, riesca ugualmente ad emergere. Germinario Giuseppe

Il libro di Hillary Clinton sulla campagna presidenziale dell’anno scorso, uscirà nelle librerie degli Stati Uniti il 12 Settembre, ma già si conoscono importanti passaggi dei suoi contenuti del testo  dal titolo “What Happened” (Cosa e` Successo). Potrei spiegare tranquillamente io alla Signora Clinton cose è successo; ma la Clinton nel libro si ostina ad elaborare una serie di teorie che hanno contribuito secondo lei alla sconfitta della sua campagna elettorale e di conseguenza alla vittoria del presidente Donald Trump.

Il libro è stato acquistato in Florida dalla CNN una settimana prima del previsto lancio. Grazie alla sua tempestività si possono apprezzare alcuni passaggi dell’opera.

Puoi biasimare i dati, incolpare il messaggio, incolpare tutto quello che vuoi – ma io ero il candidato” scrive.Era la mia campagna, quelle sono le mie decisioni“. La Clinton ammette di aver anche sottovalutato Trump.

Penso che sia giusto dire che non ho capito quanto velocemente il terreno si stava spostando sotto i nostri piedi“, scrive. “Stavo correndo una tradizionale campagna presidenziale con politiche accuratamente pensate e coalizioni costruite minuziosamente, mentre Trump stava gestendo un reality show televisivo che ha saputo coltivare in modo irresistibile facendo leva sulla rabbia degli americani“.

Poi la Clinton punta il dito contro il direttore dell’FBI James Comey quando ha riaperto l’inchiesta sullo scandalo delle emails classificate.”La lettera di Comey ha sconvolto la campagna presidenziale” scrive Clinton.

Nel libro, Clinton parla anche del suo matrimonio con l’ex presidente Bill Clinton e osserva che  “Ci sono stati momenti in cui ero profondamente incerta se il nostro matrimonio doveva continuare o meno, ma in quei giorni mi sono fatta le domande importanti: lo amo ancora? Posso rimanere in questo matrimonio senza diventare irriconoscibile a me stessa- contorta dalla rabbia, dal risentimento o dalla solitudine? Le risposte erano sempre affermative”.

Ha anche affrontato l’intromissione della Russia nelle elezioni del 2016 e si chiede se una risposta più forte da parte del presidente Barack Obama avrebbe aiutato. Su Vladimir Putin, Clinton sostiene di aver meditato una vendetta; “non avrei mai immaginato che Putin avesse l’audacia di lanciare un massiccio attacco contro la nostra democrazia, proprio sotto i nostri nasi – e di averla fatta anche franca”. Personalmente su questo passaggio non saprei se ridere o piangere talmente ridicola risalta la affermazione di Clinton. HC si rammarica per non avere potuto fargliela pagare, a Putin. “Non aspettavo altro che mostrare a Putin come i suoi sforzi per influenzare le nostre elezione, installando un amichevole burattino (Trump), erano falliti”, scrive. “So che Putin gode di tutto quello che è successo, ma ride bene chi ride ultimo…“.

Inoltre Clinton afferma che “Ci sono  molte persone che speravano che anche io scomparissi, ma sono ancora qui.”

Apparentemente la Clinton nel libro attribuisce anche molte colpe della perdita delle elezioni anche  a Bernie Sanders, Joe Biden, Barack Obama e altri.

L’uscita del libro di Clinton avviene nel momento in cui il libro della sua guida spirituale, il pastore Metodista; Bill Shillady è stato ritirato dagli scaffali delle Librerie con l’accusa di Plagio. Il libro intitolato: “The Daily Devotions of Hillary Rodham Clinton” (Le devozioni quotidiane di Hillary Rodham Clinton),  è una raccolta delle e-mails che lui e altri ministri hanno inviato all’ex Segretario di Stato ogni quotidianamente durante la campagna presidenziale del 2016. Ogni e-mails devotamente composta ogni mattina alle 4 in punto, conteneva un brano della Scrittura, un breve sermone e una preghiera per lei da recitare quel giorno.

Alla fine sulla domanda della Clinton; Cosa e Successo? La risposta è più semplice di quello che sembra: E` successo che Trump ha vinto e la Clinton ha perso. Quello che invece continuiamo a non sapere e che fine hanno fatto le 33.000 emails che la signora Clinton ha eliminato dal suo server…Quello si richiede una risposta che ancora non è arrivata e forse mai arriverà…

Penso che ogni analisi sia superflua. Ogni volta che sento la Clinton parlare, scrivere o semplicemente respirare, mi rendo conto che con tutte le sue debolezze, le sue incertezze, la sua approssimazione, Trump a suo modo e` stata una salvezza.

10° Podcast _ DALLAS o WATERGATE? Tertium datur: l’avventurismo, di Gianfranco Campa

Sono poche le voci in grado di fornire informazioni e soprattutto interpretazioni fondate sugli avvenimenti cruciali che da quasi un anno investono e si dipartono dalla Casa Bianca. Gianfranco Campa, con la sua partecipazione emotiva, ci conduce nelle stanze dove si sta consumando una battaglia politica di insolita cruenza. Raramente il conflitto politico tra gruppi dirigenti assume contorni così espliciti. Gli obbiettivi e le intenzioni sono adattati alle strategie e alle tattiche, se non sacrificati alle esigenze di sopravvivenza di uno dei contendenti. La distinzione che i teorici più accorti fanno tra regnanti, governanti e dominanti appare a tratti anche agli osservatori meno esperti. Una cosa mi pare ormai certa. Il vecchio establishment, dovesse prevalere, non potrà più tornare alle vecchie tattiche e appare incapace di intravedere nuove strategie; la permanenza di questo conflitto nei termini così acuti rischia di trascinare l’intera classe dirigente americana in una condizione caotica di stallo in grado di innescare una condizione di declino e pregiudicare ulteriormente la coesione di quella formazione sociale. Si vedrà sino a che punto i paesi rivali saranno in grado di approfittare di questa situazione. Giuseppe Germinario

A CASA DELLO ZIO SAM, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link di un convegno dal titolo “L’agenda Trump…..” tenutosi il 9 marzo scorso presso il CSA di Roma (si deve copiare ed incollare l’indirizzo). Consiglio di partire dal minuto ’54 con l’intervento di Mauro Moretti, allora amministratore delegato di Leonardo/Finmeccanica, la risposta di Caracciolo e la replica dell’allora amministratore delegato di Leonardo per poi proseguire con l’inizio della registrazione. Non conosco i motivi di tanta schiettezza dimostrata da Moretti. Sembrava quasi un suo momento di liberazione. Moretti probabilmente conosceva già la decisione della mancata conferma del suo incarico. Che le sue traversie giudiziarie siano legate anche alla sua collocazione politica? Si vedrà.

Il CSA, Centro Studi Americani, con sede in via Caetani, è una associazione con lo scopo dichiarato di ” sostenere e promuovere il dialogo e la reciproca conoscenza tra gli Stati Uniti e l’Italia”. Leonardo/Finmeccanica è socio dell’associazione.  Buon ascolto- Giuseppe Germinario

(Si deve copiare e incollare l’indirizzo)

http://centrostudiamericani.org/lagenda-di-trump-gli-stati-uniti-e-il-mondo-dopo-il-voto-americano-giovedi-9-marzo-ore-18-00/

Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia. di Luigi Longo 2a parte

 

link della 1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/05/09/gli-stati-uniti-e-lo-spettro-della-russia-di-luigi-longo/

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

La fase di transizione

Quando dico che la grande nazione imperiale USA è in fase di declino non intendo assolutamente che essa smette di lottare per il mantenimento o per una rinnovata supremazia mondiale ( intesa come centro di coordinamento per un nuovo ordine mondiale), per la semplice ragione che è ancora lunga la fase di transizione di egemonia mondiale verso una nuova potenza o una rinnovata egemonia: << Il nostro confronto delle passate egemonie mostra che il ruolo di nuove potenze aggressive nell’affrettare i crolli sistemici è diminuito di transizione in transizione, mentre è cresciuto il ruolo giocato dalla dominazione sfruttatrice esercitata dalla potenza egemone in declino […] Non ci sono nuove potenze aggressive credibili che possono provocare il crollo del sistema mondiale imperniato sugli Stati Uniti, ma, rispetto alla Gran Bretagna un secolo fa, gli Stati Uniti hanno possibilità anche maggiori di trasformare la loro potenza egemonica in declino in una dominazione sfruttatrice. Se alla fine il sistema crollerà, sarà principalmente per la refrattarietà degli Stati Uniti all’adattamento e alla conciliazione.>> (8).

Affinchè ci siano le condizioni di passaggio di egemonia da una potenza in declino ad un’altra occorrono le seguenti condizioni. << […] i paesi emergenti devono essere rispetto alla potenza in declino:

  1. più larghi e diversificati geograficamente;

  2. più efficienti economicamente e organizzativamente;

  3. più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato mondiale e sistema interstatale;

  4. più inclusivi socialmente all’interno;

  5. più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi [ funzionari del capitale, mia specificazione lagrassiana] a quelli dello forze organizzate del lavoro subalterno.

Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione egemonica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verificatesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. In questo caso, gli Stati Uniti hanno offerto al processo accumulativo:

  1. un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey (9) [ il termine spatial fix è di difficile traduzione e, perciò, si preferisce mantenere la dicitura inglese, anche se potrebbe essere impropriamente tradotto con soluzione spaziale così il traduttore Michele Dal Lago (9), mia precisazione ], più vasto e vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese;

  2. un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole economicamente e più efficiente organizzativamente della manifattura inglese;

  3. un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistema interstatale più complesso e stratificato ( dall’Fmi all’Onu) di quello inglese, basato su gold standard e concerto europeo;

  4. un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese alla soddisfazione degli interessi dei lavoratori;

  5. un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla conservazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capace di elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzioni significative del proletariato mondiale.

Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche succede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni volta diversa per ciascuna transizione egemonica. >> (10).

Le due potenze emergenti mondiali, Russia e Cina, non sono in grado di creare le condizioni per la sostituzione della potenza mondiale egemone, ammesso e non concesso che esse aspirino ad un dominio mondiale e non semplicemente, come lascia pensare la loro storia, ad una fase multicentrica ( che ritardi o annulli la fase policentrica del conflitto mondiale) nella quale confrontarsi su una visione diversa delle relazioni internazionali a partire dalla propria autonomia nazionale, dalla propria cultura, dal proprio legame sociale e dalla propria peculiarità territoriale.

Gli strateghi statunitensi non vogliono perdere il loro ruolo di grande nazione imperiale e temono il formarsi e il consolidarsi di poli, di aree, di regioni aggreganti intorno alle due potenze emergenti, in grado di mettere in discussione il loro dominio mondiale. Per questa ragione avendo scelto la strada di egemonia sfruttatrice, gli Stati Uniti sono la potenza mondiale più spregiudicata e pericolosa per l’intera umanità considerato, il livello di strategia atomica avanzata e radicale raggiunto. Alain Badiou, non molto tempo fa, sosteneva che:<< La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza.>> (11).

Gianfranco La Grassa dichiara che:<< L’eccezionalità del “mondo bipolare”, durato abbastanza a lungo, ha assicurato nella parte “centrale” del mondo (quella più sviluppata) un periodo di pace, legato però alla subordinazione di molti paesi all’uno o all’altro polo. Adesso siamo entrati in una fase molto diversa, che per di più va cambiando a sua volta “pelle” in periodi successivi e con il tentativo del predominante di uno dei due poli (il sopravvissuto) di avere il completo controllo della situazione. Tale tentativo non è per nulla favorevole al mantenimento di un minimo di equilibrio; da qui il disordine crescente attuale. Quindi, quel predominante (evidentemente gli Usa) deve essere contrastato e si deve arrivare al punto che esso si trovi nella situazione di rischiare tantissimo insistendo sulla sua prepotenza e arroganza. Non si ottiene questo risultato se non con l’unione degli sforzi di alcuni altri paesi, in cui si verifichi la presa del potere da parte di forze politiche capaci di decisa autonomia e di collegarsi fra loro in funzione anti-predominante>> (12).

Gli Stati Uniti si preoccupano, nel medio periodo, soprattutto della Russia (13) sia perché è stata la storica nemica del “mondo bipolare”, sia perché è la nazione centrale tra Asia e Europa ( il cuore della terra, l’immenso territorio bicontinentale), sia perché è stata la nazione dove è avvenuto un evento storico di grande importanza: la rivoluzione dei dominati che a partire dall’atroce macelleria della prima guerra mondiale hanno sperato in un mondo migliore. La lezione storica della rivoluzione russa indica che la maggioranza della popolazione se si organizza, pensa e progetta, può cambiare l’ordine costituito e pensare un nuovo legame sociale e nuovi rapporti sociali e questo a prescindere dal giudizio storico sulla rivoluzione russa del 1917.

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

NOTE

8. Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op.cit., pag. 336.

9. David Harvey, The geopolitics of capitalism in Social relations and spatial structure, a cura di, D. Gregory e J. Urry, Londra, Mcmillan, 1985, pp.128-163, ora in Giovanna Vertova, a cura di, Lo spazio del capitale. La riscoperta della dimensione geografica nel marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 2009, pp. 97-147.

10. Giorgio Cesarale, Le lezioni di Giovanni Arrighi in Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, op. cit., pp.19-20; sulla riorganizzazione sistemica statunitense si veda anche Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, op.cit., pp.41-43.

11. La citazione di Alain Badiou è tratta da Alain de Benoist, L’impero del “bene”. Riflessioni sull’America d’oggi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2004, pag. 107.

12. Gianfranco La Grassa, Alcune verità che sembrano dimenticate, www.conflittiestrategie.it, 29/4/2017.

13. La Cina è sostanzialmente una potenza economica mondiale funzionale alla logica imperiale USA: cosa è l’enorme surplus commerciale cinese pari a 347 miliardi di dollari e il consistente debito pubblico statunitense pari a 1058 miliardi di dollari che detiene se non una relazione “economico-finanziaria” asimmetrica a favore degli Stati Uniti: << Esportatori netti, tali paesi [ Giappone, Cina, India, Russia, eccetera, mia precisazione] sono costretti ad acquistare titoli di stato USA per mantenere apprezzato il dollaro e reinvestire il surplus commerciale nel più stabile luogo della terra, l’unico a non aver mai conosciuto cambi di regime. In nuce: per mantenere il benessere del loro principale acquirente, nonché garante delle vie di comunicazioni. Da qui l’accorato appello di Xi Jiuping per il mantenimento dell’attuale schema a guida americana >> ( Dario Fabbri, op. cit., pag.38). Per non parlare degli investimenti diretti e indiretti all’estero “propulsivi” ( investimenti fissi e azioni) per gli USA e “passivi” per Cina e Russia: << Gli Stati Uniti investono nel resto del mondo in maniera diretta- impianti- o in maniera indiretta-azioni- dieci volte più della Cina e della Russia messi insieme. Intanto che avviene questo, la gran parte delle riserve dei paesi che hanno accumulato avanzi commerciali- come la Cina, la Russia e i paesi produttori di petrolio- è trasformata in riserva in dollari ( e minor misura in euro) […] la maggior ricchezza cumulata da questi due paesi da quando è cambiato il sistema ( dagli anni Ottanta in Cina, dagli anni Novanta in Russia) non ha ancora spinto verso la strada della “dinamicità”. Questi due paesi, che per ora comprano- per bilanciare i propri avanzi commerciali – i buoni Tesoro degli Stati Uniti, potrebbero però- col passare del tempo- diventare dinamici nel campo degli investimenti esteri >>. Per non dire, infine, della moneta come riserva di valore (USA):<< […] si noti che per ora la Cina e la Russia investono all’estero, mentre spingono per l’uso delle proprie monete come mezzo di scambio che però è cosa ben diversa dalla moneta come riserva di valore >> ( Giorgio Arfaras, op. cit., pp.52-53).

 

 

LA RIVINCITA _ EN MARCHE, di Giuseppe Germinario

Il colpo clamorosamente fallito sette mesi fa a Washington, negli Stati Uniti, è perfettamente riuscito questa volta, il 7 maggio, a Parigi. Almeno per adesso.

Gli artefici dei due eventi appartengono, fatte salve le dovute gerarchie, allo stesso establishment. La compattezza del sodalizio è apparsa lampante al momento della sconfitta della Clinton; così pure la complicità e la simbiosi inestricabile di quel groviglio di affinità ed interessi svelate dai ripetuti attacchi del tutto inusitati nella loro forma e natura e dal muro eretto dalle due sponde dell’Atlantico contro il neopresidente americano.

Nessuna giustificazione a posteriori delle repentine ed improvvide giravolte di Trump; piuttosto una semplice constatazione.

A novembre l’inaspettata vittoria di “the Donald” aveva potuto contare sulla supponenza di una classe dirigente sicura del proprio totale controllo dei media tradizionali e sull’accondiscendenza e la complicità delle gerarchie addomesticate dalle epurazioni perpetrate negli ultimi venti anni tra gli alti gradi militari, negli apparati amministrativi e nell’intelligence e culminate nell’apoteosi degli ultimi sei di amministrazione Obama; tanto supponente da riproporre imperterrita una vecchia guardia ormai logorata. Una élite talmente tronfia da tollerare l’ascesa di un outsider alle primarie repubblicane nella convinzione che fosse il miglior nemico da battere alle presidenziali; vittima sacrificale più o meno inconsapevole sull’altare della sacra alleanza tra esportatori di diritti umani e interventisti militari fautrice dei numerosi focolai di guerra sempre più pericolosamente prossimi al nemico dichiarato: la Russia di Vladimir Putin. Una sicumera che ha accecato la loro mente e reso invisibile sino ad un paio di settimane dalla scadenza elettorale l’azione coordinata di un manipolo di “carbonari cospiratori”. Tanto limitato nel numero quanto compatto e sagace nello sfruttare ogni interstizio ed ogni crepa di quel moloch per scovare una improbabile candidatura, nello stringere i giusti contatti tra le pieghe degli apparati insofferenti ed esasperati da quella strategia, nel canalizzare con nuovi strumenti il consenso a un nuovo corso sino al successo finale di Trump.

Quanto quel successo si sia rivelato al momento e per il prossimo futuro effimero e foriero di un trasformismo che sta riconducendo rapidamente lo scontro politico nell’alveo e nelle ambizioni tradizionali della politica americana, pare ormai probabile; non basta però a ridimensionare la rilevanza di quell’impresa. Lo testimonia l’acutezza dello scontro ancora in atto dal giorno del suffragio e la inusitata trasparenza di un conflitto che in altri frangenti si ha solitamente cura di condurre dietro le quinte. Segno che i giochi non sono ancora conclusi, né tanto meno il risultato consolidato. Qualche avvisaglia di un ritorno alle intenzioni originarie infatti lo si coglie nella rimozione del capo del FBI, nella decisione di armare i curdi, nella gestione dell’esito elettorale in Corea del Sud favorevole ad una maggiore apertura a Cina e NordCorea. Staremo a vedere.

Con Macron, invece, è filato tutto meravigliosamente liscio.

La Francia di Le Pen e forse di Fillon avrebbe potuto diventare quella sponda necessaria a recuperare almeno alcuni aspetti delle originarie intenzioni in politica estera dichiarate a piena voce da Trump; a costruire un ponte stavolta più discreto verso la Russia di Putin, ad isolare quella classe dirigente tedesca così implicata e imbrigliata nelle strategie demo-neocon americane. Una evenienza da scongiurare assolutamente, secondo i canoni del politicamente corretto.

Da qui la selezione di un candidato, fresco di età e di esperienza sulla scena politica, ma già navigato nella tessitura di relazioni; da qui il suo repentino distacco dalla gestione presidenziale di Hollande, l’apparente ripudio della tradizione politica della sinistra socialista e della destra repubblicana conservatrice e la fondazione di un movimento di rinascita nazionale basato sull’iperattivismo e l’esasperazione delle attuali politiche di declino piuttosto che su un reale programma di rifondazione del paese e della nazione.

Agli evidenti impacci di gioventù del neofita ha sopperito per il resto l’incensamento mediatico orchestrato dai gruppi editoriali, tutti, ancor più che nella precedente avventura americana, direttamente implicati nella campagna elettorale e impegnati nella costruzione del personaggio come nel censurare apertamente sin dalla fonte le informazioni controproducenti. Ad essi si è aggiunta una sottile campagna giudiziaria tesa a eliminare l’avversario più pericoloso, Fillon, per quanto scialbo e improvvido, e a insinuare il discredito verso Marine Le Pen, la candidata vincente al ballottaggio, ma con ancora sulla fronte il marchio pur sbiadito dei collaborazionisti, dei traditori della Resistenza e della Repubblica e del razzismo da additare agli indignati o sedicenti tali.

Il successo di Macron è incontrovertibile, ma non così schiacciante e solido come la percentuale dei voti e il battage mediatico lascerebbero intendere. Non va sottovalutata la capacità di aggregazione e di ricomposizione degli interessi, ma nemmeno la loro fragilità e scarsa pervasività.

Ci sarebbero i milioni di schede bianche e nulle a certificare che il muro non è più così granitico e che tra i due schieramenti esiste ormai una zona grigia contendibile o quanto meno neutrale.

Buona parte dei voti presi, a dispetto dell’ostentata positività di Macron, sono voti contro l’avversario piuttosto che a lui favorevoli; disponibili probabilmente a rientrare in qualche misura nell’alveo classico dei vecchi partiti e ad alimentare una frammentazione politica propedeutica alla paralisi e allo stallo.

Il sostegno proviene da un movimento, “en marche”, dalle scarse probabilità di diventare una forza strutturata, mosso da motivazioni generiche; l’humus destinato a alimentare uno scontro di oligarchie tanto agguerrite quanto ristrette, rissose e instabili perché svincolate dalla ricerca di consensi organizzati estesi. Una dinamica che porta a sconvolgere le modalità di cooperazione e conflitto tra centri di potere così come regolate.

La grande stampa ha già iniziato ad evidenziare il gaullismo di Macron dimenticando che l’ascesa di De Gaulle coincise con il suo isolamento politico nell’Europa comunitaria dei Sei giustapposto ad un recupero dei legami con l’Unione Sovietica e con il mondo arabo; in particolare con un progetto di comunità europea antitetico a quello di Macron. Il richiamo al gaullismo appare credibile solo perché quel movimento è ormai frammentato e disperso in gran parte tra chi per recuperare parte degli antichi fasti perduti ha spinto verso la sudditanza atlantista e chi sogna un recupero della “grandeur” della Francia anacronistica e velleitaria dovesse prescindere da una politica di alleanze tra i più grandi paesi europei che si affranchi dalla sudditanza scaturita nel secondo dopoguerra. Non è casuale il silenzio di Macron sulla crisi che sta investendo l’organizzazione dell’ossatura economica delle passate ambizioni gaulliste: l’industria nucleare, quella del complesso militare e la meccanica pesante. La rivendicazione di una Unione Europea riformata rischia ancora una volta  di risolversi nella versione francese della battaglia renziana sui decimali di deficit da conquistare, su un efficientismo apparentemente fine a se stesso e su una precarizzazione dell’economia.

Il suo reale programma si può arguire dalla statura dei sostenitori indigeni e stranieri, a cominciare da Obama, già attivamente impegnato due anni fa nella ricerca di un candidato alle elezioni presidenziali francesi. Sta di fatto che, fondata sulla disgregazione dei due partiti tradizionali, in particolare il Partito Socialista, piuttosto che sulla loro trasformazione, Macron è riuscito al momento laddove in Italia Renzi ha subito un drastico rallentamento.

LIMITI DEL MINORITARISMO

La forza e la persistenza di Macron non rifulge però solo di luce propria; deriva soprattutto dalla incertezza, dalla approssimazione e dalle ambiguità delle due forze contrapposte, opposizioni nell’indole e nell’anima; quella di sinistra di Melenchon e quella del Front National di Marine Le Pen.

Opposizioni per l’appunto, non forze alternative di governo.

Sino a quando la sinistra continuerà a fondare la propria azione sugli esclusi, sugli “indisciplinati”, sugli “insoumis” (ribelli, non sottomessi) per esistere avrà sempre bisogno di oppressori; sarà sempre destinata ad essere forza di mera redistribuzione, di rimessa rispetto ad altri decisori, di sostanziale collateralismo. Negli ultimi tempi lo si è visto con “Podemos” in Spagna e con Syriza in Grecia. Melenchon sembra destinato a seguire quella traiettoria solo con qualche convulsione e conflitto più radicale e con qualche attenzione in più alla condizione dello Stato, come da tradizione francese.

L’ultimo  confronto preelettorale tra Le Pen e Macron ha rivelato come questa impronta non sia una prerogativa della sola sinistra, ma continua a pregiudicare l’aspirazione del Fronte Nazionale a costruire una linea coerente di ricostruzione nazionale e un indirizzo di politica estera tesa a fondare un’alleanza dei principali paesi europei in grado di sostenere il confronto soprattutto con gli Stati Uniti libero da rapporti di sudditanza.

Non è l’unico indizio rivelatore di tale incapacità.

Quattro anni fa ci fu un primo avvicinamento tra alcune componenti gaulliste meno attratte dalla svolta atlantista degli ultimi dieci anni e il FN. Avrebbe potuto fornire l’embrione di una nuova classe dirigente in grado di consentire il controllo degli apparati statali e l’attuazione concreta delle linee operative. Un avvicinamento durato appena due anni e in gran parte malamente rifluito. Non è un caso che il sostegno garantito da Dupont-Aignan non sia riuscito nemmeno a convogliare la totalità dei propri voti su Le Pen. La stessa campagna elettorale non solo ha conosciuto oscillazioni repentine e contraddittorie delle parole d’ordine e una debolezza di argomentazioni specie sul futuro dell’Unione Europea; ha rivelato un comportamento schizofrenico con linee e comportamenti antitetici degli esponenti tra un distretto elettorale e l’altro. La stessa performance protestataria poco presidenziale tenuta nell’ultimo confronto, più che a un errore o a un cattivo consiglio potrebbe essere, al netto di eventuali trappole ben congegnate del contendente, il risultato dell’impulso di contenere innanzi tutto il dissenso della componente identitaria del partito reso alla fine pubblico con la rinuncia della nipote Marion Le Pen a candidarsi alle elezioni parlamentari di giugno.

Sta di fatto che un pur rispettabile incremento di consensi, inferiore per altro alle aspettative, rischia di risolversi in uno stallo che impedirà l’assunzione della leadership e la definitiva maturazione di una forza nazionale scevra da grandi lacerazioni e fratture traumatiche.

A differenza della leadership americana, in Italia ed in Francia il tentativo in atto nasce da una rimozione improbabile di retaggi politici originari di queste formazioni, assolutamente incompatibili con il nuovo corso auspicabile.

Se, inoltre, in qualche maniera negli Stati Uniti si è trattato di uno scontro politico sostanzialmente impermeabile ad influenze esterne, vista la posizione dominante di quel paese, in Francia tali influssi risultano determinanti anche se non dalla direzione denunciata dalla stampa, quella russa. Si può affermare, al contrario, che l’interesse di quest’ultima sia scemato man mano che risaltavano le contraddizioni del movimento.

La recente tornata elettorale in Austria, Olanda, Stati Uniti e Francia ha rivelato ciò che la scuola del realismo politico ha sempre evidenziato. Le elezioni politiche “democratiche” non sono il momento fondamentale e decisivo del confronto politico.

Intanto i centri decisivi di potere, luoghi di confronto e conflitto di gruppi decisionali, coincidono solo marginalmente con le sedi di governo, in particolare quelli su base elettiva. Il controllo o la destrutturazione di quei centri è decisivo per l’affermazione o meno delle strategie politiche. Ogni forma di confronto e conflitto politico, anche quello più partecipato, si sviluppa tramite l’azione di gruppi dirigenti e con la manipolazione delle leve di potere e degli strumenti di formazione ed informazione secondo i punti di vista di gruppi dirigenti più o meno emergenti. La formazione di blocchi di consenso sono, quindi, sempre il frutto di azione politica. La detenzione delle leve di governo non comporta necessariamente la detenzione delle leve di potere. Una formazione politica tesa al cambiamento ma tutta concentrata nella competizione elettorale è destinata per tanto a vivere cocenti delusioni se non pesanti trasformismi dettati dalla realtà dello scontro politico.

PRIGIONIERI DEI PROPRI SLOGAN 

Anche se essenziale, il limite decisivo che impedisce il salto di qualità alle forze cosiddette sovraniste non è questo.

Il dibattito e lo scontro politico di questi ultimi anni si è sviluppato secondo dicotomie semplificatrici: sovranismo/globalismo, stato/sovrastatalismo, nazionalismo/mondialismo, pubblico/privato, protezionismo/liberismo, tecnocrazia/popolo, mercato/comunità, élite/popolo e così via.

Una dinamica comprensibile e inevitabile in una fase di stridenti contraddizioni, di contrapposizione aperta ad una ideologia sino a poco tempo fa ormai sulla soglia dell’affermazione del pensiero unico.

In effetti è servita a riproporre il ruolo e la funzione dello Stato e delle comunità nazionali, quello delle strategie e della decisione politica nei vari ambiti dell’agire umano, compreso quello economico, nonché il problema della costruzione di formazioni sociali e comunità nazionali più coese ed inclusive, fondate su valori condivisi piuttosto che sul mero scambio di valori economici.

Una rappresentazione antitetica elementare, necessaria a fondare un punto di vista e a motivare e compattare schieramenti politici, nel tempo può diventare fuorviante se non addirittura un ostacolo all’affermazione in mancanza di una analisi concreta e di una tattica efficace di una leadership politica.

L’assolutizzazione dei poli della coppia protezionismo/liberismo rimuove il fatto che il mercato, anche il più liberista, è comunque un luogo normato  attraverso il quale si afferma il predominio di una formazione sociale sull’altra; un luogo dove le tariffe doganali assumono un’importanza sempre minore e dove divengono predominanti la definizione delle caratteristiche dei prodotti, le modalità di formazione ed espansione delle imprese, la regolazione del commercio estero, il controllo dei flussi finanziari, l’orientamento del mercato interno, la detenzione delle tecnologie, ect. Lo scontro politico va condotto sulla definizione di queste norme e gli esempi storici, oggetto di analisi e studio, di formazione di sistemi economici sono innumerevoli.

L’analoga assolutizzazione dei poli pubblico/privato tende ad identificare il pubblico come bene esclusivo della collettività contrapposto all’interesse privato nell’economia. Riduce ad un aspetto morale una necessità storica, ignora che la funzione pubblica, con modalità diverse, è altrettanto importante anche nelle gestioni più privatistiche come quella americana, glissa sul fatto che anche il pubblico è gestito da élites e centri di potere in competizione.

Quella tra sovranismo e globalismo tende a mettere in relazione un concetto di potere con un flusso di relazioni molecolari, quando in realtà anche i più accesi globalisti, almeno quelli non accecati dalla taumaturgia delle parole, comprendono e utilizzano benissimo il ruolo fondamentale degli stati di appartenenza a scapito degli altri.

Lo stesso vale per le altre dicotomie, sulle quali si dovrebbe riflettere piuttosto che ridurre a slogan.

Più che per il valore intrinseco, i poli delle dicotomie andrebbero valorizzati in relazione agli obbiettivi politici di un gruppo dirigente. Il rischio, altrimenti, è di ricadere in una ottica reazionaria che cambi semplicemente le modalità di degrado delle formazioni sociali e in operazioni trasformistiche dal respiro corto.

Il recupero, la ridefinizione ed il rafforzamento delle prerogative degli stati nazionali devono essere, quindi, lo strumento e la modalità attraverso le quali ridefinire le relazioni internazionali, così come si sono delineate ad esempio nell’Unione Europea, sia nella definizione di una politica estera autonoma, sia nella regolamentazione ad esempio di un mercato che consenta la formazione di imprese adeguate nelle dimensioni e nelle capacità tecnologiche e impedisca la distruzione delle capacità produttive e manageriali di interi settori e paesi, sia nella composizione di formazioni sociali più coese e dinamiche dove possano trovare posto anche gli attuali “esclusi”.

La perdurante, anche se ormai logorata, superiorità   del vecchio establishment deriva soprattutto dalla paralisi di una nuova classe dirigente ancora prigioniera dei propri slogan.

In Francia il Fronte Nazionale si sta avvicinando rapidamente ad una cruenta resa dei conti interni con un successo elettorale insufficiente a garantire il netto predominio dell’attuale gruppo dirigente e a favorire il processo di affrancamento da un atteggiamento minoritario. L’ambizione, quindi, di guidare un fronte gaullista/sovranista appare al momento frustrata; sarebbe già significativo riuscire a svolgere e mantenere un ruolo da comprimario.

In Italia la situazione appare ancora più disgregata, proprio perché gli attuali maggiori aspiranti a dirigere un tale movimento non provengono nemmeno da forze di impronta nazionale e devono, quindi, liberarsi di retaggi ancora più vincolanti per assumere una linea sufficientemente coerente e realistica.

 

PODCAST NR 4- Trump licenzia James Comey direttore dell’FBI, di Gianfranco Campa

Con il licenziamento del capo del FBI, gli equilibri interni all’amministrazione Trump sembrano subire un nuovo cambiamento, questa volta più favorevole al nucleo storico duramente ridimensionato dalle dimissioni di Flynn, dalla defenestrazione di Bannon e dal sopravvento di Matis a Segretario della Difesa. Due mesi fa Comey affermava al Congresso Americano che le indagini non riguardavano il Presidente, ma lo staff che lo ha portato a vincere le elezioni. Voleva essere forse un segnale di salvezza a Trump in cambio del sacrificio dei collaboratori più fedeli; ma era probabilmente anche la confessione che il vecchio establishment intendeva eliminare ogni condizione che riproducesse in futuro una tale situazione. Una guerra senza prigionieri. Dopo i primi cedimenti, probabilmente Trump non deve aver evidentemente creduto al proprio salvacondotto. Contemporaneamente, nello scacchiere internazionale l’esito elettorale in Corea del Sud, il sostegno militare diretto ai curdi siriani, i prossimi colloqui israelo-palestinesi, i primi contatti ufficiali tra i massimi diplomatici russi e americani sembrano indebolire alcune recenti scelte interventiste americane nel Pacifico e delineare meglio gli orientamenti in Medio Oriente e le basi di una trattativa. L’offensiva del vecchio establishment che da mesi cerca di logorare e annichilire la nuova amministrazione assume sempre più i connotati di una fibrillazione di una forza tanto potente ma dallo scarso respiro strategico. La vera cartina di tornasole sarà il ruolo che i militari alla testa del Segretariato alla Difesa sapranno conservare o meno. Qualche crepa comincia a manifestarsi. Si vedrà. Comey è stato accusato anche dai democratici per aver avvallato per pochi giorni le indagini sulla Clinton stessa, legate alle rivelazioni sulle sue mail.  In realtà è stato costretto dalla veementi pressioni di settori stessi del FBI e della Polizia di New York a cedere per alcune settimane. Quello che è certo è che il conflitto politico negli USA sta sempre più assumendo l’aspetto di uno scontro cruento che sta erodendo ulteriormente la coesione di quella formazione sociale. Qui sotto i link del memorandum di accusa a Comey  (http://www.dolphnsix.com/news/3745892/rosenstein-memo ) e del documento dell’agente britannico da cui è partita la campagna sulle presunte intromissioni russe (https://www.documentcloud.org/documents/3259984-Trump-Intelligence-Allegations.html). Buon ascolto _ Giuseppe Germinario

SOTTO LA COPERTURA DELLE TENEBRE, di Gianfranco Campa

Mentre si infiamma la guerra civile, attualmente in atto tra le orde  Sorosiane/Obamiane/Clintoniane/Neoconiane da un lato e la armata Brancaleone/Trump dall’altra, cominciano ad affiorare in superficie le mine disseminate dall’amministrazione Obama con l’obbiettivo di far deragliare parzialmente se non completamente il convoglio della Presidenza di Trump.

Sono tutte trappole piazzate con discernimento, disseminate lungo il percorso intrapreso da Trump, al solo scopo di far saltare e distruggere le buone intenzioni del Presidente.

Arroccato nel castello bianco, stretto sotto assedio, Trump è diventato il Capitano York di Fort Apache. Le orde barbariche girano come avvoltoi senza tregua cercando il momento opportuno per sferrare il colpo mortale, mentre tutto intorno la sua scarna truppa cerca disperatamente di spegnere i fuochi che rischiano di incendiare e far crollare l’intero accampamento.

Siamo forse arrivati al momento più delicato di questo scontro. Trump sta vivendo ore cruciali; tutta la sua amministrazione è messa a dura prova, rischia di saltare in aria. Le mine da disinnescare sono numerose e quasi tutte accuratamente mimetizzate. Non riguardano solo la politica interna ma anche la geopolitica; quella che poi ci coinvolge maggiormente.

Una di queste trappole è stata preparata da Barack Obama nella notte dello scorso capodanno,  approfittando della copertura delle tenebre e del rumore dei botti festosi.  L’Amministrazione Obama prende una decisione apparentemente inspiegabile e allo stesso tempo strana, pericolosa che lascia non solo perplessi , ma soprattutto con pesanti interrogativi circa la sua utilità e le gravi conseguenze che potrà innescare in termini geopolitici. La sera del 31 Dicembre 2016, al tramonto della suo mandato, Obama ha imposto al Pakistan pesanti sanzioni. Queste sanzioni, dato l’orario, il giorno e l’obbiettivo, sono passate quasi del tutto inosservate e tuttora la stragrande maggioranza dei media non pare esserne al corrente. Gli stessi “esperti” di Politica Estera e Strategie Geopoltiche, come i Think Tank di Foreign Policy, del Council on Foreign Relation, del Brookings Institution e via dicendo, non hanno dedicato praticamente nulla del loro tempo ad analizzare la bizzarra decisione presa da Barack e “Barakkini”.

Anche gli esperti sono stati colti di sorpresa? Solo in parte, data la tarda ora; soprattutto, visto che non sono degli sprovveduti, hanno chiuso gli occhi perché hanno volutamente omesso di avvertire il team di transizione di Trump, all’epoca non ancora insediato alla Casa Bianca. Si sono quindi autocensurati per non allertare il nuovo Presidente di questa patata geopolitica molto bollente, diventando quindi complici di Obama nella sua opera di posizionamento delle mine anti-Trump. Di conseguenza, oppressi dal cumulo di impegni assillanti, i nuovi inquilini della Casa Bianca hanno impiegato molte settimane per prendere coscienza prima della esistenza stessa delle sanzioni, poi del loro carattere pesantemente negativo, dall’importanza geopolitica enorme con potenziali nefaste consequenze epocali per l’attuale amministrazione.

Obama, dopo aver proposto nel febbraio dello scorso anno al Senato Americano aiuti finanziari al Pakistan per un totale di 860 milioni di dollari, appena qualche mese dopo ha finito per sanzionarlo. Un atteggiamento in teoria strano e inspiegabile; in realtà una decisione mirata solo ed esclusivamente a porre Trump con le spalle al muro.

Il primo ministro indiano Modi, a Luglio dello scorso anno aveva fatto pressione sugli Stati Uniti per punire il Pakistan per il suo aggressivo programma missilistico e  nucleare. Obama all’epoca non reagì alle richieste dell’India. In effetti Obama non si è mai realmente curato della situazione geopolitica e della tensione che intercorre tra il Pakistan e i paesi limitrofi tra i quali l’India. In aggiunta l’Arabia Saudita ha manifestato insofferenza verso il Pakistan per il rifiuto di quest’ultimo di partecipare o quantomeno sostenere i Sauditi nella guerra in Yemen. Anche su questo aspetto Obama ha sempre ostentato disinteresse, creando disappunto tra le fila del regime saudita.

Sono anni che il Pakistan sostiene un programma missilistico e nucleare. In otto anni di presidenza Obama, il Pakistan non ha modificato di una virgola questo programma, rimasto inalterato per tutto il prosieguo. In altre parole Obama sapeva benissimo quale fossero i progetti e le capacità militari del Pakistan. Anzi, durante il suo mandato, ha manipolato il Pakistan come un burattino violando più volte il suo territorio e la sua sovranità; non dimentichiamoci del raid contro Bin Laden. Addirittura ha usato il Pakistan come leva per arrivare a un accordo con l’Iran.

Quindi una domanda importante da porsi è la seguente: cosa ha fatto cambiare idea al nostro caro Barack? La risposta è semplice; fino a novembre Trump non costituiva una minaccia; alla fine di dicembre Trump era ormai avviato verso la Casa Bianca.

Sono molte le aziende che sono state messe fuorilegge dal Dipartimento del Commercio Americano; tra queste figurano la Ahad International, la Air Weapons Complex, la Engineering Solutions Pvt. Ltd., il Maritime Technology Complex, il National Engineering and Scientific Commission, il  New Auto Engineering e l’Universal Tooling Services. Tutte aziende importanti e vitali per l’economia Pakistana; sanzioni quindi che fanno male e che hanno suscitato in Pakistan un forte malumore verso gli Stati Uniti. I Pakistani hanno  sbagliato su una cosa però; ritengono che la decisione delle sanzioni sia stata presa da Obama sotto suggerimento degli Indiani e dei Sauditi. Solo ora, in pieno caos politico Americano, stanno finalmente mettendo insieme i tasselli e prendendo coscienza che il Pakistan si ritrova vittima sacrificale della guerra civile politica in atto negli States.

Per Trump sarà molto problematico cancellare le sanzioni per due semplici motivi. Prima di tutto perchè i Pakistani hanno ormai aperto la porta ai Cinesi, i quali hanno sostanzialmente aumentato la loro presenza economica nel paese, accrescendo il peso diplomatico al punto tale che sono ora in grado di dettare loro stessi la linea geopolitica al Pakistan. In secondo luogo l’eventuale decisione da parte di Trump di revocare le sanzioni risulterebbe intollerabile sia per gli Indiani che per i Sauditi, in particolare  per Narendra Modi, il piu  ostinato oppositore a qualsiasi rapporto amichevole  tra Pakistan e USA.

In sovrappiù le sanzioni servono a collocare Trump in una situazione difficilissima per quanto riguarda l’Afghanistan. I vertici del Pentagono e gli esperti geopolitici concordano nel considerare l’Afghanistan un paese sull’orlo del collasso. Stiamo parlando non di anni, ma di mesi, forse di settimane. Trump dovrà confrontarsi con un problema serio; salvare il salvabile in Afghanistan.

Due opzioni sono a disposizione dell’amministrazione Trump. Intervenire al più presto oppure abbandonare l’Afghanistan al proprio destino. In ogni caso tutte e due queste soluzioni comportano un problema enorme, un dilemma serio. Se Trump decide di lasciare l’Afghanistan al proprio destino, il mondo intero lo taccerà di quel fallimento e di ingenua approssimazione al cospetto dei piu` “capaci” Obama e Bush. Dovesse decidere il massiccio intervento militare, l’azione sarebbe pesantemente pregiudicata dal mancato supporto logistico del Pakistan. Date le sanzioni, ritengo improbabile una concreta disponibilità dei Pakistani nei confronti degli Americani. In alternativa ci sarebbero i Russi, ma anche qui Obama ha fatto terra bruciata.

Ecco perchè Trump si ritrova con le spalle al muro.

Non ci devono sorprendere le manovre obamiane. Si conosce la sua particolare predisposizione e sensibilità alla pace nel mondo. Il Nobel, Obama se lo è proprio meritato!

L’unica via per Trump sarebbe quella di negoziare una qualche soluzione che smussi le tensioni e il malcontento di Pakistani, Indiani e in alternativa dei  Russi e poter quindi operare liberamente in Afghanistan; sempre che i Cinesi non si mettano di traverso.

Vedo già i titoloni che annunciano il fallimento di Trump in Afghanistan; fallimento di cui dovrà sopportare tutta la colpa, sappiamo già come operano i media.

Non c’è da aggiungere altro; il suo predecessore gli ha lasciato in eredità una situazione geopolitica gravissima. D’altronde c`era da aspettarselo da un uomo come Barack, campione dei diritti civili, sempre attento alle necessità degli ultimi.Un figuro che se può ti dà una mano; controlla però che nel  frattempo non ti abbia tagliato l’altra.

IL RITORNO DEI NEOCONS, di Gianfranco Campa

Storicamente parlando, durante la prima Guerra Fredda,  anche nei momenti di tensione più palpabili, come per esempio la crisi dei missili a Cuba, da qualche parte, nelle stanze riservate della casa Bianca e del Cremlino, c’era chi si parlava, comunicava, cercava spiragli per risolvere crisi che portavano sempre inevitabilmente a confrontarsi con la possibilità di una Guerra Nucleare. Nell’assurdità del sistema politico attuale, la assillante propaganda Anti-Russa, usata come arma per screditare Trump e qualsiasi nemico del sistema governativo teso al nuovo ordine mondiale, porta a chiederci fino a che punto questi signori sono disposti a spingere la retorica di una nuova Guerra Fredda; confronto che potrebbe sfociare in qualcosa di molto più grave. Servirebbe fermarsi un attimo per ponderare le ripercussioni che potrebbero avere una intensificazione della crisi Nato-Russia.

In questo contesto si impongono un paio di domande fondamentali:

  • cosa ne sarà di una distensione mai veramente cominciata, forse appena solo accennata?
  • Una distensione con la Russia è ancora possible?

Il generale Flynn ha pagato il prezzo di essere stato la figura di spicco, l’attore principale, incaricato da Trump nel provare a tessere quella rete diplomatica che con il supporto di Tillerson avrebbe dovuto portare ad un tavolo di negoziati Trump e Putin.  Flynn ha anche pagato un prezzo caro per la sua lealtà al Presidente e per la dedizione alla missione a lui assegnata nelle sue valenze ed implicazioni più strettamente geopolitiche. Il pesante retaggio di Flynn, arrivato ad inimicarsi negli anni via via la maggior parte degli apparati di governo con le sue dure critiche, prima ad Obama poi all’establishment Repubblicano, colpevole quest’ultimo di non aver  sostenuto Trump durante la campagna elettorale, per proseguire con  la sua aperta disapprovazione della condotta dei vertici dei servizi di intelligence, tra di essi personaggi come James Clapper e John Brennan, ne ha fatto un bersaglio facile. Sarebbe stato troppo costoso, in termini politici, per Trump difendere Flynn. Così il Presidente ha cercato un atterraggio morbido, qualcosa che alleggerisse la pressione e rilanciasse la possibilità di creare un ambiente meno torbido intorno alla sua presidenza.

Ora possiamo ricostruire con quasi certezza gli episodi principali che hanno portato alle sue dimissioni. Tre giorni prima dell’ormai noto “scandalo” delle intercettazioni, Flynn aveva consegnato a Trump un dossier, un documento, da lui stesso redatto, con l’assenso, piu o meno tacito di Tillerson e di pochi altri appartenenti al circolo più stretto di Trump, con il quale si ponevano le basi di un accordo su vasta scala con la Russia. Seguendo la traccia del documento si sarebbe dovuto discutere, in un summit Trump-Putin, dei Balcani, della Siria, dell’Iran e della Cina; soprattutto si sarebbe affrontato la questione dell’Uncraina, punto critico da cui si genera la ragione della maggior resistenza dei Neocons alla svolta politica del Presidente. I contenuti dettagliati del fascicolo sono tuttora sconosciuti e, se devo azzardare una previsione, il dossier probabilmente è sparito per sempre, consegnato agli annali della storia più nascosta e segreta della Repubblica a Stelle e Strisce. Comunque è chiaro che il tempestivo assalto a Flynn tendeva  non solo ad un indebolimento di Trump, ma ad un deragliamento definitivo di qualsiasi accordo con Putin.

Girano voci di corridoio che additano in Reinhold Richard Priebus, meglio conosciuto come “Reince” Priebus, il cecchino di Flynn. Sono solo voci di corridoio, tese ad indebolire un altro fedele di Trump. Insinuando un tradimento di Priebus si colpiscono due piccioni con un solo colpo; far fuori Flynn e Priebus con lo stesso scandalo delle intercettazioni, equivarebbe ad un terno al lotto. Ma io so con certezza che Priebus non c’entra assoluntamente niente con il siluramento di Flynn. C’è invece un altro attore più potente complice del siluramento, perché sodale del vecchio establishement: Mike Pence. Il nostro caro vice presidente, Mike Pence, con il pretesto che Flynn gli avesse mentito riguardo alle sue assicurazioni dello scorso dicembre di non aveva parlato di sanzioni con l’ambasciatore russo, ha fatto pesanti pressioni su Trump perché lo rimuovesse dal suo incarico.

Mike Pence è un sornione, un uomo che trasuda fiducia da tutti i pori con la sua aria di vecchio amico che non ti tradisce mai. Fatto sta che Pence col suo sorriso soave di buon Cristiano e brav’uomo di famiglia è lo strumento che viene usato, naturalmente con il suo pieno consenso, dall’establishement repubblicano per manovrare Trump.

Trump ha cosegnato a Pence le chiavi di molte stanze e concesso una ampia libertà di azione; neanche il vecchio Joe Biden godeva sotto Obama di tale facoltà.

Biden era il cagnolino di Obama, Pence è la serpe che si insinua nel letto e ti colpisce quando vuole.

E` andata piu` o meno così. Pence ha sussurato all’orecchio di Trump la soluzione di tutti i suoi problemi: “fai fuori Flynn, affida la politica estera in mano ad altri, concentrati sulla politica interna, cerca un accordo con l’establishment per poi essere ricompensato con il pieno appoggio di tutto l’apparato repubblicano contro le orde barabariche democratiche.”

Questo però è un gioco pericoloso per Trump; intanto perché non sono convinto che i Repubblicani possano ostacolare i Democratici nella loro offensiva. Sono soprattutto persuaso che non abbiano assolutamente il desiderio di farlo.

Flynn, il fautore di una relazione più stretta fra Russia e USA, lascia il posto ad un altro Generale, H. R. McMaster. Con McMaster la manovra di aggiramento da parte dell’Establishment è completata. Ci sono voluti più o meno quattro mesi di assidui attacchi, di manovre e contromanovre  per far capitolare Trump e far deragliare le sue promesse di una nuova distensione con la Russia sostenute sin dai tempi delle primarie.

Intendiamoci; le credeziali del nuovo National Security Advisor non si discutono.

Il curriculum parla da sè: McMaster, per chi lo non lo conosce è un generale a tre stelle, decorato dalla testa ai piedi, soprattutto per le sue azioni durante la prima Guerra del Golfo, in Iraq. McMaster è anche l’autore di diversi libri; il più famoso riguarda la Guerra in Vietnam, con il quale McMaster critica, non tanto le ragioni della guerra, quanto le tattiche usate e la divisione alimentata con gli argomenti “parrocchiali” di chi altrimenti avrebbe dovuto gestirla strategicamente. Fattori che secondo McMaster hanno contribuito alla disfatta militare .

Il libro è diventato, per un’intera generazione di ufficiali militari, una lettura obbligata.

Ora il Generale McMaster avrà la possibilità di mettere a disposizione della Casa Bianca le proprie conoscenze, anche se McMaster non solo è un uomo di intelligenza superiore ma è anche un personaggio di brutale schiettezza e scorbuticità.

Un carattere duro che gli è costato più volte la promozione, raggiunta poi inevitabilmente grazie alle innegabili capacità.

Resta il fatto che McMaster è stato messo lì per intimidire Trump e portarlo ad abbracciare politiche neocons. Basta osservare che gli arcinemici di Trump, fino al giorno precedente la capitolazione di Flynn, sputavano veleno sul Presidente; ora si trovano ad eloggiare la nomina di McMaster. Il nostro caro McCain in un Twitter ha detto di McMaster: “Lt Gen HR McMaster è una scelta eccellente come consigliere per la sicurezza – uomo d’intelletto genuino, carattere e capacità

 

La disfatta di Trump è sintetizzata dal regista Oliver Stone; in un commento ha detto che:  “Condi Rice e Susan Rice impallidiscono accanto al generale H.R. McMaster, un cane da guerra del Pentagono fino alle midolla. Trump chiaramente sembra ormai sconfitto dal potere delle agenzie di intelligence e dei media. Anche il psicotico John McCain approva con tutto il cuore la nomina di McMaster.”

Il regista Stone è impegnato da oltre un anno nell’arduo compito di comunicare agli americani la pericolosità dell’antagonismo verso la Russia e delle menzogne costruite sull’Ucraina. Lo stesso regista parla di ostruzioni pesanti che arrivano non solo da entità politiche ma anche dall’ipocrita mondo hollywoodiano i quali cercano di ostacolarlo in tutti i mondi nella produzione di un documentario sulle verità ucraine.

Con la dipartita del General Flynn, la speranza di una distensione con la Russia sembra ormai confinata nell’ottimismo quasi illusorio di pochi credenti i quali si abbarbicano a cercare improbabili appigli.

Come ho scritto in precedenza, nutro ancora qualche speranza; soprattutto che Rex Tillerson possa compiere un miracolo e contro tutto e tutti riesca a raggiungere un accordo, anche se minimo con Lavrov. Un accordo che apra la via a negoziati più seri.  Inutile nascondere le difficoltà nelle quali Tillerson dovrà operare.

Tillerson però è un uomo dalle risorse nascoste, che ne fanno un formidabile nemico degli avversari della distensione.

Non ci resta  che seguire le trame che si svilupperano nei prissimi giorni, settimane, mesi.

Una cosa è certa; i Neocons sono tornati, ma forse non erano mai andati via.

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

LA POSTA IN PALIO delle elezioni americane, di Giuseppe Germinario

I momenti in cui il velo della dissimulazione, il fair play sbiadiscono sino a rivelare la spietatezza dello scontro politico sono piuttosto rari.
Di solito può avvenire nei momenti in cui la forza dominante ritiene di avere il potere e controllo assoluto della situazione, ma si tratta di una illusione, spesso di un delirio di onnipotenza, destinata ad infrangersi rapidamente.
Più spesso avviene nelle fasi di scontro aperto tra centri con opzioni politiche antitetiche la prevalenza di una delle quali comporta la soppressione o la irrilevanza della parte avversa. È il momento in cui, nelle cosiddette democrazie, la cosiddetta divisione dei poteri tesa al reciproco controllo si trasforma apertamente nella collusione dalle modalità sofisticate tra settori di poteri nelle loro diverse funzioni.
Gli Stati Uniti, al pari di altri paesi, hanno conosciuto ciclicamente questi momenti.
Quaranta anni fa fu il Presidente Nixon a farne le spese.
Il casus belli fu la scoperta di un sistema illegale di intercettazione delle conversazioni di avversari politici. Il motivo reale fu l’opposizione di altri centri politici alla politica di apertura alla Cina in qualità di leader di un terzo polo ostile al blocco sovietico propugnata da Nixon e Kissinger.
Uno scontro acceso che quantomeno, però, riuscì a salvaguardare le apparenze della correttezza di rapporti istituzionali; consentì persino alla stampa, nella figura dei giornalisti Woodward e Bernstein, di rafforzare la propria immagine di indipendenza quando in realtà essa fu il veicolo di informazioni pilotate da settori di servizi e apparati tesi a colpire una determinata strategia politica.
Oggi, le elezioni presidenziali americane offrono uno scenario nel quale parecchi di quegli infingimenti sopravvissuti al Watergate sono venuti meno.
• La quasi totalità dei tradizionali mezzi di comunicazione fa aperta campagna elettorale a sostegno della candidata, asseconda gli argomenti e le cadenze scelte da uno dei comitati elettorali, spesso ne anticipa le azioni sostituendosi ad esso secondo una agenda ormai con ogni evidenza concordata.
• Una Agenzia delle Fisco impegnata negli accertamenti in particolare delle attività della fondazione del candidato e pressoché incurante dello stratosferico giro di finanziamenti provenienti anche da quegli ambienti meno commendevoli che i paladini dei diritti umanitari dovrebbero stigmatizzare. Una rete tra l’altro costruita in anni di incarichi pubblici internazionali ricoperti dalla famiglia Clinton.
• Una autorità investigativa impegnata ad indagare personaggi di primo livello dello staff di Trump su filoni nei quali risulta implicata la candidata Clinton e il suo staff, spesso e volentieri colti praticamente con le mani nel sacco dei brogli elettorali e quant’altro, ma ancora apparentemente indenne da indagini.
• L’aperta ostilità e la dichiarata intenzione di disobbedienza di numerosi vertici dello Stato e funzionari, in particolare delle Forze Armate e dei dipartimenti di sicurezza ed esteri nell’eventualità di vittoria di Trump.

Gli esempi potrebbero arricchirsi sino a comprendere la cadenza programmata e presumibilmente sempre più incalzante delle defezioni degli esponenti neoconservatori repubblicani a sostegno ormai più o meno esplicito della candidata democratica.
Quanto esposto mi pare però più che sufficiente ad intuire intanto la radicalità dello scontro e soprattutto la inconciliabilità fattuale di opzioni strategiche; una intuizione però non suffragata ad arte da un aperto dibattito sviato piuttosto dalla campagna denigratoria sui comportamenti privati di qualche decennio fa di Trump innescata dalle austere testate del NYT e del WPJ e dall’allusione insistita di connivenza con il nemico ufficiosamente dichiarato di nome Putin.
Una radicalità paradossalmente del tutto assente ai tempi della elezione di Obama, non ostante i fiumi di retorica sull’arrivo de “l’uomo nuovo e della nuova era dei diritti”.
Anche quella elezione di otto anni fa sancì una svolta ormai per altro già in atto dall’anno precedente. Sul piano internazionale si passò da una politica di intervento massiccio diretto ma necessariamente più delimitato sulla base del quale costruire sul posto nuove alleanze ad una politica di intervento “coperto” più discreto ma molto più capillare e diffuso teso ad utilizzare e fomentare le divisioni sugli innumerevoli fronti aperti. Si trattò in pratica di una opzione diversa, più radicale e flessibile, all’interno di una stessa strategia tesa al conseguimento di un controllo unipolare. Il prezzo politico pagato dalla fazione perdente si risolse infatti in qualche umiliazione pubblica come incorse al malcapitato Presidente Bush in occasione del conflitto georgiano del 2008. Sul piano interno si risolse con il gigantesco salvataggio del sistema finanziario, con il contenimento del processo di deindustrializzazione nei settori complementari ed il potenziamento di quelli strategici, con l’estensione del diritto all’assicurazione sanitaria mantenendo il regime privatistico.

I PRESUPPOSTI DELLA SVOLTA DI GATES-OBAMA

Il perseguimento dell’obbiettivo di monopolio egemonico sotto nuove spoglie aveva bisogno di essere sostenuto da diverse gambe e da motivazioni ideologiche più complesse di quelle in dotazione nell’armamentario neoconservatore americano più che altro ridotto al concetto di introduzione forzata della “democrazia” e di libertà “supportata” negli affari.
Il concetto di diritto individuale inteso come soddisfazione di bisogni personali e di gruppi particolaristici che sovrasta e prescinde dai contesti sociali e politici, proprio del radicalismo democratico, assurge al rango di ideologia dominante e motivante. La stessa ambizione al benessere tende ad essere ridotta al diritto a un reddito e a un sostentamento, ad una mera redistribuzione di risorse.
Il sodalizio che è maturato nell’ultimo trentennio tra questi ambienti e il complesso militare-industriale, propugnato dai democratici americani ma ormai ben accetto dagli ambienti neocon, ha fornito l’energia sufficiente all’interventismo “discreto”, al sostegno dei particolarismi identitari e della ulteriore frammentazione politica del pianeta secondo le proprie esigenze strategiche. Lo abbiamo riscontrato in Europa, nel Nord-Africa e soprattutto in Medio-Oriente dove l’ambizione alla nazione araba comprensiva di laici e cristiani è stata ridotta ormai al particolarismo arabo-sunnita dalle mille fazioni. Lo stesso perseguimento dell’autonomia energetica sembrava un ulteriore fattore in grado di minimizzare i contraccolpi della libertà di intervento.
È un sodalizio che per perdurare ha bisogno però di controllare ed indirizzare i due processi reticolari che determinano le relazioni su scala mondiale apparentemente in grado di autoregolarsi nella loro maturità:
• la globalizzazione, intesa come rete inestricabile di relazioni soprattutto economiche e comunicative di tipo molecolare tendenzialmente scevro da alleanze e sodalizi consolidati. Nella sua versione utopica, propria del periodo clintoniano degli anni ‘90 e del primo Bush, mirava ad impedire alleanze stabili e sodalizi economici tra stati e paesi e a ricondurre le relazioni sotto il controllo e la normazione di organismi internazionali apparentemente autonomi, in realtà strettamente controllati da parte americana. Nella versione pragmatica odierna, propria della gestione Obama, arriva a riconoscere la presenza di diverse aree di influenza e di relazioni privilegiate normate però secondo la visione e gli interessi fondamentali di una unica potenza che funge da anello di congiunzione tra le stesse.
È la logica che sta spingendo alla costruzione dei trattati TTP e TTIP. La gestazione faticosa e secondo me altamente problematica e lontana dagli obbiettivi originari della dirigenza americana lascia intuire che il diaframma che separa questa concezione universalistica dalla presa d’atto finale della formazione di zone di influenza in attrito tra loro è ormai sottile
• il multilateralismo, accezione diversa dal policentrismo, attraverso il quale si cerca di inibire la formazione di diverse aree politiche di influenza e tanto meno di sistemi di alleanze potenzialmente in conflitto tra di essi attraverso la regolazione di rapporti occasionali tra singoli stati entro la supervisione di organismi internazionali a controllo americano

COSTI E BENEFICI DELLA GLOBALIZZAZIONE E DEL MULTILATERALISMO

Per quanto di successo, non esistono politiche che comportino solo benefici ad agenti e centri vittoriosi, tanto meno ai restanti
Per quanto conservatrice e reazionaria, la politica è movimento, determina e si inserisce in dinamiche, implica inevitabilmente amici e nemici, alleati e avversari, decisione ed obbedienza entro i vari campi di azione pubblica spesso al di là delle intenzioni e delle capacità di previsione degli agenti politici e in sistemi di relazione mutevoli e cangianti.

Così la necessità di indirizzare e regolare i due processi comporta l’obbligo di sostenere i costi di una supremazia politico-militare e tecnologica soverchiante.

La supremazia politico-militare è garantita da un sistema di alleanze (NATO,ect) congegnato in modo da impedire l’autonomia operativa efficiente delle strutture militari e dei complessi industriali collegati dei paesi satelliti riducendo di conseguenza il loro spazio di iniziativa politica autonoma; in modo tale altresì da poter pescare dall’ampio cortile i volenterosi disponibili a partecipare di volta in volta alle avventure militari. Un sistema che comporta un onere preponderante da parte degli Stati Uniti solo in piccola parte direttamente compensato dalla partecipazione diretta degli alleati alle spese.
Un onere reso ancora sostenibile dalla straordinaria capacità ancora pressoché unica da parte degli Stati Uniti di riuscire a convertire ed utilizzare le scoperte e le tecnologie di origine militare nell’industria civile proponendo prodotti e sistemi di servizi innovativi dei quali riesce a detenere gelosamente il controllo.
Riescono in pratica a costruire e detenere, grazie alla loro politica, il MERCATO.

Sino a quando, in pratica sino agli anni ‘80, le dimensioni geografiche del cuore della propria area di influenza si limitavano all’Europa, al Giappone, alla Corea del Sud e all’Australia il ciclo rimaneva virtuoso; consentiva di costruire negli USA una formazione sociale sufficientemente coesa ed equilibrata nella quale accanto alle attività di punta permanevano in buona misura tutta una serie di attività complementari che consentivano piena occupazione e una costruzione di ceti medi di servizio e produttivi ricca di funzioni e gratificati economicamente.
Con l’implosione del blocco sovietico e l’emergere delle ambizioni di nuovi grandi paesi il circuito si è notevolmente complicato così come i fattori da combinare. In interi settori economici la ricerca scientifica, la progettazione dei prodotti, il marketing si separano dalla diretta attività di produzione ed pezzi interi di settori industriali migrano praticamente dagli USA per finire in gran parte in Cina, ma anche in altri paesi. Agli inevitabili squilibri e polarizzazioni innescati nella formazione sociale americana corrispondono nei nuovi paesi nuove capacità indispensabili a fornire le risorse necessarie ad una politica di potenza ma lungi ancora da essere conseguite stabilmente ed autonomamente.
Sino ad ora questa dinamica è stata compensata dal controllo ferreo del sistema finanziario e monetario con il quale è praticabile quell’enorme ritorno di risorse che consente ancora la supremazia politico-militare, lo sviluppo tecnologico ed il mantenimento di una struttura assistenziale e di integrazione tale da impedire l’implosione sociale in una formazione però ormai pesantemente squilibrata; anche questa compensazione però inizia a presentare limiti e crepe e soprattutto tende a mascherare piuttosto che a compensare gli squilibri della formazione sociale americana.
La stessa pratica del multilateralismo, d’altro canto, comporta una crescente dispersione delle energie politiche ed una progressiva caduta di credibilità legata alla posizione di arbitro-giocatore nei conflitti e alla mutevolezza opportunistica delle alleanze più o meno dichiarate. Una dinamica che sta erodendo inesorabilmente l’efficacia del richiamo al rispetto dei cosiddetti diritti umani.

LA POSTA IN PALIO

La reale posta in palio dello scontro tra Trump e Clinton si gioca in questi ambiti e sta assumendo sempre più i connotati di uno scontro tra diverse opzioni strategiche. Da una parte la prosecuzione dell’attuale politica in termini ancora più virulenti e avventuristici nel tentativo di mantenere ed accrescere il predominio, dall’altra l’intenzione di prendere atto dell’emersione di nuove forze in campo e soprattutto di riconoscerle.
Sottolineo il termine “intenzione” giacché si tratta dell’espressione di un nucleo dirigente abbastanza limitato, ancorché combattivo, del quale non si conoscono le modalità operative, i fondamenti di analisi, la capacità di presa nei settori fondamentali dell’amministrazione il cui controllo è fondamentale per concretizzare le intenzioni politiche.
Sappiamo bene che alle intenzioni raramente corrispondono esattamente comportamenti politici coerenti e soprattutto risultati coerenti; addirittura spesso le nobili intenzioni e gli enunciati più magnanimi si trasformano in strumenti per le politiche più subdole. L’ideologia dirittoumanitarista ne è l’esempio preclaro.
Tutto sommato però non devono trattarsi di sprovveduti, a giudicare da alcune biografie presenti nello staff; nemmeno si devono considerare così isolati dai centri di potere a giudicare dal lavorio costante della talpa di WikiLeaks.
Si tratta, è bene precisare, di uno scontro che non nasce dal nulla; affonda radici profonde nella storia americana; presenta però alcuni significativi elementi di novità

L’ANATRA ZOPPA

Sin dalle primarie Hillary Clinton ha rivelato i suoi innegabili punti di forza e i suoi importanti punti di debolezza, già intravisti nel confronto delle primarie delle 2008 con Obama.
Una straordinaria capacità di raccogliere e fornire sostegno alle più variegate e potenti élites interne e alla pletora di classi dirigenti straniere, comprese quelle europee, ancora più risolute nel loro oltranzismo perché devono la propria sopravvivenza alla prosecuzione della attuale politica americana piuttosto che alla loro capacità di radicamento nei propri paesi.
Un lavorio in questi ultimi anni teso a garantire, in condominio con il Presidente uscente, il controllo dei vertici della macchina amministrativa, comprese le forze armate e l’intelligence
L’imponente macchina organizzativa e l’entità dei finanziamenti sono lì a dimostrare la potenza di fuoco.
Non ostante i mezzi e gli strumenti di influenza disponibili non è riuscita a carpire quel consenso politico e sociale minimo così necessario alla sopravvivenza di un politico di scena.
Sanders, il suo rivale nelle primarie, è riuscito a strappare consensi in fette consistenti di elettorato giovanile specie studentesco, di ceto medio borghese e del residuo ceto operaio rimasto nelle fila del Partito Democratico (PD) solo grazie a critiche pesantissime, radicali alla sua rivale marginalmente sulla politica estera, ma puntuali sulla politica economica. Alla fine ha concesso il sostegno finale a Clinton in cambio di posti significativi nel partito e nei futuri incarichi pubblici trangugiando anche la polpetta avvelenata dei brogli elettorali subiti nelle primarie. Il segno di future prossime battaglie in seno al PD, ma anche della perdita di credibilità del personaggio e di una caduta di entusiasmo nell’attività di militanza.
Gli appelli alla fedeltà di partito e l’esorcizzazione dell’avversario qualificato dei peggiori epiteti dal punto di vista politicamente corretto sono il segno di una debolezza di argomenti non sostenibile nei tempi lunghi; la vittoria risicata nelle primarie e la conseguente estensione della platea di mecenati dai quali ottenere il sostegno ne indebolirà la coerenza politica; se aggiungiamo l’incredibile pletora di agenti con i quali garantirsi l’omertà e il sostegno mediatico, si comprenderà l’estrema ricattabilità ed il condizionamento di un simile personaggio.
Le rimangono il sostegno significativo nei settori di punta della società e dell’economia e nella fazione dei radicalisti dei diritti umani secondo opportunità; permane con qualche difficoltà il richiamo alle minoranze sempre più consistenti ed ai settori assistiti ed assistenziali. Aspetto tutt’altro che trascurabile ma attenuato dal fatto che oggi gli Stati Uniti sono sempre più un paese di minoranze chiuse in se stesse piuttosto che in relazione feconda e integrate.

LA VECCHIA TALPA

Non mi dilungo vista l’ampia letteratura riservata al personaggio e alle forze che rappresenta.
Ho già sottolineato il repertorio limitato quanto astioso di critiche riservato all’avversario Trump.
Si riconduce alle accuse di razzismo, di fondamentalismo, di faziosità così ben conosciute anche dalle nostre parti.
Si tratta tuttavia di anatemi che poggiano su stereotipi validi per vicende del passato recente e remoto del conservatorismo e del “populismo” americano utili a serrare le fila delle componenti più ottuse del PD americano ma atte a suscitare ulteriore diffidenza nell’elettorato più mobile.

La candidatura di Trump ha dato voce diretta ad una fetta di elettorato conservatore sino ad ora strumentalizzata da altre componenti, in particolare dai neoconservatori.

Viene tacciata di scarsa “compassione” per essere contraria a qualsiasi forma di stato sociale.
Si tratta in realtà di una componente “produttivista” che sostiene l’esistenza del welfare ma in una ottica di produttività piuttosto che di assistenzialismo; inteso, quindi, come intervento nei momenti critici della vita delle persone e di reintegrazione nella vita produttiva piuttosto che di interventi cronici puramente distributivi e assistenzialistici.
Negli anni ‘30 in effetti tali posizioni avevano connotati razzisti perché le rivendicazioni di tutela erano riservate e furono ottenute per i lavoratori di razza bianca; attualmente tali connotati sono inesistenti o del tutto marginali. In realtà in questi anni il “produttivismo” non ha trovato una compiuta espressione politica, tuttalpiù si è concentrata in circoli di opinione (tea party) ma è stata strumentalizzata dai neocon favorevoli alla globalizzazione indiscriminata e alla soppressione dello stato sociale, per altro più proclamata che messa in pratica. L’ultimo tentativo di prevaricazione è avvenuto nelle primarie repubblicane con la candidatura di Rubio, naufragata ingloriosamente; dopo quel naufragio gran parte dei neoconservatori sono andati a rinforzare apertamente le fila dei globalisti e degli interventisti della Clinton. Del resto la divisione in ceti e strati della formazione sociale americana non corrisponde più esattamente alla sua divisione in razze e gruppi etnici, privando di senso ogni politica fondata sulla discriminazione razziale.

Viene tacciata di isolazionismo perché identifica l’attivismo nelle reti civiche locali e legate alla gestione delle comunità locali con la richiesta di riduzione drastica delle competenze dello stato centrale e di ritiro da qualsiasi iniziativa di politica estera che non comportasse la fine di una minaccia diretta al paese presente in alcune sue frange per altro espresse dal quarto candidato alla presidenza attualmente in corsa

Viene tacciata di integralismo ipocrita, ma anche questa critica viene smontata dalla fine ingloriosa della candidatura di Ted Cruz alle primarie, il reale rappresentante di questa componente.

Trump viene spacciato per un repubblicano oltranzista quando in realtà è un personaggio che ha sfruttato la crisi di quel partito, in parte indotta dagli stessi democratici, per infiltrarsi e mettere a nudo le affinità e le connivenze della vecchia dirigenza con la politica dei democratici.

Pur con tutti i limiti, anche caratteriali, del personaggio la proposta politica di Trump pare in realtà molto più equilibrata di quanto ce la diano a bere i sistemi di informazione.

Parla di compiti precisi dello stato centrale anche nel welfare (la sanità), punta ad una politica estera fondata sul riconoscimento degli stati nazionali, sottolinea la necessità di un riequilibrio dei vari settori dell’economia e di un processo di reindustrializzazione attraverso anche una rinegoziazione dei trattati commerciali.
Critica l’interventismo militare dispersivo, concentrato in zone non vitali per l’interesse del paese; chiede la ridefinizione del sistema di alleanze militari con l’attribuzione degli oneri di difesa ai paesi direttamente implicati nelle aree di attrito.

Tutte posizioni dalle profonde implicazioni sul sistema di relazioni internazionali, sulla organizzazione dello stato, in particolare delle forze armate, sulla formazione sociale americana.
Lascia presagire un confronto più serrato con la Cina e meno ostile con la Russia.

Come ho sottolineato, siamo ancora alle enunciazioni generali da parte di un gruppo dirigente formatosi solo recentemente perché ha individuato l’umore profondo di settori del paese e le debolezze nascoste dell’avversario. Non conosciamo la praticabilità di quelle intenzioni né le capacità tattiche del gruppo né le capacità di opposizione, neutralizzazione ed inclusione dell’attuale assetto di potere. Si deve constatare che gran parte del confronto e del successo iniziale di Trump è avvenuto con la gran cassa mediatica. Nel confronto decisivo il sistema informativo gli si è rivoltato contro.
Un primo aspetto che l’attuale dirigenza sta cercando di affrontare nel prossimo futuro.
Per il resto si dovrà attendere quantomeno l’esito della competizione elettorale.

CONCLUSIONI

Lo scontro ha evidenziato l’imponenza di un apparato ma anche la capacità di erosione del terreno su cui poggia della vecchia talpa. La ripresa delle indagini a carico di esponenti dello staff della Clinton sulla base delle nuove email apparse sono un segno di questa azione erosiva.
Sono dinamiche però che richiedono tempi diversi.
Difficilmente modificheranno l’esito elettorale se non nel differenziale di voti e ancor meno nel numero dei grandi elettori; certamente lasceranno sulla graticola l’eventuale vincitrice lasciando intravedere quella della Clinton ormai come una presidenza di transizione.
Le avvisaglie della durezza dello scontro erano apparse già con la esplicita e pubblica sconfessione da parte del Congresso Americano di due atti fondamentali della politica estera democratica: l’accordo sull’Iran e i rapporti con Israele. Adesso sono arrivati ai tentativi di annichilimento di una possibile nuova classe dirigente e alle minacce di galera.
Il timore è che il nascere di una alternativa politica fondata sul riconoscimento delle forze in campo internazionali e sul recupero di una economia più equilibrata in una situazione interna così fragile porti alla sconfessione di una intera classe dirigente e al crollo del sistema di relazioni illustrato.
Non ha senso per noi schierarci nella solita inutile tifoseria senza alcuna influenza; piuttosto dovremo valutare le opportunità che potranno sorgere da questa situazione se non addirittura da una sia pur remota eventuale vittoria di Trump. Ma sono appunto opportunità che si vuole e si deve voler cogliere con la costruzione di una nuova classe dirigente. In mancanza saremo arlecchino con due padroni, ma senza la sua furbizia.

1 15 16 17