GIU’ LA TESTA, di Pierluigi Fagan

GIU’ LA TESTA. [Settanta anni di storia occidentale in versione condensata] Più l’Occidente perde potere demografico, economico, geopolitico in favore del resto del mondo, più questo “resto” reclama e reclamerà una gestione più democratica del mondo comune.
Più il resto del mondo reclama e reclamerà una condivisione maggiore dei poteri che decidono le cose del mondo, più l’oligarchia del sistema occidentale dissolverà ogni residuo di democrazia interna al proprio sistema.
Più il mondo si avvia a nuovi ordini multipolari, meno democrazia ci sarà in Occidente. Questo perché la “ricchezza delle nazioni” che ordina le nostre società, dipende spesso direttamente, altre volte indirettamente, da quanta porzione di mondo controlliamo come “sistema occidentale”. Meno controllo, meno ricchezza distribuibile, più problemi sociali, quindi meno democrazia.
L’intero movimento storico richiederebbe qui da noi una revisione molto profonda dei nostri modi di essere, dagli individuali ai sociali, dalle istituzioni sociali e giuridiche alle forme politiche, soprattutto, prima, le forme mentali, le immagini di mondo. Stiamo passando ad una nuova epoca storica, ma senza una democrazia tutto questo è impossibile.
La democrazia non è un sistema ad interruttore che c’è o non c’è. Nelle società complesse dovrebbe essere un “tendere a…” con vari gradi di intensità, il continuo rischio di regressione, una lunga scala ascensionale di espansione ed intensione da sperimentare, correggere e riproporre con passi indietro e qualcuno avanti, lungo decenni e decenni.
Quanto alle molto giovani e già appassite “democrazie occidentali”, la forma guadagnata nel dopoguerra ha avuto un certo impeto per i primi tre decenni, poi è stata sistematicamente ridotta e sabotata. La democrazia è un ordine culturale, emerge da un certo modo di essere della cultura (in senso esteso) dei cittadini di uno stato, modo che va coltivato e continuamente evoluto, solo dopo si formalizza in un ordine giuridico, non si compie perché ce l’hai scritto in Costituzione.
La sistematica ed intenzionale erosione democratica degli ultimi quattro decenni è avvenuta perché le élite del sistema occidentale, hanno compreso già da metà anni ‘70 che la triplicazione mondiale della popolazione umana che si è poi compiuta dal dopoguerra ad oggi e l’inevitabile trasferimento al resto del mondo dei modi economici moderni (ben prima della globalizzazione) avrebbero progressivamente chiuso le condizioni di possibilità del sistema di cui loro erano l’oligarchia eletta.
Hanno così varato una doppia strategia adattativa, adattativa per loro. Non vedendo alternative se non rimettendo in discussione i loro unilaterali interessi, le élite hanno stracciato il contratto sociale. Se non si capisce il punto critico, non si capisce la svolta neoliberale . Sappiamo da millenni che certe persone sono avide, non si spiega con l’epidemia di avidità la svolta anni ’80-’90, c’era una razionale.
Da una parte hanno liberalizzato la circolazione dei capitali, i loro, di modo da scommettere sulle crescite di questi nuovi spazi (soprattutto in Oriente, materie prime, scommesse sulle altrui scommesse, nuove tecnologie) ed accumulare così depositi di valore in pochissime mani come forse mai -complessivamente- prima registrato nella storia umana. Oltretutto stoccati in decine e decine di paradisi fiscali quasi tutti, invariabilmente, anglosassoni.
Lo spazio per una crescita continuata della complessiva ricchezza occidentale andava a va a restringersi oltreché per ragioni esterne, per ragioni interne di fine ciclo. Il sistema di economia moderna, come ogni cosa, ha un suo ciclo, non è un ordine eterno. Ha a che fare con umani e natura, enti finiti, difficile trarre un infinito dai finiti. Segue una curva logistica e sempre che poi non si trasformi in una a campana, è una erezione eterna solo nella metafisica economica.
Dall’altra, sapendo che l’intero movimento economico collegato alla loro “globalizzazione” avrebbe generato una pressione restrittiva verso il medio e basso sociale interno, hanno costruito teorie versione migliore dei mondi possibili per dar sostegno a quello che stava succedendo nel mentre hanno cominciato sistematicamente a ridurre quantità e qualità democratica dell’ordine interno. Questa seconda azione era in previsione del quando la narrazione si sarebbe scontrata con gli effetti della diversa realtà. Coi muscoli bolliti, quando la rana realizza che nella pentola il calore è insopportabile, non può più saltar fuori. Noi tutti, oggi, siamo quella rana, ci manca la democrazia per provar a saltar fuori, ci hanno bollito i muscoli democratici a fuoco lento. Ma adesso sono passati direttamente al cervello.
Negli ultimi quaranta anni è crollato il Politico occidentale. Vanno a votare sempre meno persone, più per abitudine che per convinzione o passione politica. La “passione” è un sentimento impossibile oggi da collegare a “politica”. E dire che viene da polis, la nostra forma di vita associata, l’essere in società con estranei e tuttavia, dipendervi, non si vede di cosa di più importante dovremmo occuparci in quanto soci di una società. La qualità della conoscenza distribuita rispetto ai problemi che abbiamo è infima, così il dibattito pubblico che la riflette in modo anche peggiore.
Il pluralismo politico ha perso interamente la sua fazione di sinistra che pure era quella che aveva spinto alla democratizzazione sin dalla Rivoluzione francese, nel movimento primo Novecento per il suffragio universale e poi nel dopoguerra. Il suo centro ha perso in Europa la sua matrice cristiana e sociale ed è diventato sempre più anglo-liberale. La sua destra, un destra che storicamente col concetto di democrazia c’entra poco visto che crede le diseguaglianze “di natura”, è cresciuta in composizione cha va da un confuso nazionalismo sovranista che però poi viene tradito non appena si ottengono posizioni di governo, ad un eterno tradizionalismo conservatore, a qualche esuberanza demagogica che però serve solo a trasformare rabbia repressa in voti per andare a gestire il sistema in nome e per conto l’élite liberale. Magari versione un po’ meno “woke” ma con non meno intenzione nel controllare lavoro, redditi, fisco, leggi, diritti sociali, cultura, democrazia imponendo diseguaglianze in favore del dominio oligarchico.
A fine anni ’70, mentre l’oligarchia americana convocava i vassalli europei e giapponesi per spiegare loro che i gravi e crescenti problemi di governabilità che si andavano a registrare negli anni ’60-‘70 erano dovuti ad un “eccesso di democrazia” (rapporto alla Commissione Trilaterale 1975, parliamo di Samuel Huntington, il “principe” della “scienza” politica di Washington), un astuto cinese dal nome Deng Xiaoping, che aveva studiato in Francia per “Imparare la conoscenza e la verità dell’Occidente per salvare la Cina”, cominciò a trapiantare semi di sistema economico moderno nel suo paese andato incontro a seriali fallimenti a seguito della applicazione delle idee marxiste-leniniste-maoiste in economia. Quel complesso teorico di audaci ambizioni era validissimo sul piano teorico e su quello critico, ma del tutto fallimentare sul piano economico. A seguire, la svolta cinese si è espansa al Sud Est asiatico e poi a tutto l’ex-Terzo Mondo. Quel Sud Globale che oggi reclama più democrazia nella conduzione dell’ordine del mondo agli stessi che negli ultimi decenni l’hanno contratta nei nostri paesi.
Quello di Deng era “capitalismo”? Purtroppo, definire “capitalismo” porta via interi boschi per trarne carta su cui scrivere definizioni poi da rivedere, collegare tra loro, precisare, ambientare in storia e geografia, con spruzzi antropo-culturali e vari tipi di distinzioni tassonomiche che si perdono nelle varie eccezioni a gran sempre più fine; quindi, alla fine, è un imprendibile ed imprecisabile concetto-saponetta e quindi la domanda non ha senso. Basta andare in libreria o biblioteca e vedere quanti si sono periti di dar la loro definizione che è sempre parziale ed incompleta, da più di un secolo e mezzo. È un ordine economico? Sociale? Politico? Geopolitico? Culturale? Storico? Religioso? Il concetto così formulato è inservibile. Ce lo scambiamo con l’aria di chi capisce bene cosa intende, ma credo non sia così, è ormai un vago “luogo comune” per giochi linguistici sociali. La diagnosi su “in quale sistema viviamo?” non è chiara, ovvio non lo si sappia gestire diversamente.
C’è una differenza fondamentale tra sistema cinese e sistema occidentale e non è nell’economia ma nella relazione tra economia e politica. Nel sistema cinese, c’è una economia di tipo moderno-occidentale, con più o meno Stato e relativo mercato, ma l’ordinatore finale della società è politico, è nel Partito Comunista Cinese, partito unico che ha in esclusiva tutte le chiavi ordinative in mano (giuridiche, militari, fiscali). Nel sistema occidentale, invece, la forma economica è solo di mercato (tutt’altro che smithiano, in realtà corrotto, manipolato, mono o oligopolista, spesso aiutato dallo Stato in vari modi), ma soprattutto la politica è decisa dall’economia, non dai cittadini. In Occidente, Il partito unico che ha tutte le chiavi in mano, è fatto dai funzionari del sistema che garantisce ad una ristretta élite di accumulare sempre più ingenti quantità di capitale e potere, qualunque cosa succeda nel mondo e nel mercato stesso. Anzi, tanto più è difficile sfruttare il mondo come è stato fatto per almeno tre secoli, tanto meno funziona il mercato interno, tanto più potere e capitale vogliono accumulare temendo l’implosione sociale o ambientale o geopolitica e quindi tanto meno democrazia possono sopportare.
I cittadini debbono veder svanire il loro peso politico democratico e subordinarsi sempre più, lavorare sempre di più, guadagnare sempre di meno, rendersi flessibili e morbidi, pensare sempre meno, discutere sempre meno, stare con la testa china su qualche device elettronico per sognare o sfogarsi. Al limite, possono scrivere contro l’ennesima ingiustizia, fare “critica culturale” o denunciare le trame oscure di quelli di Davos. Possono cioè “criticare”, così certificano che qui da noi c’è la libertà. È la democrazia “liberale” ovvero la dittatura della minoranza per evitare quella della maggioranza.
Negli ultimi due anni, abbiamo visto l’Europa, sistema storico che ha all’incirca più di due millenni ed a lungo dominante, disintegrare ogni propria autonomia in favore dell’élite americana. Tre giorni dopo l’inizio della voluta guerra in Ucraina, l’Europa si è “consegnata” ed è oggi una inerte e vassalla propaggine del sistema americano. Gente che solo fino a tre anni fa era convinta che tutto il mondo fosse un mercato post-storico destinato a sciogliere gli stati centralizzati in favore di nebulose di città-Stato profumate di innovazione, scambi senza frontiere e gobal-cosmopolitismo, ora sbava urlante per produrre più carri armati, più missili, più bombe per dar una lezione alle odiate autocrazie e difendere le nostre prerogative di “civiltà”.
Alcuni studiosi hanno scritto analisi e libri sul quanto repentino e profondo fu il cambio di mentalità tra primavera ed autunno del 1914. Speriamo sia vera quella battuta delle ripetizioni di tragedie in farse, letterariamente suona bene ma nei fatti non ne sarei così sicuro. Dopo due conflitti mondiali di origine intra-occidentale, c’è sempre la possibilità del “non c’è due senza tre”, è nella nostra poco compresa e scabrosa genetica storico-culturale.
Siccome qui in Occidente non siamo cinesi ovvero non abbiamo quella storia, geografia e cultura, da noi è impensabile un sistema politico con un partito unico per giunta socialista o addirittura comunista, almeno nelle dichiarazioni. Da noi, invertire le relazioni tra politica ed economia, avrebbe dovuto vedere una cosciente, forte e costante pressione di massa per evolvere e migliorare la nostra democrazia.
Ma le élite a partire da quelle di Washington, proprio cinquanta anni fa decisero che questa strada doveva esser percorsa al contrario. La sinistra che pure aveva contribuito a svilupparla ed un po’ se l’era trovata in atto per reazione al collasso bellico, che più di ogni altra parte politica avrebbe dovuto strenuamente difenderla, non avendone una teoria nei sacri testi tutti di economia e con un po’ di “rivoluzione” qui e lì, non si è accorta di niente. Ha continuato la sua “critica al capitale”, una sorta ormai di inoffensiva contro-religione negativa ai cui officianti non si nega una cattedra universitaria, con le sue sterili e formali dispute scolastiche che non interessano nessuno ed annichiliscono ogni fluttuazione sociale perché non conforme alle previsioni dei sacri testi. Questo nella sinistra intellettuale che sognando il superamento del capitalismo intanto s’è fatta scippare la minima democrazia.
Quella che interpreta weberianamente la politica come professione, s’è invece adeguata presto alla versione di una economia sempre più per pochi, sempre più ricchi, sempre più potenti, un modo economico sempre meno sociale e sempre più individualista ed americano. Una sinistra senza identità perché non ha un chiaro progetto sul mondo (del resto visto che i teorici s’impegnano solo in critica cosa vuoi che sappia costruire?), votata sempre meno perché se devi avere ad ordinamento il sistema di mercato allora scegli chi di quel sistema è conseguenza o al limite, la sarabanda di destra che tanto non mette certo in discussione i fondamentali e si dedica ai “valori” immateriali. Un po’ più armi e crocifissi ed un po’ meno gay e migranti.
Senza una minima forma di reale democrazia non possiamo dire niente, fare niente, decidere niente, cambiare niente. C’è gente che è morta, nella storia, per averla e darcela in eredità. Noi l’abbiamo persa come si perde il tempo, senza accorgersene. I posteri si domanderanno dove avevamo la testa…

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GLI ERRORI STORICI E STRATEGICI DELL’OCCIDENTE di Gordon Hahn

Traduciamo e pubblichiamo questa approfondita analisi storica e strategica degli errori commessi dall’Occidente che hanno condotto alla guerra in Ucraina. Buona lettura. Roberto Buffagni

 

GLI ERRORI STORICI E STRATEGICI DELL’OCCIDENTE

di Gordon Hahn[1]

17 settembre 2023

https://gordonhahn.com/2023/09/17/the-wests-historical-and-strategic-miscalculations/

 

La guerra in Ucraina è in buona parte il risultato di gravi errori di calcolo strategico-storici e storico-strategici commessi dell’Occidente alla fine della Guerra Fredda. I primi errori, strategico-storici, sono implicati da una filosofia della storia escatologicamente progressista –  progressista, cioè definita in termini puramente occidentali, non a caso conformi agli interessi dell’Occidente. Il secondo tipo di errori, quelli storico-strategici, derivano da una serie di ipotesi, generate dal primo tipo di errori, sul tipo di strategia di cui l’Occidente avrebbe avuto bisogno per assicurarsi di essere “dalla parte giusta della storia”. Nel contesto di questi errori di calcolo, l’Occidente ha anche commesso una serie di valutazioni errate sulla Russia, contribuendo a produrre il dilemma di sicurezza russo-occidentale che si sta riproducendo oggi nei campi, nei villaggi e nelle città dell’Ucraina.

 

GLI ERRORI DI CALCOLO STRATEGICO- STORICI DELL’OCCIDENTE

 

(1) L’errata filosofia della storia occidentale. Il primo errore storico-strategico successivo alla Guerra Fredda si radica nella filosofia della storia escatologica e occidentalocentrica dell’Occidente. Invece di vedere lo sviluppo della storia umana come circolare, l’Occidente lo vede lineare e progressivo. Il senso – radicato nell’escatologia cristiana dell’Anticristo, dell’apocalisse, della seconda venuta di Cristo, della salvezza dell’umanità e dell’avvento del Regno Celeste alla fine dei tempi – è che la Storia si dirige verso una particolare conclusione o esito. La storia, in questa visione, non è una serie di cicli ripetuti di ascesa e caduta, costruzione e distruzione, guerra e pace. Il punto finale della storia si sta decidendo in una lotta crepuscolare tra il bene e il male, in cui il primo vincerà. Non volendo essere perdenti in questa lotta, e non essendo meno incentrati su se stessi e orientati sui propri interessi degli altri, gli occidentali immaginano naturalmente una fine della Storia in cui il modello occidentale, essendo dalla parte giusta della Storia, alla fine trionferà. Le forze che si oppongono a questa conclusione della storia sono naturalmente “dalla parte sbagliata della Storia” e “malvagie”. Non ci può essere alcuna giustificazione per le loro azioni se violano le regole della “democrazia” nelle loro nazioni, e la legge dell’espansione della democrazia in tutto il mondo – la diffusione della “buona novella” e del Verbo dei valori democratici universali a livello globale, con l’arrivo dell’inevitabile, unica pace possibile: la pace democratica.

 

(2) La teleologia occidentale della fine della Storia nella pace democratica. Il secondo errore storico-strategico è stato quello di riempire il quadro storico-filosofico con contenuti che stabiliscono che non è tanto l’Occidente in sé a guidare la storia, ma i suoi elementi di civiltà: le libertà individuali, il governo repubblicano o, dove possibile, persino democratico, e le economie di libero mercato o il capitalismo. Francis Fukuyama in “La fine della storia e l’ultimo uomo” ha esposto questo argomento. Dopo la guerra fredda e il crollo dell’impero comunista sovietico, il repubblicanesimo capitalista era l’ultima ideologia o modello che restasse in piedi. Negli anni Quaranta, le “democrazie” occidentali (le democrazie sono poche, tutti gli Stati occidentali sono repubbliche) avevano apparentemente condotto la lotta per sconfiggere il fascismo in Germania, Italia, Giappone e, come spesso si dimentica, nell’Europa orientale. Hanno poi contenuto e superato l’altra ideologia che le sfidava, il comunismo, portandolo alla disillusione nei confronti di se stesso e provocando, in larga misura, alla sua dissoluzione. Ciò ha confermato l’escatologia dell’Occidente riguardo alla direzione e alla fine della Storia.

 

L’umanità era entrata nella fase finale della storia, che avrebbe portato a un mondo di Stati repubblicani, capitalisti e di libero mercato. Poiché, secondo la “teoria della pace democratica”, le repubbliche non si fanno guerra tra loro, il nuovo mondo di Stati repubblicani si sarebbe presto trasformato in un regno celeste di pace eterna e prosperità per tutti. L’eccitazione, in alcune comunità o sottoculture occidentali – ad esempio, nei circoli neocon – era palpabile. C’era una nuova energia ansiosa e un’impazienza intollerante verso qualsiasi resistenza oggettiva o soggettiva. Questa analisi teleologica lasciava da parte il bagaglio di centinaia di storie nazionali, di centinaia di memorie nazionali, di centinaia di culture nazionali, delle numerose religioni e civiltà che hanno generato e, di conseguenza, delle centinaia di questioni internazionali, interculturali e interconfessionali da risolvere. Inoltre, l’analisi aveva enormi implicazioni strategiche per il completamento della marcia del repubblicanesimo nel mondo.

 

GLI ERRORI STORICO- STRATEGICI DELL’OCCIDENTE

 

(1) Salvare la storia con la promozione della democrazia e l’espansione della NATO. L’origine religiosa della fede degli occidentali in una fine capitalista e repubblicana della storia non preclude necessariamente l’attività umana per accelerare lo sviluppo storico. Come alcune tradizioni cristiane ritengono che la purificazione dell’umanità e la grazia sulla terra possano contribuire ad avvicinare la salvezza finale, o come alcuni comunisti hanno revisionato il marxismo per giustificare la possibilità di un avvento del comunismo in Stati prevalentemente agricoli, soprattutto per mezzo di forze rivoluzionarie organizzate e guidate da un partito affiatato di rivoluzionari professionisti in grado di “telescopare” o contrarre il corso dello sviluppo storico tra la “fase democratica capitalista e borghese” e la rivoluzione socialista, così anche gli umanisti che credono nell’inevitabile avanzamento delle libere repubbliche in tutto il mondo si sforzano di accelerare l’avvento di una comunità globale repubblicana e della pace democratica. Ciò si è riflesso nella vasta espansione degli sforzi di promozione della democrazia dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, volti a spingere le società meno mature verso la transizione democratica. A volte, le famigerate rivoluzioni colorate sono state soltanto alimentate, piuttosto che direttamente organizzate, ma il risultato è stato lo stesso: l’incorporazione degli aspiranti, e di alcuni dei non aspiranti di ogni specifico Stato, nel sistema occidentale, al fine di liberarli e salvarli dalla guerra, dalla povertà e dall’autoritarismo. Alcuni, come i russi e i cinesi, erano costernati per la curiosa correlazione tra vicinanza politica e geografica degli “Stati obiettivo” dell’Occidente, da un lato, e i propri alleati e vicini, dall’altro. Due corollari di questo proselitismo sono stati l’espansione della Comunità Europea per espandere le economie dominate dal mercato nei mondi post-sovietici e post-comunisti e – cosa più sconcertante per Mosca e Pechino – l’espansione del blocco militare più potente della storia mondiale, la NATO. Quest’ultimo corollario espansionistico è stato venduto come l’allargamento di un’alleanza puramente difensiva, in perfetta sintonia con l’imminente pace democratica. I membri della NATO vivrebbero in una zona di sicurezza e in una comunità di democrazie, e gli altri desidererebbero, naturalmente, unirsi alla pace.

 

(2) Trasformare l’Ucraina da Stato cuscinetto a dilemma di sicurezza. La sconvolgente portata della tracotanza politica e dell’errore storico di questa strategia della NATO, in particolare nel momento in cui è diventata sempre più stridente ed egoistica, è stata visibile a tutti i più esperti pensatori strategici dell’Occidente: George Kennan, John Mearsheimer, Michael Mandelbaum, tra gli altri (e compreso il sottoscritto). Altri, come Zbigniew Brzezinski, hanno visto la luce sul letto di morte.

Questi uomini navigati e ragionevoli hanno notato e avvertito fin dall’inizio che una simile politica avrebbe spinto Mosca nelle braccia di Pechino, creando un baluardo di potenza strategico anti-occidentale. È in questo errore di calcolo, di gravità storica, che l’odierno conflitto ucraino trova la sua genesi, poiché la “politica della porta aperta” della NATO ha sollevato la questione della copertura totale del confine russo da parte dei membri dell’alleanza. Tentando di far entrare l’Ucraina nella NATO – ufficialmente dal vertice di Budapest del 2008, ufficiosamente quasi di certo dal 1991 – l’alleanza si è privata di uno Stato cuscinetto tra Russia e Occidente che avrebbe in gran parte prevenuto e precluso il conflitto con la Russia, soprattutto se una strategia di buffer-building invece che di alliance-building fosse stata applicata anche al Baltico, alla Bielorussia e alla Moldavia. Fin dall’inizio, l’espansione della NATO ha screditato la democrazia e gli occidentalisti russi, e ha resuscitato la tradizionale norma di vigilanza sulla sicurezza della Russia nei confronti dell’Occidente.  I nuovi membri della NATO nutrivano forti rancori storici e animosità culturali e religiose nei confronti della Russia, e la Russia aveva una sensibilità storicamente radicata nei confronti dei suoi vicini occidentali, a causa di un modello secolare di interferenze politiche, sovversioni e interventi, animosità culturali e religiose, interventi militari e invasioni provenienti dall’Occidente, dall’Occidente e per l’Occidente.

 

L’Ucraina è stata una questione particolarmente problematica, visti gli elementi storici, culturali, religiosi ed etno-nazionali comuni tra Russia e Ucraina. Le identità nazionali ucraine e russe sono inestricabilmente intrecciate da esperienze storiche comuni e da legami politici, in parte comuni, in parte meno. Insistendo sul suo diritto di espandersi in Ucraina, la NATO ha trasformato il segno neutro sotto il quale esisteva l’Ucraina post-sovietica in un segno negativo per Mosca. Da potenziale Stato cuscinetto per l’Occidente (e per la Russia), l’Ucraina è diventata un oggetto del desiderio e di contesa tra l’Occidente e una Mosca già in uno stato di maggiore vigilanza a seguito di diverse ondate di espansione della NATO, anche ai confini con gli Stati baltici. In breve, l’Occidente ha sostituito un cuscinetto di sicurezza con un dilemma di sicurezza e un’alta probabilità di conflitto con la Russia.

 

Forse ancora più importante è il fatto che, a causa della storia spesso comune dei due Paesi, l’Ucraina era uno Stato diviso, diviso lungo linee etniche, linguistiche, identitarie, geografiche, storico-politiche e socioeconomiche. Gli sforzi della NATO per espandersi in Ucraina hanno aggravato le tensioni tra l’Ucraina occidentale e quella sud-orientale, dove queste divisioni erano pronte a esplodere, come un soldato che calpesta una mina. La rivolta di Maidan, sostenuta dall’Occidente, è stata la violenta scintilla che ha fatto esplodere questa polveriera.

 

(3) Ridimensionare la guerra convenzionale, mentre si spinge la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Allo stesso tempo, mentre l’ultima fase della presunzione storica di una pace democratica e altri fattori hanno contribuito a produrre un nuovo approccio “non convenzionale” alle dottrine militari e di sicurezza nazionale occidentali, il rivoluzionarismo cromatico dell’Occidente e l’espansionismo di NATO e UE hanno spinto la Russia verso la guerra convenzionale in Ucraina. Ma l’imminenza della pace democratica sembrava significare, almeno in Occidente, che il rischio di guerra era diminuito, e che le guerre convenzionali del tipo visto in Europa erano finite, così provando e anticipando l’avvento della pace democratica. Le vere grandi potenze erano ormai unanimi sulla superiorità dei sistemi politico-economici capitalistici e repubblicani; insieme avevano adottato i valori universali. Con una Russia indecisa, la debolezza post-Guerra Fredda, gli accordi di controllo degli armamenti dell’era della perestrojka, e la “politica assicurativa” dell’espansione della NATO erano garanzie affidabili che i timori di una minaccia russa all’Europa fossero limitati se non inesistenti. La guerra e le forze armate convenzionali potevano ancora emergere nel Terzo Mondo, ma per decenni non avrebbero rappresentato una minaccia, per le potenti macchine militari occidentali. Fuori dell’Occidente, la democrazia garantiva la pace con il Giappone e l’India, e la Cina era creduta in procinto di compiere una “transizione alla democrazia” di tipo sovietico, di cui Piazza Tienanmen era stata un presagio. Senza la minaccia di una guerra convenzionale di grandi dimensioni, le spese per la difesa e l’intelligence potevano essere ridotte, o almeno gli aumenti di bilancio potevano essere rallentati.

 

Nello stesso momento in cui i timori di una guerra convenzionale sono diminuiti, è emersa una nuova minaccia non convenzionale per la sicurezza, rappresentata dal terrorismo jihadista e dalle controinsurrezioni. La principale minaccia non convenzionale proveniva dal “Terzo Mondo”. Per questo motivo, una parte significativa delle spese per la difesa e l’intelligence è stata dirottata verso il “controterrorismo”, il nation-building e le esigenze di ingegneria sociale interna. Questo spostamento è stato particolarmente forte dopo il 2000, quando l’11 settembre ha scatenato la guerra contro il terrorismo jihadista, la guerriglia e l’insurrezione. Ma nel frattempo, le successive ondate di espansione della NATO e il conseguente ritorno all’autoritarismo più tradizionale della Russia e alla sua cultura di vigilanza sulla sicurezza stavano intensificando le tensioni con l’Occidente, facendo crescere le spese militari russe e aumentando la preoccupazione generale dello Stato riguardo alla percezione della crescita convenzionale dell’Occidente, dai Balcani al Caucaso, dalla Siria all’Ucraina, e alla necessità di una maggiore attenzione dello Stato e della società alla sicurezza nazionale. Dopo le rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina a metà degli anni Duemila e la guerra ossetiana Georgia-Russia dell’agosto 2008, la Russia ha intrapreso un grande sforzo di riforma e modernizzazione militare.

 

GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DELL’OCCIDENTE NEI CONFRONTI DELLA RUSSIA E IL NUOVO CALCOLO RUSSO

 

L’errore di lettura strategica dell’Occidente è stato forse ancora più evidente quando si è trattato di sviluppare le relazioni con la Russia post-sovietica. Errori storici e strategici hanno portato a un atteggiamento accondiscendente nei confronti della Russia, a una sottovalutazione dello status di grande potenza storicamente persistente della Russia, a una sopravvalutazione del permanere della debolezza russa post-sovietica, a una tendenza a ignorare gli interessi nazionali e il senso dell’onore della Russia, e a un completo fraintendimento della determinazione –  della Russia, e non solo di Putin – a contrastare l’emergere di una minaccia militare ai suoi confini. Le grandi potenze non permettono questo tipo di dinamica, e la Russia è determinata a preservare il suo status di grande potenza per ragioni di storia, sicurezza, tradizione e onore. Numerosi studiosi occidentali hanno osservato che se l’Ucraina si unisse al campo occidentale e le facesse perdere il punto d’appoggio nel Mar Nero che le conferisce la flotta basata in Crimea, la Russia farebbe molta fatica a mantenere lo status di grande potenza.

 

Il già citato ritorno della cultura russa di vigilanza sulla sicurezza e il suo rifiuto della democratizzazione provocata dal rivoluzionarismo di promozione della democrazia e dalla militarizzazione della democrazia con l’espansione della NATO sono direttamente collegati anche all’ interpretazione occidentale completamente errata del crollo sovietico e della Russia post-sovietica in generale.  L’Occidente ha interpretato erroneamente la caduta del regime comunista sovietico come una rivoluzione dal basso o come una “transizione democratica”.  Non si trattava di nessuna delle due cose. Nel primo caso, le élite politiche sono state inclini a credere nel mito di una “rivoluzione popolare” dal basso, su ampia base sociale, perché questa era la teleologia politica dettata dal modello “fine della storia”. Nel frattempo, gli accademici inserirono il caso russo nella teoria popolare all’epoca: la teoria della transizione. In realtà, la trasformazione del regime sovietico/russo fu principalmente una rivoluzione dall’alto, con elementi secondari di una nascente rivoluzione dal basso e di “patti di transizione” o negoziati tra regime e opposizione verso una trasformazione democratica, ma questi ultimi elementi furono abortiti quasi immediatamente dopo il fallito colpo di Stato dell’agosto 1991 (cfr. Gordon M. Hahn, Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition, and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction Publishers, 2002, Routledge, 2017).

 

Ciò significa che, piuttosto che un’ampia massa di rivoluzionari repubblicani che insorgono per cambiare il regime e prendere il potere, come in una rivoluzione dal basso, o a condividere il potere e rimanere politicamente vigili dopo una transizione negoziata dall’ancien regime, la rivoluzione è stata guidata dall’alto, all’interno dello Stato, da attori del Partito-Stato che avevano un’adesione limitata, se non addirittura una limitata comprensione, di che cosa siano governo repubblicano ed economia di mercato. Questi attori hanno dominato la leadership e l’apparato statale nella “nuova” Russia dopo il 1991. Il fatto che una parte della leadership e della burocrazia russa e una parte della società avessero un’adesione al modello repubblicano-capitalista rendeva possibile una trasformazione completa verso il regime repubblicano di mercato, che però restava un compito estremamente difficile. Ma poiché l’Occidente presupponeva che la rivoluzione avesse una base sociale più ampia di quanto fosse in realtà, non sentiva l’urgenza di fornire alla Russia un’assistenza economica che allora era, invece, assolutamente critica. L’assistenza arrivò, ma troppo poco e troppo tardi. Peggio ancora, l’Occidente iniziò a discutere e poi ad attuare l’espansione della NATO, delegittimando le forze filo-occidentali, filo-repubblicane e filo-libero mercato. La rivoluzione filo-repubblicana russa dall’alto è stata quindi messa a dura prova, con le rivoluzioni colorate e le successive ondate di espansione della NATO e dell’UE in arrivo (Hahn, Russia’s Revolution from Above, capitolo 11). All’inizio degli anni Duemila, quindi, la rivoluzione filorepubblicana russa dall’alto era morta.

 

Gli occidentali erano consapevoli, anche se forse sottovalutavano, il fatto che la rivoluzione era zavorrata dal complesso e sfaccettato fardello dell’eredità comunista sovietica: una politica totalitaria, un’economia ipercentralizzata e un’ideologia, una cultura e una politica anti-occidentali, anti-capitaliste e anti-libertarie. Ma non hanno visto arrivare la rinascita del passato tradizionalista pre-sovietico della Russia, tuttora utilizzabile. Questo sviluppo è stato il risultato diretto delle tensioni a cui l’espansione della NATO sottopose la debole base sociale e democratica della rivoluzione russa dall’alto. Con l’affievolirsi dell’influenza dei repubblicani russi, l’élite politica e intellettuale russa ha iniziato a cercare un nuovo percorso nel passato del Paese. La cultura, il pensiero, la storia e la politica russa pre-sovietica erano l’ovvia alternativa a una revanche comunista in risposta all’invasione occidentale annunciata dall’espansione della NATO e dell’UE. Nel Rinascimento religioso russo e nell’Età d’Argento durante il crepuscolo imperiale alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, la cultura e i discorsi russi riflettevano non solo le idee che alimentarono l’ondata rivoluzionaria e la presa del potere comunista: comunismo proletario, socialismo agrario, utopismo rivoluzionario e internazionalismo comunista. Altrettanto influenti furono le idee dell’universalismo e del comunitarismo ortodosso, del messianismo russo, dell’anarchia slavofila e del “comunitarismo” agrario, del panslavismo, del liberalismo cristiano, del liberalismo occidentale, del sentimento antiborghese: in sintesi, varie forme di conservatorismo non occidentale e/o utopico. La politica, sotto l’autocrazia della Russia imperiale, era autoritaria, ma liberale per gli standard sovietici, e concedeva, occasionalmente, ulteriori liberalizzazioni. Per gli standard odierni costituisce un autoritarismo temperato, a volte morbido a volte meno, ma non era totalitaria, e quindi risponde al desiderio dei russi di libertà significative rispetto dell’esperienza sovietica. Allo stesso tempo, coincide con la sfiducia dei russi nei confronti dell’Occidente e con lo status di grande potenza del loro Paese.

 

Con il discredito del comunismo e del socialismo alla fine dell’era sovietica e quello del capitalismo e del repubblicanesimo nella depressione dei selvaggi anni ’90, sono stati questi conservatorismi russi pre-sovietici a emergere dal sedimento della memoria nazionale, scoperto dopo la liberalizzazione della perestrojka di Mikhail Gorbaciov e la debole democrazia di Boris Eltsin, che però ha permesso un discorso pubblico molto libero sul passato, il presente e il futuro della Russia. L’autoritarismo morbido con un notevole sostegno popolare e il ritorno dell’anticapitalismo o almeno dei sentimenti antiborghesi, l’universalismo e il comunitarismo russo ortodosso, il neo-eurasismo semi-universalista, il nazionalismo russo di Stato (non etnico) e la preferenza per la solidarietà nazionale rispetto al pluralismo politico sono tornati alla ribalta nella cultura russa – politica, economica e strategica. L’alternativa russa tradizionalista non è stata capita, perché l’Occidente l’ha ignorata o non l’ha mai presa sul serio. Dopotutto, la fine della storia prevista dai pensatori occidentali anticipava un futuro che si allontanava da queste tradizioni.

 

Inoltre, la recente rinascita russa ha visto il ritorno di una visione semi-messianica, neo-eurasiana, in cui la Russia è vista come una forza principale, se non la principale, in una grande alternativa eurasiatico-centrica all’Occidente, in cui Russia e Cina dovrebbero radunare il “Resto” contro l’Occidente, allo scopo di: difendere la religione contro il secolarismo; i valori tradizionali della famiglia contro il femminismo radicale, il genderismo, il transgenderismo e il transumanesimo; il comunitarismo contro l’individualismo, e il nazionalismo e la civiltà contro il globalismo. Ogni civiltà, in questa visione, è libera di determinare il tipo di sistema politico ed economico in cui vivere. Così, l’India e varie democrazie africane e latinoamericane si stanno integrando con diverse organizzazioni internazionali dell’alternativa sino-russa, dai BRICS all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, all’Unione Economica Eurasiatica e alla One Belt One Road. Il nuovo messianismo russo emergente – che ha anche radici nell’escatologia e nella teleologia di ispirazione cristiana – ritiene che la Santa Russia abbia una missione speciale, negli affari mondiali. Tale missione, al momento, si limita a quella incarnata dalla strategia neo-eurasianista, attualmente parte del partenariato sino-russo previsto da Mosca.

 

In termini di affari militari e di sicurezza, la Russia sta ancora una volta andando per la sua strada. Nonostante le guerre cecene e l’ascesa dell’Emirato del Caucaso, entrambi legati ad Al Qa`ida e poi all’ISIS, i russi non hanno mai ricevuto il promemoria sull’abbandono della guerra convenzionale, e di certo non l’hanno ricevuto i militari russi. Certo, nei depressi anni ’90 i leader civili russi sono stati costretti a tagliare i bilanci della difesa, e il jihadismo nel Caucaso ha richiesto di dirottare gli scarsi finanziamenti verso l’antiterrorismo e la contro-insurrezione. Ma questo è avvenuto solo ai margini e per necessità, a differenza che in Occidente, dove le nuove dottrine sono state accolte con entusiasmo e si sono radicate nella sua peculiare filosofia della fine della storia.

 

CONCLUSIONE

 

Tornando al 2022, vediamo che l’Occidente ha condotto, anzi trascinato l’Ucraina in una catastrofe. Con l’adesione alla NATO e all’Occidente in senso lato che le è stata prospettata per due decenni, Washington e Bruxelles hanno impegnato l’Ucraina nel tipo di ingegneria sociale che oggi spesso infligge alle proprie popolazioni, ma su una scala molto più grande. I governi sono stati rovesciati, la politica e l’economia sono state ridisegnate, l’ultranazionalismo, il neofascismo e, cosa più pericolosa, l’antirussismo sono stati non solo tollerati, ma per molti versi incoraggiati dall’Occidente in Ucraina. L’Occidente ha creato in provetta una “anti-Russia”, secondo la terminologia di Putin, ai confini della Russia, mentre ha alimentato i timori per la sicurezza in Russia soprattutto attraverso un’espansione della NATO che per l’Ucraina è rimasta temporaneamente in sospeso, ma che è risultata fin troppo reale per la Russia, con la sua memoria storica di otto secoli di interferenze, interventi e invasioni occidentali. La Russia non ha mai effettuato una transizione su larga scala da un’economia manifatturiera a una virtuale come quella occidentale. Questo, e il fatto che la Russia abbia conservato il know-how e la capacità bellica convenzionale si manifesta nella guerra provocata dal messianismo repubblicano e dalla teleologia storica dell’Occidente.

 

I numerosi errori di calcolo dell’Occidente hanno spinto l’orso russo nell’abbraccio del panda cinese. Gran parte del Resto del mondo è pronta ad abbracciare l’orso in risposta all’egemonia occidentale, alle rivoluzioni colorate, all’espansione della NATO ora anche in Asia, alle richieste dell’Occidente di sanzioni per la guerra in Ucraina, alle pesanti pressioni di FMI e Banca Mondiale. In Ucraina, il nuovo messianismo conservatore neo-eurasiatico della Russia sta cercando di proteggere le sue retrovie in Occidente, mentre si rivolge verso est. Nella sua arroganza, l’Occidente non solo ha “perso la Russia”, ma sta per perdere anche l’Ucraina e forse molto altro. I suoi calcoli sbagliati hanno creato un nuovo mondo, ma non l’utopia repubblicana del mercato che aveva immaginato profilarsi all’orizzonte tre decenni fa. Trascurando la permanenza del conflitto nella Storia, l’Occidente ha fatto rivivere sia il conflitto che la Storia, e lo ha fatto in modi che potrebbe rimpiangere.

[1] Gordon M. Hahn, Ph.D., è un analista esperto di Corr Analytics, www.canalyt.com .

 

Il dottor Hahn è l’autore del nuovo libro: Russian Tselostnost’: Wholeness in Russian Thought, Culture, History, and Politics (Europe Books, 2022). È autore di cinque libri precedenti: The Russian Dilemma: Security, Vigilance, and Relations with the West from Ivan III to Putin (McFarland, 2021); Ukraine Over the Edge: Russia, the West, and the New Cold War (McFarland, 2018); The Caucasus Emirate Mujahedin: Global Jihadism in Russia’s North Caucasus and Beyond (McFarland, 2014), Russia’s Islamic Threat (Yale University Press, 2007) e Russia’s Revolution From Above: Reform, Transition and Revolution in the Fall of the Soviet Communist Regime, 1985-2000 (Transaction, 2002).

Inoltre, il dottor Hahn ha pubblicato numerosi rapporti di think tank, articoli accademici, analisi e commenti su media in lingua inglese e russa. Ha insegnato presso le università: Boston, American, Stanford, San Jose State e San Francisco State e come borsista Fulbright presso l’Università statale di San Pietroburgo, in Russia. È stato inoltre senior associate e visiting fellow presso il Center for Strategic and International Studies, il Kennan Institute di Washington DC e la Hoover Institution.

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Disfare la Francia senza fare l’Europa . Hajnalka Vincze

Disfare la Francia senza fare l’Europa

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Hajnalka Vincze (*)

Specialista in relazioni transatlantiche

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Se le dichiarazioni del Presidente Macron sulla “sovranità” (sovranità europea, cioè) sono un dato di fatto, il concetto di autonomia strategica, sostenuto da Parigi per decenni, sta conquistando cuori e menti. Meglio ancora: “la battaglia ideologica è stata vinta”, si vanta. Ma qual è la realtà?

Un contesto contraddittorio
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Il capo di Stato ha approfittato della sua visita in Cina lo scorso aprile per gettare una nuova chiave di volta nella mischia internazionale (cfr. “Macron esorta gli europei a non considerarsi “seguaci” degli Stati Uniti”, Politico.eu, 9 aprile 2023). I suoi commenti, secondo i quali l’Europa nel suo complesso dovrebbe prendere le distanze dall’alleato americano, non erano rivolti esclusivamente alla situazione con la Cina e Taiwan. L’obiettivo era quello di dare un tono a una serie di colloqui cruciali in Europa. A seguito degli sviluppi globali degli ultimi anni, le idee francesi sull’autonomia europea stanno guadagnando terreno… nella retorica. In questo caso, Emmanuel Macron sta usando la situazione nell’Indo-Pacifico per ribadire il concetto: “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci”. Le sue dichiarazioni arrivano in un momento di intensi negoziati europei su questioni decisive dal punto di vista dell’autonomia. Essi contrappongono la Francia, spesso sola, a una maggioranza guidata dal gruppo polacco-baltico-nordico.

Per Parigi, questa o quella crisi esterna non deve rimettere in discussione il lavoro a lungo termine della diplomazia francese, che si spera stia per trionfare. Emmanuel Macron teme che “nel momento in cui sta chiarendo la sua posizione strategica”, l’Europa sia “presa da uno sconvolgimento del mondo e da crisi”. Potrebbe trattarsi dell’Ucraina o della Cina. Per quanto riguarda il chiarimento delle posizioni sull’autonomia strategica, i due campi hanno valutazioni diametralmente opposte della situazione. Da un lato, gli shock degli ultimi anni – la presidenza Trump, il perseguimento dell’approccio “America first” da parte dell’amministrazione Biden, la pandemia e la guerra in Ucraina – hanno evidenziato la necessità di evitare dipendenze e vulnerabilità. D’altra parte, in risposta alla guerra in Ucraina, l’Europa sta “facendo la NATO”. Per usare il termine coniato da Nicole Gnesotto, ex direttore dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza dell’UE, stiamo vivendo un “momento atlantico”.

Photo MinArm.

Il progresso e i suoi limiti
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In linea con la prima caratteristica della situazione attuale, ossia la crescente consapevolezza della posta in gioco geopolitica, questioni finora vietate o bloccate nell’UE vengono messe all’ordine del giorno e affrontate – rispetto al normale ritmo delle istituzioni europee – con una rapidità senza precedenti. Semiconduttori, supercomputer, materie prime, fisica quantistica, acquisti congiunti di armi: tutto è sul tavolo e per una volta non ci sono tabù. Secondo Emmanuel Macron: “Da un punto di vista dottrinale, giuridico e politico, credo che non ci sia mai stata una tale accelerazione del potere europeo”. Forse è un’affermazione un po’ affrettata.

Da un lato, perché stiamo assistendo agli stessi vecchi blocchi in una veste diversa. Gli Stati membri che finora hanno rifiutato l’idea dell’autonomia cercano ora di snaturarla, inserendovi delle qualifiche. Si parla di autonomia “aperta”, che consentirebbe l’accesso a progetti e fondi europei a Paesi terzi, in particolare agli alleati della NATO non appartenenti all’UE. D’altra parte, c’è il rischio che questo grande slancio si trasformi in una corsa a perdifiato. Anche a causa delle richieste di generalizzazione del voto a maggioranza qualificata, con il pretesto dell’efficienza. Questo nonostante il mantenimento della regola dell’unanimità nei settori strategici sia l’unica salvaguardia rimasta per coloro che, spesso solo in Francia, si oppongono alla rinuncia all’autonomia. Senza questa regola, la maggioranza bloccherebbe l’intera Europa in una posizione di dipendenza, prima dall’America e poi da qualsiasi altra potenza in futuro.

Punti di forza e contro-forza
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Per quanto riguarda la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti, che non è diminuita di una virgola dalla fine della Guerra Fredda, Charles Kupchan (direttore degli Affari europei presso il Consiglio di sicurezza nazionale sotto i presidenti Clinton e Obama) osserva: “Il controllo della sicurezza è il fattore decisivo per determinare chi è al posto di guida”. L’autore principale della Strategia di Difesa Nazionale degli Stati Uniti del 2018 è ancora più schietto. Per Elbridge Colby: “La sicurezza fisica è la chiave di volta di tutti i valori e gli interessi; senza di essa, la libertà e la prosperità non possono essere godute e possono persino essere perse del tutto”. Naturalmente, continua, “il potere duro non è l’unica forma di potere, ma è quella dominante”. Non è un caso che, mentre gli sforzi dell’UE mirano a “un certo grado” di autonomia nei blocchi tecnologici civili, Washington rimanga concentrata a tenere sotto controllo la dimensione militare di tale autonomia.

L’America sta consolidando il suo predominio in materia di sicurezza: la guerra in Ucraina ha confermato il suo ruolo di protettore finale, attraverso l’articolo 5, e ha rafforzato la sua posizione di “prima potenza europea”. Almeno per il momento, e con molte incertezze a medio e lungo termine. Le questioni relative agli armamenti stanno diventando più cruciali che mai: questo è sempre stato il settore in cui si gioca concretamente il rapporto di dipendenza asimmetrica tra gli Stati Uniti e gli alleati europei. Con il moltiplicarsi delle iniziative e dei finanziamenti dell’UE, la spinosa questione dell’accesso di terzi (nota come “criteri di ammissibilità”) si fa sempre più acuta. I fondi erogati rimarranno all’interno dell’Unione, per rafforzare il suo DTIB autonomo, o, al contrario, saranno utilizzati per acquistare dall’estero, anche se questo significa aumentare la dipendenza e la vulnerabilità? Purtroppo, per rimanere nelle grazie di Washington, la stragrande maggioranza dei Paesi europei preferisce tradizionalmente la seconda opzione.

Vedere un giorno i soldati europei con le stesse armi e la stessa uniforme: che strana idea! Foto DR
;Poiché il tema coinvolge i fondi europei e si estende alla sfera industriale ed economica, la Commissione si sta impegnando, su impulso di Thierry Breton, a favore dell’autonomia, ma mantiene il dibattito su un piano tecnico. In questo contesto, le dichiarazioni del Presidente Macron sono state viste come una manna dal cielo in America. Una tale presa di posizione pubblica conferisce alla questione la sua vera dimensione politica. I Paesi europei, preoccupati soprattutto di inimicarsi Washington, sono più inclini a cedere durante negoziati silenziosi presentati come tecnici che non quando la posta in gioco dell’autonomia viene esposta alla luce del sole.Tanto più che gli Stati Uniti hanno grandi ambizioni. Secondo la sua Strategia di Difesa Nazionale 2022: “I nostri alleati devono essere incorporati in ogni fase della pianificazione della difesa” per promuovere “la ricerca e lo sviluppo collettivi, l’interoperabilità, la condivisione delle informazioni e l’esportazione di capacità chiave”. L’obiettivo è quello di raggiungere ciò che i responsabili dall’altra parte dell’Atlantico chiamano “intercambiabilità”. Un’armonizzazione tale da rendere intercambiabili persone, dottrine ed equipaggiamenti, ignorando le particolarità nazionali. Ciò consentirebbe una postura di difesa realmente “integrata” tra gli alleati, creando le condizioni per un allineamento politico senza soluzione di continuità.Il rischio?
?

Dal punto di vista formale, le parole del Presidente francese – vale a dire il monito a non “seguire ciecamente” e il rischio di diventare “vassalli”, nonché l’ingiunzione a “pensare con la propria testa” e a “non lasciarsi trascinare in crisi” che non sono le nostre – ricordano innegabilmente “una certa idea” della diplomazia francese. Solo che nel caso di Emmanuel Macron non sappiamo ancora quale sia la sostanza. Troppo spesso ha lasciato intendere in che modo l’autonomia della Francia e dell’Europa debbano essere articolate. Come i suoi immediati predecessori, si è lasciato sedurre dall’idea di assecondare i partner europei rosicchiando il margine di manovra sovrano della Francia, nella speranza che in cambio accettassero di progredire sulla difesa europea. Questa scommessa è stata tentata e persa più volte. Concedere anche la minima concessione sulle questioni cruciali in gioco in questi giorni porterebbe al peggiore dei due mondi: sconfiggere la Francia, senza nemmeno fare l’Europa.

 


 

(*) Hajnalka Vincze, Senior Fellow au Foreign Policy Reserach Institute (FPRI) de Philadelphie, est une analyste indépendante spécialisée dans la politique européenne et les relations transatlantiques. Ses écrits sont publiés en Europe et aux Etats-Unis. En France elle contribue régulièrement au magazine DefTech, ainsi qu’aux revues Défense & Stratégie et Engagement.

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Dal dilemma strategico al disastro strategico (II^ parte), di Gordon Hahn_a cura di Giuseppe Angiuli

Dal dilemma strategico al disastro strategico (II^ parte)

 di Gordon Hahn

Qui la 1a parte

 (https://gordonhahn.com/2023/09/19/from-strategic-dilemma-to-strategic-disaster-parts-1-2-full/

Traduzione a cura di Giuseppe Angiuli)

 La II^ rovina dell’Ucraina.

 

La grande “rovina” cosacca, che come le stesse eredità cosacche è stata fatta propria dagli ucraini moderni per il fatto di essere avvenuta nelle terre cosacche, fu un periodo di guerra civile, anarchia, caos e devastazione alimentato dagli interventi delle potenze straniere. Per molti versi, assomiglia alla “Smuta” o Tempo dei Problemi della Russia di sette-otto decenni prima, che combinava caos, conflitti interni e interventi stranieri, soprattutto polacchi. La grande “rovina ucraina” o cosacca del XVII secolo, che durò dalla morte dell’hetman cosacco Bodgan Khmelnitskiy nel 1657 fino all’ascesa del successivo grande hetman, Ivan Mazepa, nel 1687. Khmelnitskiy portò i cosacchi dominanti di Zaporozhian a firmare il Trattato di Pereslavl del 1654, che portò molte terre cosacche sotto la sovranità russa. Ma il caos e la distruzione vennero cuciti attraverso macchinazioni politiche, violenti raid e attacchi su larga scala da parte della Polonia-Lituania, dell’Impero Ottomano e del Khanato dei Tartari di Crimea, occasionalmente sostenuti dalla Svezia per contestare la sovranità russa e cosacca. In particolare, la guerra polacco-russa (1654-1667), scatenata dal trattato di Pereslavl, generò gran parte dei conflitti e delle dislocazioni della Rovina. Altre guerre infuriarono in quella che oggi è l’Ucraina: la guerra ucraino-polacca (1666-1671), la guerra ucraino-moscovita (1665-1676) e la guerra polacco-turca (1672-1676), con vari gruppi cosacchi che si univano e cambiavano spesso schieramento.

 

Allo stesso tempo, la protezione e la presenza della Russia, combinata con la pressione di altri “Altri“, in particolare gli odiati polacchi, formarono un contraltare con il quale un’identità cosacca iniziò a consolidarsi in una più ampia fascia della popolazione su entrambe le sponde del Dniepr. Il tentativo russo di sottomettere e organizzare i cosacchi, che avevano dichiarato la loro fedeltà allo zar, violò le tradizioni cosacche di decentramento, libertà anarchica, mancanza di uno Stato di diritto, con conseguenti conflitti interni e violenza. Il malcontento e i disaccordi interni sul dominio russo alimentarono ulteriori conflitti tra coloro che lo sostenevano e coloro che vi si opponevano. Ulteriori tensioni interne furono alimentate dal conflitto tra i nobili non cattolici e la classe ufficiale cosacca o “starshina” per le nuove terre senza proprietari confiscate alla Polonia, che costituivano circa il 50% del territorio cosacco. La lotta per queste terre divideva i contadini poveri dai cosacchi ricchi e possidenti.

 

Ma la cosa più inquietante fu la lotta tra Russia e Polonia per il controllo dei territori cosacchi, con la Polonia che lottava per controllare la riva “destra” o occidentale dell’Ucraina e la Russia che di solito controllava la riva “sinistra” o orientale. Ciò costrinse hetmen, starshina e “società” cosacche a dividersi tra queste e altre forze esterne, portando a lotte di potere interne, a continui spostamenti di fedeltà che misero cosacchi contro cosacchi e cosacchi contro elementi esterni. Le conseguenze della “rovina” comportarono: la divisione delle terre cosacche (ucraine) tra Russia, Polonia-Lituania e Turchia ottomana, la riva destra controllata dai polacchi, la perdita da parte dell’Ucraina di più della metà dei suoi abitanti, molti dei quali si trasferirono sulla riva sinistra controllata dalla Russia, e la devastazione di massa degli insediamenti cosacchi. Solo alla fine del regno di Caterina la Grande, quando i cosacchi della riva sinistra persero la limitata autonomia di cui avevano goduto con il Trattato di Pereslavl, l’intera riva sinistra del territorio cosacco e gran parte delle terre della riva destra furono stabilizzate e integrate nel sistema imperiale russo.

 

In definitiva, la grande “rovina” del XVII secolo potrebbe benissimo impallidire, in termini di significato, di fronte all’attuale periodo di difficoltà che l’Ucraina ha iniziato a vivere sotto l’Operazione Militare Speciale russa. L’Ucraina, naturalmente, non è il primo Paese in questa parte del mondo a cadere vittima dell’apparentemente eterna contesa tra Russia e Occidente. Quando l’abilità nel governare fallisce da una o da entrambe le parti della cortina di ferro che divide Est e Ovest, i piccoli Paesi situati a cavallo tra Est e Ovest subiscono le conseguenze più perniciose. È il caso dell’odierna espansione della NATO in tutta l’Europa orientale fino ai confini della Russia e della risposta militare russa che ne è conseguita. Nessun Paese nell’era post-Guerra Fredda ha vissuto una catastrofe simile a quella che si sta verificando in Ucraina con la sua seconda “rovina”.

 

Per quanto riguarda il bilancio umano dell’escalation della guerra, possiamo ipotizzare almeno 120.000 morti e 220.000 feriti da parte ucraina. Questa stima è forse bassa. La maggior parte delle stime occidentali indicano un numero troppo basso di perdite ucraine e un numero troppo alto di vittime russe. Le stime occidentali e ucraine sulle perdite ucraine sono così assurdamente basse che non vale nemmeno la pena di citarle. D’altra parte, una fonte in grado di valutare le immagini satellitari dei cimiteri in almeno sette regioni dell’Ucraina e l’aumento delle loro dimensioni giunge a stimare 350.000-400.000 vittime di soldati ucraini. Inoltre, poiché in via generale il rapporto tra morti e feriti in ogni guerra è solitamente di 1 a 5 o di 1 a 7, una stima ragionevole del totale delle vittime (cioè tra morti e feriti) da parte ucraina è di circa 2 milioni. Tuttavia, a queste conclusioni si perviene utilizzando dei mezzi di calcolo piuttosto approssimativi. Ad esempio, la popolazione delle regioni occidentali dell’Ucraina è stata coinvolta in misura molto minore nella composizione degli equipaggi dell’esercito e dunque giustapporre lo stesso numero di nuove tombe realizzate nelle zone orientali del Paese ed utilizzarlo anche per i cimiteri della parte occidentale è fuorviante. E allora, volendo ridurre questa stima a 200.000 morti (piuttosto che a 350.000-400.000) e ipotizzando un rapporto tra morti e feriti di 1 a 3, talvolta ritenuto appropriato, potremmo stimare le perdite delle forze ucraine a 800.000 (https://telegra.ph/INTEL-EXCLUSIVE-08-02). Questo è il tetto-limite più elevato di quello che ritengo essere una possibile stima del numero di ucraini uccisi e feriti (se escludiamo dal computo le vittime ucraine tra i civili di entrambe le parti e tra coloro che combattono dalla parte dei separatisti). Tuttavia, se si leggono le stime del Ministero della Difesa russo sulle perdite ucraine giornaliere, si noterà che esse ammontavano a una media approssimativa di circa 600 al giorno fino alla controffensiva di quest’estate ovvero ai primi 15 mesi di guerra. Ciò significa un numero di 18.000 vittime al mese per i 15 mesi precedenti la controffensiva di quest’estate, per un totale, da febbraio 2022 a maggio 2023, di 270.000 soldati ucraini uccisi e feriti. Le cifre per la controffensiva di quest’estate sono state circa il 20% più alte, con il Ministero della Difesa russo che ha stimato circa 66.000 vittime da giugno ad agosto. Ciò significa un totale di circa 336.000 militari ucraini uccisi e feriti, secondo le fonti ufficiali russe. Tuttavia, sarebbe ragionevole sospettare che le cifre russe siano “ottimistiche”, sovrastimate e quindi elevate. Pertanto, proporrei una stima approssimativa di circa 300.000 vittime tra le forze ucraine tra il 24 febbraio 2022 e il 31 agosto 2023. D’altra parte, anche le fonti ucraine riferiscono di perdite impressionanti, suggerendo un quadro più cupo di quello che ho appena dipinto. Ad esempio, la stampa ucraina riferisce che forse l’80-90% delle forze di terra reclutate nell’autunno del 2022 sono già state perse (https://strana.news/news/445536-itohi-571-dnja-vojny-v-ukraine.html). In breve, potremmo verosimilmente avere avuto a tutt’oggi già mezzo milione di vittime militari ucraine.

 

Inoltre, in Ucraina ci sono state, molto approssimativamente, circa 50.000 vittime civili. L’organismo OHCHR delle Nazioni Unite ha registrato, dal 24 febbraio 2022 al 27 agosto 2023, 26.717 vittime civili nel Paese, di cui 9.511 morti e 17.206 feriti. Quasi un quarto di queste vittime si è registrato nel territorio controllato dalla Russia. L’OHCHR delle Nazioni Unite rileva, tuttavia, che il numero effettivo di vittime è probabilmente molto più alto (www.ohchr.org/en/news/2023/08/ukraine-civilian-casualty-update-28-august-2023). Questo porta la stima complessiva delle vittime ucraine a circa 350.000 al 1° settembre 2023. Non escludo che possano essere sostanzialmente più alte, ma se i russi riportano le cifre che ho fornito qui, sembra improbabile che siano più alte del 50% o del 100%, ma nessuno potrebbe essere in grado di confermarlo con certezza.

Non ritengo plausibile che le cifre delle vittime ucraine per il periodo qui preso in considerazione possano essere significativamente inferiori a queste. Con l’accelerazione del numero delle perdite ucraine nel mese di settembre, possiamo prevedere che, se tutto il resto rimane approssimativamente come sta andando, l’Ucraina raggiungerà 1 milione di vittime entro il tardo autunno del 2024. Le mie stime, che sembreranno elevate a coloro che si basano su fonti ucraine e occidentali, sono ulteriormente rafforzate dalle notizie di agosto – in quella che probabilmente è la coda della controffensiva – secondo cui Kiev sta costruendo un nuovo cimitero militare che ospiterà altri 400.000 caduti di guerra (https://www.youtube.com/watch?v=bs8-2xAZto0&t=26s&ab_channel=MilitarySummary). Le dimensioni dei cimiteri già esistenti sono enormi e in crescita (https://www.youtube.com/watch?v=6owz8zD6fHs&ab_channel=%D0%90%D0%BB%D0%B5%D0%BA%D1%81%D0%9C%D0%BE%D1%82%D0%BE%D1%80%D0%BD%D1%8B%D0%B9%D0%A5%D0%B0%D1%80%D1%8C%D0%BA%D0%BE%D0%B2).

Le perdite russe saranno probabilmente circa un terzo di quelle ucraine.

 

Le vittime della guerra sono determinate da un ciclo di escalation alimentato sia dalla NATO che da Mosca. Ogni escalation da una parte incontra regolarmente un’escalation dall’altra, danneggiando non solo le risorse umane e materiali di entrambe le parti, ma portando ad un’ulteriore escalation che determina una ulteriore carneficina degli ucraini, delle loro terre e di ogni tipo di infrastruttura. Ad esempio, quando gli Stati Uniti hanno deciso di inviare munizioni a grappolo all’Ucraina, che ha iniziato a farle cantare, ponendo la Russia in una situazione “peggiore“, la Russia ha annunciato che avrebbe usato e infatti ha iniziato a usare a sua volta le munizioni a grappolo, ponendo anche le forze ucraine in una condizione peggiore. Un così alto numero di vittime di questa portata lascerà una grande ferita nella vita ucraina, e basti paragonare la cicatrice lasciata negli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam, che ha visto relativamente meno vittime – circa 210.000 – distribuite nell’arco di quindici anni e non di un anno e mezzo.

 

La popolazione ucraina sta subendo un altro logoramento: quello dell’esodo di coloro che fuggono dalla guerra, dalla mobilitazione militare, dal collasso economico e da uno Stato corrotto e predatore. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che al 28 agosto 2023, dall’inizio dell'”operazione militare speciale” (SVO) della Russia nel febbraio 2022, 6.203.030 ucraini sono fuggiti dall’Ucraina (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134).

Questa cifra significa che la popolazione ucraina è scesa da 42 a 36 milioni dall’inizio dell’SVO. Ma questo vale solo per la popolazione ucraina nel territorio controllato da Kiev nel periodo 1991-2014. La perdita della Crimea e della maggior parte degli Oblast di Donetsk e Luhansk nel 2014 e di gran parte degli Oblast di Zaporozhe e Kherson a causa dell’annessione o dell’occupazione russa dall’inizio dell’SVO riduce la popolazione ucraina di altri 4 milioni, il che significa che ora è di circa 32 milioni. Altri stimano che la popolazione all’interno dei confini ucraini del 1991 al 1° gennaio 2023 era di soli 37,6 milioni di persone, 32,6 milioni all’interno dei confini del 2022 (meno la Crimea) e 31,1 milioni nei territori attualmente controllati dal governo ucraino (meno la Crimea e la maggior parte degli Oblast di Donetsk, Luhansk, Zaporozhe e Kherson) (www.wilsoncenter.org/blog-post/ukraines-demography-second-year-full-fledged-war, vedi anche https://t.me/stranaua/120211). Se si aggiungono i morti di guerra e la popolazione sotto il controllo di Kiev, la popolazione del Paese scende a meno di 31 milioni.

 

Questo quadro si aggrava se si tiene anche conto degli squilibri socioeconomici causati da una massa di rifugiati interni (persone sfollate dalle loro case) di 5.088.000 persone a causa della guerra conteggiati a tutto il 23 maggio 2023 (https://data2.unhcr.org/en/documents/details/103134). Inoltre, secondo l’UNHCR, circa 17,6 milioni di persone in Ucraina necessitano di un urgente sostegno umanitario, compresi i 5 milioni di sfollati interni (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23).

 

Quindi, se fissiamo la popolazione attualmente sotto il controllo del governo di Kiev a 31 milioni, l’Ucraina ha perso più del 20% della sua popolazione dall’inizio della guerra e attualmente più del 15% della popolazione rimanente è costituita da rifugiati interni e più della metà della popolazione ha bisogno di un urgente sostegno umanitario.

Il quadro demografico è ulteriormente oscurato dal calo dei tassi di natalità causato dagli sconvolgimenti della guerra. Sebbene i tassi di natalità ucraini fossero già in calo a partire dalla rivolta di Piazza Maidan, del 7% all’anno dal 2013, nei primi sei mesi del 2023 sono nati in Ucraina solo 96.755 bambini, il che rappresenta un calo del 28% rispetto al periodo corrispondente del 2021 (135.079 bambini) e ancora meno rispetto al periodo corrispondente dello scorso anno (https://t.me/rezident_ua/19018). Se la guerra continuerà fino al 2024, è possibile che tutte queste perdite – che già costituiscono una catastrofe – vengano raddoppiate, soprattutto se le forze russe inizieranno ad avanzare più rapidamente verso est, minacciando più direttamente altre regioni come Charkiv, Sumy, Chernigov e Mikolaev.

 

In termini fisici non umani, le perdite dell’Ucraina sono altrettanto sconcertanti. Per quanto riguarda il territorio, l’Ucraina ha perso l’11% del suo territorio dall’inizio della guerra, un’area equivalente al Massachusetts, al New Hampshire e al Connecticut, secondo il Belfer Center della Harvard Kennedy School. Includendo in tale computo la Crimea, l’Ucraina ha perso circa il 17,5% del suo territorio, un’area di circa 41.000 miglia quadrate (106.000 km quadrati) dalla rivolta di Maidan (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Inoltre, queste regioni – che comprendono l’industria carbonifera ucraina, gran parte della costa, i porti e le località turistiche – fornivano una quota preponderante del PIL dell’Ucraina. Inoltre, villaggi e città in alcune parti del territorio controllato dall’Ucraina sono stati pesantemente bombardati fino a trasformarsi in dei paesaggi lunari. La distruzione totale delle infrastrutture è stata stimata dalle Nazioni Unite in 100 miliardi (https://news.un.org/en/story/2022/03/1114022). Sebbene si tratti probabilmente di una sovrastima, anche se la cifra fosse la metà, alla fine dell’estate 2023 l’Ucraina avrà subito danni e distruzioni alle infrastrutture per 800 miliardi di dollari. Un altro modo per valutare l’entità dei danni infrastrutturali generali del Paese è la misura dell’assistenza alla ricostruzione. La Banca Mondiale ha stimato l’entità dei danni a marzo 2023 o per il primo anno di guerra e ha concluso che Kiev avrebbe avuto bisogno di 411 miliardi di dollari di assistenza per la ricostruzione se la guerra fosse finita allora (www.worldbank.org/en/news/press-release/2023/03/23/updated-ukraine-recovery-a).

Da allora la guerra si è prolungata di altri sei mesi, quindi possiamo fare una stima approssimativa di 615 miliardi di dollari di aiuti che sarebbero necessari se la guerra finisse entro ottobre. Entro marzo 2024 la somma sarà di circa 1.000 miliardi di dollari. Ciò solleva la questione di quanti di questi arriveranno e in quanto tempo, sollevando l’ulteriore questione di un grave disastro umanitario e di un’ulteriore emigrazione dal Paese.

 

Il PIL del Paese in dollari correnti è diminuito tra il 2021 e il 2022 di circa il 15% – da 198 a 161 miliardi di dollari (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD?locations=UA). Pertanto, il PIL dell’Ucraina in dollari del 2015 si è contratto del 30% nel 2022 (https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?locations=UA). Tuttavia, il FMI sostiene che quest’anno la crescita sarà dell’1%-3% (www.reuters.com/world/europe/blood-billions-cost-russias-war-ukraine-2023-08-23). Ciononostante, una fonte conclude che l’Ucraina avrà bisogno di 50 miliardi di dollari di sostegno finanziario nel 2024 (https://t.me/rezident_ua/19017). Anche se il PIL crescesse del 3% fino a raggiungere i 166 miliardi di dollari, con un deficit di bilancio previsto per il 2024 di 40 miliardi di dollari – che è anche l’importo speso per le forze armate quest’anno e che dovrà essere coperto in buona parte dai dollari delle tasse occidentali e dagli euro – il suo rapporto bilancio/PIL si aggira su un catastrofico 25%. Tutto questo mentre l’Ucraina sta beneficiando di una moratoria sui pagamenti fino a metà giugno su 20 miliardi di dollari di debito concordata con gli obbligazionisti internazionali come MFS Investment Management, BlackRock e Fidelity Investments (www.wsj.com/world/europe/ukraine-hunts-for-cash-as-fighting-drains-coffers-a6443e9c).

 

In termini emotivi, psicologici e sociologici, la catastrofe potrebbe essere ancora più sconvolgente. La sindrome da stress post-bellico e i traumi saranno una pesante tassa a carico dell’intera società. Michael Vlahos cita una cifra di 50.000 ucraini che hanno perso uno o più arti, vicina alla cifra di 67.000 amputati patita dalla Germania per tutta la Prima Guerra Mondiale (https://compactmag.com/article/the-ukrainian-army-is-breaking). Olha Rudneva, responsabile del Centro Superhumans per la riabilitazione dei mutilati militari ucraini, stima che 20.000 ucraini abbiano subito almeno un’amputazione dall’inizio della guerra. Ma prima della guerra, in Ucraina c’erano solo cinque persone con una formazione professionale nel campo della riabilitazione di persone con amputazioni alle braccia o alle mani (www.aol.com/upward-20-000-ukrainian-amputees-060957047.html).

 

Infine, la “democrazia” che sopravviveva in Ucraina prima della guerra è ora completamente scomparsa. Solo i partiti politici approvati da Zelenskiy possono operare, le elezioni sono state cancellate “fino alla fine della guerra“, tutti i media sono pesantemente censurati e l’affiliata locale della Chiesa ortodossa russa sta subendo una dura repressione, le sue chiese e i suoi monasteri sono stati acquisiti dallo Stato e alcuni dei suoi sacerdoti orfani sono stati arrestati e processati, compreso il metropolita della Chiesa. Zelenskiy sta abbandonando il suo partito politico, pieno di corruzione e di scandali pubblici, e ha annunciato che costruirà un nuovo partito e una nuova classe dirigente basata su coloro che hanno servito in guerra. Questo, insieme alla radicalizzazione che la guerra tende naturalmente a portare con sè, rafforzerà la già troppo forte componente ultranazionalista e neofascista della politica ucraina. Le divisioni sociali saranno aggravate dai vergognosi privilegi e profitti dell’élite ucraina maturati durante la guerra. I “ricchi e famosi” sono visti sui social media mentre festeggiano sulle spiagge esotiche in ogni angolo del mondo, laddove invece i giovani privi di protezioni all’interno del Governo vengono brutalmente sequestrati nelle strade da reclutatori-mobilitatori per essere inviati al fronte. La guerra ha ampliato la corruzione in modo esponenziale, poiché il regime di Zelenskiy permette a criminali e funzionari corrotti di accumulare enormi profitti illegali, funzionali a lubrificare gli ingranaggi della macchina bellica e delle funzioni sociali della macchina statale. L’ulteriore corruzione, criminalizzazione e fascistizzazione del paese più corrotto e neofascista d’Europa renderà in futuro quasi impossibile la rinascita anche di una debole democrazia.

 

Conclusione.

Sei settimane prima dell’inizio dell’attuale guerra NATO-Russia in Ucraina, avevo proposto le misure che Putin avrebbe potuto adottare come parte di una campagna di diplomazia coercitiva intensificata (https://gordonhahn.com/2022/01/10/putins-military-technical-and-other-options-if-strategic-stability-and-ukraine-talks-fail/). Se fossero state adottate e se l’Occidente avesse accettato negoziati seri sull’architettura di sicurezza dell’Europa e su un’Ucraina neutrale al suo interno, come zona cuscinetto neutrale tra la Russia e la NATO, le cose sarebbero potute andare diversamente. La guerra avrebbe potuto essere evitata e tutte le misure russe adottate prima della guerra avrebbero potuto essere ritirate dopo la conclusione e l’attuazione degli accordi. Quelle effettivamente adottate dall’inizio della guerra e quelle attuate nell’ambito della guerra da entrambe le parti in conflitto difficilmente saranno revocate a breve, sicuramente non in questo decennio. La sicurezza degli Stati Uniti e della NATO è stata rafforzata rifiutando di negoziare con Mosca prima dell’invasione di Putin o impedendo a Kiev di portare avanti il processo di Istanbul iniziato un mese dopo l’invasione? La risposta, come ho cercato di dimostrare sopra, è chiaramente “no“.

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Analisi dell’intensificarsi della campagna di attacco alla Crimea da parte dell’Ucraina, di SIMPLICIUS THE THINKER

C’è stata una forte accelerazione degli attacchi alla Crimea, mentre l’Ucraina si concentra ancora una volta sul fornire una vittoria mediatica tangibile per coronare il grande tour nordamericano di Zelensky. Questo per evitare che faccia brutta figura quando sarà messo alle strette durante il suo importantissimo e forse ultimo circuito di elemosine.

Il teatro del Mar Nero in generale ha subito un’escalation, quindi sarebbe istruttivo scavare un po’ più a fondo e aggiornarci su ciò che sta accadendo in quel corridoio negli ultimi tempi.

Ci sono diverse categorie distinte, in particolare gli attacchi contro i mezzi navali e quelli contro i mezzi terrestri statici come i quartieri generali e le batterie di difesa aerea russa. Gli attacchi sono stati più forti e forse anche più riusciti di quanto molti filorussi vogliano ammettere, poiché ce ne sono stati un paio che sono passati sottotraccia e che il Ministero della Difesa russo ha fatto un lavoro accurato per nascondere sotto il tavolo.

Uno è stato l’attacco del 20 settembre alla parte nord di Sebastopoli:

Immagini satellitari prima e dopo l’attacco missilistico AFU Storm Shadow di ieri contro il posto di comando della Marina russa a nord di Verkhnosadove, in Crimea (44.714735, 33.704408).
Come si può vedere qui sopra, le fonti ucraine affermano che si tratta di un “posto di comando della Marina russa”, ma non c’è stata alcuna conferma di ciò che ho visto e sembra dubbio, soprattutto data la sua strana posizione. In ogni caso, qualunque cosa fosse, sembrava essere stata colpita con successo da un missile Storm Shadow.

Ci sono stati anche alcuni falsi attacchi che sono stati completamente smentiti. Per massimizzare e amplificare l’effetto propagandistico del paio di attacchi riusciti, gli account bot filo-ucraini hanno diffuso diversi altri presunti attacchi a campi d’aviazione russi in Crimea. Uno di questi è stato addirittura smentito da una nota della comunità di Twitter:

Questo è solo un promemoria per ricordare che ogni “attacco” deve essere attentamente esaminato e verificato, in quanto una gran parte, e oserei dire addirittura la maggioranza, di essi sono solitamente falsi. Ecco perché anche l’attacco al porto di Sebastopoli, che ha colpito la nave e il sottomarino Rostov e Minsk, era sospettato di essere stato falsificato, in particolare per le foto apparentemente photoshoppate del sottomarino.

Passiamo ora a questo attacco e arriviamo al recente colpo al quartier generale della Flotta del Mar Nero. Sono state colpite la nave da sbarco Minsk della classe Ropucha e il sottomarino Rostov-on-Don della classe Kilo.

Ne ho già parlato un po’. Una cosa interessante da notare è che la nave da sbarco russa Olengorsky Gornyak, precedentemente colpita da un drone navale ucraino, è già tornata in superficie dopo una riparazione più rapida del previsto:

Questo è l’enorme buco che la nave ha subito nello scafo:

E questo è stato risolto in un mese o poco più. E questo dopo che gli ucraini avevano riso e scherzato dicendo che era “fatta” e che sarebbe stato un fallimento. Anche il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che riparerà i danni sulle navi presenti.

Per quanto riguarda la Rostov e la Minsk, la TASS ha rilasciato una dichiarazione ufficiale secondo la quale il sottomarino non ha subito alcun danno catastrofico e i suoi tempi di riparazione precedenti non sarebbero stati intaccati:

🇷🇺🚤 I danni subiti dal sottomarino “Rostov-on-Don” della Flotta del Mar Nero il 13 settembre non sono critici e non prolungheranno in modo significativo i tempi di manutenzione previsti. Questa informazione è stata fornita alla TASS da una fonte del complesso industriale della difesa: “Il sottomarino presenta danni minori che non hanno intaccato la robustezza dello scafo. L’intervistato ha precisato che è in corso una valutazione dell’entità dei prossimi lavori di riparazione per l’altra nave colpita dall’attacco ucraino, la grande nave da sbarco “Minsk” della Flotta del Baltico.
Alcuni sono scettici, ma dobbiamo aspettare e vedere. In ogni caso, il sottomarino è rimasto in quel bacino di manutenzione per circa un anno, non è che lo sciopero abbia messo fuori uso una componente attiva della flotta.

Ora l’Ucraina ha colpito il quartier generale della flotta del Mar Nero. Prima un po’ di contesto e poi entreremo nel vivo della questione: come fa l’Ucraina a fare questo?

Il Ministero della Difesa russo sostiene che sono stati abbattuti 7/10 missili. È probabile che ciò sia vero, poiché altri video di testimoni oculari, come quello sopra riportato, hanno mostrato molte esplosioni nel cielo, suoni di missili intercettati dalla difesa aerea, mentre le foto satellitari post-operatorie del BDA hanno mostrato che solo 2 o al massimo 3 colpi sono stati inflitti all’edificio stesso:

La chiave per capire come l’Ucraina sia in grado di colpire questo QN è la vicinanza alla costa:

Si può notare che l’edificio si trova quasi direttamente sull’acqua. Ecco una mappa ingrandita per capire la sua posizione spaziale:

Ciò significa che l’area è priva di una linea di difesa aerea avanzata, perché si trova proprio ai margini di quella che sarebbe considerata la linea di contatto.

Normalmente, i mezzi critici per la missione, come il quartier generale, sono posizionati nelle retrovie della linea del fronte. In questo modo, una rete di sicurezza composta da più strati di difese aeree integrate può tamponare il quartier generale, in modo che, anche se si tratta di un missile a bassa quota, veloce o furtivo, possa essere mancato dal primo strato, ma alla fine verrà rilevato mentre vola su diversi strati di copertura della rete radar sovrapposta. Per esempio, la prima linea di difesa dell’area può rilevare qualcosa, ma non essere in grado di rispondere abbastanza velocemente da abbatterlo. Ma almeno trasmetteranno le informazioni alle difese successive, che riceveranno i dati radar fusi con i loro sensori o un semplice avviso verbale dell’arrivo di un oggetto, consentendo loro di posizionarsi e prepararsi molto meglio per intercettarlo.

Ma a causa dell’ovvia impossibilità di farlo quando il vostro quartier generale si trova proprio sull’acqua, ciò significa che Sebastopoli è situata in una posizione particolarmente esposta e pericolosa, per la quale non ci può essere alcun AD o “preavviso”. Ciò significa che quando arrivano i missili, ci sono solo pochi secondi di vantaggio, e dato che si è detto che gli attacchi erano a saturazione e includevano droni da altre direzioni e i missili esca ADM-160 Mald, diventa estremamente difficile difendere tutto questo senza alcuna copertura in avanti.

Rybar ha illustrato come sono stati effettuati gli attacchi.

Sappiamo da rapporti passati che un sistema russo S-300/400 esiste da qualche parte sulla penisola di Tarkankhut in Crimea, dove si trova l’icona del drone sulla mappa qui sopra. Si tratta di un’area che “sporge” e che dovrebbe garantire una copertura in avanti del Mar Nero. Il problema è che, come ho spiegato la volta scorsa, i missili a bassa quota permettono ai radar di individuarli al massimo a circa 30-40 km. Questo a prescindere dalla potenza del sistema radar, per la semplice fisica del funzionamento degli orizzonti radar.

Puoi effettuare da solo il calcolo:

Questo esempio mostra che un sistema radar con un’altezza della parabola di 10 piedi vedrà un bersaglio che vola a 150 piedi di altitudine solo a 35 km circa. Il problema è che, come si può vedere dalla mappa di Rybar, la traiettoria aggira la copertura radar in modo tale che la distanza dal “punto di attacco” degli S-300/400 al punto in cui passerebbero i missili è di oltre 80 km:

Inoltre, lo Storm Shadow sembra volare spesso a una distanza inferiore a 150 km, il che renderebbe la distanza di rilevamento ancora maggiore.

Rapporto completo:

11 bombardieri Su-24M sono decollati dall’aeroporto di Starokostyantyniv, cinque dei quali erano portatori di missili da crociera Storm Shadow/SCALP. Dopo aver volato fino al confine tra le regioni di Odessa e Mykolaiv, i velivoli si sono divisi: nove sono rimasti nella zona, mentre un paio sono andati a sud verso Ochakiv. 8 Storm Shadows sono stati lanciati verso le 12:00 in Crimea. Allo stesso tempo, i gruppi di ricognizione di Medvedi PMC hanno notato che due Su-24M, volando a bassa quota a circa 40 m sopra l’acqua, hanno effettuato lanci sul Mar Nero. Prima di ciò, gli aerei ucraini hanno sparato tre missili AGM-160 MALD per ingannare la difesa aerea. Gli equipaggi della difesa aerea Pantsir-S1 della 31esima Forza Aerea e della Divisione di Difesa Aerea hanno abbattuto cinque missili da crociera sopra Capo Tarkhankut e l’aeroporto di Belbek. 3 Storm Shadows sono caduti nell’area di Verkhnesadovoye – l’obiettivo era probabilmente un ex impianto militare vicino al villaggio. Poche ore prima dell’attacco, da Kherson è decollato un drone da ricognizione di tipo sconosciuto che, doppiando Capo Tarkhankut, ha allestito un’area di pattugliamento a ovest di Kacha e ha diretto gli aerei. È molto probabile che sia stato abbattuto dai sistemi di difesa aerea. Questo attacco dimostra un leggero cambiamento nelle tattiche dei missili da crociera. In precedenza, questi raid di massa venivano effettuati di notte o al mattino presto, ma non di giorno. E il volo dei bombardieri a bassissima quota è qualcosa che gli equipaggi ucraini hanno praticato per molti mesi, cercando di sfruttare le lacune dei sistemi di rilevamento della difesa aerea.
Quanto sia accurato quanto sopra, è impossibile dirlo con certezza, ma il succo generale dell’attacco è probabilmente quello che è successo. Il punto più importante riguarda le basse quote di volo, particolarmente facili da raggiungere sulla superficie piatta e calma del mare, dove gli aerei e i missili non devono preoccuparsi di schivare le ostruzioni topografiche e geografiche, ecc.

Come ho detto, a causa di questa pratica, è fisicamente e scientificamente impossibile per un sistema radar rilevarli a buona distanza, perché gli oggetti che volano bassi sono semplicemente oltre l’orizzonte a causa della curvatura della terra, e i raggi radar non possono individuarli.

Se a questo si aggiunge il problema, descritto in precedenza, di non avere una zona di copertura frontale a causa della particolarità di trovarsi in riva al mare, diventa molto difficile difendersi dagli attacchi di saturazione.

Esiste tuttavia una soluzione che può fornire una copertura frontale. E questo è un settore in cui la Russia sta probabilmente fallendo: Gli AWAC. Una copertura 24/7 degli AWAC permetterà all’aereo di sorvolare la Crimea e, grazie all’altezza del suo radar, di vedere tutto ciò che vola sul Mar Nero fino a Odessa e oltre, senza problemi. Questi radar hanno la modalità “look down”, che significa che possono scansionare verso il basso qualsiasi cosa si muova sulla superficie dell’oceano, sia essa una nave o un missile.

Ma ho già detto che la Russia ha un problema di AWACS. Secondo quanto riferito, ne ha solo ~15 o meno. Tuttavia bisogna aggiungere le seguenti considerazioni:

Tutti gli aerei hanno una certa percentuale di prontezza del 30-70% al massimo, che rappresenta quanti dei velivoli sono volabili in un dato momento, rispetto a quelli che sono in riparazione, ecc.

La Russia ha bisogno di alcuni di questi aerei per tutto il suo lungo confine, anche nell’estremo est contro la NATO, così come nel nord dove si svolge un’intensa attività della NATO intorno ai Baltici, per non parlare dei distretti occidentali per proteggere il fianco occidentale di Mosca.

La Russia ne ha bisogno anche lungo l’intero confine dell’OMU, compreso il nord dell’Ucraina. Per esempio, abbiamo visto dal tentativo di sabotaggio che la Russia ne tiene alcuni in Bielorussia per sorvegliare il fianco settentrionale.

Un singolo aereo non può volare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per ovvie ragioni. Ciò significa che anche per pattugliare una sola area senza vuoti di copertura, sono necessari diversi aerei (forse almeno 3) che possono ruotare uno dopo l’altro in turni di 8 ore, ecc.

Considerati tutti questi fattori, se assegniamo la quantità appropriata di aerei a ciascuna zona necessaria, così come i tassi di prontezza che relegherebbero una parte della flotta in uno stato di inattività – in fase di revisione, aggiornamento, riparazione, ecc – possiamo presumere che solo 1 o 2 aerei massimi saranno probabilmente disponibili per il teatro della Crimea e probabilmente risulteranno in ampi vuoti di copertura.

La Russia sta sviluppando e costruendo da molto tempo gli aggiornamenti successivi all’A-50, l’A-50U e l’A-100. Perciò è stata una grande notizia che, secondo quanto riferito, sulla scia degli attacchi di Sebastopoli, la Russia abbia annunciato il lancio di un A-50U nuovo di zecca.

Si suppone che si tratti di una variante molto più avanzata e modernizzata, con un radar migliore, in particolare per quanto riguarda le capacità di look-down. Per ora si tratta solo di un passaggio di consegne, ma se la Russia riuscirà a continuare a produrli, contribuirà notevolmente a mettere in sicurezza la regione dagli attacchi missilistici.

Si noti che, ancora una volta, l’Ucraina non è stata in grado di riprendere gli attacchi. Perché? La Rostov e la Minsk sono ancora ferme nello stesso ormeggio a Sebastopoli, facile preda di altri missili, soprattutto se si considera che la Russia intende ripararle. Sicuramente l’Ucraina sarebbe molto motivata a finire quelle navi.

È un gioco del gatto e del topo. L’Ucraina può condurre un attacco di successo solo una volta ogni tanto, quando i partner di 5-Eyes adottano tutte le misure di sorveglianza appropriate e tutto è pianificato in anticipo con un “vuoto” di copertura disponibile da qualche parte.

Per quanto riguarda il quartier generale della Flotta del Mar Nero, la Russia afferma che l’edificio era vuoto, mentre l’Ucraina sostiene il solito: centinaia di persone sono state uccise, compresi importanti generali. Non ci sono prove di questo. In realtà, sembra che la Russia sia stata avvertita direttamente dell’attacco, quindi un’evacuazione – se l’edificio fosse stato utilizzato – avrebbe avuto senso. Il motivo per cui lo sappiamo è che prima dell’attacco sono state rilevate strane cortine fumogene nell’area, di cui io stesso non conosco ancora al 100% lo scopo:

Ma se la Russia sapeva che un attacco era in arrivo e ha preso le misure di evacuazione appropriate, allora come può essere accurata la nostra precedente tesi sull’assenza di preavviso da parte delle difese aeree?

È difficile dirlo con certezza, ma le cose stanno così. La Russia dispone di altre capacità, sia di SIGINT spaziale che di HUMINT a terra (proprio come l’Ucraina), che possono notificarle i decolli di massa di mezzi d’attacco ucraini dalle loro basi. Tuttavia, una volta decollati, non è possibile tracciare in modo granulare gli effettivi lanci di missili e i loro vettori/obiettivi senza disporre di uno scudo AD più specifico.

Probabilmente la Russia dispone anche di capacità radar OTH che possono tracciare i jet ucraini da migliaia di chilometri di distanza, infrangendo apparentemente la fisica della visione “oltre l’orizzonte” che ho professato in precedenza. Tuttavia, tali radar utilizzano onde corte speciali ad alta frequenza che non sono adatte a vedere con precisione oggetti molto piccoli, come ad esempio i missili stealth. Quindi possono essere in grado di vedere gli aerei che decollano, ma non i missili o i loro vettori.

Questi radar fanno rimbalzare le loro onde speciali dalla ionosfera e le reindirizzano “oltre l’orizzonte” per vedere gli oggetti che un’onda normale non può rilevare.

Ma se la Russia è potenzialmente in grado di rilevare i jet ucraini nei propri campi d’aviazione da migliaia di chilometri di distanza, perché non li ha distrutti nei campi d’aviazione?

Perché l’Ucraina ha anche un preavviso avanzato da parte degli Stati Uniti/5-Eyes di qualsiasi lancio di aerei/missili russi, che impiegano ore per attraversare l’Ucraina verso i campi d’aviazione occidentali, dando loro tutto il tempo di far decollare i jet ed evitare il colpo.

Tuttavia, i campi d’aviazione più vicini alla linea del fronte possono non avere questo preavviso, ed è per questo che ieri abbiamo visto un colpo russo distruggere un Mig-29 nella base aerea ucraina di Dolgintsevo, vicino a Krivoy Rog, che non è lontana dalle posizioni russe di Energodar, ecc.

Questo è lo stesso campo in cui il drone Lancet della Russia è stato visto in precedenza colpire il Mig-29:

Inoltre, la cronologia non è nota. L’ultima volta ho scritto che il Ministero della Difesa russo aveva riferito di aver colpito questo campo all’inizio del mese, distruggendo diversi jet. Il nuovo video potrebbe essere semplicemente la pubblicazione di quegli attacchi.

Se vi state chiedendo perché questi jet non siano stati fatti decollare per evitare l’attacco missilistico della Russia, come ho detto si tratta di un campo vicino alla linea del fronte. Tuttavia, un’altra versione è che non è stato nemmeno colpito da un missile russo, il cui lancio può essere individuato con molto più anticipo e quindi contrastato facendo decollare i jet, dato che i missili di solito vengono lanciati dalle navi vicino al Mar Caspio o al Mar Nero, ecc. Secondo una versione, invece, l’attacco sarebbe stato effettuato con missili guidati BM-30 GMLRS Smerch, che sarebbero stati posizionati appena sopra il Dnieper, in territorio russo, e non avrebbero dato alcun preavviso.

L’Ucraina è costretta ad alloggiare i Mig-29 più vicino alla linea del fronte perché i jet hanno un raggio d’azione molto più corto e non possono combattere dall’Ucraina occidentale. Inoltre, non c’è alcuna indicazione che si tratti di jet in grado di volare e alcune fonti affermano che alcuni/molti/molti di essi sono destinati a parti di ricambio, ma è impossibile saperlo con certezza. Tutto ciò che sappiamo è che la Russia sta chiaramente contrastando tutto ciò di cui stiamo parlando. Gli aerei vengono colpiti, gli A-50U vengono lanciati per colmare le lacune di copertura. Vengono prese costantemente contromisure per combattere tutto ciò che l’Ucraina fa. Se queste contromisure vengano prese in modo tempestivo e con sufficiente urgenza è un altro discorso.

In definitiva, nonostante i fallimenti della Russia, dobbiamo dimenticare che le capacità di difesa aerea degli Stati Uniti sono di gran lunga peggiori. Solo poche settimane fa un nuovo rapporto di Taiwan ha denunciato il recente malfunzionamento del sistema Patriot durante i test:

Un ufficiale dell’aeronautica taiwanese ha affermato che un missile Patriot PAC-3 ha avuto un malfunzionamento durante una recente esercitazione a fuoco vivo, ma il produttore statunitense Lockheed Martin ha dichiarato che il missile coinvolto non era un PAC-3. Il capo di stato maggiore dell’aeronautica, generale Tsao Chin-Ping, ha confermato le notizie locali secondo cui l’arma terra-aria è esplosa prima di colpire il bersaglio.
Ora, dopo i colpi di Sebastopoli, la Russia ha sferrato un colpo devastante a Odessa, apparentemente per rappresaglia. L’hotel di Odessa avrebbe ospitato molti mercenari e fungeva da quartier generale del comando ucraino dopo che il precedente era stato distrutto:

L’area periferica aveva molti magazzini che sono stati distrutti.:

Questi magazzini portuali sono stati visti in precedenza ospitare molte attrezzature della NATO.:

Il commentatore filorusso Masno ha scritto che l’hotel era probabilmente utilizzato dai servizi ucraini, era sotto stretta sorveglianza e negli ultimi giorni le foto mostravano molte finestre aperte per la ventilazione, indicando che era occupato (anche se non da civili, dato che era chiuso all’uso civile da anni):

In effetti, negli ultimi giorni o due, la Russia ha colpito una serie di oggetti strategici e campi d’aviazione ucraini. Dolgintsevo non è stato l’unico. Il campo d’aviazione Bolshaya Kakhnovka a Kremenchug sarebbe stato cancellato. Lo Starokonstantinov di Khmelnitsky, dove l’Ucraina ospita la maggior parte dei suoi Su-24, è stato nuovamente colpito.:

Così come il campo di Kulbakino a Nikolayev, di cui sono emersi filmati che mostrano il campo in fiamme dopo gli attacchi:

🇷🇺🇺🇦 Vicino a Nikolaev ci sono due potenti arrivi nell’area dell’aeroporto di Kulbakino.A Nikolaev non si sentivano esplosioni da molto tempo e hanno avuto il tempo di rilassarsi un bel po’: I vettori Su-24M di missili da crociera hanno iniziato a fare base all’aeroporto e l’Anas ha iniziato ad atterrarvi regolarmente, trasferendovi personale e munizioni. Sebbene la linea del fronte sia a soli 40 km, i risultati dell’arrivo non sono ancora stati chiariti, ma una cavalcata di ambulanze si è precipitata lì dal centro regionale. Perché a Kiselevka, situata non molto lontano, hanno colpito un deposito di munizioni con un FAB da una tonnellata e mezza con un UMPC.
In effetti, in questo momento sono emersi nuovi filmati che mostrano gli attacchi russi che distruggono altri Mig-29 nel campo di Nikolayev, alla geolocalizzazione: 46°56’9.09 “N 32° 4’50.96 “E

Per chi si chiedesse perché, la Russia ha già colpito questa base e tutte le altre più volte in passato. Ecco le immagini che mostrano proprio questa base di Nikolayev in un precedente attacco:

Un aspetto affascinante è che a un certo punto entrambe le parti hanno lanciato missili da crociera l’una contro l’altra praticamente nello stesso momento. Mentre gli Storm Shadow sorvolavano la Crimea per raggiungere Sebastopoli (si noti come il civile russo conosca già per nome lo Storm Shadow):

I Kh-101 russi volavano verso Kremenchug quasi alla stessa ora:

Questo fatto sorprendente rappresenta forse la prima volta nella storia che si assiste a un conflitto che include due parti opposte in grado di colpirsi a vicenda con missili da crociera avanzati. Quale altro conflitto si è mai visto in cui entrambe le parti lanciano attivamente e con successo missili da crociera a lunga gittata? Di certo non si è mai visto nulla di simile alla NATO.

Ciò racchiude il fatto che questa guerra è il conflitto tra pari più tecnologico della storia.

Inoltre, l’Ucraina si è lamentata del fatto che i recenti attacchi della Russia stanno diventando sempre più complessi (e lo stesso vale per quelli ucraini). Ecco due mappe provenienti da fonti ucraine che mostrano i percorsi bizzarri e tortuosi che i missili russi sono programmati a seguire:

La prima è relativa agli attacchi di massa del 21 settembre.

:

Il secondo è di ieri sera. Sostengono che i missili Kalibr e Onyx lanciati dalla regione della Crimea hanno fatto un giro completo intorno all’oblast di Nikolayev e poi sono arrivati a colpire Odessa dalla parte posteriore, dove l’AD non si aspetterebbe di essere puntato:

In quasi tutti i casi, in particolare in quello dell’aeroporto di Dolgintsevo dove sono stati distrutti i Mig-29, la Russia ha inviato prima un contingente di droni Geran-2 per esaurire la difesa aerea ucraina. Quando questa è stata adeguatamente esaurita, sono arrivati i missili per finire il lavoro.

Il risultato è che, come sempre in questo conflitto, l’Ucraina è in grado di mettere a segno alcuni colpi, ma la Russia la supera di 5:1 o 10:1, e a volte anche di 20:1.  Per ogni “colpo al quartier generale” che l’Ucraina riesce a mettere a segno, la Russia colpisce una dozzina o più di quartier generali, campi d’aviazione e altre strutture importanti dell’Ucraina. Per non parlare del fatto che la Russia interrompe gli attacchi successivi, cosa che l’Ucraina non menziona mai. Ad esempio, dopo l’attacco a Sebastopoli, ci sono stati altri due attacchi importanti, tra cui quello di oggi che ha coinvolto gli Storm Shadows. Secondo quanto riferito, sono stati tutti abbattuti e le forze russe hanno respinto completamente l’attacco. Ma di questo non si parlerà molto.

Infine, per questa sezione, vorrei parlare brevemente del motivo per cui l’Ucraina ha aumentato così tanto i suoi attacchi alla Crimea negli ultimi tempi. In parte, come ho detto, per le apparenze con la grande visita di Zelensky a Washington, ma un’altra ragione ancora più importante ha a che fare con il grande corridoio del grano, che è una delle ultime e più significative operazioni strategico-economiche dell’Ucraina.

Da quando, due mesi fa, è scaduto l’accordo sul grano, la Russia ha iniziato a distruggere le infrastrutture portuali dell’intera costa e della regione di Odessan. L’Ucraina ha cercato disperatamente di ristabilire una parvenza di trasporto marittimo, in particolare con i divieti della Polonia (per non parlare di altri Paesi) sul grano ucraino. È l’ultima linea di vita economica per loro. Pertanto, stanno cercando di forzare un corridoio eliminando le risorse navali russe e, idealmente, bloccando la flotta russa del Mar Nero in uno stato di torpore, al fine di creare un corridoio che possa abbracciare la costa ucraina/romena.

Rybar fornisce un resoconto dettagliato dell’idea:

Rapporto RYBAR:Qual è il motivo dell’attacco di ieri alle navi della Marina russa? Oggi la nave “Puma”, battente bandiera delle Isole Cayman, ha lasciato il porto di Odessa e si è diretta lungo la rotta già collaudata lungo la costa dell’Ucraina verso sud. La nave è ancora in viaggio e si sta dirigendo lungo la Romania, probabilmente verso il Bosforo. Prima di entrare nelle acque romane, la nave è stata accompagnata da due imbarcazioni della Marina ucraina, i caccia MiG-29 hanno pattugliato lo spazio aereo sopra la regione di Odessa e i P-8A americani hanno lavorato a turno sopra la Romania (uno di loro è stato scambiato per un B-52). Nel contesto dell’uscita della nave, un quadro più completo emerge con il massiccio attacco di ieri a un distaccamento di navi da guerra (OBK) della Flotta del Mar Nero composto da “Vasily Bykov” e “Sergei Kotov” – un totale di 14 imbarcazioni senza equipaggio sono state distrutte (senza contare gli attacchi a “Samum” e “Askold”). Una di queste, come abbiamo già scritto, ha colpito la Bykov, danneggiandola, ma continuando a muoversi con le proprie forze verso Sebastopoli, mentre la Sergey Kotov opera nelle vicinanze. In altre parole, non appena la pattuglia russa si è allontanata dall’area di pattugliamento, il cargo ha lasciato Odessa. In questo modo, l’AFU non solo ha aperto una rotta per il movimento della nave portarinfuse, ma ha anche dimostrato che, se necessario, può distrarre le navi russe lanciando attacchi navali con i droni. Naturalmente l’attacco è stato respinto, ma in questo modo a Kiev stanno cercando di dimostrare la funzionalità di questo corridoio senza la partecipazione della Russia.
Tutto questo è un piano dell’Ucraina per convincere i partner marittimi a scaricare il grano da Odessa, per il quale l’Ucraina ha fatto sempre più promesse e sta disperatamente lavorando per fornire assicurazioni ai potenziali vettori:

▪️

In Ucraina è stato creato un fondo speciale dell’importo di 20 miliardi di grivne (circa 547 milioni di dollari) per assicurare le navi che trasporteranno il grano attraverso il Mar NeroPrima il Ministero dell’Economia ucraino ha riferito che lo schema di assicurazione navale potrebbe essere introdotto a settembre e che potrebbero esservi coinvolte fino a 30 navi.
Si può quindi notare che questa recente esplosione del teatro del Mar Nero ha tutto a che fare con i disperati tentativi dell’Ucraina di riattivare il suo corridoio del grano, dopo aver affrontato la completa chiusura da parte della Russia e dei suoi stessi “partner” europei.

 

Naturalmente si può dire che lo sforzo dell’Ucraina non è certo inconsistente. Hanno ottenuto grandi successi, ma temo che, a loro discapito, abbiano solo “smosso il vespaio” e indotto il Ministero della Difesa russo a concentrarsi su una parte del teatro che negli ultimi tempi aveva trascurato. Ora una serie enorme di colpi devastanti viene inferta a tutti i beni ucraini che hanno anche solo un briciolo a che fare con questa recente campagna. Oltre all’hotel e ai magazzini adiacenti, anche i porti di Odessa hanno subito gravi danni a varie infrastrutture (probabilmente legate al grano):

***

Nello spirito di questo post dedicato alle armi e alla tecnica, passiamo a un’altra notizia, ovvero il continuo tira e molla sulle consegne di ATACMS all’Ucraina. Durante la visita di Zelensky è stata negata, poi tranquillamente approvata per poi essere nuovamente negata, e ora c’è un’altra apparente approvazione.

Tuttavia, il diavolo si nasconde nei dettagli. In realtà non è stato approvato come molti pensano. L’Ucraina voleva la versione normale ad alto esplosivo, molto più devastante. Biden e i suoi collaboratori si sono opposti, ma hanno finito per approvare potenzialmente la versione DPICMS. Questo dettaglio si perderà tra i festeggiamenti che si svolgeranno.

Il DPICM è la versione con munizioni secondarie o cluster bomb dell’ATACMS. Si tratta di un compromesso: vi diamo il missile, ma nella versione più inutile, che non può colpire i compound temprati, i quartieri generali, i ponti o qualsiasi altra cosa importante. Sono fatti per colpire solo il personale, il che avrà un effetto trascurabile, dato che l’uso delle munizioni a grappolo dell’artiglieria ucraina si è già dimostrato inutile, come avevo previsto tempo fa.

Guardate la spiegazione della versione ATACMS DPICMS qui sotto

:

Le submunizioni a grappolo non possono essere utilizzate per distruggere edifici o altro. Il motivo per cui l’Ucraina desiderava fortemente questo missile era quello di poter colpire le strutture C3 russe nelle retrovie, oltre a minacciare il ponte di Kerch. Ora è irrilevante: le submunizioni sono inutili per questo. Al massimo possono abbattere un’auto civile leggera.

In secondo luogo, potete leggere questo e ridere. Secondo quanto riferito, il piccolo lotto di prova annunciato di ATACMS da inviare in Ucraina sarà di sole circa 60 unità:

Ma ascoltate ciò che Budanov stesso afferma chiaramente nella sua intervista a Washington di alcuni giorni fa. KB = Kyrylo Budanov:

Quindi Budanov stesso dice che qualsiasi cosa al di sotto dei 100 missili è praticamente inutile e non farà nulla. Biden non solo ne annuncia 60, ma nemmeno quelli distruttivi.

Tuttavia, vorrei fare una precisazione. È vero che le versioni a grappolo sono per lo più inutili, ma c’è un’area in cui potrebbero potenzialmente fare molti danni: colpire i campi di aviazione russi ricchi di obiettivi. Le submunizioni non distruggono del tutto gli aerei, ma un intero missile pieno di esse che colpisca un campo d’aviazione potrebbe mettere fuori uso decine di velivoli in una volta sola.

Quindi, per questo motivo, è sicuramente pericoloso. Ma semplicemente non ha la pericolosità strategica di un missile normale, con la capacità non solo di spazzare via interi bunker di comando in profondità dietro le linee russe, ma potenzialmente di colpire e spazzare via il ponte di Kerch.

Detto questo, è interessante notare che potrebbero essere molto più facili del previsto da abbattere per gli AD russi, in particolare i sistemi S-300/400 di prima scelta, progettati specificamente per abbattere tali missili di tipo balistico. Il motivo è che un attacco di saturazione funziona tipicamente quando ci sono molti oggetti che vengono verso di noi a un’altitudine simile. Ma quando si satura un sistema AD con un gruppo di droni (che non sono fisicamente in grado di volare in alto) e di missili da crociera a bassa quota, sarebbe molto facile per un sistema AD distinguere questi oggetti “schermati” da un missile di tipo balistico che vola molto più in alto. Ciò significa che l’AD dovrebbe essere in grado di indicare sul monitor quale sia il pericoloso missile quasi-balistico solo in base alla sua altitudine, il che consentirebbe di stabilire una priorità nel colpirlo.

Per quanto riguarda l’equipaggiamento, un altro aggiornamento che volevo proporre è il monitoraggio delle perdite di carri armati russi effettuato da un’organizzazione. Ho trovato questo dato molto illuminante

.

La parte più importante non sono i totali in sé, che possono essere esagerati o meno, ma la tendenza generale. Ad esempio, nella colonna dei totali più alti si può vedere dove sono stati i picchi e i punti più bassi. Dall’inizio di quest’anno, la Russia ha continuato a registrare una tendenza al ribasso, con l’inizio della controffensiva ucraina che ha rappresentato una piccola impennata.

50-70 carri armati persi al mese non sono affatto male. La media è di circa 2 al giorno, pari a circa 600-700 all’anno. La ragione per cui questa è una buona notizia è che è inferiore alla produzione annuale della Russia, il che significa che le perdite di carri armati sono sostenibili – questa è la parte più importante.

Come facciamo a sapere cosa producono attualmente?

In questa nuova intervista video, il capo di Uralvagonzavod, il più grande produttore di carri armati del mondo, Alexander Potapov afferma alcune cose interessanti:

Sembra che si riferisca ai motori, dato che i T-80, come dice in seguito, al momento non sono prodotti da zero ma solo ristrutturati. Ma la Russia sta già raggiungendo anni record.

A titolo di riferimento, ecco una tabella della produzione di carri armati degli anni ’70 e ’80.

Ora, diverse fonti come The Economist affermano che la Russia produce 20 carri armati nuovi al mese e fino a 90 ristrutturati:

Wallstreet Journal fornisce una cifra di 250 carri armati all’anno prima della guerra.:

In realtà, per la maggior parte degli anni intorno al 2010 e successivamente, la Russia ha prodotto circa 175-250 nuovi carri armati all’anno. Ora si dice che la produzione sia aumentata di diverse volte.

Se prendiamo i numeri dell’Economist, 110 totali (prodotti + ristrutturati) al mese = più di 1.300 all’anno, il che è almeno in linea con quanto dichiarato da diversi esponenti russi.

Tornando al grafico delle perdite, possiamo vedere che quest’anno la Russia è in procinto di perdere qualcosa come 600-800 carri armati. Questo dovrebbe essere facilmente compensato dalla produzione. E si tenga presente che molte di queste perdite sono probabilmente calcolate in eccesso. Per esempio, all’inizio della controffensiva Putin aveva fatto notare in un discorso che la Russia aveva perso un certo numero di carri armati, circa 40-60, ma aveva detto che molti di questi erano stati successivamente rimorchiati e sarebbero stati riparati. La maggior parte delle organizzazioni che contano le perdite si limita a conteggiare ogni foto sul campo come una perdita, ma ignora il fatto che molti carri armati russi che appaiono “colpiti” vengono recuperati e riparati, o subiscono solo danni minori ai cingoli. Pertanto, le 600-800 perdite annue percepite potrebbero essere in realtà qualcosa come 400-600.

Inoltre, un nuovo video ha mostrato l’uso massiccio di carri armati gonfiabili russi sul fronte di Zaporozhye. Non stupitevi quindi se Oryx e co. inizieranno ad aggiungere i gonfiabili “distrutti” al loro database di “perdite” russe reali.

Lo scorso mese Forbes ha lamentato che l’unico collo di bottiglia rimasto in Russia per la produzione di carri armati di massa è terminato:

Infine, è stato messo insieme un grafico che tenta di ricavare un senso dalle perdite di carri armati della Russia, per esempio se stavano esaurendo alcuni scafi come i primi T-72/T-80 e li stavano sostituendo con vecchi T-62 e T-55 come sostengono molti propagandisti ucraini:

Il grafico ha trovato la correlazione opposta. I T-90 russi sono passati dal 3-4% al 24%, a dimostrazione del fatto che i T-90M vengono messi in campo – e quindi prodotti – in quantità maggiore. I T-55/T-62 non solo non hanno avuto incrementi apprezzabili, ma sembrano essere diminuiti. Ecco che la narrazione è finita.

L’unico altro cambiamento degno di nota è stato che i T-80 russi sono sembrati diminuire drasticamente come quota di perdite, ma si può dire che sia ciclico, dato che in precedenza erano diminuiti in aprile/maggio per poi risalire.

La parte importante è che non c’è alcuna base scientifica che giustifichi il fatto che la Russia stia schierando i vecchi T-62/T-55 e in effetti la Russia sta schierando tre volte più T-90M di prima.

Per l’Ucraina è l’opposto. L’unica cosa che si vede ancora sono i T-64 e le cose più vecchie. Si vedono pochi T-72 e ogni volta che arriva una nuova piccola iniezione di carri armati della NATO, questi vengono prontamente annientati:

Queste sono le varianti svedesi modificate dei Leopard 2A5 tedeschi. Alcuni di essi sono già stati distrutti in un solo giorno l’altro ieri, rappresentando una grossa fetta di tutti quelli ricevuti. Ora si dice che siano arrivati i primi 10 esemplari di Abrams:

La Russia ha colpito anche treni carichi di armature ed equipaggiamento:

***

Alcuni ultimi articoli vari.

Avevo dimenticato di postare questo articolo qualche tempo fa. Il giornalista ucraino Roman Revedzhuk, che in precedenza si era candidato ed era stato a lungo coinvolto nella politica ucraina, ha rivelato di aver ricevuto un rapporto dall’SBU secondo cui l’Ucraina aveva più di 310.000 KIA a luglio:

Mi risulta che sia un giornalista filo-ucraino e non filo-russo, tuttavia è critico nei confronti dell’attuale regime al potere.

Noterete che questo numero è in linea con altri rapporti recenti, come quello di wartears.org che tiene traccia dei necrologi e ha un totale attuale di 280.000 morti per l’Ucraina.

Ora, le conseguenze di tutto ciò si fanno sentire sempre di più. In un nuovo video, l’ex comandante dell’Aidar Yevgeniy Dikag ha dichiarato che l’Ucraina può vincere solo mobilitando in massa fino a 1 milione di persone in più:

Secondo l’analista militare ucraino Yevgeniy Dikag, che è stato il comandante della famigerata formazione Aydar, il presidente ucraino deve dichiarare al più presto una mobilitazione generale e radunare 500 mila soldati per rovesciare lo status quo che vigeva prima dell’inizio della controffensiva estiva.
A questo fa eco un nuovo video di Arestovich, secondo il quale presto ogni uomo in Ucraina, nessuno escluso, dovrà essere mobilitato:Ukrainian military analyst Yevgeniy Dikag, who was the commander of the infamous Aydar formation, the Ukrainian president must as soon as possible declare a general mobilization and raise 500 thousand soldiers in order to overthrow the status quo that was in force before the start of the summer counteroffensive.

And this was echoed by a new video from Arestovich who says that soon every man in Ukraine bar none will have to be mobilized:

Ricorderete che l’ultima volta ho pubblicato un analista ucraino che ha confessato che alla fine dovranno essere mobilitati non solo gli adolescenti – cosa scontata, secondo lui – ma anche i bambini..

In questa nota,Il presidente della Duma di Stato russa, Vyacheslav Volodin, ha rafforzato alcune mie recenti affermazioni, secondo cui il destino dell’Ucraina è la capitolazione totale e la resa alla Russia o… la distruzione totale:

Possiamo vedere che una parte ha accettato pienamente che una mobilitazione sociale totale di donne, bambini, adolescenti e tutti gli altri va benissimo per loro, mentre l’altra parte accetterà solo una resa totale e incondizionata. Purtroppo, questo non può che portare alla distruzione totale dell’Ucraina. Nessuna quantità di stupide armi della NATO spedite in tranche trascurabili può cambiare le cose.

Per riassumere l’ultimo giorno o due, non c’è altro che un massacro per l’AFU. Avvertenza grafica:

Video 1
Video 2
Video 3
Video 4
Video 5
Video 6
Video 7
Video 8

Il prossimo:

Una franca discussione tra commentatori militari russi sulla questione della controbatteria, di cui mi sono occupato di tanto in tanto.

Noterete che confermano praticamente tutto quello che ho detto. Sì, l’AFU dispone di alcuni proiettili, come il Vulcan, appena lanciato, con una gittata di 70 km, che supera tutto ciò che la Russia utilizza attualmente (almeno per quanto riguarda l’artiglieria pura, senza contare gli MLRS e altre cose). Ma ne hanno una piccola manciata, così come altri proiettili “speciali” come Excalibur, ecc.

Non si può usare un outlier per discutere su chi sta vincendo la guerra dell’artiglieria. Quando i sistemi russi sono più numerosi e più performanti della maggior parte del tempo, il raro utilizzo di un proiettile di questo tipo non fa pendere la bilancia a loro favore, soprattutto quando la Russia ha molti altri sistemi asimmetrici che possono neutralizzarli.

Conferma che i proiettili standard della Russia sparano a ~24 km, anche se commette un errore con i 35-40 km come standard per l’AFU, che ancora una volta conta solo altri sistemi semi-specialistici come il Caesar francese, di cui non ha molti. I comuni M777 ecc. con proiettili standard sparano meno della portata della Russia.

Ma come ho già detto, chi ha seguito i miei resoconti su questo tema noterà la conferma che i 2S5 Giatsint e i 2S7(M) Peony/Malka russi sono più che all’altezza dei sistemi dell’AFU, senza contare i proiettili speciali. Ma hanno sollevato una buona questione: la Russia ha ancora bisogno di un sistema che possa più regolarmente eguagliare tali gittate. E come hanno detto, ce l’ha con la nuova artiglieria 2S35 Koalitsiya-SV, che dovrebbe essere un 2S19 Msta-s completamente riprogettato, con una gittata di 40 km per i proiettili standard e di 80 km per i proiettili speciali assistiti da razzi, che fa vergognare tutti i migliori sistemi della NATO.

Purtroppo Koalitsiya continua a sguazzare nel buco nero del MIC russo, così come Armata, ecc. Si dice che un paio di esemplari siano stati “testati” in precedenza nell’SMO, ma nessuno sa quando inizierà esattamente la produzione di massa, anche se si dice sempre che sarà “presto”.

Alla luce di tutte le discussioni sui carri armati, ecco un nuovo rapporto dalla principale fabbrica russa di Nizhny Tagil, la Uralvagonzavod:

A seguire, un interessante sondaggio del centro di ricerca russo Levada. Mostra la crescita costante dell’orgoglio nazionale russo, il riemergere dell’identità russa dal cupo periodo del 2002 a oggi.:

Nel 2002, tanti russi consideravano più grandi gli Stati Uniti che il loro Paese, e non pensavano quasi per niente alla Cina. Ora la maggioranza considera grande la Cina e gli Stati Uniti sono stati relegati da “grandi” a “di seconda categoria”.

Infine, un’altra pubblicità militare russa in una recente serie di annunci che sembrano lasciare intendere grandi cose. Prima, giorni fa, c’è stato un annuncio che alludeva alla futura conquista di Kiev. Ora un’altra allude al ricongiungimento di Odessa con la madrepatria russa.

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Michael Vlahos_ La dinamica di rivoluzione e guerra civile_A cura di Roberto Negri

La tesi espressa da Michael Vlahos non è certamente una novità per i lettori e gli ascoltatori di www.Italiaeilmondo.com Da circa dieci anni Gianfranco Campa, con decine di articoli, podcast e videoconversazioni, ci sta accompagnando lungo le vicende che stanno progressivamente facendo scivolare gli Stati Uniti verso una qualche forma di guerra civile, anch’essa in qualche modo delineata negli aspetti probabili. L’intervento di Vlahos illustra chiaramente il nesso stretto esistente tra una élite e un ceto politico decadente ed autoreferenziale e il processo di disgregazione e polarizzazione di una società tale da condurre al conflitto civile e al rivoluzionamento dell’ordine sociale. Un nesso che alcuni brillanti storici statunitensi, tra essi Theda Skocpol, hanno illustrato già alcuni decenni fa, ma che Vlahos riesce a farci toccare con mano nella attuale contingenza statunitense in questo intervento sottotitolato in italiano grazie al contributo di Roberto Negri. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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La gravità dei problemi economici della Germania, di Antonia Colibasanu

La gravità dei problemi economici della Germania
Ciò che sta accadendo nel Paese testimonia la ristrutturazione globale in atto.

di Antonia Colibasanu – 18 settembre 2023Apri come PDF
La scorsa settimana, la Commissione europea ha abbassato le previsioni di crescita dell’eurozona per il 2023 e il 2024, soprattutto a causa dei cattivi indicatori economici della Germania. Per Berlino, un anno di crescita significativa nel 2021 è stato seguito da due anni di declino e le stime più recenti indicano che l’economia crescerà solo di un misero 1,5% entro la fine del 2023. Il rallentamento è dovuto a una serie di fattori, tra cui i soliti sospetti di interruzione della catena di approvvigionamento e gli alti prezzi dell’energia causati dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina.

Tutto ciò ha reso l’inflazione il problema più significativo dell’economia tedesca. Il tasso di inflazione del Paese ha raggiunto il 7,6% nell’agosto 2023. Questo dato è di gran lunga superiore all’obiettivo della Banca Centrale Europea del 2% per l’eurozona – e il più alto del Paese dal 1973 – il che spiega l’ultimo rapporto della Commissione sulla performance economica dell’area. L’inflazione elevata riduce la capacità di spesa dei consumatori, rallentando la crescita economica e rendendo più difficili la pianificazione e gli investimenti delle imprese. Oltre ad aumentare il tasso d’interesse, il governo tedesco sta aiutando le imprese e i privati colpiti dall’inflazione con sovvenzioni, prestiti e agevolazioni fiscali, soprattutto per le imprese che investono nell’efficienza energetica e creano nuovi posti di lavoro. Berlino è riuscita a mantenere basso il tasso di disoccupazione negli ultimi tre anni, ma anche questo sta iniziando a cambiare, aumentando sensibilmente negli ultimi mesi, mentre il settore manifatturiero tedesco risente degli alti costi dell’energia.

Secondo la Banca Mondiale, nel 2022 il commercio internazionale rappresentava il 99% del prodotto interno lordo tedesco, con le esportazioni che rappresentavano il 50,3% del PIL e le importazioni il 48,3%. La Germania è quindi molto esposta ai cambiamenti in atto nell’economia globale. Nel 2022, il principale prodotto di esportazione della Germania sarà rappresentato dagli autoveicoli e loro parti, con il 15,6% delle esportazioni totali. I macchinari (13,3%) e i prodotti chimici (10,4%) erano rispettivamente il secondo e il terzo prodotto di esportazione più importante. Tutti questi prodotti hanno registrato un calo della produzione quest’anno. Nel 2023, la produzione dell’industria chimica tedesca, affamata di gas, è diminuita del 18% rispetto ai livelli del 2019, mentre la produzione automobilistica tedesca è scesa del 26%. Secondo l’Associazione tedesca dei costruttori di macchine utensili, la produzione di macchinari diminuirà del 2% nel 2023, mentre la produzione sarà sostenuta soprattutto dagli arretrati degli anni precedenti. Si tratterebbe del primo calo della produzione di questo settore dal 2012.

La stagnazione economica ha portato anche a un aumento delle imprese che falliscono; le statistiche ufficiali mostrano che le richieste di insolvenza sono in aumento dal 2022. Utilizzando i dati delle Camere di Commercio e dell’Industria tedesche, Trading Economics prevede che il tasso di fallimento della Germania raggiungerà il 12,9% annuo nel 2023 – il tasso più alto dal 2009.

Anche se la disoccupazione è in aumento, le soluzioni a breve termine come l’aumento del ricorso ai migranti non sono più così praticabili. Anzi, questa strategia potrebbe diventare un problema, soprattutto nelle aree in cui populismo e nazionalismo sono in costante crescita. In modo preoccupante, un recente studio condotto dall’Università di Lipsia ha mostrato che quasi un quarto degli intervistati ha affermato che il nazionalsocialismo aveva alcuni vantaggi e, secondo il 33% degli intervistati, “dovremmo avere un leader che governa la Germania con mano forte per il bene di tutti”. Questa opinione è supportata dal fatto che Alternativa per la Germania (AfD), il partito di estrema destra di maggior successo nel Paese dalla Seconda Guerra Mondiale, ha vinto due ballottaggi locali nella Germania orientale, uno nella città di Raguhn-Jessnitz e uno nel distretto di Sonneberg. Ma la Germania orientale non è certo l’unica. Il mese scorso, il quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung ha pubblicato un rapporto che accusa Hubert Aiwanger, leader dei Liberi elettori, un piccolo ma importante gruppo conservatore in Baviera, di aver prodotto e diffuso un volantino antisemita quando era uno studente delle superiori negli anni Ottanta. Ha rifiutato di dimettersi, accusando il giornale di aver cercato di lanciare una campagna sporca contro di lui in vista delle elezioni in Baviera. Di conseguenza, il suo piccolo partito conservatore è ora il secondo partito più popolare in Baviera, con un aumento di 5 punti percentuali al 16%.

Questo tipo di populismo potrebbe guadagnare consensi anche tra i tedeschi della classe media. Un sondaggio dell’Istituto Sinus per la ricerca sociale ha indicato che la quota di elettori della classe media dell’AfD è passata dal 43% al 56% in due anni. Il sondaggio ha anche rilevato che quella che il centro di ricerca chiama “classe media moderna adattativa e pragmatica” sta aumentando, passando dal 12% della popolazione al 19%, così come la “classe conservatrice di livello superiore”, dall’8% al 12%. Entrambi i gruppi mostrano un crescente interesse per l’AfD e per il populismo. Sono generalmente aperti al cambiamento e lungimiranti, ma attualmente si trovano di fronte a richieste significative che mettono a rischio la loro capacità di soddisfare le proprie aspettative in termini di possesso di un’auto e di una casa e di crescita dei figli in un ambiente sicuro. Incolpano il governo e il sistema politico di non aver creato soluzioni e cercano quindi delle alternative. Invece di guidare il cambiamento sociale, sembrano diventare sempre più pessimisti, con preoccupazioni per la disoccupazione e altri problemi simili a quelli delle altre classi.

Berlino deve trovare una soluzione per tenere in piedi la propria economia collaborando con partner stranieri. La sua priorità assoluta è ovviamente la stabilità dell’Unione Europea, ma l’interdipendenza dell’economia tedesca dal mercato dell’UE evidenzia la fragilità dell’economia europea nel suo complesso. Secondo l’ufficio statistico tedesco Destatis, circa il 60% delle esportazioni tedesche viene venduto in altri Stati dell’UE, mentre il 52,3% delle importazioni tedesche proviene da Stati dell’UE.

Gli altri principali partner commerciali sono gli Stati Uniti e la Cina. Sebbene gli Stati Uniti siano il suo mercato di esportazione più importante, il fatturato commerciale totale con la Cina è superiore. (La Germania ha beneficiato in misura massiccia del basso costo della manodopera cinese ed è unica tra gli Stati membri dell’UE per l’ampiezza e la profondità delle sue relazioni economiche con Pechino.

Non è quindi una coincidenza che Berlino abbia recentemente pubblicato la sua prima strategia globale per la Cina. Il testo servirà come base per i politici tedeschi nei prossimi mesi, informando tutto, dalla cybersicurezza alla politica industriale. Ma è inaspettatamente poco diplomatico, arrivando a dire che la Cina mina fondamentalmente gli interessi tedeschi. La nuova strategia potrebbe portare a una delle più profonde trasformazioni della politica estera ed economica tedesca degli ultimi decenni, forse un addio definitivo al concetto di “cambiamento attraverso il commercio” che ha guidato le relazioni tedesco-cinesi per anni.

Per molti versi, la nuova strategia è un prodotto naturale delle sfide interne ed esterne che Berlino deve affrontare. Sebbene la Germania abbia beneficiato dell’ascesa economica della Cina, negli ultimi tempi le imprese tedesche sono rimaste deluse dalla Cina, dove le loro opportunità si sono lentamente ridotte a causa delle pressioni dei leader cinesi per un maggiore controllo del mercato. Per aumentare la competitività, mantenere l’occupazione in Germania e risolvere i problemi critici delle infrastrutture, Berlino deve ridurre le sue dipendenze e sviluppare le proprie capacità. Nel nuovo documento strategico, la Germania ha sottolineato la necessità di ridurre le dipendenze strategiche asimmetriche della Cina – le stesse che Pechino ha elencato come obiettivo strategico nel 2020 – anche se in linea con la cosiddetta strategia di “de-risking” proposta dall’UE all’inizio di quest’anno.

Se la Germania prende sul serio il de-risking, richiede non solo una maggiore trasparenza nel settore commerciale, ma anche un ampio dibattito sociale sulle priorità politiche e programmatiche. Ad esempio, Berlino deve valutare se i veicoli elettrici cinesi debbano essere considerati una minaccia per la competitività tedesca e attuare di conseguenza misure antisovvenzioni, anche se ciò garantirà quasi certamente una ritorsione da parte di Pechino. (Per non parlare del fatto che i veicoli elettrici cinesi rappresentano una minaccia per la sicurezza informatica o la sorveglianza). I politici tedeschi dovrebbero anche valutare se ridurre la loro dipendenza dai prodotti cinesi di tecnologia verde e concentrarsi sulla propria industria. Ma Berlino avrà anche bisogno di una narrazione convincente per giustificare la rimozione delle apparecchiature di telecomunicazione cinesi di recente installazione dalle reti 5G per migliorare la sicurezza delle infrastrutture chiave, anche se continua a lottare con i problemi di connettività ad alta velocità in generale.

Nell’attuare la sua nuova strategia, il governo tedesco dovrà probabilmente lottare per trovare il giusto equilibrio tra le varie serie di rischi che la Cina pone. E mentre si riduce una serie di rischi e dipendenze potenziali, è probabile che ne aumenti un’altra. Le realtà politiche tedesche complicheranno ulteriormente il processo.

Ciò che accade in Germania accade anche in altri Paesi europei, quindi Berlino dovrà pensare agli interessi dei suoi colleghi membri dell’UE mentre lotta per migliorare le sue relazioni con la Cina. La Germania è il motore economico dell’Europa e tutto ciò che accade in Germania si ripercuote in tutto il continente. Se (e come) la Germania implementerà la sua nuova strategia, potrebbe trovarsi in una posizione ideale per dettare il dibattito e il coordinamento sulle nuove politiche economiche volte a ristrutturare e sostenere le capacità interne tra la Germania e gli altri Stati membri dell’UE. Il fatto che stia prendendo in considerazione questa nuova strategia testimonia i profondi cambiamenti in atto nell’economia globale.

IL MONDO NON E’ COME VI APPARE, di Pierluigi Fagan

Il post è rivolto alle anime belle, quelle che la mattina si svegliano ignare del mondo, leggono alcune notizie terribili su ciò che accade nel mondo (altre no perché non vengono date) ma non distinguono notizie da giudizi, assumono entrambi come il cappuccino con la brioche.
Caricati di verità sul mondo, sono pronti a far lezione di etica e morale per la quale quelli della loro parte sono in bene e gli altri il male, hanno avuto la loro esaltazione urlante ed isterica le prime settimane del conflitto russo-ucraino. Sono loro che permettono le atrocità del mondo poiché illuminando gli angoli bui della politica internazionale e capendo almeno il minimo dovuto di ciò che succede nel mondo, il mondo sarebbe diverso, almeno un po’.
A questi ciechi chiacchieroni sentenziosi farebbe bene spendere pochi minuti per capire quanto il male del mondo dipende anche dalla loro ignoranza supponente. Ma figurati se ai pasdaran del Bene, interessa scoprire che invece militano a fianco delle file del Male.
Parliamo del breve conflitto o meglio dell’invasione manu militari della ragione Nagorno-Karabakh abitata e rivendicata dall’Armenia pur stando in territorio dell’Azerbaijan, da parte appunto degli azeri. Per ora si lamentano “solo” duecento morti ma si prospetta una pulizia etnica profonda visto che la regione è abitata per tre quarti da armeni che ne erano gli unici abitanti un secolo fa.
Impossibile qui risalire alla storia del conflitto che è complessissima e, come spesso accade, alla fine basata su ragioni di contesa valide da tutti i punti di vista e quindi priva di una verità unica, passibile solo di mediazione, aggiustamento, composizione. Ci provarono quelli dell’OSCE di Minsk (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa, istituzione multilaterale in condominio coi russi, ora bloccata dalle vicende ucraine), già noti per i due protocolli di pacificazione sulle questioni del Donbass tra ucraini e russi, benedetti dalla mediazione europea che un secondo dopo la firma si è disinteressata della loro applicazione. Motivo per il quale l’attuale conflitto ucraino si sarebbe potuto evitare, ma evidentemente non c’era alcun interesse ad evitarlo o meglio c’era interesse palese a lasciar andasse come è andata.
Sulla faccenda del N-G, si stabilì un accordo, poi venne rotto, poi si ridiscusse, poi si litigò di nuovo, poi -nei fatti- nessuno più, soprattutto gli azeri, hanno dato minima attenzione a questo ruolo mediatore esso stesso poco convinto di sé stesso.
I giornali di stamane, giubilano a riferire di manifestazioni armene contro il governo locale ma soprattutto contro i russi che dovevano esser loro protettori. Giorni fa giubilavano per esercitazioni armate congiunte tra armeni ed americani, un accenno di tradimento di allineamento poiché l’Armenia è parte del CSTO e della EEC russa (Lavrov, tra l’altro, è anche di origini armene).
Quindi, gli azeri invadono la regione contesa, tale ritenuta nel diritto internazionale, protetta da accordi, la colpa è dei russi che non l’hanno protetta. Se l’avessero protetta sarebbero stati accusati di imperialismo fuori dei loro confini e ne sarebbe nata una nuova guerra per il Bene. Duecento morti, accordi internazionali calpestati, pulizia etnica in arrivo? Nessun problema, il radicalismo etico spacciato a piene mani per farci sentire “giusti” oggi non si applica, si applica il “crudo realismo”, un altro fallimento russo. Vedi che tenerli sotto pressione in Ucraina li sta indebolendo?
L’Azerbaijan è la classica pedina ambigua piazzata nel fianco del nemico. Sciti amici di Erdogan, di antica origine iranico-caucasica (gli armeni sono invece cristiani indoeuropei caucasici) sono il nostro miglior amico della strategica regione, anche se ce ne vergogniamo un po’ e non diamo pubblicità al fatto. Decine i casi di violazione dei diritti umani, noti livelli stratosferici di corruzione politica e finanziaria, tortura attestata di prigionieri politici. L’Armenia è invece un paese civile e democratico (secondo i nostri standard di democrazia).
Viaggi, regali, soldi, sostanze e corpi disponibili pagati dal governo azero per la “diplomazia del caviale”, come venne denominata la loro disponibilità verso politici e funzionari occidentali. Ripagati anche dandogli l’improbabile Gran Premio di F1 che dal 2017 romba per le strade di Baku, oltreché chiudendo entrambi gli occhi su quelle effrazioni etico-morali che in altri casi valgono una guerra per “i diritti umani”. Ma ci sono umani ed umani, dipende da dove abitano per la nostra geo-etica.
L’Azerbaijan è il terminale di pompaggio e trasmissione dell’oleodotto promosso per darci una alternativa alle forniture russe, gestito da British Petroleum (ovviamente gli inglesi altrimenti irremovibili sui diritti umani e gli standard democratici, qui fanno eccezione, si sa il petrolio ed il gas rendono l’etica scivolosa ed aeriforme per contagio) e di cui noi italiani siamo i principali clienti. Noi diamo bei soldi a questa gente qua. Chissà se Mentana troverà tempo di farci una puntata del suo serial “qui c’è un aggredito ed un aggressore”, dubito. O forse Gramellini dirà che “no, non è la stessa cosa dell’Ucraina, qui la cosa è più “complessa”.
Ma sull’Azerbaijan ci sono anche progetti più ampi, come passaggio del gasdotto che partirebbe dal Turkmenistan, paese di area d’influenza russa corteggiato affinché defezioni e ci dia energia a basso costo. Così da un bel po’, con gli azeri ogni tanto ci facciamo colloqui per stabilire relazioni strette con l’UE anche se certo non possiamo farli entrare dalla porta principale perché impresentabili. Poiché la geografia li rende strategici, gli azeri ogni tanto fanno finta di avere buoni rapporti coi russi per farci sganciare qualcosa di più per trattenerli dalla nostra parte. Lo stesso fanno in tono minore con l’Iran. Ricattano, detto altrimenti. In Relazioni Internazionali, si dice “si bilanciano”.
L’Azerbaijan fu uno dei pochi paesi ad aprire lo spazio aereo per il transito dell’aviazione americana nella guerra contro Saddam, ma il loro ruolo più strategico e particolarmente scabroso è nella guerra in Afghanistan. Washington Post sosteneva in un articolo del 2016, che lì facevano tappa di trasferimento volumi di almeno un terzo di cibo, vestiti, attrezzature ed ovviamente armi, per le truppe americane in Afghanistan. Ma, come per l’Ucraina, un bel po’ di armi e non pochi soldi, hanno preso altre vie. Ultimamente, Zelensky, ha il suo bel da fare a licenziare capi amministrativi e militari che tramite oligarchi si rivendono le nostre armi inviate lì per la “resistenza”. Poi, tra un po’, ci accorgeremo a chi le hanno vendute, non certo alla camorra o la ndrangheta.
Mi interessai del caso a proposito della giornalista maltese saltata in aria una mattina mettendo in moto l’auto per andare al lavoro. Daphne Caruana aveva messo troppo il naso in un potente traffico d’armi che coinvolgeva banche maltesi (anglo-maltesi spesso), il locale potere politico ed armi che provenivano dall’Azerbaijan, armi NATO. Se ne era accorta anche una giovane giornalista bulgara che indagava in Siria, quando trovò in un covo ISIS appena conquistato e mostrato ai giornalisti, parecchie casse di armi con scritte in bulgaro, domandandosi cosa mai ci facessero lì e risalendo a quelli che ufficialmente dovevano esser flussi NATO per l’Afghanistan, via Azerbaijan. Sappiamo tutti che c’erano grossi flussi di armi NATO in favore dell’ISIS, ma guai a dirlo.
Sulla pagina wiki della Caruana trovate la lista di più di una cinquantina di “awards and honours” dati dagli europei per il suo indomito coraggio investigativo. Dopo che è morta e per altro senza definitiva verità su chi l’ha ammazzata e perché (del resto Malta è UE, UE è bene, quindi Malta è bene, siamo per la potenza delle deduzioni noi razionalisti). Siamo così, con una mano prendiamo, con l’altra diamo, la prima è invisibile, la seconda ci rassicura che siamo quelli dalla parte giusta della storia. Ci sarebbe da scrivere non un post ma un intero libro sulla faccenda dei traffici d’armi NATO via Azerbaijan, basta leggere il minimo e senza poi frequentare chissà quali fonti bizzarre, è tutto abbastanza a portata di onesto interesse, ad averci il tempo.
Ma le anime belle non hanno il tempo, hanno solo fretta di far vedere che sono informati sul mondo e sanno dare giudizi moralmente alti, cappuccino, brioche e che inizi un nuovo giorno nel dorato stile di vita occidentale, il modo giusto di stare al mondo, se non ti piace vai a vivere in Russia! Io vivo qui e ne sono contento per molti aspetti e molto meno per altri, solo, preferirei non doverlo fare accanto a loro.

Mali, si torna al punto di partenza…, di Bernard Lugan

Il punto di partenza dell’attuale guerra in Mali, Burkina Faso e Niger non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Il conflitto è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. Gli insorti hanno dichiarato di essere membri del MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad), fondato nell’ottobre 2011, due anni dopo la fine della quarta guerra tuareg. L’MNLA riuniva diversi movimenti tuareg e la sua spina dorsale era costituita da membri della tribù Ifora che avevano servito nell’esercito del colonnello Gheddafi.

Con l’MNLA, oltre al riemergere di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, si stava formulando una nuova forma di rivendicazione. Durante le quattro guerre precedenti, i Tuareg avevano lottato per ottenere maggiore giustizia dallo Stato maliano guidato dal Sud. Nel gennaio 2012, chiedevano qualcosa di molto diverso, ovvero la divisione del Mali e la creazione di uno Stato tuareg, l’Azawad.

Tuttavia, per le classiche e più che consuete ragioni di rivalità tra sottoclan tuareg, Iyad Ag Ghali, anch’egli Ifora e leader delle precedenti rivolte, era stato tenuto fuori dalla fondazione dell’MNLA. Non potendo accettare questa situazione, ha dato vita a un movimento rivale i cui obiettivi etno-nazionali erano gli stessi dell’MNLA. Ma, per poter esistere, lo ha dichiarato islamista. All’inizio di gennaio 2013, Iyad Ag Ghali ha superato l’MNLA lanciando un’offensiva a sud, verso Mopti e poi Bamako. L’8 gennaio 2013 è stata presa la città di Konna e l’11 gennaio 2013 diverse colonne dirette a sud sono state “trattate” dagli elicotteri francesi. Il regime del sud a Bamako è stato quindi salvato da una sconfitta prevista, cosa che i membri dell’attuale giunta hanno ben dimenticato…

Da quel momento in poi, l’analisi francese era sbagliata. I “decisori” francesi non hanno visto – o si sono rifiutati di vedere – che l’islamismo non era altro che una copertura per le rivendicazioni dei tuareg, che in un certo senso non era altro che la superinfezione di una ferita etno-razziale millenaria. Questo significava che per l’Eliseo Iyad Ag Ghali era il nemico, mentre in realtà era la soluzione del problema e bisognava parlare con lui… Negli anni successivi, la Francia si è rifiutata di comprendere questa realtà, con il presidente Macron che ha persino ordinato l’eliminazione di Iyad ag Ghali, cosa che quest’ultimo non ha dimenticato…

Ora, con la partenza delle forze francesi e dell’ONU dal Mali, il vero problema, il cuore della questione, è riapparso alla luce del sole: non si tratta di islamismo, ma di irredentismo tuareg. Vorrei chiarire questo punto a coloro che si compiacciono di distorcere le mie parole: sto parlando solo del nord del Mali, non della regione transfrontaliera, dove la situazione è diversa perché l’islamismo e il problema dei Fulani sono sovrapposti o intrecciati.

Come scrivo da anni, e come ben sanno gli abbonati a L’Afrique Réelle, Iyad Ag Ghali, il leader storico dei combattenti tuareg, ha costantemente cercato di riunire i clan tuareg attorno alla sua leadership. E ci è riuscito! I gruppi armati tuareg si sono riuniti nel CSP-PSD (Quadro Strategico Permanente – Per la Pace, la Sicurezza e lo Sviluppo), di cui fa parte anche la CMA (Coordination des mouvements de l’Azawad), per offrire un fronte comune contro l’esercito maliano che, con l’appoggio finora poco determinante del gruppo Wagner, sta cercando di riconquistare l’Azawad da cui era stato cacciato nel 2012.

Di conseguenza, il 12 settembre, le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra che ha incendiato l’intera regione. La città di Timbuctù è praticamente circondata. E poiché questa volta le forze francesi non verranno a salvarli, i meridionali potrebbero presto pentirsi di aver chiesto la partenza di Barkhane…

La lunga storia è riemersa in modi che sono naturalmente ignorati da coloro che pretendono di definire la politica africana della Francia e che portano la terribile responsabilità dell’umiliazione che il nostro Paese sta attualmente subendo nel Sahel e, più in generale, in tutta l’Africa. Questa lunga storia è raccontata nel mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours (Storia del Sahel dalle origini ai giorni nostri).

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Vogliono i negoziati, ora_di AURELIEN_a cura di Roberto Negri

Vogliono i negoziati, ora.
Hanno idea di cosa stanno parlando?

AURELIEN
20 SET 2023

Vi ricordo che le versioni spagnole dei miei saggi sono ora disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta ora pubblicando anche alcune traduzioni in italiano. Grazie a tutti i traduttori.

Nel mio ultimo saggio ho parlato di come i politici occidentali stiano facendo un lavoro sempre peggiore come politici, e di come questo crescente dilettantismo sia assolutamente evidente nella loro risposta ad alcune crisi recenti, in particolare quella ucraina. Ho detto che sarei tornato su quell’esempio, e questo saggio riguarda i risultati del dilettantismo, dell’egoismo e dell’autoriferimento dell’Occidente in merito a qualsiasi tentativo di risoluzione della crisi ucraina.

Parlerò soprattutto dei negoziati, che sono improvvisamente diventati un tema del dibattito interno in corso in Occidente sul tipo di esito in Ucraina che il suo fragile ego politico collettivo potrebbe tollerare. Eppure non ho visto praticamente nessuna discussione informata su cosa possa significare in pratica “negoziazione” in questo caso, né tantomeno alcun segno che coloro che coraggiosamente hanno iniziato a usare questa parola abbiano la più remota nozione di ciò di cui stanno parlando. Vediamo quindi di aiutarli. Per alcuni, quanto segue potrà sembrare eccessivamente specialistico e dettagliato; posso solo rispondere che in questa partita i dettagli possono essere estremamente importanti. Al contrario, se fra i lettori ci sono diplomatici di carriera, in servizio o in pensione, probabilmente penseranno che ho semplificato troppo le cose. Quindi, scusandomi con entrambi, cominciamo con la domanda più elementare: perché negoziare? Qual è lo scopo?

La risposta più semplice è che si tratta di raggiungere un obiettivo di qualche tipo che non si può raggiungere da soli, e già qui si possono immediatamente notare una serie di sottigliezze e ulteriori domande contenute in questa semplice risposta. L’obiettivo è condiviso, o almeno compatibile, da entrambe le parti? Tutti hanno la stessa comprensione del significato dell’obiettivo e del modo in cui può essere raggiunto? Entrambe le parti sono ugualmente impegnate nella trattativa? E così via.

Per comodità, possiamo dividere i negoziati in tre grandi categorie. La prima è quella che probabilmente conosciamo tutti nella nostra vita privata. In linea di massima, io ho qualcosa che tu vuoi e tu hai qualcosa che io voglio, ed è nel nostro reciproco interesse cercare di scambiarli. L’esempio più semplice è quello della compravendita: dalla semplice bottega all’acquisto di un’auto, di una casa o di un’intera azienda, c’è un compratore disposto a pagare fino a una certa cifra e un venditore disposto a vendere per una certa cifra. A volte questo processo è molto rapido: ad esempio, un minuto per acquistare un’imitazione di una polo Lacoste da un venditore ambulante di Bangkok a un prezzo considerato equo da entrambe le parti. A volte ci vuole molto più tempo, come quando un’azienda ne acquisisce un’altra e c’è una grande quantità di dettagli da definire. Inoltre ci sono sempre complicazioni di contorno: il logo Lacoste, ad esempio, non sembra ben cucito. Sebbene questo modello non sia sconosciuto nelle relazioni internazionali, la maggior parte dei negoziati reali è molto più complessa e coinvolge molti più fattori.

Un secondo tipo di trattativa prevede tipicamente un obiettivo comune, a volte ben definito, a volte no, condiviso in misura diversa da diversi attori. L’idea è quindi quella di negoziare un accordo che soddisfi tutti in modo ragionevole, raggiungendo un’interpretazione dell’obiettivo che possa essere accettata da tutti. Tutti i trattati economici e politici europei, a partire dall’accordo sul Mercato Comune del 1958, sono stati di questa natura: un obiettivo ampiamente condiviso, accompagnato da una quantità di divergenze di dettaglio su singole questioni che dovevano essere ricomposte nel testo finale. Il classico esempio singolo di questo tipo di negoziato è probabilmente il Trattato di Washington del 1949, che non ha effettivamente “istituito la NATO” (quello è avvenuto diversi anni dopo), ma ha stabilito il principio dell’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza dell’Europa occidentale contro il potere e l’influenza sovietica. Mi soffermerò un attimo su questo esempio.

In questo caso le motivazioni delle parti si sovrapponevano, ma non erano identiche. Per gli europei, il problema era la massa di forze sovietiche a est e la possibilità che venissero usate per intimidire gli elettori e portare al potere i partiti comunisti (come era accaduto in Ungheria e in Cecoslovacchia) e minacciare gli stessi governi occidentali, esausti e in bancarotta dopo la guerra, inducendoli a fare concessioni politiche. Soprattutto, c’era la paura di un’altra futura guerra, alla quale l’Europa non sarebbe sopravvissuta, anche perché, come in Grecia e come era quasi accaduto in Francia e in Italia, la guerra sarebbe stata anche civile. Se da un lato gli europei non temevano un attacco militare deliberato, dall’altro cercavano un esplicito impegno di sicurezza da parte degli Stati Uniti, in modo che Mosca fosse più cauta nei suoi rapporti con gli Stati occidentali e nell’uso dei partiti comunisti europei. La prospettiva americana era piuttosto diversa. Il Paese era già in preda a un panico anticomunista che stava peggiorando, ma era diretto principalmente contro obiettivi interni. Un vero e proprio confronto militare con l’Unione Sovietica aveva pochissimo sostegno a Washington e, sebbene l’amministrazione Truman fosse determinata a non lasciare che l’Europa cadesse ulteriormente sotto l’influenza sovietica, c’era poca voglia di un’alleanza formale che impegnasse gli Stati Uniti a intervenire militarmente in Europa così presto dopo la fine della guerra e la smobilitazione su vasta scala che l’aveva seguita. Inoltre nel Congresso americano, che avrebbe dovuto ratificare qualsiasi trattato, era presente una significativa lobby isolazionista, che doveva essere rispettata.

Il risultato si vide soprattutto nel famoso articolo 5 del Trattato, una clausola che colmava il divario tra il minimo che gli europei potevano accettare e il massimo che gli americani potevano dare tramite una formula gnomica che entrambe le parti potevano interpretare come volevano. Sebbene la struttura militare istituita in seguito coinvolgesse gli Stati Uniti militarmente e assicurasse che le truppe statunitensi fossero tra le prime vittime di eventuali combattimenti, le tensioni di fondo non sono mai scomparse e, fino alla fine della Guerra Fredda, gli europei hanno temuto che gli Stati Uniti avrebbero cercato di imporre un accordo ai loro alleati piuttosto che combattere effettivamente al loro fianco.

Un terzo tipo di negoziato è quello che viene imposto a una parte, o che quest’ultima non può evitare. L’accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani per il ritiro delle forze americane nel 2021 ne è un esempio. Anche tutti i negoziati di resa rientrano in questa tipologia: persino la resa incondizionata delle forze tedesche e giapponesi nel 1945 incluse una serie di dettagli pratici da definire tra le due parti. La ritirata delle forze serbe dal Kosovo nel 1999 non è stata una vera e propria resa (se ne sono andate in buon ordine e in gran parte intatte), ma è stata politicamente imposta ed era ineluttabile, e anche in questo caso c’era tutta una serie di dettagli pratici che dovevano essere negoziati. Il rischio, naturalmente, è che la potenza o le potenze vincitrici si lascino prendere la mano e cerchino di imporre condizioni pericolose o irrealistiche alla parte più debole. Finora i russi si sono comportati con moderazione, ma la guerra non è ancora finita.

Quindi, di queste tre grandi tipologie, a quale sembrano riferirsi i sostenitori dei “negoziati” sull’Ucraina? Beh, a nessuna di esse in realtà, per quanto posso vedere. Il dibattito sembra incentrato sulle condizioni che l’Occidente dovrebbe cercare di imporre alla Russia e sulle concessioni che gli ucraini potrebbero accettare di fare, almeno nel breve periodo. Le ragioni sono molteplici e riguardano soprattutto il delicato ego collettivo della comunità strategica occidentale, e tornerò su questo punto alla fine del saggio. Ma per ora il punto che voglio sottolineare è che anche i più audaci e arroganti pensatori radicali occidentali non solo tradiscono la completa mancanza di una visione realistica del mondo (ma questo lo sapevamo già), ma dimostrano anche una totale ignoranza di cosa siano i negoziati, del perché avvengano, di come vengano condotti e di cosa ci si possa ragionevolmente aspettare da essi.

Ora, una suggestione che circola tra le frange più audaci della comunità strategica occidentale è l’idea di un “congelamento” del conflitto, apparentemente sul modello di armistizio che ha congelato la guerra di Corea. Questo permetterebbe all’Occidente di ricostruire l’Ucraina e le sue forze armate per il prossimo round. Anche tralasciando l’ovvia considerazione che non esiste alcuna ragione al mondo per cui la Russia dovrebbe accettare un’idea del genere – che potrebbe funzionare solo se entrambe le parti cooperassero – questa ipotesi suggerisce che queste persone certamente sanno poco o nulla dell’esempio cui si riferiscono.

Per cominciare, l’armistizio di Corea fu un esempio della seconda categoria di negoziati sopra descritta. Ovvero, un numero sufficiente di attori chiave da entrambe le parti (di fatto i cinesi e le Nazioni Unite) ha accettato il fatto che una vittoria completa sarebbe stata costosa e difficile, e forse impossibile, e quindi aveva senso congelare i combattimenti. Dopo di che, sebbene formalmente esista ancora uno stato di guerra, non c’è mai stata alcuna seria possibilità che il conflitto ricominciasse. (Dubito che coloro che parlano di un conflitto “congelato” siano mai stati nella DMZ o abbiano un’idea delle guarnigioni che la circondano). È evidente che oggi una simile ipotesi sia da escludere. I russi non hanno alcun interesse a una stasi del conflitto poiché, se da un lato stanno pagando un prezzo per la guerra, dall’altro il prezzo che sta pagando l’Occidente è più alto, e sarà sempre più così. In ogni caso, una sospensione dei combattimenti (l’ipotesi di cui stiamo parlando) potrebbe in realtà destabilizzare internamente l’Ucraina stessa e creare una frattura tra il suo governo e quelli delle nazioni occidentali. Vale la pena ricordare che sono state le Nazioni Unite, e soprattutto gli Stati Uniti, i maggiori fautori di un armistizio: le leadership politiche di entrambe le fazioni coreane volevano combattere fino alla vittoria totale, e ci è voluto del tempo per convincerle a non farlo. Qualcosa di simile potrebbe accadere in Ucraina. C’è quindi un’idea dilettantesca e disinformata del quadro politico di base della situazione, e la presunzione che i “negoziati” del tipo che l’Occidente ipotizza possano avvenire quando l’Occidente desidera, senza tenere conto delle opinioni e degli obiettivi delle controparti.

In ogni caso, l’accordo di armistizio firmato nel luglio 1953 aveva una portata molto limitata. Aveva un contenuto puramente militare, fu firmato dalle Nazioni Unite, dai cinesi e da quella che sarebbe stata la Corea del Nord (la Corea del Sud non l’ha mai firmato) e riguardava questioni puramente militari di cessazione delle ostilità e di scambio di prigionieri di guerra. Avrebbe dovuto essere seguito da negoziati di pace e da uno o più trattati, ma ciò non è mai avvenuto, soprattutto a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. È questo che gli opinionisti chiedono ora? Dopo tutto, qualcuno crede davvero che l’Occidente avrebbe mano libera in Ucraina dopo un ipotetico cessate il fuoco? E che senso avrebbe, anche nella ristretta prospettiva occidentale, un cessate il fuoco che lasciasse l’Ucraina di fatto ancora in guerra, tenuta in vita solo dagli aiuti occidentali, senza alcuna prospettiva di resistere a un serio attacco militare russo, con una popolazione in continua diminuzione e in perenne crisi politica, il tutto a fronte della promessa di un futuro invio di aiuti militari una volta ricostituite le scorte occidentali e aumentata la produzione? Questo approccio, per usare un eufemismo, contraddice uno dei principi fondamentali dei negoziati: decidere cosa si vuole dalle trattative e cosa si intende fare una volta ottenuto.

Eppure è strano che gli opinionisti (che presumibilmente riflettono almeno alcune posizioni ufficiali) abbiano scelto la Corea come esempio. Ce n’è uno molto più vicino a noi: l’Accordo di Minsk, o meglio gli Accordi, che avrebbero dovuto risolvere il problema che ha determinato la guerra. Poiché spesso ci si riferisce a quegli accordi, ma raramente vengono davvero citati, diamo un’occhiata al loro testo. Il primo degli accordi, datato 5 settembre 2014 (“Minsk 1”), è stato trasmesso dalla delegazione ucraina alle Nazioni Unite il 24 febbraio 2015 e vale la pena soffermarsi su di esso perché esemplifica una serie di questioni sollevate da questo tipo di accordi. In primo luogo, il documento stesso è costituito sia da un “Protocollo”, descritto come un'”Intesa”, sia da un “Memorandum” di accompagnamento che tratta alcuni aspetti della sua attuazione. In altre parole, i documenti non contengono impegni da parte di alcun Paese né specifici obblighi giuridici o politici. I documenti registrano semplicemente ciò che i partecipanti dicono di aver concordato. È previsto il monitoraggio, ma non l’applicazione di quanto concordato.

Il secondo punto riguarda i partecipanti e i firmatari. Il testo è firmato dai rappresentanti del Gruppo di contatto trilaterale (Ucraina, Russia e Oblast’ secessionisti, oltre che dall’OSCE, responsabile del monitoraggio). I leader di Francia e Germania hanno fatto da intermediari nei colloqui, ma non hanno firmato alcun documento. D’altra parte, gli ucraini (che non hanno riconosciuto le regioni secessioniste) hanno insistito affinché i loro leader di allora firmassero solo come singoli individui, non come rappresentanti di alcuna entità politica. Questa è la più semplice delle anticipazioni del tipo di problemi che si presenterà in qualsiasi “negoziato” che l’Occidente voglia prendere in considerazione.

Il terzo punto è il contenuto. Entrambi i documenti sono molto brevi, come ci si potrebbe aspettare da documenti che si occupano principalmente di stabilire dei principi. Detto questo, il Memorandum è estremamente dettagliato in una parte, e ovviamente redatto da specialisti militari, dal momento che contiene anche elenchi molto precisi di equipaggiamenti (soprattutto artiglieria) insieme alle distanze a cui dovrebbero essere arretrati dalla linea di contatto. Il documento è quindi uno strano miscuglio di vaghe aspirazioni future e misure pratiche molto dettagliate da adottare immediatamente.

Infine, la lingua. Quando si tratta di traduzioni le cose sono sempre complicate, ma possiamo dire che entrambi i documenti contengono in gran parte dichiarazioni di buone intenzioni, senza obiettivi o date associate. Qualcuno (presumibilmente il governo ucraino) “attuerà il decentramento amministrativo”, altri “promulgheranno una legge” per punire i crimini di guerra, qualcun altro ancora “adotterà un programma” per la rinascita economica del Donbas. I testi evitano accuratamente di dire chi sia responsabile di cosa, come e quando il “cosa” debba essere realizzato e tanto meno valutato. Il documento evita palesemente qualsiasi accento che assomigli al linguaggio dei trattati (ad esempio, “raggiunta un’intesa” al posto di “concordato”). Ma questa di per sé non è una vera e propria critica: questo era quanto era possibile ottenere dalle parti in quel momento, e rifletteva la loro riluttanza a stipulare un accordo giuridicamente vincolante. D’altra parte, ciò che veramente conta è quello che le parti intendono fare a prescindere dai documenti che hanno firmato, e da ciò che è seguito è chiaro che nessuna delle due parti si fidava dell’altra. Qualsiasi “accordo”, che sia quest’anno o in seguito, sarà molto più complicato e difficile di questo.

A causa della mancanza di fiducia e di impegno sono ricominciati i combattimenti e, dopo ulteriori pressioni da parte di Francia e Germania e una riunione molto lunga e difficile, il 12 febbraio 2015 è stato finalmente concordato un “Pacchetto di misure” per attuare gli accordi di Minsk originali (diventato noto come “Minsk 2”). Si noti ancora una volta che anche questo non è un trattato o un documento esecutivo di alcun tipo, ma si tratta essenzialmente di una registrazione dei punti concordati durante l’incontro firmata dai membri del Gruppo di contatto trilaterale. In alcuni casi (ad esempio la riforma costituzionale) risulta chiaro che il governo ucraino ha promesso di fare qualcosa, in altri non è chiaro chi debba fare cosa. Anche in questo caso sono presenti alcune disposizioni dettagliate relative alle armi pesanti. Vale anche la pena sottolineare che alcune disposizioni vanno al di là dei normali limiti di un trattato, perché impegnano i non firmatari a fare delle cose: ad esempio, il Parlamento ucraino doveva adottare una risoluzione sulle aree a cui si sarebbe applicato un regime amministrativo speciale. Questo genere di cose non compare mai nei trattati per il semplice motivo che nessun governo può impegnare il proprio parlamento. In sostanza, quindi, si tratta di una raccolta di idee intelligenti che, se attuate, avrebbero dovuto contribuire all’attuazione dell’Accordo di Minsk. Anche in questo caso, non si tratta di una critica: è tutto ciò che è stato possibile ottenere dalle parti in quelle circostanze.

Questi risultati estremamente limitati sono stati l’esito di una notevole pressione esercitata dopo un piccolo e breve conflitto in un’area limitata di un Paese. Per questo motivo gli accordi sono venuti meno molto rapidamente, con le parti (comprese quelle non rappresentate) che si sono accusate a vicenda di malafede. (Non entrerò ora nel merito dei diritti e dei torti della questione, ciò che conta è la percezione). La realtà è che, se ci fosse stata la volontà di entrambe le parti di far funzionare gli accordi, in qualche modo avrebbero funzionato. È un errore costante degli esperti di relazioni internazionali (e non solo) supporre che solo perché è stato firmato un accordo di pace scritto ne seguiranno necessariamente dei risultati pratici. In realtà, come ho sostenuto altrove, in assenza di un genuino desiderio di fare dei progressi, gli accordi di pace possono essere pericolosi, e più sono complessi, più possono esserlo. Alcuni accordi di pace hanno scatenato guerre.

Al contrario, negoziati che sembrano impossibili possono in realtà diventare possibili molto rapidamente a causa di un cambiamento o di uno sviluppo della situazione politica. I negoziati per la Riduzione Reciproca ed Equilibrata delle Forze (Mutual and Balanced Force Reductions, MBFR) si sono svolti a Vienna dal 1973 al 1989 senza produrre alcun tipo di trattato perché mancava la volontà politica di fare qualcosa se non parlare. Nel 1989 sono stati sostituiti dai negoziati sulle forze armate convenzionali in Europa (CFE), che all’inizio sono stati accolti con un certo scetticismo. Ma divenne presto chiaro che sia l’Est che l’Ovest avevano deciso che la Guerra Fredda stava per finire e che i colloqui CFE erano il metodo scelto per darle una degna sepoltura. Così sono state stanziate importanti risorse, e in meno di due anni è stato negoziato un trattato enorme e complesso.

Quindi, al di là e prima dei dettagli, che affronteremo tra poco, il primo tema è la volontà politica. Nel sempre mutevole diagramma di Venn di ciò che gli Stati vogliono e sono disposti ad accettare, c’è un’area minima di sovrapposizione in cui si potrebbe raggiungere un accordo utile, e c’è la volontà di raggiungere tale accordo e farlo funzionare? Se sì, bene. In caso contrario, i negoziati potrebbero peggiorare la situazione anziché migliorarla. Per quanto ammiri la professione diplomatica, essa ha la tendenza a considerare tutti i negoziati come buoni e tutti gli accordi, anche i più banali e provvisori, come risultati. (Sebbene, come diceva Churchill, le trattative sono meglio della guerra, la storia dimostra che una trattativa troppo precoce può produrre comunque una guerra.

Quanto detto sopra spero dia un’idea del tipo di questioni che il termine vago e generico di “negoziati” dovrà affrontare. Esaminiamone ora alcune più nel dettaglio, sicuri che nessuno in nessuna capitale occidentale avrà dedicato riflessioni serie ai problemi in questione.

La prima domanda è semplice: negoziati a che scopo? Ammesso che gli opinionisti occidentali abbiano una qualche idea di ciò di cui stanno parlando, sembra che stiano pensando a un Minsk 3, ossia a un cessate il fuoco, al ritiro delle armi pesanti, a promesse di riforme politiche da parte dell’Ucraina e a uno scambio di prigionieri. Non si tratterebbe di un trattato (poiché tali documenti non lo sono per definizione), e sebbene possa essere monitorato ancora una volta dall’OSCE non ci sarebbero disposizioni per la sua applicazione. L’obiettivo sarebbe quello di fermare gli attacchi e le avanzate russe e ricostruire le forze armate ucraine per il prossimo round. Detto così, risulta ovvio che solo chi abbia perso completamente il contatto con la realtà, come il signor Blinken, potrebbe immaginare che un’idea del genere sia accettabile per la Russia.

D’altra parte, è abbastanza chiaro quale sarà l’obiettivo dei russi in qualsiasi negoziato, perché qualsiasi proposta sarà basata sulla bozza di trattato del dicembre 2021, che la NATO si è rifiutata di discutere. Il loro obiettivo sarà un trattato che allontani gli Stati Uniti dall’Europa e riporti la NATO al 1997, e la loro proposta iniziale potrebbe essere ancora più dura dopo diversi anni di combattimenti. Di conseguenza, al netto della parola “negoziati”, le due parti parleranno in realtà di cose completamente diverse.

Forse in questo caso è possibile una certa flessibilità. Ad esempio, l’Occidente non potrebbe presentare delle controproposte (come avrebbe dovuto fare nel 2021) per una futura architettura di sicurezza in Europa? Il problema è che il sistema esistente nel 2021 in realtà andava piuttosto bene per l’Occidente, quindi qualsiasi proposta avanzata ora non può che essere basata sull’accettazione di un sistema peggiore di quello precedente, anche come posizione negoziale di apertura. E chi farà esattamente queste concessioni sulla sicurezza? Chi deciderà? Dopo tutto, i parlamenti degli Stati partecipanti (ci arriveremo tra un attimo) dovrebbero ratificare qualsiasi trattato che alla fine dovesse riusltare. Naturalmente nulla impedisce all’Occidente di presentare proposte volte a far ritirare i russi da una parte o da tutta l’Ucraina, ma questo sarebbe semplice teatro. Il problema è che la NATO non ha nulla da offrire che sia accettabile per i propri elettori, che i russi non possano prendersi o far accadere comunque, e non può costringerli a dare qualcosa di importante in cambio. Questa quindi non è una buona base per i negoziati.

Ma c’è di peggio, a causa delle posizioni politiche estreme delle due parti. La versione ufficiale occidentale del 2021-22 sembra emergere ora, ad esempio dal recente discorso di Stoltenberg, il Segretario Generale della NATO. In questa rappresentazione la Russia, forte del suo massiccio rafforzamento militare, ha tentato di ricattare la NATO affinché rifiutasse l’adesione dell’Ucraina, per poi tornare ai confini del 1997. Quando la NATO ha rifiutato di farsi intimidire, Putin ha lanciato una guerra per invadere tutta l’Europa, ma è stato fermato dai coraggiosi ucraini con l’aiuto dell’Occidente. Ora, vista l’enorme quantità di denaro e di armi che le nazioni della NATO hanno fornito, come può un leader nazionale andare in parlamento e dire: “Bene, ragazzi, in realtà l’Ucraina alla fine non entrerà nella NATO e la Russia potrà prendersi i territori che vuole: lo dice la bozza di trattato che abbiamo presentato”? Dal canto suo, il governo russo sarà probabilmente soggetto alle medesime pressioni, al punto che la bozza di trattato del dicembre 2021 potrebbe ora sembrare troppo mite per gran parte della popolazione. E gli ucraini? Beh, a loro ci arriveremo tra un attimo.

Ora, non è impossibile che in qualche modo, da qualche parte, un gruppo di Stati si riunisca per scambiare opinioni, registrare richieste, rifiutare richieste e così via, e se fossimo di buon umore potremmo chiamare tutto questo “negoziati”. Ma non saranno negoziati, nel senso che non ci sarà né la volontà né la capacità di fare alcun progresso sostanziale.

Il che ovviamente solleva un’altra questione: chi parteciperà e, in questo contesto, chi firmerà e chi sarà vincolato da cosa? Gli accordi di Minsk sono stati (relativamente) facili. Da una parte il governo ucraino, dall’altra i ribelli e i russi, nel mezzo l’OSCE e, a intermediare fra le parti, i francesi e i tedeschi. Da allora la situazione è diventata incomparabilmente più complessa: i Paesi della NATO, in misura diversa, sono sostanzialmente ma non formalmente parti in causa nel conflitto. Gli oblast’ occupati fanno ora parte della Russia. Logicamente, qualsiasi negoziato dovrebbe avvenire tra Russia e Ucraina, ma questo pone due problemi evidenti. Il primo è che non è chiaro chi parli a nome dell'”Ucraina” anche sul fronte interno. Qualsiasi conclusione o anche solo una pausa dei combattimenti potrebbe scatenare forze politiche con obiettivi molto diversi, tanto che qualsiasi delegazione ucraina non sarebbe in grado di parlare a nome del Paese nel suo complesso. Cosa succede se a metà dei negoziati si verifica un colpo di stato militare? Cosa succede se diversi gruppi pretendono di rappresentare il governo e il popolo, con obiettivi diversi? E se altri gruppi non presenti ai negoziati cercassero di esercitare un controllo a distanza? (Questo è ciò che è accaduto ai negoziati di Rambouillet nel 1999, che hanno preceduto l’attacco alla Serbia. Secondo qualcuno che era presente ai negoziati il leader della delegazione kosovara albanese, un esponente politico, fu costretto a dire a Madeline Albright, la principale negoziatrice statunitense, che era impossibile per lui firmare la bozza di trattato preparata dagli Stati Uniti poiché in tal caso l’Esercito di liberazione del Kosovo lo avrebbe assassinato al suo ritorno a casa).

Il secondo problema è che l’Ego collettivo dell’Occidente non tollererebbe di essere escluso da tali negoziati, anche se è assai più incerto se essi sottoscriverebbero effettivamente degli obblighi, e ancor meno se i loro parlamenti accetterebbero di ratificarli. Eppure tutti sarebbero perfettamente consapevoli che l’Occidente sta manipolando la delegazione ucraina, o che almeno ci sta provando. Da parte loro, è chiaro che i russi non considerano gli ucraini come attori indipendenti, e quindi pretenderebbero che i negoziati fossero tra loro e la NATO, con l’Ucraina come semplice punto all’ordine del giorno.

Da quanto ho detto finora dovrebbe risultare evidente la necessità di abbandonare l’idea di “negoziati” in senso proprio, almeno finché la situazione non cambierà radicalmente. Ma ipotizziamo un’improvvisa esplosione di razionalità e moderazione nelle capitali occidentali, un cambio di governo, una crisi economica e politica o altro del genere. Cosa si potrebbe organizzare che assomigli a un negoziato e che possa portare a qualche risultato? Supponiamo che l’Occidente accetti un modello di accordo simile alla proposta russa: un nuovo assetto di sicurezza per l’Europa, con le questioni relative alla NATO in discussione e l’Ucraina da considerare come caso a sé. Benissimo. Ma come si potrebbe far funzionare tutto ciò?

Tanto per cominciare, chi parla a nome dell'”Occidente”? I negoziati si svolgono classicamente tra entità sovrane che possiedono la capacità giuridica di stipulare trattati. L’Unione Europea ce l’ha (ad esempio nel trattato di uscita dall’UE stipulato con il Regno Unito), ma la NATO no. Quindi, ad esempio, l’adesione della Finlandia alla NATO è stata registrata sotto forma di Protocollo al Trattato di Washington, stabilendo che “le Parti del Trattato Nord Atlantico” avevano concordato che la Finlandia avrebbe depositato uno strumento di adesione presso gli Stati Uniti (come Stato depositario) e che ogni membro della NATO avrebbe poi notificato la propria accettazione dello strumento. La ragione di questa procedura farraginosa è che la “NATO” non può concordare nulla, né i suoi Stati membri le permetterebbero di farlo. In qualsiasi futuro trattato teorico, la “NATO” non sarebbe firmataria, né sarebbe rappresentata al tavolo dei negoziati, né avrebbe obblighi e diritti in base al trattato. Tutto questo è di pertinenza dei singoli Stati. Qualcosa di simile è già accaduto in passato, con il già citato Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa del 1990. In quel caso è stato necessario un abile lavoro per conciliare il fatto che i negoziati fossero tra blocco e blocco, tra la NATO e il Patto di Varsavia, con il fatto che il trattato doveva essere firmato e attuato dalle singole nazioni. Allo stesso modo, all’interno della stessa NATO furono necessari infiniti, laboriosi e spesso difficili negoziati interni per cercare di stabilire una posizione comune.

Quindi, in pratica, un futuro “negoziato” intercorrerebbe con i membri ufficiali della NATO, che tratterebbero in modo indipendente ma cercando di mantenere una posizione comune, la Russia, l’Ucraina in una o più configurazioni e forse altri soggetti. L’Australia vorrebbe partecipare? E la Svizzera? Chi decide? E che status avrebbe, ad esempio, l’Australia in veste di fornitore di aiuti? Quali obblighi sottoscriverebbe Canberra? Sarebbe necessario un grado di concordia quasi sovrumano anche solo per definire il contenuto dei negoziati e le regole procedurali. Sebbene esistano numerosi esempi di trattati firmati tra un gran numero di Stati con diverse posizioni non esiste, per quanto ne so, alcun precedente di un negoziato effettivamente aperto che coinvolga un numero così elevato di partecipanti, su questioni così difficili e complesse, con la maggior parte dei partecipanti obbligati a coordinare i propri punti di vista nonostante le enormi differenze oggettive delle loro rispettive situazioni. Anche in questo caso, un altissimo grado di concordanza politica potrebbe teoricamente unire i governi occidentali e questo potrebbe accelerare le cose, ma il problema è che la posta in gioco è così importante e complessa, e le implicazioni strategiche per i diversi Paesi così diverse, che mantenere un tale consenso è davvero pura fantasia. Il risultato pratico è che, anche se un tale negoziato dovesse iniziare, potrebbe essere interrotto in qualsiasi momento da dispute tra gli Stati su un numero quasi infinito di questioni.

C’è un’intera lista di altre questioni di dettaglio ma comunque importanti, per le quali potrebbero servire mesi per trovare un accordo. Ad esempio, dove tenere i colloqui? Molte delle classiche sedi neutrali (Ginevra, Helsinki, Vienna) sembrano ora sconsigliabili. Ankara potrebbe andare bene, ma dopotutto si tratta di una nazione appartenente alla NATO anche se i turchi hanno fatto il doppio gioco. I russi potrebbero quindi proporre Minsk, e le discussioni cadrebbero subito. Senza dubbio gli ucraini indicherebbero Kiev o Washington. Questa situazione potrebbe andare avanti (e probabilmente lo farebbe) per mesi. E immaginate, ad esempio, le difficoltà logistiche di organizzare i negoziati tra, diciamo, trentacinque Paesi? Quaranta? Tenendo presente che la maggior parte del lavoro reale non si svolge in seduta plenaria ma in gruppi di lavoro e sessioni informali, quanti luoghi al mondo possiedono un’infrastruttura in grado di ospitare questo incubo logistico? E poi ci sono la traduzione e l’interpretazione. Quante lingue ufficiali ci sarebbero? Almeno tre (russo, inglese e francese) e probabilmente anche “ucraino”. Immaginate le discussioni su quale sia la lingua autentica di default per i documenti e sul reperimento degli interpreti e dei traduttori necessari.

Potrei continuare ancora. Ma alla fine quello che stiamo vedendo è la comunità strategica occidentale negoziare con sé stessa, dato che nessun altro negozierà con lei, e cercare di sondare i limiti estremi di ciò che il suo fragile ego è in grado di accettare senza crollare. Nulla di tutto ciò ha una grande attinenza con la vita reale. Una delle cose da tenere a mente per quanto riguarda il successo dei negoziati è che non si possono forzare le persone o le loro conclusioni. L’Occidente ha una lunga storia di forzature nei negoziati e negli accordi con altre nazioni, naturalmente per quelle che considera buone ragioni. Questi tentativi falliscono perché i partner non sono pronti o non si fidano l’uno dell’altro, o perché le circostanze sottostanti non sono favorevoli. Non ci sarà nulla di tutto ciò con i russi, che negozieranno quando ne avranno voglia, se mai ne avranno voglia. L’Occidente parla di una guerra infinita che non ha né le forze, né l’equipaggiamento, né la capacità, né la volontà politica di affrontare. Il risultato effettivo sarà una sorta di perenne ostilità e, alla fine, i sogni occidentali di trionfo tramite i negoziati si riveleranno un’illusione come i loro sogni di trionfo sul campo di battaglia.

 

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