Italia e il mondo

OPPENHEIMER, recensione teppistica_di Roberto Buffagni

OPPENHEIMER, recensione teppistica
Ieri pomeriggio ho visto “Oppenheimer”, un brutto film. Anticipo che mi sono perso gli ultimi venti minuti perché mi sono addormentato, come al solito mi ero svegliato molto presto e non avevo potuto fare il solito pisolino pomeridiano.
Prima di vedere il film, di Robert Oppenheimer non sapevo niente tranne quel che sanno tutti, che era stato il direttore del “Manhattan Project”, che dopo la bomba aveva citato le Baghavad-Gita, che aveva avuto qualche problema con il maccartismo, che portava un caratteristico cappello. Dopo il film, non ho imparato niente di più tranne un aspetto interessante e preoccupante della sua vita di cui parlerò dopo.
“Oppenheimer” è un brutto film perché un film incentrato sulla vita di un uomo che non ce ne mostra l’interiorità, con le sue motivazioni, il suo percorso e il suo cambiamento è un brutto film, a meno che l’uomo non sia Conan il Barbaro.
Dal film si evince quanto segue (che non so in che misura corrisponda alla realtà biografica):
Oppenheimer è un fisico brillante. Quanto brillante non si sa. L’impressione che si ricava è che fosse un brillante fisico di second’ordine (essere di second’ordine quando di prim’ordine sono Heisenberg, Bohr, Einstein è ovviamente un risultato notevolissimo). Pare invece che fosse un organizzatore e un venditore di primissimo ordine; anzitutto, venditore di se stesso, della sua immagine e della sua superiorità, tant’è vero che riesce a radunare menti brillantissime e a coordinarle nel progetto che dirige.
Non ha opinioni solide in merito alla politica o alla società. È genericamente “di sinistra” perché in quegli anni, praticamente tutti gli intellettuali che lo circondano lo sono. Il momento della verità coincide con la guerra di Spagna, che con la creazione della Legione internazionale a sostegno del governo repubblicano fornisce l’occasione per dimostrare quanto si fa sul serio a tutti gli intellettuali.
Ovviamente si può fare sul serio per davvero, ovvero prendere parte alla guerra anzitutto per sostenere le proprie idee e la causa repubblicana e antifascista, come fanno Orwell, che poi scrive il bel libro “Homage to Catalunia”, e Simone Weil, l’improbabile guerriera che appena giunta in Spagna si rovescia sui piedi un pentolone d’acqua bollente e deve tornare a casa, e poi, letto il meraviglioso “Les Grands Cimetières sous la lune”, scrive una lettera indimenticabile a Bernanos, un uomo di destra che militava dall’altra parte; oppure si può fare sul serio per finta, cioè per far vedere a tutti quanto siamo più fighi e valorosi di voi, come Hemingway, che fa un giro in Spagna e poi scrive uno dei libri più farlocchi della letteratura universale, “For Whom the Bell Tolls”, un sogno bagnato adolescenziale che pensando all’età in cui lo scrisse risulta seriamente imbarazzante.
Oppenheimer non fa nessuna delle due cose perché, a quanto risulta dal film, è abbastanza astuto e lungimirante da non compromettersi politicamente e così bruciarsi la possibilità di accedere all’ufficialità che desidera ardentemente. Si limita insomma a sostenere le cause di sinistra a parole.
Allo stesso modo non ha opinioni solide in merito alla bomba atomica. È persuaso che bisogna arrivarci prima dei tedeschi, e ovviamente ci sta. Dopo Hiroshima e Nagasaki ha qualche perplessità, che si manifesta nei seguenti modi: citazione dalla Baghavad-Gita (“Io sono morte, il distruttore di mondi”) e contrarietà alla ricerca per la bomba all’idrogeno, come se un aumento quantitativo della potenza distruttiva fosse il punto chiave. Non firma la petizione contro la bomba atomica promossa da Leo Szilard. Butta lì qualche auspicio inconcludente su una trattativa mondiale per la rinuncia generale agli armamenti atomici, non cogliendo il punto della questione: l’atomica non si può disinventare, le ipotesi possibili sono solo a) gli USA finché ne hanno il monopolio nuclearizzano l’URSS e creano un governo mondiale, come suggerito da Bertrand Russell al Segretario alla Difesa statunitense b) si entra nella meccanica avventurosa della deterrenza.
Ci sarebbe poi il tema della mutazione ontologica inaugurata dalla bomba atomica, ossia il fatto nuovo che l’uomo, uscito dalla minorità con l’Illuminismo come dice Kant, è diventato capace di distruggere sul serio se stesso, ma a questo tema Oppenheimer pare non dedicare pensiero alcuno.
Nel dopoguerra, con l’inizio della Guerra Fredda, il sostegno a parole alle cause di sinistra lo frega perché essendo molto vanitoso ha pestato i piedi a personalità importanti che si vendicano.
L’unica cosa nuova che ho imparato su Oppenheimer è che a un certo punto sbologna il figlio piccolo a una coppia di amici, perché sia lui sia la moglie non hanno voglia di occuparsene. Gli amici accettano, forse (è una mia inferenza, non c’è nel film) perché sono entrambi comunisti e sperano che Oppenheimer ricambi il grosso favore con informazioni sulla ricerca atomica da passare all’URSS.
Al momento della consegna del piccolo sventurato, Oppenheimer dice più o meno: “Siamo due persone orrende, insensibili ed egocentriche” e l’amico comunista ribatte “Le persone orrende, insensibili ed egocentriche non sanno di esserlo”, una affermazione totalmente falsa, come ognun sa: sono i PAZZI che credono di essere Napoleone che non sanno di essere pazzi, gli egocentrici sanno benissimo di esserlo e salvo qualche eventuale rimorso, di solito a parole, gli va bene così, sennò non sarebbero egocentrici.
In effetti Oppenheimer e sua moglie, se hanno fatto quel che il film mostra, SONO due persone orrende, insensibili ed egocentriche, anche perché sono entrambi ricchi di famiglia e se proprio non ce la facevano a occuparsi del bambino potevano tranquillamente pagarsi una o più governanti. Il film non spiega come mai non gli sia venuta in mente questa soluzione più semplice e tradizionale del problema “bambino piccolo che dà noia”. Si evince, o almeno io evinco, che non gli è venuta in mente perché sono effettivamente due persone orrende, insensibili ed egocentriche che vogliono sbarazzarsi totalmente della povera creatura che hanno messo al mondo, e per farla fuori non hanno abbastanza pelo sullo stomaco.
Quanto al film come tale, il povero Cillian Murphy che interpreta Oppenheimer brancola nel buio sgranando gli occhi dal primo all’ultimo minuto (salvo errore per gli ultimi venti in cui ho dormito), perché nessun attore può interpretare bene un personaggio così, sfuggente come un’anguilla, che resta sempre identico a se stesso e inspiegato nelle sue motivazioni. Gli altri attori forniscono il minimo sindacale perché i loro personaggi – tutti di contorno anche quando sarebbero interessanti, come l’amante di O. – sono anch’essi costruiti sulla sabbia, figure di cartone.
Bella fotografia di paesaggi, di esplosioni, di manifestazioni dell’energia con tante righine ondulatorie luminose che ci rinviano alla fisica quantistica (di cui si capisce, ovviamente, zero).
Costo: sei euro grazie alla riduzione per vecchi over 65. That’s all folks.

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Gli intellettuali e FB, di Vincenzo Costa

Gli intellettuali e FB
Un caro amico, ma di quelli proprio cari che si conoscono da almeno trent’anni, dice di non accettare dibattiti su FB, che i luoghi del dibattito sono altri: libri, articoli, etc. Premesso che la libertà di ognuno è insindacabile e che l’amicizia viene prima di ogni giudizio politico, resta che questa tesi è – secondo me- aristocratico-reazionaria, per diverse ragioni che investono la nozione stessa di cultura nel mondo della vita mediatizzato:
1) la filosofia europea inizia nelle piazze, che corrispondono a quella piazza virtuale che è oggi FB e gli altri social. Socrate poteva anche non andarci.
2) i social hanno mille limiti e altrettanti pericoli, ma sono ormai l’ambiente entro cui si muovono i flussi culturali.
3) quel criterio esclude dalla circolazione del senso tutti, lo limita a quattro gatti. Alla fine per partecipare al dibattito bisigna aver letto per anni la Logica di Hegel e tutto Adorno in tedesco.
4) i social sono un potente correttivo all’intellettualismo, come lo sono le lezioni per gli studenti. Mentre tra studiosi si fa in fretta a perdersi dietro a intenzionalità, contraddizione dialettica etc. nei social e a lezione non puoi bleffare: devi essere chiaro, per cui rappresentano un luogo di pulizia concettuale.
5) la circolazione delle idee e la riflessività sono cambiata nelle società contemporanee, avvengono per “diffusione” (qui sono oscuro, vero, ma credo si capisca): i concetti si diffondono come un’epidemia, attraverso criteri di rilevanza dettati dalle urgenze del presente.
6) ovviamente i social non sono un luogo privilegiato. Senza libri, articoli, luoghi deputati a discussioni più a grana fine saremmo più poveri, ma i social sono sorgente genuina di nuove idee, permettono lo scambio e la circolazione del senso tra mondo della vita e sistema culturale, e senza di essi questa circolazione si interrompe e il sistema culturale diventa autoreferenziale e inutile.
7) quell’idea è difensiva: ha paura dell’esposizione, di rischiarsi nel fuoco della piazza. Alla fine crea una nicchia di significato, in cui si riconosco gli adepti, e così concetti tutt’altro che definiti e che forse sono scemenze senza capo né coda diventano categorie interpretative della realtà.
8 ) c’è molta molta spocchia in quella posizione, della serie: non discuto con voi merdacce, se volete leggete i miei libri. Ecco, questo proprio no, questo è- per come intendo io la cultura e la sua funzione- inaccettabile.
9) alla base c’è forse l’aristocratismo Francofortese, la sua incapacità di comprendere la nozione di cultura popolare, ma questo richiederebbe davvero se non un libro almeno una serie articolati di post.
10) la verità è che FB è faticoso, se si cerca di usarlo come luogo di circolazione del senso, e certo ognuno di noi è già gravato da tante cose. E tuttavia, dato il sistema mediatico esistente, rappresenta l’unico spazio di intersoggettivita’ discorsiva, l’unico luogo di incontro e di scambio di idee. Poi chiaro che ci sono momenti in cui diviene necessario prendersi delle pause, ma questo deriva solo dai limiti di tempo e di energia.

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Fuori luogo, ma nel contesto (italico), di Roberto Buffagni

Signore perdonali perché non sanno quello che fanno: io invece, come Sartana in un celebre spaghetti western degli anni Settanta, NON li perdono. Come la DC ha presieduto alla fine del cattolicesimo italiano, come il PCI ha presieduto alla fine del marxismo italiano, così il governo nazionalista di FdI presiede alla fine del nazionalismo, e temo anche del patriottismo italiano (per quel che ne resta, poco). Purtroppo, i “nazionalisti” che hanno deciso questa sciatta vassallata ci hanno sicuramente pensato su, e si sono fatti venire l’idea di chiamare Gianni Morandi perché secondo loro è “nazionalpopolare”. In questa idea c’è tutto quel che li definisce, e non è un bel vedere. C’è l’idea, stupida, abietta e supponente, che al popolo si dà il latte scaduto, le merendine muffite, le patatine fritte nell’olio lubrificante perché non può assimilare altro, perché l’autentico, il bello, il dignitoso lo intimidisce, lo mette in soggezione, è incompatibile con la canottiera e il salotto della nonna. C’è l’abissale, quasi commovente cafonaggine in conformità alla quale si celebra un luogo e un’occasione elevate, solenni, ufficiali e dignitose facendo cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, appena dopo aver cantato l’inno nazionale, una strofa del quale recita “siam pronti alla morte/l’Italia chiamò” (forse dalla finestra, per farsi portare il latte).

N.B.: non ho niente contro Gianni Morandi che mi sta anche simpatico, andava benissimo per celebrare un eventuale scudetto del Bologna, l’anniversario della Camera Alta della Repubblica italiana, no. Ma non mi sono arrabbiato, semmai mi cadono le braccia. E’ andata così ragazzi, è andata così l’Italia.

Qui si vede, in forma grottesca, la conclusione della maestosa tragedia storica italiana. Nella IIGM era certo necessario e quindi giusto, tra i due mali, scegliere il male minore, la vittoria degli Alleati e la solidarietà con essi, legittimata dalla guerra partigiana del CLN. Ma oggi si vede chiaro che avevano ragione anche i migliori tra coloro che scelsero la RSI, quando dicevano che schierarsi con il nemico del giorno prima, contrabbandare la sconfitta per vittoria, ci sarebbe costato più caro che vivere la sconfitta fino in fondo, perché vi avremmo perduto l’identità, l’anima, la fiammella spirituale che tiene in vita la patria anche nella sconfitta, nella rovina, nel terribile errore, come fu un terribile errore entrare in guerra a fianco della Germania nazista (non solo perché poi ha perduto, ma perché il nazismo faceva schifo e lo sapevamo anche allora).

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Andrà tutto bene, di Andrea Zhok

Personalmente credo che la regola da adottare verso circenses lobotomici come il cosiddetto “festival della canzone italiana” sia tacerne. Anche parlarne male, nel meccanismo mediatico odierno, significa farlo diventare qualcosa di significativo.
Ma posto che il fuoco di artiglieria su questa grande operazione di distrazione e indottrinamento è comunque massivo, forse ci possiamo permettere una considerazione di cornice, che non nobiliti nessuno dei penosi dettagli della kermesse citandoli.
La prima osservazione da fare riguarda un meccanismo mentale, invalso a partire dagli anni ’80 con l’ingresso nelle vite degli italiani della televisione commerciale. Chiamiamolo l’argomento del “populismo delle élite”. Questo argomento scatta in presenza di critiche e contumelie espresse verso questi circenses, denunciandole come manifestazioni di elitarismo, lontane dal sentire del popolo.
È da quando ho memoria che sento usare questo argomento a molla, per cui se auspichi che qualcuno legga un classico della letteratura piuttosto che la finta autobiografia di un calciatore di successo, che ascolti buona musica invece di spazzatura commerciale, che apprezzi la differenza tra cinematografia di qualità (o, dio non voglia, buon teatro di prosa) rispetto all’ultimo video autopromozionale dell’influencer di turno, se fai questo gesto ti vedi rinfacciare di essere elitista, di non essere in sintonia con il gusto popolare, ecc.
Ed è così che, anno dopo anno, iterazione dopo iterazione di questa scemenza, si è arrivati al fondo del barile, iniziando gaiamente a scavare. Per rendere l’idea, nel mio anno di nascita (1967) il film per ragazzi campione di incassi era “Il libro della giungla” (Disney), oggi è “Me contro Te”.
Il problema dell’argomento del “populismo delle élite” è che è una falsità esiziale che si nutre di un fraintendimento.
Il fraintendimento è che si fa credere che tenere alti i criteri di qualità significhi prediligere dei generi “alti” rispetto ad altri generi. Ma questo è un modo di calciare la palla in tribuna. Non ha senso contrapporre, chessoio, la musica classica al rock, il teatro al cinema, la letteratura entrata nelle antologie a quella contemporanea, ecc. È del tutto ovvio che si trova alta e bassa qualità trasversalmente ad ogni genere, (oddio, per la Trap rimane un’ipotesi da dimostrare, ma diciamo in generale.)
C’è della “musica seria” contemporanea che è solo boriosa trasposizione in pubblico di un’officina di sperimentazione autoreferenziale che ha bisogno dei sottotitoli per significare alcunché, e c’è musica pop che ha prodotto capolavori.
La falsità (e nocività) in questo argomento sta nel fatto che il “gusto popolare” non è una realtà fissa e intrinsecamente scadente. La letteratura popolare ha creato miti profondi e leggende eterne, la musica popolare ha prodotto danze, canti e cori straordinari, una miniera tutt’oggi saccheggiata per estrarre cellule armoniche, melodiche e ritmiche. Il gusto popolare non è una realtà stabile: cresce o decresce, matura o degenera. E la prima forma per qualificare, educare, far maturare le qualità cognitive e la sensibilità pubblica è esporre le persone ad opere di qualità. (Ed ora, per piacere, risparmiatemi gli zebedei dai colpi di “e-chi-lo-dice-che-quella-è-qualità-è-qualità-per-te-non-per-me-il mio-idolo-è-bombolo”).
La scelta di cercare e proporre il livello più basso possibile ponendolo come “naturalmente popolare” è una scelta specifica, una scelta di politica culturale che produce una sistematica degenerazione delle anime. L’abbrutimento del mondo è in effetti la prima condizione per far accettare alla gente tutto il resto: l’arte e la letteratura di qualità consentono alle persone di esplorare modi di sentire e di vedere più perspicui, di percepire la possibilità di forme di vita superiori. Ma guai a lasciar vedere agli schiavi che lavorano nelle viscere della terra la luce del sole, perché potrebbero non voler più rientrare nel fango e nelle tenebre.
La cosiddetta “cultura popolare” odierna non è affatto popolare, non ha niente di spontaneo e non ha nulla a che vedere con una produzione “dal basso”. Si tratta di produzione industriale seriale, fatta cadere dall’alto da multinazionali dell’intrattenimento, che simultaneamente costruiscono personaggetti spendibili nelle proprie “pubblicità progresso”, personaggi su cui gli schiavi possono proiettarsi e trovare conferma che sono “nel posto giusto” e, soprattutto, che “non vi sono alternative”.
Le linee direttive di fondo che guidano l’intrattenimento per il bestiame di riferimento sono tre: bisogna comunicare che “è tutto a posto così com’è”, bisogna garantire che “ci stiamo già prendendo cura dei più alti ideali”, e bisogna far balenare l’idea che “c’è spazio per la spontaneità e per la massima libertà”.
Per fare qualche esempio con riferimenti puramente casuali a cose e persone. Monologhi piacioni da parte di qualche giullare di regime che spiegano la bellezza di una costituzione che viene straziata tre volte al dì nelle forme più spudorate servono a comunicare l’idea che “è tutto a posto” e che “abbiamo a cuore i più alti ideali”. In un paese che ha massacrato senza ritegno il diritto al lavoro, il diritto alla salute, la libertà di insegnamento, la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà terapeutica e che chiama le guerre cui partecipa incostituzionalmente da decenni “azioni di pace”, è necessario che qualcuno metta in campo di quando in quando una sviolinata falsa come Giuda sulla “Costituzione più bella del mondo”.
Similmente il florilegio di libertà in scatola, di trasgressioncelle a cottimo in cui si esibiscono “artisti” fatti a macchina è il modo in cui si rassicura il gregge intorno all’esistenza di spazi di spontaneità e di tolleranza. C’è quello che per l’ennesima volta, stancamente, spacca una chitarra, quello che si presenta in reggicalze, quella che recita in finto nudo, ecc. ecc. infinite spossate ripetizioni di simulacri di libertà, conformismo dell’anticonformismo.
L’intrattenimento è da almeno mezzo secolo – lo notava già Günther Anders – la forma primaria di indottrinamento e conformazione. Da tempo si sa che l’indottrinamento attraverso l’asserzione diretta produce resistenza. Invece l’intrattenimento produce i suoi effetti scivolando negli interstizi dell’attenzione, nella forma dell’implicito, dello sfondo, del collaterale.
L’odierno intrattenimento è un’operazione non semplicemente di rincoglionimento (è anche questo naturalmente), ma soprattutto è un’operazione sistematica di castrazione mentale. L’intero spettro dei luoghi dove si può e si deve “lottare” viene spostato in aree protette, innocue per chi detiene il potere, dove la plebe dedica gli ultimi ritagli di mente, tra una corvè e l’altra, alla rivendicazione di diritti sott’olio e libertà sponsorizzate.

https://sfero.me/article/andra-tutto-bene-1675946057027?fbclid=IwAR0u7G57IHj_oW6zSDx4uTX_EGfX5o7YkmIkwiDoHtqcCs_-5kqdZux3vKE

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Teatrino da poveracci, di Alberto Scotti

Ci sono avvenimenti, fatti, discorsi nei quali, se hai voglia, puoi leggere con straordinaria chiarezza lo spirito di un’epoca. È certamente il caso del monologo di Chiara Ferragni a Sanremo. C’è dentro tutto, ma proprio tutto, quello che ci contraddistingue:
1) Spleen della mediocrità, anzi proprio della scarsezza. Più sei incapace a leggere, scrivere, recitare, cantare, ballare ecc… più sali in alto e più vieni venerato. Questo perché? Perché le classi dominanti adottano strategie per abbassare sempre di più il livello della cultura popolare. Dunque servono modelli in cui chiunque, anche il più mediocre dei mediocri possa riconoscersi. Mai vista una recitazione/lettura più mal fatta, ridicola, patetica, neanche a un saggio delle elementari. Quindi prima serata nazionale nella trasmissione più seguita dell’anno. Serve un popolo di semi primitivi per far restare in piedi un sistema basato sullo sfruttamento sistematico.
2) Delirio narcisistico patologico e autoreferenzialità totale. Io, io, io, io, io e ancora io. Un mondo di individui soli, tristi, vuoti, perennemente attaccati a un terminale, in lotta con il resto del mondo per un tozzo di pane, che hanno bisogno di pompare, oltre ogni livello di grottesco, il nulla che sono.
3) Sentimentalismo d’accatto / la Narrazione. Narrazione, quella cosa che ha completamente preso il posto dei fatti, della realtà, della razionalità. Una sorta di pensiero magico da poveretti, una globalizzazione della peggior televisione americana divenuta linguaggio ufficiale del potere. Ti fanno lavorare come uno schiavo per due soldi? Ma è bellissimo, sei libero ed è tutta una meravigliosa avventura. La società dello spettacolo di debordiana memoria completamente fuori controllo. Un mondo di palloncini e cuoricini a coprire il puzzo della morte.
4) Vittimismo, piagnisteo. Altro cardine fondamentale dell’ideologia dominante. La funzione è doppia. Uno: rendere gli individui sempre più fragili, deboli, incapaci di lottare, affrontare la vita, sempre rannicchiati in un angolo a piangersi addosso e dipingersi come oggetti di soprusi, vessazioni di ogni genere. Quel che esiste lo si ingigantisce a dismisura, il resto lo si inventa senza ritegno. Tutto è tragedia, offesa, freccia avvelenata che trapassa il cuore. Due: fatti fuori i diritti sociali, vero incubo dei padroni, bisognava inventarsi qualcosa per continuare a mettere in scena la lotta politica. Ecco dunque i difensori dei diritti dei piagnoni in eterna guerra con coloro che vogliono negarli. Inutile specificare che è solo teatrino da poveracci.

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ESERCIZI DI SOVRASTRUTTURALISMO, di Andrea Zhok

ESERCIZI DI SOVRASTRUTTURALISMO
Il ministro dell’Istruzione Bianchi ha un sogno (anche i competenti sognano): vuole che tutti gli studenti e i docenti cantino all’unisono l’Inno d’Italia in tutte le scuole del Regno, pardon, della Repubblica.
Ecco, perché questa sciocchezza merita un’osservazione supplementare?
Perché è un indice significativo di qualcosa di sciocco sì, ma pericoloso.
Cosa dovrebbe pensare di ciò ogni frequentante la scuola pubblica, e non villeggiante a Capalbio? Rispetto ad una scuola cui manca tutto, dagli spazi, alle infrastrutture, ai docenti, ai programmi, alla ormai proverbiale carta igienica, rispetto ad una scuola che risulta sempre meno attrattiva sia per gli studenti, sia per i docenti, rispetto ad una scuola uccisa da un fiume di misurazioni del nulla e di premialità del niente, mentre i livelli formativi affondano da decenni, rispetto a una simile catastrofe, cosa sogna il ministro?
Il coretto mattutino sull’Inno nazionale.
Ma attenzione a ridere, la dinamica di questo tipo di istanze è enormemente insidiosa.
Questa sceneggiata onirica del ministro ambisce ad essere trasmessa come “patriottismo” (fino a ieri reietto, ora, per qualche giorno, recuperato ad hoc). Se questo accade, se parte la relativa sceneggiata, i suoi critici potranno essere etichettati come privi d’amor di patria, di senso dello stato, disfattisti, traditori, (putiniani?), ecc.
A ruota, le usuali raffinate penne a gettone della stampa nazionale potranno esibirsi in invocazioni alle muse nel nome dei sani valori della patria e della nazione, sputando sui critici disfattisti e apolidi.
A questo punto si potrà creare, come al solito, sul puro nulla, uno schieramento oppositivo ed un dibattito artificiale, in cui per qualche giorno o settimana potremmo trovarci a discutere di “valori”, di “patria”, di “senso civico”.
Solo per far seguire tra qualche settimana una nuova onda (globalista? edonista? libertaria? lasciamoci stupire).
Ora, la dimensione su cui si valuta il valore delle idee non è il colore della vernice, ma lo spessore.
E’ perciò che la peggior cosa che può capitare ad una buona idea è di essere promossa per la sua verniciatura.
Questa tendenza, oggi assolutamente imperante – ma che fa parte della trasformazione di tutta la società in “società dello spettacolo” (Debord) – può essere chiamata “sovrastrutturalismo”.
Il sovrastrutturalismo è ciò che guida la tendenza, parimenti diffusa a destra come a sinistra, a concentrarsi sulla fuffa luccicante, sulla vernice metallizzata delle idee, sui gesti, i simboli, le apparenze.
Nessuno – figuriamoci il ministro Bianchi – si preoccupa davvero di come ridare fiducia nello stato o di come costruire un senso della comunità nazionale, tutte cose assai importanti, e che potrebbero essere condivise come importanti da tutti. No, uno sforzo del genere richiederebbe una pluralità di atti, di soluzioni testardamente ricercate, di iniziative radicali e durature, in tutti gli infiniti settori in cui la fiducia in un’etica pubblica è stata minata.
Praticamente si tratterebbe di rigirare il paese come un calzino.
Figuriamoci se qualcosa del genere passa, o è mai passato, per la mente di qualcuno come il nostro ministro.
Si ritrarrebbe inorridito.
No, l’essenziale è avere un’occasione per fare ammuina giochicchiando con le vestigia cadenti di valori rimossi e desueti, giusto il tempo di far cascare una pioggia di lustrini sul dibattito pubblico per qualche giorno, e poi via per una nuova recita.
Il “sovrastrutturalismo” è l’unica politica rimasta in vita.
Esiste un “sovrastrutturalismo” più spesso giocato a “sinistra” (battaglie navali nei bicchieri dell’aranciata su questo o quell’imperdibile “diritto civile”, con relativo vittimismo) e un “sovrastrutturalismo” più spesso giocato a “destra” (castelli di pongo per simboleggiare questo o quell’imperdibile valore eterno, con relative posture eroiche).
Ciò che è politicamente essenziale però, l’unica cosa che davvero conta e che davvero deve contare, è che tutto rimanga rigorosamente sulla superficie: deve occuparsi dei gesti, dei simboli, delle photo-opportunity, degli atteggiamenti, delle paroline giuste: dai coretti mattutini al frasario politicamente corretto, dalle panchine “inclusive” degli archistar all’indignazione a molla del “Me Too”, dalla povera Greta usata per risciaquature “verdi” agli inginocchiamenti del “Black Lives Matter”, e via di corsa verso altre sceneggiate, altre recite su problemi esotici o remoti, trattati in modi fittizi.
Ma attenzione, uno potrebbe immaginare che questa superficialità eretta a norma di vita debba avere almeno i pregi dei suoi difetti: “Non smuoverà niente, ma almeno non farà seri danni”.
Niente affatto.
Non c’è niente, assolutamente niente che venga preso oggi in modo più micidialmente serio dell’accondiscendenza a queste apparenze.
Potrai trovare compassione come mafioso, come assassino, come avvelenatore di fiumi o evasore totale, ma se verrai meno all’adesione alle regole della recita del momento, se dubiterai pubblicamente dei miracoli di Santa Greta o non ti inginocchierai a chiedere perdono perché a Minneapolis hanno dei poliziotti razzisti, allora sarai crocifisso, sanzionato, ostracizzato, diventerai l’archetipo del traditore.
La serietà con cui oggi si puniscono le infrazioni agli imperativi sovrastrutturali è qualcosa di simile alle infrazioni arcaiche rispetto ai tabù sacri, ma per ragioni completamente opposte.
I tabù tradizionali erano mortalmente seri perché incarnavano credenze consolidate secolari e vi davano coronamento formale;
le tabuizzazioni del sovrastrutturalismo odierno invece sono richieste dalla consapevolezza che dietro all’apparenza sottile, alla verniciatura di doveri e imperativi alla moda, non c’è assolutamente niente: il nulla abissale, un magma di disorientamento e disperazione, che teniamo a bada recitandovi sopra.

SONDERWEG – Alle radici del cosmo russo : 1721-1921 (dai vascelli di Pietro alla corrente elettrica di Lenin [cap.3], di Daniele Lanza

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Il nostro “spazio sacro” pian piano sbiadisce con l’avanzare dell’età di mezzo della storia europea.
Ecco quindi un secondo momento, ancor più stravolgente che ritroviamo al momento di passaggio col secolo ancora seguente (XVIII) : la riforma epocale orchestrata da Pietro il grande (primo ¼ del 18° secolo), sembrerebbe violare il canone di fondo del cosmo russo in quanto comparto geoculturale caratterizzato distinto da quello dell’occidente. In effetti l’identità pienamente europea scelta dal nuovo zar è qualcosa di emblematico che contrasta radicalmente col concetto di Russia vigente al suo tempo, con la sua immagine prestabilita, che esce fuori dalla storia (nel senso di uscire fuori del proprio destino naturale).
La questione ontologica che le riforme petrine schiudono è oggetto di riflessione sia nel momento in cui vengono messe in atto, sia nelle fasi storiche a venire quando diverranno oggetti di studio, nonché – tra i circoli intellettuali – quesito accademico ai massimi sistemi in merito all’identità russa. Le stesse correnti conservatrici e patriottiche contemporanee possono avere qualche frizione in merito : i più tradizionalisti sostenitori dell’idea eurasista sottolineano l’acuta contraddizione, lo strappo con una tradizione di autoctonia rispetto all’occidente, che si ricuce simbolicamente col ritorno della capitale in Mosca, sprofondati nello heartland russo, all’indomani della rivoluzione d’ottobre, mentre gli oppositori viceversa sostengono la scelta di Pietro il grande in favore della patria più forte che generò con le sue scelte. Nota oltremodo agli specialisti di filologia slava e filosofi la cesura morale mai sanata tra “occidentalisti” e “slavofili” che incendia il discorso culturale del XIX nell’impero zarista : i primi sono favorevoli ad un’apertura nei confronti del mondo esterno, mentre i secondi mostrano invece un atteggiamento strenuamente conservatore in merito al nucleo di civilizzazione russa da preservare dalla minaccia di idee aliene ad esso. Per proporre un’analogia efficace che renda l’entità del contrasto si può affermare che mentre in occidente nell’impero kaiseriano contemporaneo infuriava la kulturkampf tra l’identità prussiana sostenuta da Bismark e l’influenza ecclesiastica cattolica, nel contesto russo imperiale tale battaglia di cultura concerneva il rapporto tra occidente e Russia ossia il tema esistenziale in merito all’identità russa
Ad essere sinceri tale diatriba perde senso se si adotta un criterio d’analisi di corso ancor più lungo – cioè se si considera la bisecolare parentesi imperiale russa in un più grande continuum che copre il mezzo millennio che arriva ai giorni nostri – e considerando una straordinaria elasticità mentale tipica degli antichi imperi : la Russia imperiale occidentalizzata di Pietro il grande, per quanto in antitesi con la tradizione autoctona è anch’essa a modo suo una estesissima e particolare fase di transizione del cosmo slavo orientale adottata al fine di SOPRAVVIVERE alle sfide della modernità, che un sovrano molto acuto già intuiva. Pietro il grande viaggiò fuori del suo paese, la Russia profonda, più di altri, rendendosi conto – assai più dei suoi predecessori – di quanto fosse inadeguato il paese alla sfida che si sarebbe posta nel secolo entrante (1700) : si optò pertanto per una soluzione estrema, simile ad una terapia d’urto come adattare forzatamente il paese ai metodi e alle consuetudini dei suoi rivali d’occidente (che già allora si percepiva avrebbero presto controllato il globo). Diventare simili al proprio nemico, imparare da lui ed assumerne le armi proprio per evitare di esserne travolti un giorno : farlo meglio e il più presto possibile prima che sia troppo tardi (la stessa cosa che il Giappone imperiale tentò di fare a metà 800 per difendersi da europei e americani che bussavano alle porte ! La Cina lo ha fatto a partire dal 900. La Russia semplicemente decise di farlo 1-2 secoli prima).
Una vera contraddizione in termini ne nasce….una Russia che accetta l’estremo sacrificio di trasformarsi dalle fondamenta al fine di sopravvivere e rimanere sé stessa (perlomeno mantenere un suo nucleo inalterato. L’identità russa come è consegnata al mondo dalle riforme petrine, cela un dilemma : l’operazione di occidentalizzazione ha successo e la Russia recupera in qualche modo un’ideale imperiale (più standardizzato e razionalizzato) anche se al prezzo estremo di allontanarsi dal suo alveo d’origine. La Russia si innova e si fortifica sebbene a costo di prendere a modello gli stati europei la cui civilizzazione è rivale a quella slavo orientale : il paradosso di una sopravvivenza assicurata assumendo la forma e le abitudini dell’avversario il cui modello si vuole evitare. Contraddizione eliminata, spazzata via quando ancora altri 2 secoli più tardi un’onda sismica bussa alla porta (nel 1917).
Si entra quindi nel secolo veloce (900) : il paese, malgrado le centinaia d’anni d’espansione territoriale è nuovamente in situazione di drammatica inadeguatezza rispetto al mondo circostante che incalza e in particolare rispetto a quel “golden standard” che è l’occidente europeo (ed americano ora). La Russia imperiale agli inizi del XX secolo sta annegando infatti : prima nazione bianca ad essere sconfitta sul campo da un paese asiatico emergente (Giappone, 1904), percorso da disordini, che infine si lancia nella mischia di quella grande guerra globale in gestazione da quasi 50 anni in Europa (la chiamiamo prima guerra mondiale). Il conflitto che è la tomba della società liberale europea, per quanto riguarda la Russia significa la potenziale disgregazione di quanto si era costruito nelle centinaia di anni passati : il rapido disfacimento totale e la potenziale liquefazione della patria (in un contesto moderno di penetrazione sempre più rapida del pensiero occidentale) a rischio di perdersi definitivamente.
Eppure no : guarda caso anche in tale frangente disperato accade qualcosa (accade sempre “qualcosa” come in base ad un indecifrabile equilibrio della storia). La Russia profonda si solleva, abbraccia la rivoluzione popolare (1917), scagliandosi con vigore mai visto contro tutti i suoi nemici, interni ed esterni : le antiche nobiltà di stampo germanico – che costellavano l’aristocrazia imperiale – scompaiono…..la dinastia imperiale muore, la capitale lascia le sponde del Baltico per tornare ad essere un punto nel cuore della Russia centrale. In generale cala una cortina di separazione tra il cosmo russo e il resto d’Europa che sembrava esser stata superata alle soglie dell’era contemporanea, quando si pensava (probabilmente) che più nulla oramai poteva tener separati i popoli in impermeabile isolamento.
Come se la parte più profonda del paese (il popolo slavo essenzialmente), dopo secoli di torpore, si fosse decisa a rovesciare tutto e tutti, liberandosi di quella sovrastruttura imperiale che un tempo era stata la sorgente di forza del paese……ma che ora ne era al contrario una catena che ne intralciava lo sviluppo relegandolo allo stato di arretratezza che ne sanciva la sconfitta, come la grande guerra aveva insegnato. Tempo dunque di tornare a quell’autonomia di pensiero, quell’autosufficienza che esisteva in un tempo remoto ormai dimenticato…sotto l’egida efficace e dinamica del verbo socialista : insolita, ma efficace l’affinità tra l’ideologia socialista e l’antica mentalità slava (poco prona al mercantilismo e capitalismo anglosassoni) e in parole semplici il marxismo-leninismo poteva ben rappresentare la nuova e più appropriata veste di quel nucleo di civilizzazione autonoma ed esprimerne il messaggio alternativo con il linguaggio e l’energia adatta ai tempi correnti.
Anche in questo caso – come al tempo di Pietro il grande – a casi estremi, estremi rimedi : la frattura tra passato e presente è totale….la faglia di divisione con l’anacronistico passato è profonda. Come vorranno i teorici della rivoluzione d’ottobre (di ieri e di oggi), essa costituisce un evento che “esce fuori della storia” ovvero fuori della rutine convenzionale del destino che aveva accompagnato la storia dell’umanità fino a quel momento, per inaugurare una nuova umanità……
Perlomeno questo avrebbe voluto la retorica comunista. La rivoluzione socialista dei bolscevichi “esce” dalla storia esattamente come ne “esce” la rivoluzione imperiale di Pietro il grande tanto tempo prima : la ragione e le circostanze sono le medesime del resto. Si tratta di SALVARE il grande paese e il suo cuore dal potere delle forze esterne ad esso, rafforzandolo, modernizzandolo con misure draconiane, anche a costo del consenso……modernizzare il corpo della nazione anche contro la sua volontà per il suo stesso bene (con la speranza che un giorno ringrazierà, come un giovanotto inesperto che dopo grida ed urla un giorno riconoscerà la saggezza del proprio educatore di un tempo). Prodigiosi saranno gli effetti del 1917, riportando una civilizzazione russa in decadenza di nuovo nel novero delle potenze planetarie del secolo XX. Tanto si potrebbe dire sulla rivoluzione socialista che la Russia fa propria, ma più di ogni cosa questo : nell’invertire il trend di decadenza dell’impero recupera quell’eccezionalità perduta, che era la fede ortodossa dei primi tsar dal XVI sec in avanti, sacrificata in nome di un più moderno, ma secolarizzato spirito imperiale da Pietro il grande nel XVIII. L’era socialista (almeno nelle premesse) non soltanto si sbarazza di un vestito ormai anacronistico come l’impero, ma addirittura lo supera tornando In UN CERTO SENSO alla carica universale della cristianità di Bisanzio (debitrice alla lontana dell’ellenismo stesso) in quel faro dei popoli che era l’entità sovietica, provvista di ineguagliabile ideale di giustizia sociale ed internazionalismo (…). L’Unione Sovietica torna ad incarnare una “patria dello spirito” come era quella di secoli addietro, anche se in differente ed inimmaginabile guisa : i bolscevichi in tale prospettiva (eterodossa per i più) i veri ed autentici salvatori della patria che ne ristabiliscono il destino naturale sotto la guida di Lenin, mentre i bianchi si ritrovano nello sgradito ruolo di falsi nazionalisti, combattenti a sostegno di una Russia (occidentalizzata) che non è quella reale, che deraglia dalla sua prerogativa “autoctona”.
Lungi dall’essere eterno il faro dei popoli tuttavia.
L’esperimento socialista sovietico si arena all’improvviso dopo 7 decadi, riportando nuovamente al disfacimento della patria come 70 anni prima : si rimette in moto quel moto di disgregazione che lo stato nato dalla rivoluzione bolscevica aveva arrestato per buona parte del secolo XX.
Tempo di perestroika, Gorbachev e quindi Eltsin (si sa pressochè tutto) e quel tragitto che ci porta sino a noi oggi.
Mi sono addossato la responsabilità di dare al lettore una visione globale delle cose (obiettivo arrogante più che ambizioso, eppure le circostanze autorizzano un tentativo almeno). Cerchiamo di andare al punto della situazione e concludere questo fiume di parole che ormai può confondere chi lo legge. Torniamo idealmente all’incipit di questa serie di capitoli, con il prossimo e conclusivo…

 

LA VERITA’ DI UN’EPOCA DALLA BOCCA DELLA SIGNORA PINA, di Roberto Buffagni

LA VERITA’ DI UN’EPOCA DALLA BOCCA DELLA SIGNORA PINA

 

Ieri è successa una cosa che mi ha colpito molto.

L’europarlamentare Francesca Donato interviene in aula e chiede un’inchiesta indipendente sulla strage di Bucha.

La vicepresidente dell’europarlamento Pina Picierno, una piddina che mai sinora richiamò la mia attenzione, la interrompe e la rimprovera battendo il pugno sul tavolo perché “quest’aula in nessun modo può divenire il megafono di posizioni che sono assolutamente non accettabili. […] Il massacro di Bucha è sotto gli occhi di tutti e non possiamo accettare che in quest’aula venga messo in discussione addirittura questo. […] quest’aula non è equidistante […] se ne faccia una ragione”.[1]

La signora Pina – una piddina di provincia dalla quale nessuno mai attese decisioni epocali – in un minuto e mezzo colpisce sotto la chiglia e affonda secoli di pluralismo politico, la democrazia parlamentare, il liberalismo, la Magna Charta, Westminster, forse anche le bianche scogliere di Dover.  Perché ovviamente – ma a quanto pare non così ovviamente – “quest’aula” parlamentare DEVE poter “divenire il megafono di posizioni” anche se sono “assolutamente non accettabili” e DEVE essere “equidistante”, altrimenti la possiamo anche chiudere e farci un parcheggio multipiano.

Quest’aula parlamentare infatti (come tutte le altre aule parlamentari), questo luogo in cui i deputati vanno per parlare, e per parlare liberamente, dicendo quel che ritengono opportuno dire, serve proprio a questo, da sempre: fino alla signora Pina.

Un altro parlamentare può certo contestare, anche con con asprezza, l’intervento del suo collega, e ribattergli, picchiando il pugno sul banco, che “quest’aula parlamentare non deve divenire il megafono di posizioni assolutamente non accettabili”: ma NON può farlo la vicepresidente del parlamento, che rappresenta l’istituzione parlamentare e sta alla presidenza proprio per garantire a TUTTI i parlamentari il pieno diritto di esprimere TUTTE le loro posizioni, anche quando lei personalmente le ritenga “assolutamente non accettabili”.

Il presupposto indispensabile del pluralismo politico, della democrazia parlamentare, del liberalismo, è questo: che l’istituzione parlamentare, e chi è delegato a rappresentarla, siano SEMPRE “equidistanti”, e garantiscano la piena libertà di espressione a tutti gli eletti: TUTTI, e SEMPRE, quali che siano le posizioni che assumono in aula.

Se in un suo intervento il parlamentare commettesse apologia di reato (non è il caso della Donato) la presidenza del parlamento potrà deferirlo alla magistratura, che richiesto e ottenuto dal parlamento il permesso di sospenderne le immunità e di inquisirlo, lo sottoporrà a procedimento penale.

Punto. Senza questi presupposti, in parlamento non si va per parlare ma per giocare col telefonino e combinare affarucci economici o di cuore.

Ma la signora Pina, come risulta inequivocabilmente dal video, non solo è pienamente convinta del suo diritto a dire quel che ha detto, ma è persuasa, intimamente, razionalmente persuasa di avere ragione, di essere nel giusto, di difendere valori non negoziabili, di assolvere pienamente il suo compito e il suo ruolo. È sicura di “fare la cosa giusta”, come dicono gli americani.

E qual è la cosa giusta? La cosa giusta è difendere la democrazia. E se vogliamo difendere la democrazia, nessuna democrazia per i nemici della democrazia.

Pas de liberté pour les ennemis de la liberté”. Saint-Just pronuncia queste parole alla Convenzione il 10 ottobre 1793, per giustificare la necessità di instaurare un governo rivoluzionario dittatoriale fino al ristabilimento della pace. Il Terrore è iniziato il 10 agosto precedente. Mentre Saint-Just tiene il suo discorso, in galleria ci sono i sanculotti armati, e fuori la ghigliottina. Chi dissentisse rischierebbe di essere fatto a pezzi all’uscita dall’aula, o di finire sul patibolo.

Ma che cos’è “la democrazia” in nome della quale la signora Pina affonda la democrazia parlamentare, il liberalismo, il pluralismo politico? Possiamo escludere che sia la democrazia parlamentare, il liberalismo, il pluralismo politico.

La “democrazia” della signora Pina siamo noi. Noi Occidente, noi che rappresentiamo e difendiamo i diritti umani, i principi universali, la libertà, l’umanità.

Per rappresentare e difendere i diritti umani, i principi universali, la libertà e l’umanità, noi:

  1. neghiamo il diritto di un parlamentare – che è un uomo anche lui – di esprimere in parlamento il suo pensiero
  2. violiamo il principio universale del diritto alla rappresentanza politica
  3. neghiamo la libertà di espressione del pensiero
  4. espelliamo dall’umanità chi non è come noi; per esempio i russi, che massacrano i civili e torturano i bambini. Che i russi massacrino e torturino lo diamo per scontato, tant’è vero che riteniamo superfluo e addirittura offensivo e inaccettabile anche solo menzionare l’opportunità di un’inchiesta indipendente sui loro massacri. Sono russi, dunque massacrano per natura: come gli orchi. Gli orchi sono orchi, cosa vuoi che facciano gli orchi? Massacrano e torturano, sono fatti così: non sono umani.

Curiosa, no, questa contraddizione? Per ottenere una cosa, fai il suo esatto contrario. Per essere umano, dichiari non-umana una porzione non trascurabile dell’umanità. Per essere democratico, distruggi la democrazia. Per difendere la libertà, applichi la coercizione in un luogo che è il tempio della libertà politica moderna, il parlamento. Per essere universale, sei particolaristico e identitario. Per difendere il mondo civile, distruggi la tua civiltà.

La logica aristotelica avrebbe qualcosa da ridire, ma che importa alla signora Pina? Aristotele non era democratico, era persino favorevole alla schiavitù; e poi la sua logica si chiama anche logica del terzo escluso, quindi non è inclusiva.

Forse è meglio rispolverare altri filosofi, per esempio la coppia Adorno-Horkheimer, molto cara alla generazione di piddini precedente quella della signora Pina; con il loro celebre libro “Dialettica dell’illuminismo”. In quel libro si dicono tante cose, condivisibili e non condivisibili, controverse o meno. Una però è di immediata attualità: che l’illuminismo parte con l’intenzione di realizzare tante belle cose, tipo il governo universale della ragione e della libertà, e non si sa bene come (Adorno-Horkheimer un’idea ce l’hanno, leggete il libro) finisce per realizzare l’esatto contrario, ossia un mondo dove abitano volentieri solo gli orchi, per esempio i personaggi delle opere di Sade, che torturano e massacrano gli inermi e, sì, anche i bambini.

Dalla bocca della signora Pina ascoltiamo, siderati, la verità di un’epoca: la nostra.

È un orco la signora Pina? No. La signora Pina è una brava persona, con i suoi pregi e i suoi difetti, che s’indigna di fronte alle cose cattive e desidera le cose buone. Non è un genio, ma chi è un genio? Molto pochi, quasi nessuno. Io certo no. È una piddina. Può risultare antipatico, ma c’è di peggio che essere piddini. Però la signora Pina, che pur vuole, vuole sinceramente tante cose belle e buone, finisce per fare tante cose brutte e cattive. Come mai?

Non avrei mai creduto che la signora Pina mi facesse pensare, e invece mi fa pensare molto. Mi interroga, mi lascia perplesso, turbato. La sento parlare in questo video, la guardo fare il viso dell’armi di una giusta collera, e mi chiedo: come siamo arrivati fin qui? Come siamo arrivati a questo capolinea? Nei suoi accenti sento risuonare la campanella di fine corsa, “si scende!” Ma dove si scende? Che cosa c’è in questo posto dove dobbiamo scendere? Che cos’è questo posto? È un posto? È un posto dove si può vivere? Un posto simile a quello dove stavamo quando salimmo alla nostra fermata? O è un posto assolutamente diverso, incomparabile, alieno? Lo sa la signora Pina? Ci abita già, lei, in questo capolinea? Forse sì, visto che pare trovarcisi così a suo agio.

Io no, io non mi ci trovo a mio agio. Non vedo niente di simile al posto dove sono salito, niente di familiare. Nebbia, vedo tanta nebbia; forse la nebbia della guerra? No, neanche, la guerra lo so cos’è. Non è questo.

Mi viene in mente un’analogia, ma è solo un’analogia. Avete visto le foto delle ombre sui muri di Hiroshima o Nagasaki? Quelle ombre che non sono ombre ma le impronte dei corpi umani nebulizzati dall’esplosione nucleare? Ecco. Questo capolinea dove ci fa scendere la signora Pina mi sembra l’impronta della civiltà europea impressa sul muro da un’esplosione atomica. I contorni sono identici, ma la sostanza, il corpo, l’essere un tempo vivo e senziente, non c’è più. Pùf!

 

 

 

[1] https://twitter.com/ladyonorato/status/1511659070914285571?s=20&t=cDE1_Dg2H1xe8uEimt1o4g&fbclid=IwAR2D0qMEQsklSIO-7A_0DXNAhASy-EBk1Ef4qQ4tu1vburqIEDI6dQyGp2k

FOCHERELLO, di Pierluigi Fagan

FOCHERELLO. È indetta per oggi una manifestazione nazionale degli studenti liceali. Presto per dire se sarà o meno un vero e proprio “movimento” a cui i giornali hanno dato già dato nome: la Lupa. I temi non mancano.
La scintilla è stato il ragazzo morto durante uno stage aziendale previsto dalle politiche di alternanza studio-lavoro inaugurato nel 2015 e proprio l’assetto studio-lavoro è finito sotto accusa come se destinazione strategica di fondo dell’istruzione fosse formare alla società di mercato e non alla società nel suo ben più ampio complesso. Viepiù oggi visto che la società che già di sua natura è un sistema complesso, si trova e sempre più si troverà a doversi adattare ad un inedito mondo complesso.
Producendo tra l’altro una precoce divisione classista tra licei professionali della periferia o dei piccoli centri ed i programmi più di cultura generale per i giovani dei quartieri del centro delle città medio-grandi. Ma l’argomento si amplia allo stato fatiscente di molti edifici scolastici, le politiche del trasporto, i bassi salari dei professori, il sovraffollamento, il modo di organizzare valutazioni ed esami, programmi sempre più orientati in favore di un certo modo di esser nel mondo, la destinazione dei fondi PNRR. Su tutte queste pregresse situazioni, si è abbattuta la pandemia e soprattutto i modi con i quali è stata gestita, tra DAD improvvisata e gestione confusa dei tracciamenti, esclusioni, quarantene e quant’altro. Su tutta questa somma dei fatti si sono infine abbattute le recenti manganellate della polizia.
Al consueto disagio ed incertezza giovanile della fase pre-adulta ed alla condizione sempre meno curata della scuola pubblica, negli ultimi anni si è abbattuta anche la consapevolezza che ormai non si sa più bene a cosa serva tutto ciò. Nel senso che, ne abbiano o meno fondata consapevolezza, i giovani avvertono che lo sbocco della vita non è pensato e debitamente organizzato. La disoccupazione giovanile in Italia, intorno al 30%, è il doppio della media europea sia versione euro, sia versione UE. Dovrebbe essere uno scandalo visto che sono i nostri figli, ma tale non è assunto nel dibattito pubblico.
Per altro, quelli che nelle statistiche compaiono tra gli occupati, hanno a che fare con precarietà endemica, salari letteralmente indecenti, rapporti e condizioni di lavoro obiettivamente insopportabili. E tali condizioni sono ormai endemiche, non si presentano solo di recente e per qualche anno iniziale del percorso di vita professionale, si protraggono a lungo ed in molti casi a lunghissimo. Con parimenti impossibilità di intraprendere percorsi adulti di vita autonoma, data l’endemica mancanza di alloggi a prezzi e condizioni praticabili. Ed è così da vari anni e pare vada sempre peggio mentre il mondo adulto parla di Next Generation, quasi che fare un titolo, magari in inglese, dia l’impressione di una cura ed attenzione che non c’è nel modo più assoluto.
Su tutto ciò, già grave di suo, va registrato il trauma pandemico, un trauma i cui risvolti psicologici e sociali sono ancora da indagare a fondo. Va ricordato a noi adulti, quali dovrebbero essere le condizioni di espressione della vita a quell’età. Espressioni che formano la socialità, la conoscenza, l’affettività, la personalità, il giudizio, la progettualità e la stessa energia vitale, l’identità e relativa intenzionalità.
L’altro giorno ho tenuto un intervento on line nell’ambito dei programmi di orientamento allo studio per classi dell’ultimo anno di liceo per un paio di cittadine delle Marche. La professoressa che organizzava gli incontri con le varie offerte formative universitarie mi dava un quadro piuttosto cupo della salute psichica dei ragazzi. Alcuni (e pare non pochi) vanno addirittura dallo psicologo come se ci fosse una “tecnica” per meglio adattarsi a questo contradditorio e desolante sfacelo, come se ci fosse una mancanza personale a sopportare queste pressioni che in primis uccidono il principio speranza. Gioventù senza speranza dovrebbe ritenersi un ossimoro in una cultura pubblica civile.
Altre generazioni hanno sofferto condizioni difficili, ma a differenza di queste che noi più anziani possiamo far risalire a racconti dei genitori sulla guerra o dopoguerra, quella dei giovani di oggi è una condizione silenziosa, non c’è rappresentazione pubblica, non c’è “mal comune mezzo gaudio”, come molte altre cose del nostro sbilenco modo di vivere anche il disagio è privatizzato. Sembra riguardi solo loro o meglio una parte di loro, coloro che non hanno famiglie ammanicate e capitalizzate e di tutto ciò non c’è visibilità e condivisione sociale. È un dramma silenzioso, una mancanza di speranza senza neanche il lamento. Non c’è neanche la minima attenzione politica e culturale visto che anche le scarse forze di opposizione sembrano magnetizzate da vaccini e permessi, distopie biopolitiche e le solite lagne sul neoliberismo ed il Grande Reset. Come se fossimo bravissimi a fare macro analisi di quadro e contesto sempre più mortificanti e paralizzanti ma si sia persa l’elementare scintilla alla ribellione, alla lotta, al darsi voce per pretendere attenzione e rimedio, a rendere il disagio pubblico e non privato.
Così volevo condividere la piccola luce di questo ancora incerto focherello, dargli almeno un po’ del mio fiato, sperando che altri venti a favore possano magari farlo diventare un piccolo punto di luce e calore in questo opprimente e grigio inverno del nostro scontento.
NB_Tratto da facebook

Violenza sulle donne, di Roberto Buffagni

VIOLENZA SULLE DONNE
Se vogliamo cadere per un attimo nel serio, ciascuno e ciascuna dovrebbe, magari, interrogarsi un pochino sul fascino, anche erotico, che esercita la violenza. Resecare chirurgicamente l’eros dalla violenza, Afrodite da Ares, è affatto impossibile. Se ce ne si rende conto, il rapporto erotismo-violenza si può addomesticare. Non che sia facile ma si può. Sarebbe la funzione della virtù cardinale della temperanza, che non è il moderatismo ma la forgia del carattere, che si tempra come si tempra(va) l’acciaio, ossia immergendo nell’acqua gelida il metallo incandescente martellato dal fabbro. Un uomo che abbia imparato a dominare la paura e la violenza, trasmutando la violenza in forza, non userà mai violenza contro una donna, che è fisicamente più debole, perché è disonorante abusare della propria forza impiegandola contro chi non può reagire. Il ricorso alla violenza fisica, in una relazione, è il sintomo più appariscente di un blocco della capacità di comunicare altrimenti un’emozione soverchiante che non si riesce a dominare. Il punto chiave è “che non si riesce a dominare”, cioè una debolezza del carattere, che può derivare da semplice barbarie e rozzezza, perché il barbaro deve saper dominare la paura, ma di rado si pone il problema di dominare la violenza; o dalla “barbarie riflessiva” (Vico), ossia dall’eccesso di raffinatezza, cinismo, corruzione dei costumi, che compromette la formazione corretta della personalità; o da veri e propri disturbi della personalità individuale.
Se invece, per correggere l’uomo violento, si punta sulla riforma in senso moderato, coccoloso, politically correct del trasporto erotico, il risultato è: a) se la riforma riesce, il rapporto erotico è intenso come una minestrina di dado, l’investimento emotivo sotto il minimo sindacale, e probabilmente lo erano già prima che il riformatore si mettesse all’opera b) se la riforma non riesce (caso più frequente) non si fa che provocare una reazione emotiva ancor più potente e incontrollabile, perché reprimere, negare, dichiarare fuorilegge un’emozione profonda, che a volte è un vero e proprio affetto nel senso psichiatrico della parola, non l’ha mai fatta sparire da che mondo è mondo e uomo è uomo; e anzi, ciò che viene così represso e negato prende proporzioni formidabili nella vita interiore, più facilmente travolgendo la volontà cosciente. Un secolo e mezzo di studi psicoanalitici dovrebbe averci insegnato almeno questo.
Le relazioni affettive tra uomo e donna sono un mondo intero. In questo mondo ci stanno, giusto per nominare gli aspetti principali: a) la relazione erotica vera e propria, che anch’essa è un mondo intero, e presenta aspetti e livelli molto diversi. Esemplifico con l’Odissea: Circe è “appetitio”, sensualità incontrollata, istinto sessuale che prende il comando e imbestia l’uomo; Calipso è “perditio”, isolamento, oblio, sospensione della vita nella bolla erotica; Penelope è “affectio”, attrazione fisica + affinità d’anima. b) in una relazione stabile, di tipo matrimoniale, c’è il progetto di vita in comune, con la sua dimensione anche economica, sociale, giuridica, comunitaria, religiosa, e, quando dalla relazione nascono figli, questo progetto di vita in comune coinvolge necessariamente altri esseri ed entrambe le stirpi dei coniugi, e così diviene un albero – l’Albero della Vita, l’ulivo dal quale Ulisse ricava il letto matrimoniale intorno al quale fa costruire la casa – che affonda nel passato con le radici, e si protende nel futuro con i rami. Quanto sopra per dire che le relazioni tra uomo e donna sono qualcosa di molto complesso, delicato, e di un’importanza che è un vero e proprio suicidio sottovalutare, ridurre a un astratto modello impoverito di uomo e donna. Ue’ ragazzi: da questa cosa nasce il mondo dell’uomo, di tutti gli uomini e le donne che esistono, sono esistiti, esisteranno. Ci dovremmo impegnare di più per capirla, se non vogliamo che imploda e trascini il mondo vitale dell’uomo nella disgregazione.
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