L’Italia, l’Europa e gli squilibri della fase multicentrica, a cura di Luigi Longo

Si propongono tre letture sugli squilibri mondiali nella fase multicentrica, lentamente e scompostamente in cammino. Gli squilibri si fanno più consistenti e gravi venendo a mancare sempre più quella sorta di centro di coordinamento mondiale rappresentato dagli Stati Uniti.

Le letture: uno stralcio dell’articolo del generale Fabio Mini apparso sulla rivista Limes n.4/2017 e due articoli del geografo e giornalista Manlio Dinucci apparsi sul quotidiano il Manifesto, il primo il 15/8/2017, il secondo il 13/9/2017. Si riporta inoltre una cartografia di Limes illuminante sulla capacità di dominio (di coercizione e di consenso) degli USA e del loro spettro: la Russia.

E’ importante osservare come, nella fase multicentrica, le sfere militare, politica e istituzionale assumono sempre più un peso specifico per la costruzione del blocco di dominio sociale, mentre nella fase monocentrica giocano un ruolo fondante le sfere economica, politica, istituzionale, culturale, eccetera.

Trovo sorprendente l’articolo del generale Fabio Mini che fa una lettura critica sulla servitù italiana ed europea alle strategie di dominio USA. Una critica fatta da un Generale che ha avuto un ruolo di rilievo sia nelle Forze armate italiane sia nella Nato assume un rilievo interessante._ Luigi Longo

 

USA-Italia. Comunicazione di servizio

di Fabio Mini

 

 

[…] L’America non è più un << modello virtuoso >> e nemmeno vincente e molti paesi << minori >> non sono disposti a obbedire ciecamente a un leader anche se ben armato e neppure a stare assieme per favorirne gli interessi. Può essere un problema strategico, non tanto perché tali paesi possono scegliere di stare con la Russia o la Cina, ma perché possono scegliere di non stare con nessuno creando così l’esigenza di una complessa rete di relazioni bilaterali difficile da gestire […]

Gli Stati Uniti pretendono dagli alleati e dai sottoposti nazionali ed esteri un << servizio >> che sia utile e riescono a convertire qualsiasi utilità in moneta. Ma il servizio richiesto è anche << obbligatorio >> per cui sono previste sanzioni o ritorsioni economiche e militari a qualsiasi inadempienza o manifestazione d’insofferenza […] A questa presunzione ne corrisponde un’altra ugualmente distorta: la convinzione che quasi tutti i paesi del mondo, comunque quelli di tutta l’Europa in particolare, << debbano >> qualcosa agli Stati Uniti. In alcuni accenni contenuti nei trattati bilaterali che stabiliscono i termini dello status delle Forze armate statunitensi ( Sofa, Status of Forces Agreement) o della permanenza di basi e infrastrutture militari nei vari paesi, il richiamo all’amicizia e alla cooperazione suggerisce sempre la sussistenza di un debito. Un debito permanente e inestinguibile. Anche le espressioni di gratitudine per << per l’ospitalità >> e la collaborazione che gli americani ripetono sorridenti in ogni occasione di incontro con i partner nascondono l’ironia, se non proprio l’ipocrisia, tipica di chi si sente in credito. In genere l’ospitalità di truppe straniere sul proprio territorio non è mai volontaria, è imposta. I contributi sono richiesti e quelli non richiesti sono anticipati per pura piaggeria. Il debito di riconoscenza reclamato dagli Stati Uniti è qualcosa di molto simile al concetto di tributo all’impero da parte dei vassalli e al concetto di debito delle società mafiose. […]

Gli Stati Uniti si ritengono creditori infiniti di tutto il mondo per la loro missione divina di preservare la democrazia, la libertà e i diritti umani di tutti. In particolare, sono ritenuti loro debitori tutti i paesi << liberati >>, con le armi o le operazioni coperte, dal fascismo, dal nazismo, dal comunismo, dalle dittature (spesso instaurate da loro stessi) e dal terrorismo. In termini ideologici, la riconoscenza dovuta per tali << liberazioni >> è impagabile. Non c’è modo di tramutarla in moneta o corvèe o di eluderla. Nella pratica, però, si può evitare che la riconoscenza si tramuti in sindrome con tutte le conseguenze. Tutti i presunti debitori degli Stati Uniti ci sono riusciti, la maggior parte con qualche sforzo e sacrificio e altri non ponendosi neppure il problema. A eccezione dell’Italia.

L’Italia ha dovuto e voluto accettare un debito infinito rifugiandosi nella sindrome della riconoscenza. Ben consapevole della sottile linea che separa l’erta del servizio dal baratro della schiavitù ha cercato di spacciare l’accettazione della servitù per semplice questione di gratitudine, di affetto, di passione e di amore: tutte cose che da noi hanno un valore anche politico mentre per altri, compresi americani, inglesi, tedeschi e francesi non contano nulla. Giustamente.

Pensando di essere furba, e forte della propria esperienza di sei secoli di dominazioni straniere, la << serva Italia di dolore ostello >> ha tentato di usare il debito di riconoscenza per legarsi per sempre più ai forti di turno, agli Stati Uniti, sperando in un rapporto privilegiato o nella magnanimità dell’alleato in caso di gaffe e intemperanze. E così in effetti è stato, ma al costo della rinuncia della sovranità nazionale.

Oggi, dai reciproci abbracci, baci e pacche sulle spalle non traspira aria di affetto e rispetto, ma la solita deprimente realtà: la politica italiana è da oltre settant’anni vittima consapevole e felice dell’ingerenza degli Stati Uniti ed è stabilmente al << servizio >> dei loro interessi. […]

Spesso la Nato viene individuata come il luogo del potere americano sugli alleati. E’ vero solo in parte e per la parte più politicamente corretta. Il gioco pesante e spesso sporco avviene nei singoli paesi. Il controllo americano sull’Italia è gestito in Italia. Da settant’anni, il nostro paese si presenta nelle organizzazioni internazionali come Onu, Nato, G7, G8 e G20, Osce e Unione Europea con un’agenda già concordata all’ambasciata Usa di Roma. Molte volte non è neppure necessario concordare nulla perché ogni tassello dirigenziale politico, amministrativo e militare è allineato sulle posizioni degli interessi americani. Qualunque sia il partito al governo. Agli << americani di Roma >>, funzionari d’ambasciata, addetti commerciali, culturali, politici, addetti alla pubblic diplomacy (un modo elegante per pilotare la comunicazione italiana), forze speciali sotto copertura, agenti della Cia, della Dia e dell’Fbi sparsi a gruppi di ventine in tutta Italia, si aggiungono gli << americani nostrani >>. Sono di tutte le specie: politici convinti ( il presidente Cossiga si riteneva uno di questi e si definiva << amerikano >>), politici voltagabbana, diplomatici, giornalisti, informatori, complottisti, piduisti, pseudo-esperti e intellettuali, militari, massoni e cattolici, vecchi mercenari e neo-contractors che, agendo in qualsiasi ambito nazionale e pontificando da qualsiasi pulpito, alimentano le già numerose lobby pro-americane e sono i più accesi sostenitori delle ragioni oltre che difensori degli errori statunitensi. […]

Nel nostro paese l’opposizione al servilismo è invece prettamente ideologica. Si limita alla critica per partito preso e non per cognizione di causa. E’ rimasta agli schemi della guerra fredda e per questo anacronismo si squalifica da sola. Di fatto, contribuisce a rafforzare il già radicato americanismo servile. Da noi si applica appieno l’amara constatazione di un filosofo cinese: << Ci sono stati periodi in cui il nostro desiderio di essere schiavi è stato soddisfatto e altri no >>. Da noi il << periodo no >> deve ancora arrivare. In sostanza, dal 1945 a oggi non abbiamo fatto altro che andare in America per mendicare, implorare, rinnovare il patto di sudditanza e fare il pieno di stupidaggini, dagli slogan elettorali ai gadget pubblicitari. Anche noi abbiano i nostri twitter-in-chef (soprannome di Trump) che cinguettano, felici di essere al sicuro, in gabbia. […]

Infine la questione delle basi: i numeri vanno aggiornati e la genesi rivista. I militari americani sono circa 14 mila, le installazioni oltre 110, comprendendo ogni struttura anche soltanto tecnica. I cosiddetti << accordi bilaterali di lunga data >> non sono scaturiti soltanto dell’appartenenza italiana alla Nato: quasi tutte le installazioni militari statunitensi in Italia non sono nemmeno sotto copertura atlantica. Le basi sono la naturale continuazione delle esigenze militari delle forze di occupazione statunitensi e alleate in Italia. Alla fine della guerra nel nostro paese i centri di potere erano polverizzati. Il governo monarchico, il governo d’occupazione degli Alleati e quello dei Comitati di liberazione nazionale si sovrapponevano e contrastavano. La commissione alleata aveva diritto di veto su qualsiasi attività nazionale e le basi militari italiane o ex tedesche erano territorio occupato. Gli inglesi hanno continuato a usare la base di Aviano fino al 1947. Gli accordi bilaterali successivi all’ingresso dell’Italia nella Nato (1949) hanno soltanto rilegittimato la presenza statunitense d’occupazione sotto il nuovo cappello Nato che comunque era assunto dal Comando Alleato in Europa (Usa) con il nome di Supremo Comando Alleato d’Europa. Da allora, la denominazione Nato è stata spesso usata per indicare la base appartenente a un paese membro dell’Alleanza Atlantica, non necessariamente per scopi della Nato. Nella sostanza, la presenza militare americana in Italia è un fatto prettamente bilaterale e la disponibilità delle basi per altre forze Nato, comprese quelle italiane, anche in esercitazione, se non diversamente stabilito, è una prerogativa esclusiva degli Stati Uniti. […]

Per settant’anni abbiamo obbedito ai consigli, alle imposizioni, alle ingiunzioni e alle minacce degli Stati Uniti nella politica, nell’amministrazione, nella giustizia e nella sicurezza senza chiedere e ricevere nulla in cambio se non il fatidico ombrello di protezione (che proteggeva i loro assetti) e la pacca cordiale di solito riservata ai cagnolini, tipo << pet service >>, appunto. In ambito militare e industriale, ci siamo legati a vita a programmi di armamenti a condizioni di strozzinaggio, abbiamo dovuto e voluto copiare parola per parola manuali e dottrine palesemente indirizzate a riempire il carrello della spesa delle industrie americane e di quelle nostre affiliate. Abbiamo assimilato concezioni politiche e militari inadatte alle nostre condizioni ed esigenze. Insostenibili e inutili. Abbiamo elevato ai vertici dello Stato, delle industrie e delle imprese di Stato e delle Forze armate personaggi anche validi, ma soprattutto opportunamente indicati dagli ambasciatori statunitensi. Raccomandati o graditi. I vertici della Difesa hanno fatto anticamera per essere ricevuti da un colonnello addetto militare e i nostri ministri sono stati convocati in ambasciata da camerieri o poco più. […]

A partire dai primi giorni del dopoguerra ci siamo vincolati anima e corpo a un rapporto di servitù in termini bilaterali che prescindeva sia dagli impegni del Piano Marshall sia da quelli della Nato. Ma nemmeno questo è stato fatto bene. Subito dopo il periodo di << amministrazione controllata >> del dopoguerra e ai primi segni della guerra fredda, abbiamo accettato una divisione politica interna innaturale e deleteria che ha consegnato il potere centrale a politici succubi e corrotti, il potere periferico a formazioni filo-sovietiche e l’opposizione a eversivi nostalgici, fascisti, comunisti e frammassoni. Tutti gestiti e manovrati dai << liberatori >> americani e sovietici impegnati in una guerra fredda che da noi è stata sempre calda. Quando gli equilibri politici sembravano deviare dal corso prestabilito ci siamo dilaniati con le insurrezioni armate, i tentativi di colpo di Stato e il terrorismo politico. […]

Non siamo mai stati così apertamente velleitari nel seguire le istruzioni americane alla Nato e al di fuori di essa come nei periodi di governo delle sinistre. Non abbiamo discusso di niente e obiettato su niente, neppure sulle guerre intraprese in aperta violazione del diritto internazionale. Ci siamo accontentati di cambiarle il nome. Negli ultimi vent’anni abbiamo continuato a parlare di fedeltà nei confronti degli alleati Nato e in particolare degli americani mentre, in realtà, abbiamo tradito tutti non ottemperando al primo dovere degli alleati veramente fedeli e leali: contrastare gli avventurismi e mettere i partner in guardia dalle possibili conseguenze. Non abbiamo neanche sfruttato le salvaguardie della sovranità nazionale garantite dagli stessi trattati bilaterali e internazionali. La Nato decide all’unanimità e l’opposizione di un membro qualsiasi, dagli Stati Uniti al Lussemburgo, fa abortire qualsiasi progetto. Non abbiamo mai detto no e non abbiamo nemmeno cercato d’influire sulle strategie. Gli accordi bilaterali per loro natura riconoscono e preservano la sovranità dei sottoscrittori e, sempre per loro natura, prevedono benefici per entrambi. Se al beneficio di uno non corrisponde equo e congruo beneficio dell’altro il trattato configura una servitù la cui natura deve essere specificata e giustificata. Da settant’anni, gli Stati Uniti in Italia esercitano de facto un regime di servitù nazionale e militare non previsto da nessun rapporto bilaterale. Non è una loro prevaricazione. In realtà fanno il loro mestiere e lo fanno bene: per i loro interessi. Dovrebbe essere un problema nostro. In altri paesi del mondo le basi americane sono state chiuse dalla sera alla mattina per violazioni vere o presunte della sovranità molto meno gravi di questa. Da noi non è mai stato un problema semplicemente perché la classe politica di qualsiasi segno, la classe industriale e quella militare hanno voluto accettare le servitù anche se non previste e nemmeno richieste. Da noi le installazioni statunitensi vengono chiuse e aperte, trasformate e cambiate di destinazione d’uso nell’esclusivo interesse di una parte, sempre quella. La rinuncia ai nostri diritti di Stato sovrano e ai doveri di leale alleanza ha contribuito in maniera sostanziale all’egemonia americana nel mondo. A gratis. Anzi all’ulteriore costo di dignità: siamo utilizzatori forzati di tecnologie già forzate, di terza mano, e delle informazioni di scarto americane che beviamo come elisir di lunga vita perché è questo che esattamente dobbiamo fare: continuare a vivere a lungo in uno schema preconfezionato di informazioni incontestabili perché incontrollabili (e guai a pretendere di farlo). […]

All’<< indiscutibile >> missione escatologica degli Stati Uniti si unisce l’altrettanto indiscutibile convinzione che l’America ci serva, che ci sia necessaria e utile. In questo campo si può però obiettare senza rischiare di essere blasfemi.

Mentre in ogni paese del mondo si sta ridiscutendo la storia dell’ultimo secolo a partire dalla prima guerra mondiale, da noi prevale la vulgata dell’America di Giustizia, Democrazia e Libertà. La missione assunta dagli Stati Uniti di portare questi valori in tutto il mondo e di agire con le armi contro chiunque non li riconosca viene richiamata e confermata in ogni circostanza. E’ qualcosa che nessun paese può discutere specialmente se annoverato tra i perdenti della seconda guerra mondiale. La mannaia di antiamericano cala con eguale intensità di quella di antisemita.

Tale missione parte infatti proprio dal periodo postbellico, quando il linguaggio politico statunitense cominciò ad essere infarcito di slogan sul tipo del << Dio lo vuole >> delle storiche crociate. Linguaggio che non cessa di esaltare la nazione americana, specialmente se associato all’idea che << lo vuole l’America >>, produttrice di tutti i fenomeni d’intolleranza politica e razziale dal maccartismo al trumpismo. Eppure, è ormai storicamente assodato che nel dopoguerra l’Unione Sovietica non aveva alcuna intenzione d’invadere l’Europa. Non voleva però che fosse minacciata o toccata la propria sfera influenza. Lo stesso Kennan, che aveva dato modo a Truman di forgiare la strategia del contenimento con il suo telegramma da Mosca del 1946 e il successivo articolo del 1947, ha voluto precisare come l’espansione sovietica non fosse il problema. In un’intervista televisiva del 1996 disse che la distorsione del senso del suo articolo << veniva da una frase nella quale dicevo che qualora i leader sovietici si fossero confrontati con noi in maniera ostile in qualunque posto del mondo, noi avremmo dovuto fare il possibile per contenerli e non lasciarli espandere ulteriormente. Avrei dovuto però spiegare che non sospettavo i sovietici di progettare un attacco contro di noi. La guerra era appena finita, ed era assurdo supporre che essi avrebbero attaccato gli Stati Uniti. Non pensavo di dover spiegare una cosa del genere, ma ovviamente avrei dovuto farlo >>. Kennan aveva intuito che il sistema sovietico era destinato a collassare da solo per le spinte interne e per l’incapacità di tenere al giogo i propri alleati. Sapeva, e questo lo disse fino alla morte (all’età di 101 anni) che il contenimento non poteva essere solo militare. Il vero problema sovietico era impedire il processo di sfaldamento centrifugo che l’Occidente avrebbe potuto e voluto sfruttare. Processo ritardato di quarant’anni ma puntualmente presentato con il tentativo fallito di aprirsi a riforme istituzionali e sociali.

La guerra fredda non era affatto necessaria. Non c’era nessuna invasione alle porte e nessuna necessità di sfoderare i missili nucleari prima ancora di rimuovere le macerie. Non era necessaria la Nato e di conseguenza non sarebbe stato necessario nemmeno il Patto di Varsavia. La difesa europea si sarebbe potuta sviluppare anche come pilastro continentale del rapporto transatlantico senza provocazioni e mire espansionistiche. Ma la storia non si fa con i << sé >> e la guerra fredda c’è stata. E allora occorre ragionare per quali interessi è stata combattuta. […] Durante la guerra fredda l’America non ha fatto gli interessi dell’Europa, ma ne ha fatto il campo di battaglia permanente convenzionale e nucleare. Il Piano Marshall (European Recovery Plan, Erp) ha aiutato più l’America che i paesi europei. E’ vero, senza aiuti esterni la ricostruzione sarebbe stata più lunga, ma è anche vero che senza la formula dell’Erp e senza un intero continente a fungere da consumatore dei surplus produttivi, l’America non sarebbe mai uscita dalla crisi economica iniziata nel 1929. In Europa e in Asia la guerra fredda è servita a evitare la prevista smobilitazione militare che avrebbe riportato in America centinaia di migliaia di persone in cerca di lavoro e di reduci in cerca di cure e compensazioni. Con lo schieramento all’estero e la presunta minaccia del blocco sovietico, l’apparato militare-industriale ha graduato il processo di riconversione di molti settori bellici all’economia di pace e insieme si è imposto come settore fondamentale della politica e dell’economia prima ancora che della sicurezza. In compenso, le economie e la politica dei paesi aiutati sono state drogate dagli stessi aiuti e dalle ingerenze: come in Grecia, Turchia e Italia. E d’altra parte non si deve certo alla minaccia sovietica la serie di sconfitte militari subite dagli Usa dal 1950 a oggi.

Se la cosiddetta protezione americana non ci è servita durante la guerra fredda è molto dubbio che ci serva oggi. Non solo perché la minaccia è remota (come giustamente dice il nostro Libro Bianco), ma perché anche quella probabile non può essere contrastata con gli assetti strategici che verrebbero messi a disposizione. Se si parla di Iraq, Siria e Libia, si parla di guerra a sassate. Scomodare i bombardieri strategici B2 per i voli non stop di 32 ore dalla base del Missouri al deserto libico completamente libero da qualsiasi minaccia aerea e contraerea con 80 bombe di precisione teleguidate su un gruppetto di fanatici non è solo un overkilling, ma un test di dubbio valore geopolitico e militare. Potevamo credere sulla parola che l’operazione sarebbe stato un << successo >>, ma il suo effetto rimane irrilevante nel contesto caotico della Libia come di tutti gli altri teatri di guerra in atto. E se in futuro si verificassero le condizioni per una copertura strategica di quel tipo, possiamo essere certi che l’intervento ci sarebbe anche senza richiederlo. Sarebbe più nel loro interesse che nel nostro. Come al solito.

Tutti noi europei e in particolare noi italiani non << dobbiamo >> assolutamente niente e anche la gratitudine dal calore e sapore mediterraneo va pesata in relazione a quanto abbiamo già dato in termini di sovranità, dignità e instabilità politica (compresa la stagione della sovversione e del terrorismo), che gli americani in Italia e quelli d’Italia non hanno certo contribuito ad evitare. Fino a qualche tempo fa, l’ufficio Contabilità del Congresso americano (Gao) valutava in dollari i contributi di tutti i paesi del mondo alla sicurezza degli Stati Uniti. L’Italia, solo tra basi e previdenze per i soldati americani in Italia, era sempre in cospicuo avanzo. Il Gao non ha ancora monetizzato i << contributi >> italiani degli anni passati, ma mentre il rituale del fair play è sempre in vigore le richieste di maggiori risorse alla Nato sono più pressanti. […]

Da parte sua, il ministro degli esteri Alfano il 21 marzo scorso ha tenuto un breve discorso all’Atlantic Council, autorevole think tank di Washington, durante il quale ha elencato tutti i servizi militari e diplomatici resi agli Stati Uniti e alla Nato (forze, missioni eccetera) ha assicurato che in Iraq ci siamo e ci resteremo, che siamo protagonisti in Libia, Libano e Balcani, ha richiamato l’esigenza di una difesa europea ed ha assicurato che gli europei hanno recepito l’esigenza di maggiori risorse per la difesa militare e s’impegnano al mantenimento dei vincoli transatlantici. Ed è questo che gli americani amano sentirsi dire, anche se non ne dubitano affatto. Rimane da vedere come l’Italia possa passare dalle parole ai fatti richiesti da Trump e dai suoi: e quindi passare dai 27 ai 54 miliardi di dollari/euro da destinare alla difesa. […]

Trump riprende con vigore una richiesta rivolta da tutti i presidenti americani ai partner della Nato negli ultimi trent’anni. Solo che oggi nessun paese alleato crede veramente in una minaccia russa per l’Europa e i paesi che ne sbandierano l’eventualità in realtà vogliono una frattura tra Europa e Russia. Una frattura che porti alla rinazionalizzazione dell’Europa già aperta da Wolfowitz o alla formazione della << Europa delle regioni >>, la quale farebbe delle centinaia di microregioni europee, dall’Atlantico agli Urali, altrettanti bacini di esportazione e militarizzazione.

 

 

 

Così gli Usa «rassicurano» l’Europa

di Manlio Dinucci

 

Nell’anno fiscale 2018 (che inizia il 1° ottobre 2017) l’amministrazione Trump accrescerà di oltre il 40% lo stanziamento per la «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa» (Eri), lanciata dall’amministrazione Obama dopo «la illegale invasione russa dell’Ucraina nel 2014»: lo annuncia il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando europeo degli Stati uniti e quindi per diritto Comandante supremo alleato in Europa.

Partito da 985 milioni di dollari nel 2015, il finanziamento della Eri è salito a 3,4 miliardi nel 2017 e arriverà (secondo la richiesta di bilancio) a 4,8 miliardi nel 2018. In quattro anni, 10 miliardi di dollari spesi dagli Stati uniti al fine di «accrescere la nostra capacità di difendere l’Europa contro l’aggressione russa». Quasi la metà della spesa del 2018 – 2,2 miliardi di dollari – serve a potenziare il «preposizionamento strategico» Usa in Europa, ossia i depositi di armamenti che, collocati in posizione avanzata, permettono «il rapido spiegamento di forze nel teatro bellico». Un’altra grossa quota – 1,7 miliardi di dollari – è destinata ad «accrescere la presenza su base rotatoria di forze statunitensi in tutta Europa».

Le restanti quote, ciascuna nell’ordine di centinaia di milioni di dollari, servono allo sviluppo delle infrastrutture delle basi in Europa per «accrescere la prontezza delle azioni Usa», al potenziamento delle esercitazioni militari e dell’addestramento per «accrescere la prontezza e interoperabilità delle forze Nato».

I fondi della Eri – specifica il Comando europeo degli Stati uniti – sono solo una parte di quelli destinatati all’«Operazione Atlantic Resolve, che dimostra la capacità Usa di rispondere alle minacce contro gli alleati».

Nel quadro di tale operazione, è stata trasferita in Polonia da Fort Carson (Colorado), lo scorso gennaio, la 3a Brigata corazzata, composta da 3500 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi, 144 veicoli da combattimento Bradley, oltre 400 Humvees e 2000 veicoli da trasporto.

La 3a Brigata corazzata sarà rimpiazzata entro l’anno da un’altra unità, così che forze corazzate statunitensi siano permanentemente dislocate in territorio polacco. Da qui, loro reparti vengono trasferiti, per addestramento ed esercitazioni, in altri paesi dell’Est, soprattutto Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania e probabilmente anche Ucraina, ossia vengono continuamente dislocati a ridosso della Russia.

Sempre nel quadro di tale operazione, è stata trasferita nella base di Illesheim (Germania) da Fort Drum (New York), lo scorso febbraio, la 10a Brigata aerea da combattimento, con oltre 2000 uomini e un centinaio di elicotteri da guerra. Da Illesheim, sue task force vengono inviate «in posizioni avanzate» in Polonia, Romania e Lettonia. Nelle basi di Ämari (Estonia) e Graf Ignatievo (Bulgaria), sono dislocati cacciabombardieri Usa e Nato, compresi Eurofighter italiani, per il «pattugliamento aereo» del Baltico.

L’operazione prevede inoltre «una persistente presenza nel Mar Nero», con la base aerea di Kogalniceanu (Romania) e quella addestrativa di Novo Selo (Bulgaria).

Il piano è chiaro. Dopo aver provocato col putsch di Piazza Maidan un nuovo confronto con la Russia, Washington (nonostante il cambio di amministrazione) persegue la stessa strategia: trasformare l’Europa in prima linea di una nuova guerra fredda, a vantaggio degli interessi degli Stati uniti e dei loro rapporti di forza con le maggiori potenze europee.

10 miliardi di dollari investiti dagli Usa per «rassicurare» l’Europa, servono in realtà a rendere l’Europa ancora più insicura.

 

 

 

 

Russia e Cina contro l’impero del dollaro

di Manlio Dinucci

 

Un vasto arco di tensioni e conflitti si estende dall’Asia orientale a quella centrale, dal Medioriente all’Europa, dall’Africa all’America latina. I «punti caldi» lungo questo arco intercontinentale – Penisola coreana, Mar Cinese Meridionale, Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Ucraina, Libia, Venezuela e altri – hanno storie e caratteristiche geopolitiche diverse, ma sono allo stesso tempo collegati a un unico fattore: la strategia con cui «l’impero americano d’Occidente», in declino, cerca di impedire l’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.

Che cosa Washington tema lo si capisce dal Summit dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) svoltosi il 3-5 settembre a Xiamen in Cina. Esprimendo «le preoccupazioni dei Brics sull’ingiusta architettura economica e finanziaria globale, che non tiene in considerazione il crescente peso delle economie emergenti», il presidente russo Putin ha sottolineato la necessità di «superare l’eccessivo dominio del limitato numero di valute di riserva».

Chiaro il riferimento al dollaro Usa, che costituisce quasi i due terzi delle riserve valutarie mondiali e la valuta con cui si determina il prezzo del petrolio, dell’oro e di altre materie prime strategiche. Ciò permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale.

Lo yuan cinese è però entrato un anno fa nel paniere delle valute di riserva del Fondo monetario internazionale (insieme a dollaro, euro, yen e sterlina) e Pechino sta per lanciare contratti di acquisto del petrolio in yuan, convertibili in oro.

I Brics richiedono inoltre la revisione delle quote e quindi dei voti attribuiti a ciascun paese all’interno del Fondo monetario: gli Usa, da soli, detengono più del doppio dei voti complessivi di 24 paesi dell’America latina (Messico compreso) e il G7 detiene il triplo dei voti del gruppo dei Brics.

Washington guarda con crescente preoccupazione alla partnership russo-cinese: l’interscambio tra i due paesi, che nel 2017 dovrebbe raggiungere gli 80 miliardi di dollari, è in forte crescita; aumentano allo stesso tempo gli accordi di cooperazione russo-cinese in campo energetico, agricolo, aeronautico, spaziale e in quello delle infrastrutture.

L’annunciato acquisto del 14% della compagnia petrolifera russa Rosneft da parte di una compagnia cinese e la fornitura di gas russo alla Cina per 38 miliardi di metri cubi annui attraverso il nuovo gasdotto Sila Sibiri, che entrerà in funzione nel 2019, aprono all’export energetico russo la via ad Est mentre gli Usa cercano di bloccargli la via ad Ovest verso l’Europa.

Perdendo terreno sul piano economico, gli Usa gettano sul piatto della bilancia la spada della loro forza militare e influenza politica. La pressione militare Usa nel Mar Cinese Meridionale e nella penisola coreana, le guerre Usa/Nato in Afghanistan, Medioriente e Africa, la spallata Usa/Nato in Ucraina e il conseguente confronto con la Russia, rientrano nella stessa strategia di confronto globale con la partnership russo-cinese, che non è solo economica ma geopolitica.

Vi rientra anche il piano di minare i Brics dall’interno, riportando le destre al potere in Brasile e in tutta l’America latina. Lo conferma il comandante dello U.S. Southern Command, Kurt Tidd, che sta preparando contro il Venezuela l’«opzione militare» minacciata da Trump: in una audizione al senato, accusa Russia e Cina di esercitare una «maligna influenza» in America latina, per far avanzare anche qui «la loro visione di un ordine internazionale alternativo».

senso accerchiamento russia

Fonte: Limes n.16/2016.

12° Podcast _ UNA DINASTIA IN BILICO, di Gianfranco Campa

Questa volta i riflettori puntano a illuminare un altro angolo del palcoscenico a stelle e strisce; quello sino ad ora riservato ai Clinton. Protagonisti, nell’ombra e in primo piano, in questi ultimi venti anni, ma con una pesante ipoteca riguardo al loro futuro politico segnato dalla drammatica sconfitta elettorale alle presidenziali americane. Gli attacchi forsennati a Trump dell’intero vecchio establishment hanno impedito la resa dei conti postelettorale nel Partito Democratico. La sua progressiva normalizzazione tranquillizzerà probabilmente la vecchia classe dirigente e la spingerà a regolare i conti al proprio interno e a gestire in qualche maniera il ricambio. Il contesto geopolitico e sociopolitico è, però, radicalmente mutato rispetto ad appena dieci anni fa. Gli Stati Uniti in qualche maniera devono prendere atto della presenza di altri attori di peso nello scacchiere internazionale; all’interno le basi di consenso dei due partiti tradizionali sono cambiate con una erosione delle basi elettorali e un significativo spostamento di opinione di importanti settori di ceto popolare e medio, come per altro sta avvenendo in maniera più confusa anche in Europa. Sullo sfondo una radicale polarizzazione che impedisce a tutte le forze di assumere il ruolo di forza politica in grado di garantire la coesione del paese. Le emergenti non riescono ancora a sedurre almeno una parte significativa dei settori di punta e più avanzati del paese; le altre sembrano ancora del tutto sorde ai richiami del loro elettorato tradizionale.La paralisi programmatica e progettuale di queste ultime appare sempre più evidente. Come se non bastasse, la possibile formazione autonoma di un nuovo movimento politico, come conseguenza della defenestrazione dei sostenitori originari dallo staff presidenziale, potrebbe catalizzare definitivamente questi settori ed avviare ad una crisi profonda se non irreversibile prima il Partito Repubblicano e poi quello Democratico. Non a caso la componente radicale, più legata ai ceti professionali, del Partito Democratico stesso si è rivelata molto più cauta e sconcertata nei confronti di Trump. Nelle intenzioni della famiglia Clinton questa dovrebbe essere una fase di transizione generazionale, ma con le stesse dinastie come protagoniste; nei fatti Hillary Clinton potrebbe rivelarsi il capro espiatorio perfetto da offrire in cambio della definitiva defenestrazione di Trump e con questo pregiudicare le ambizioni della progenie e di qualche adepto rimasto impigliato in qualche parte del mondo. Fantapolitica? Molto probabile! Questi due anni sono stati però effervescenti e sorprendenti. Le trappole disseminate nello scacchiere internazionale iniziano a stringersi e gli armadi di gran parte di questi esponenti politici, cresciuti e formatisi in altri contesti, sono ricolmi di scheletri pronti alla riesumazione. Lo scontro è apertissimo _ Giuseppe Germinario

A proposito de “la fortezza assediata di Gianfranco Campa”, di Massimo Morigi

Considerazioni di Massimo Morigi sul recente podcast di Gianfranco Campa http://italiaeilmondo.com/2017/09/02/11-podcast_la-fortezza-assediata-di-gianfranco-campa/

«lo spazio esteriore – svuotato – della sovranità territoriale rimane intatto, mentre il contenuto reale di questa sovranità viene modificato in quanto vincolato alla protezione del grande spazio economico della potenza esercente il controllo. Il controllo e il dominio politico si fondano qui sull’intervento, mentre lo status quo territoriale rimane garantito. […] la sovranità territoriale si trasforma in un vuoto spazio di eventi economico-sociali. Viene garantita l’integrità territoriale esteriore, con i suoi confini lineari, non già il contenuto sociale ed economico della stessa integrità, ovvero la sua sostanza. Lo spazio del potere economico determina l’ambito giuridico internazionale. » (Schmitt, 2003, pp.324-325)
La guerra dell’establishment politico americano contro Trump (repubblicani e democratici indifferentemente, grandi mezzi di comunicazione, complesso militare-industriale) descritta e analizzata con acutezza da Gianfranco Campa nei suoi podcast ed in particolare nell’ultimo “La fortezza assediata”, l’undicesimo, dove viene freddamente rappresentata quella che sembra essere la resa finale dei conti contro coloro che hanno costruito l’ascesa alla presidenza dell’erratico e manovriero (purtroppo solo pro domo sua) nuovo presidente statunitense, al di là delle peculiarità caratteriali e politiche (ripetiamo, totalmente negative) del neoeletto presidente ed al di là anche degli errori segnalati da Campa che possono (o meglio, che sicuramente hanno) commesso gli “ingegneri” della costruzione di questa singolare presidenza (Sebastian Gorka, Roger Stone, Steve Bannon), certamente abili, per non dire geniali, nell’ avere compreso il malessere profondo dell’America contro un’ establishment dirittoumanista e pro globalizzazione e del tutto insensibile verso gli interessi dei ceti medio-bassi dei lavoratori statunitensi ma anche ingenui nello scegliere un burattino, Donald Trump, che pensavano di poter dirigere a piacimento ma che alla fine si è dimostrato una sorta di maligno e stregato simulacro dotato di vita propria e a tutto disposto per protrarre ad ogni costo e con ogni compromesso non solo la sua vita politica ma, soprattutto, anche la sua incolumità personale, una cosa dimostra e ci consegna pure un insegnamento per coloro che in Italia puntano ad un rivoluzionamento concreto ed integrale del nostro paese. E quello che la vicenda Trump dimostra è che il vero arcanum imperii della politica internazionale emerso dopo il secondo conflitto mondiale è che le potenze vincitrici mentre si ergono più o meno custodi dell’integrità territoriale degli stati sono al medesimo tempo le più occhiute sorveglianti a che questi confini territoriali delimitano sì un territorio ma un territorio privato di ogni autonomia politica ed economica. Stiamo parlando, in altre termini, della morte sostanziale della sovranità statale, o, meglio, della morte della sovranità di quegli stati che hanno perso la seconda guerra mondiale o, pur avendola vinta militarmente, l’hanno persa politicamente. Per rimanere alla vicenda Trump, accanto al fatto che questa nuova amministrazione intende de facto proseguire nella strategia del caos di obamiana memoria, semmai con qualche retorica correzione anti ideologia dei diritti umani e di esportazione della democrazia, è ancora più chiaro che strategia del caos o no oppure, in via ipotetica, la faticosa ricerca di una sua sostituzione attraverso strategie alternative (faticosa ed in via ipotetica perché i revirement trumpiani tarpano le ali a qualsiasi alternativa all’impostazione caotica e dirittoumanistica obamiana ), è ancor più chiaro che quello che in alcun modo non potrà essere cambiato è la politica statunitense volta a mantenere del tutto vuota ed insignificante la sovranità statale degli stati appartenenti alla sua sfera d’influenza. E non solo di questi ma anche di quelli che mai appartenuti al perimetro dell’alleanza occidentale, si ostinano a volere mantenere ben salda ed efficace la propria sovranità. Come dimostra la vicenda nord coreana in cui, al di là del giudizio che si possa dare di quel regime politico, la volontà di voler costruire una propria “force de frappe” nucleare altro non segnala che la sua volontà di tener cara e ben vitale la propria sovranità statale. Trump parla della Corea del nord come di uno stato terrorista: in realtà il suo rapporto col terrore è da invertire perché se questo stato terrorizza è per il semplice motivo che rifiuta di farsi terrorizzare e conseguentemente, e su questo possiamo anche convenire con l’establishment politico-militare statunitense, colui che rifiuta pervicacemente di farsi terrorizzare può suscitare profonde inquietudini ed apprensioni. L’insegnamento che consegna per l’Italia la vicenda Trump. Si tratta di un insegnamento molto semplice che deve partire dalla comprensione ed accettazione del dato di fatto da parte dell’opinione pubblica e da parte di quelle forze politiche che dall’attuale establishment vengono definite antisistema e populiste (qualità per noi positive ma che, purtroppo, allo stato attuale sono tutte da dimostrare: un ribaltone alla Trump da parte di queste forze una volta che abbiano eventualmente assunto il potere è quasi, allo stato attuale dell’arte, una matematica certezza) che un cambiamento reale della nostra vita politica ed economica non può che venire dal consapevole sovvertimento dell’annullamento della nostra sovranità consegnataci dall’esito disastroso del secondo conflitto mondiale ma protratto per più di settant’anni non da ineluttabili leggi storiche ma dalla consapevole e costante azione politica internazionale degli Stati uniti (e per rovesciare non questa “legge di natura” dell’annullamento della sovranità statale italiana ma, invece, il preciso risultato della precisa e conseguente volontà politica della potenza egemone, valgono i percorsi che già su “L’Italia e il Mondo” si sono indicati: processo di progressiva neutralità dell’Italia – con, mi permetto di aggiungere, un occhio a quanto sta facendo la Corea del nord: per dirla tutta, un’Italia neutrale non può non dotarsi di un suo arsenale nucleare – , completo cambiamento della prospettiva politico-culturale, un vero e proprio riorientamento gestaltico della mentalità comune e politica dove vengano spodestati i fantomatici diritti umani e le retoriche democraticistiche per sostituirli con una decisa e spietata difesa e rafforzamento della cultura italiana, intesa questa come l’inestricabile e dialettico portato storico di tutti quegli elementi politici, culturali, economici, religiosi e linguistici che hanno formato l’identità italiana (e qui mi fermo perché, come già detto, è urgente iniziare il dibattito e vi debbono essere anche altri contributi, l’importante è la consapevolezza della direzione da assumere). Insomma, se sapremo contribuire alla formazione di una pubblica consapevolezza politica lungo l’interpretazione espressa dalle parole di Carl Schmitt poste ad incipit di queste brevi considerazioni sarà molto difficile, per non dire impossibile, che si ripetano sul suolo italico le deludenti vicende che stanno oggi accadendo negli USA. Se invece si permetterà alle c.d. forze antisistema di continuare a praticare la loro interessata somaraggine politico-culturale (tanto per fare un esempio: se permetteremo che queste c.d. forze antisistema continuino a blaterare il loro loffio slogan “aiutiamo gli immigrati a casa loro” anziché, come in osservanza ad un elementare buon senso di realismo politico deve essere pubblicamente affermato, comincino ad impegnarsi con un ben più sostanzioso e vincolante: «pur mantenendo intatte e rispettando rigorosamente le disposizioni e consuetudini di civiltà e del diritto internazionale che impongono di soccorrere in terra ed in mare chi si trova in pericolo di vita, noi permettiamo di circolare e lavorare sul nostro territorio solo a chi economicamente e culturalmente – cioè chi è funzionale alla nostra Kultur, come avrebbe detto l’infamata geopolitica tedesca del secolo scorso ma infamata perché gli sconfitti non potessero più praticarla contro i vincitori della guerra – fa i nostri interessi e dei rimanenti che non soddisfano questi requisiti, per dirla in tutta franchezza, nun ce ne pò fregà de meno» … ), il cambiamento sarà solo quello del personale che governerà il paese. E tutto rimarrà come prima, come puntualmente è accaduto negli Stati uniti con la nuova – ma vecchissima nella sostanza – presidenza di Donald Trump. Massimo Morigi – 3 settembre 2017

RAPPORTO CONFIDENZIALE, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa, dalla sua postazione particolare, ci introduce amabilmente ormai da alcuni anni tra i retroscena e nei meandri della politica americana attraverso affreschi ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/crepe-nellimpero-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-il-19-marzo-2012-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/ ) e rapidi flash ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/la-rivolta-degli-sceriffi-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-su-www-conflittiestrategie-it-il-18-giugno-2016/ ). Adesso tocca ad uno dei dinosauri di quello scenario, pur pesantemente acciaccato ormai, ad essere oggetto di attenzioni: Hillary Clinton. Se la rappresentazione offerta dalla CNN dovesse essere corretta, c’è da rimanere esterrefatti. Possibile che un politico di quel livello, dal curriculum così impressionante, sia capace di una analisi ed una interpretazione così rozza e squinternata dell’esito delle recenti elezioni presidenziali? Ad un politico ancora in attività, seppure sulla via del tramonto, non è possibile pretendere un giudizio obbiettivo, indipendente dalle conseguenze politiche. Colpisce, però, la rozza strumentalità delle accuse e l’incapacità di cogliere la novità e l’efficacia della conduzione della campagna elettorale del suo acerrimo avversario; il mix di raccolta di dati, gestione, intervento mirato sul territorio, uso combinato di tecniche tradizionali e innovative. Un errore imperdonabile , per una professionista della politica. Ci sarebbe da prendere atto di un fallimento quasi esistenziale di questa classe dirigente formatasi negli anni ’90 e successivi in un agone senza veri competitori e avversari politici, se avversari possono chiamarsi i vari Boris Eltsin, Scalfaro, Letta, D’Alema, Ciampi, Merkel, Sarkozy. Una classe dirigente abituata evidentemente a vincere facile e poco avvezza allo scontro duro con competitori reali. Una classe dirigente che ha infatti dilapidato in pochissimi anni un potenziale egemonico apparentemente superiore a quello dell’Inghilterra del secolo XIX. Lascio al più autorevole Campa il compito di discettare in futuro della condizione del suo paese. Preme sottolineare, piuttosto, la conferma della condizione peregrina della nostra classe dirigente, in particolare della cosiddetta sinistra. Abbiamo visto, in questi anni recenti, dirigenti qualificati, come Massimo d’Alema, gonfiare talmente di compiacimento il proprio gracile corpo da insufflare persino le proprie gote al cospetto e nelle grazie ostentate di Hillary Clinton; abbiamo visto i suoi numerosi epigoni, in particolare di genere femminile, tra questi la Dassù, la Pinotti, la Mogherini, accorrere affannosamente e senza ritegno, al momento dell’assegnazione del loro incarico istituzionale, nemmeno dai diretti referenti istituzionali americani, ma attraverso i sensali, capaci di aprire loro almeno le porte di servizio ( http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/giuseppe-germinario/.  ) Una progenie politica che, evidentemente, ha evitato di analizzare seriamente gli errori e i meriti del proprio passato;  ha semplicemente rimosso gli antefatti e, con questo, pronto a assorbire dai più potenti il peggio, trascinando il paese lentamente nella attuale disastrosa condizione, pur di sopravvivere a se stessi. Sembrano ormai destinati a soccombere; ma non è detto che il paese, pur liberatosi dal fardello, riesca ugualmente ad emergere. Germinario Giuseppe

Il libro di Hillary Clinton sulla campagna presidenziale dell’anno scorso, uscirà nelle librerie degli Stati Uniti il 12 Settembre, ma già si conoscono importanti passaggi dei suoi contenuti del testo  dal titolo “What Happened” (Cosa e` Successo). Potrei spiegare tranquillamente io alla Signora Clinton cose è successo; ma la Clinton nel libro si ostina ad elaborare una serie di teorie che hanno contribuito secondo lei alla sconfitta della sua campagna elettorale e di conseguenza alla vittoria del presidente Donald Trump.

Il libro è stato acquistato in Florida dalla CNN una settimana prima del previsto lancio. Grazie alla sua tempestività si possono apprezzare alcuni passaggi dell’opera.

Puoi biasimare i dati, incolpare il messaggio, incolpare tutto quello che vuoi – ma io ero il candidato” scrive.Era la mia campagna, quelle sono le mie decisioni“. La Clinton ammette di aver anche sottovalutato Trump.

Penso che sia giusto dire che non ho capito quanto velocemente il terreno si stava spostando sotto i nostri piedi“, scrive. “Stavo correndo una tradizionale campagna presidenziale con politiche accuratamente pensate e coalizioni costruite minuziosamente, mentre Trump stava gestendo un reality show televisivo che ha saputo coltivare in modo irresistibile facendo leva sulla rabbia degli americani“.

Poi la Clinton punta il dito contro il direttore dell’FBI James Comey quando ha riaperto l’inchiesta sullo scandalo delle emails classificate.”La lettera di Comey ha sconvolto la campagna presidenziale” scrive Clinton.

Nel libro, Clinton parla anche del suo matrimonio con l’ex presidente Bill Clinton e osserva che  “Ci sono stati momenti in cui ero profondamente incerta se il nostro matrimonio doveva continuare o meno, ma in quei giorni mi sono fatta le domande importanti: lo amo ancora? Posso rimanere in questo matrimonio senza diventare irriconoscibile a me stessa- contorta dalla rabbia, dal risentimento o dalla solitudine? Le risposte erano sempre affermative”.

Ha anche affrontato l’intromissione della Russia nelle elezioni del 2016 e si chiede se una risposta più forte da parte del presidente Barack Obama avrebbe aiutato. Su Vladimir Putin, Clinton sostiene di aver meditato una vendetta; “non avrei mai immaginato che Putin avesse l’audacia di lanciare un massiccio attacco contro la nostra democrazia, proprio sotto i nostri nasi – e di averla fatta anche franca”. Personalmente su questo passaggio non saprei se ridere o piangere talmente ridicola risalta la affermazione di Clinton. HC si rammarica per non avere potuto fargliela pagare, a Putin. “Non aspettavo altro che mostrare a Putin come i suoi sforzi per influenzare le nostre elezione, installando un amichevole burattino (Trump), erano falliti”, scrive. “So che Putin gode di tutto quello che è successo, ma ride bene chi ride ultimo…“.

Inoltre Clinton afferma che “Ci sono  molte persone che speravano che anche io scomparissi, ma sono ancora qui.”

Apparentemente la Clinton nel libro attribuisce anche molte colpe della perdita delle elezioni anche  a Bernie Sanders, Joe Biden, Barack Obama e altri.

L’uscita del libro di Clinton avviene nel momento in cui il libro della sua guida spirituale, il pastore Metodista; Bill Shillady è stato ritirato dagli scaffali delle Librerie con l’accusa di Plagio. Il libro intitolato: “The Daily Devotions of Hillary Rodham Clinton” (Le devozioni quotidiane di Hillary Rodham Clinton),  è una raccolta delle e-mails che lui e altri ministri hanno inviato all’ex Segretario di Stato ogni quotidianamente durante la campagna presidenziale del 2016. Ogni e-mails devotamente composta ogni mattina alle 4 in punto, conteneva un brano della Scrittura, un breve sermone e una preghiera per lei da recitare quel giorno.

Alla fine sulla domanda della Clinton; Cosa e Successo? La risposta è più semplice di quello che sembra: E` successo che Trump ha vinto e la Clinton ha perso. Quello che invece continuiamo a non sapere e che fine hanno fatto le 33.000 emails che la signora Clinton ha eliminato dal suo server…Quello si richiede una risposta che ancora non è arrivata e forse mai arriverà…

Penso che ogni analisi sia superflua. Ogni volta che sento la Clinton parlare, scrivere o semplicemente respirare, mi rendo conto che con tutte le sue debolezze, le sue incertezze, la sua approssimazione, Trump a suo modo e` stata una salvezza.

LETTERA DAL PROFESSORE, a cura di Giuseppe Germinario

Pubblichiamo, autorizzati, la lettera di un professore italo-americano, insegnante di liceo a San Francisco. Dal testo si comprende come il dibattito ormai del tutto distorto sull’antifascismo, sui diritti umani, sul politicamente corretto non sia una prerogativa italiana. Si può affermare con certezza, al contrario, che le campagne orchestrate dai grandi organi di informazione siano solo un aspetto di una pratica certosina pluridecennale che ha messo le prime radici negli Stati Uniti sino alle sue ultime degenerazioni moralistiche ed inquisitorie pervasive dei diversi ambiti della società, a cominciare dal settore dell’istruzione, denunciate dalla lettera. In Italia, quello che ci appare una novità, a cominciare dall’impegno messianico e ottuso della nostra Presidente della Camera, Laura Boldrini, non è altro che il rimasuglio ripetitivo, nemmeno troppo convinto, di una violenta battaglia politica il cui epicentro è localizzato di là dell’Atlantico

«Fino a pochi giorni fa i neo-nazisti in America erano quattro gatti,
psicopatici, buoni al massimo ad essere messi alla berlina dai Blues
Brothers. Qualche settimana fa, sono andati a Charlottesville in cerca
di attenzione. La Cnn si è occupata di loro con una diretta non stop. La
presenza delle telecamere ha galvanizzato la protesta e la
contro-protesta, così ora i nazisti, da quella caccola che erano, si
sentono importanti. La diretta televisiva a Charlottesville ha aperto
una lattina piena di vermi e ora non c’è più modo di rimettere i vermi
nella lattina.

Tutto questo è il risultato di una mentalità che nasce nelle high
schools, forse anche middle schools, dove tutti i temi politicamente
corretti costituiscono una specie di dogma e dove si sviluppa la
retorica del “safe space”, lo “spazio sicuro”. Gli insegnanti sono
invitati a mettere sulla porta della loro aula un adesivo che dice
“questo spazio è sicuro”, cioè è uno spazio dove non si mette in
discussione la teoria gender, non si parla di diritto alla vita dei
nascituri, nessun comportamento sessuale è criticato. Sono incluse in
questa retorica anche tutte le teorie pseudo scientifiche su come
l’apprendimento, e perciò la conoscenza, dipenda dal soggetto e non
dall’oggetto che viene studiato. Non è un caso che l’oggettività del
metodo di conoscenza è sotto attacco.

Un altro grande dogma indimostrato che comincia dai livelli scolastici
inferiori è quello di tutta una serie di “disordini”, il più famoso dei
quali è l’Add, Attention Deficit Disorder, o il suo fratellino Adhd,
Attention Deficit and Hyperactivity Disorder. Ce ne sono molti altri e,
anche se la definizione di disordine enuncia chiaramente che non sono
patologie, vengono di fatto trattate come tali, in molti casi con
psicofarmaci. La conseguenza è che un numero sempre crescente di
ragazzini è considerato non responsabile delle proprie azioni (il ché
potrebbe essere vero nel caso di una patologia), in quanto ha un
“disordine”.

*Il cestino dei deplorevoli
*Qualunque tentativo di discutere seriamente “dogmi”, è presentato ai
ragazzini come una forma di attacco a loro stessi. Questo li educa a
considerare qualunque sfida alla versione corrente del politicamente
corretto come un’offesa inaccettabile, un attacco che provoca loro una
sorta di dolore mentale. Da qui si capisce come, arrivati
all’università, questi ragazzi considerino non solo un loro diritto, ma
quasi un dovere impedire di parlare a chiunque dica una cosa diversa dal
sistema di pensiero dello “spazio sicuro”.

Si potrebbero citare molti episodi, mi limiterò a quanto accaduto al
Middlebury College a fine febbraio. Alison Stanger, una professoressa di
sinistra, aveva invitato Charles Murray, un sociologo conservatore, a un
dibattito pubblico. Gli studenti erano così infuriati che li hanno
attaccati fisicamente e la professoressa ha subìto una contusione. La
presenza di un conservatore nel campus non li faceva sentire sicuri, in
quanto i conservatori sono tutti per definizione intolleranti. Questione
di “feeling”.

Qualunque pensatore non in linea con l’ultima versione del politicamente
corretto è automaticamente immesso in quello che Hillary Clinton ha
definito “il cestino dei deplorevoli”. Nella mente dei ragazzi educati
alla retorica dello spazio sicuro, tutti quelli che sono al di fuori di
tale spazio sono i mostri che popolano il buio dei bambini: odiano i
gay, le donne, i neri e le minoranze; sono fascisti e nazisti. Neanche
essere gay li salva, infatti Milo Yiannopoulos ha ricevuto gli stessi
trattamenti. Questo dimostra che quelli che difendono non sono i gay
reali, ma solo quelli politicamente corretti; non i neri reali, ma solo
quelli politicamente corretti. Se un afro-americano esprime un punto di
vista “conservatore” diventa subito una legittima preda degli attacchi
verbali più feroci, senza tema di razzismo.

Allora si capisce l’enorme pubblicità data al fenomeno, fino a ieri
marginale, dei neo-nazisti. Infatti consente di dire alla generazione
dello “spazio sicuro”, cioè il terreno di coltura degli elettori liberal
del presente e del futuro: “Avete visto che avevamo ragione? Tutti
quelli che non sono d’accordo con noi sono in realtà dei mostri, dei
nazisti. Non esiste complessità di temi o di posizioni, il mondo si
divide in noi e loro. Noi siamo i buoni e loro i cattivi”. I cliché di
Hollywood avevano già preparato il terreno da tempo».

 

 

11° Podcast_LA FORTEZZA ASSEDIATA, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa conferma con cognizione di causa ciò che lui stesso e questo sito avevano analizzato e previsto in tutti questi mesi. Il vecchio establishment è riuscito a riprendere il controllo integrale degli strumenti di governo. Gli strumenti di potere no, quelli li ha sempre detenuti, anche se profondamente intaccati nella loro efficacia e nella loro credibilità. Hanno ripreso il fortino, ma hanno dovuto scoprire gran parte dei loro sistemi di difesa e di attacco Lo scotto pagato per conseguire la vittoria è stato pesante. Hanno dovuto a malincuore includere Trump, il portabandiera e allontanato, ma non annientato i veri artefici dell’incursione alla Casa Bianca i quali intendono riprendere piena libertà di azione, forti degli strumenti e del consenso del nocciolo duro e compatto sul quale Trump ha basato la propria campagna elettorale. Hanno però messo a nudo l’artificiosità del gioco democratico di questi ultimi decenni evidenziando la sotterranea connivenza tra i vertici dei due partiti contendenti;  infatti sia buona parte della dirigenza del Partito Democratico che la quasi totalità di quello Repubblicano ne escono screditati sino a veder minacciata, quest’ultima, la propria stessa sopravvivenza. Hanno compromesso in maniera duratura la credibilità e l’efficacia del sistema di informazione. Hanno dovuto vellicare i peggiori istinti del repertorio dirittoumanitarista e del politicamente corretto sino a legittimare la furia iconoclasta che sta alimentando a dismisura le profonde divisioni nel paese e provocare reazioni altrettanto retrograde, utili però a strumentalizzare e demonizzare il profondo movimento di dissenso che cova sotto le ceneri. Hanno dovuto mettere in campo, nella gestione dell’esecutivo, soprattutto un intero staff militare. Le implicazioni circa la credibilità di questa fondamentale istituzione dello Stato e le particolari modalità di conduzione del gioco politico non tarderanno a manifestarsi pesantemente. In sostanza, lo scontro politico nel merito non si è concluso, ma spostato su un altro terreno in modo altrettanto radicale. Se i vincitori attuali riusciranno a riportare nell’ombra i meccanismi veri del potere potranno vincere definitivamente; in caso contrario lo scontro si annuncerà ancora più duro e pesante. Buon ascolto, con tanta attenzione_ Giuseppe Germinario

Qui sotto il link

11https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-11

Meno due, meno uno……, a cura di Giuseppe Germinario

bannonsteve_trumpdonald_gorkasebastian_gnCon le dimissioni di Sebastian Gorka dallo staff presidenziale americano, la presenza del nucleo originario di sostegno che ha portato all’elezione e all’insediamento di Trump si riduce al solo Peter Navarro, rimasto per altro al di fuori del Consiglio Nazionale. Una funzione, praticamente, di mera testimonianza. La lettera ha evidenziato chiaramente i termini del dissenso, in aggiunta e in maniera più secca rispetto alla lettera di dimissioni di Bannon. La lotta all’islamismo radicale avrebbe dovuto essere la base su cui costruire un accordo di vicinato con l’attuale leadership russa. Una ambizione resa però chimerica dall’inclusione di Hamas, tra le organizzazioni terroristiche, in buona compagnia dei Fratelli Musulmani, sostenuti dalla Turchia; dall’elezione dell’Iran a principale avversario dichiarato nello scacchiere mediorientale. La revisione dell’accordo con l’Iran avrebbe dovuto riguardare soprattutto, nelle intenzioni iniziali, la parte economica, giudicata poco favorevole agli interessi americani; con il passare del tempo, grazie anche alla sommatoria di opzioni scaturite dal conflitto interno alla dirigenza americana, ha assunto sempre più un peso geopolitico. Una dinamica la cui inerzia sta risucchiando la politica estera americana verso il classico sodalizio israelo-saudita indebolito però dalla crisi della dinastia dei Saud. Una impostazione che sta ricacciando progressivamente gli Stati Uniti dalla posizione di arbitro-giocatore a quella di compartecipe pur essenziale. In questo il pragmatismo dichiarato di Trump e del nuovo staff di cui si è circondato, o per meglio dire che lo ha circondato e messo sotto tutela, sembra avere decisamente la meglio con il risultato di riportare in auge, su scala più ampia e coinvolgendo direttamente gli stati nazionali, l’interventismo “caotico” privo però, almeno al momento, della copertura ideologica dirittoumanitarista. Il coinvolgimento esplicito dell’India, l’inclusione possibile dei Talebani, di parte di essi, nella riorganizzazione dell’Afghanistan successiva al nuovo intervento americano, esplicitato per la prima volta in forma ufficiale, lasciano intravedere nuove articolazioni per altro già tracciate sul finire della Presidenza di Obama, ma anche nuovi spazi ai disegni geopolitici concorrenti. Non a caso, tra le varie cose, l’attuale Governo Afghano ha offerto proditoriamente ai russi il ruolo di mediatori e di forza di intermediazione. Una impostazione che sta riportando rapidamente la politica americana dall’intenzione di ridimensionare direttamente la Cina attraverso soprattutto l’induzione di una sua crisi finanziaria, come teorizzato dal gruppo ormai sconfitto all’interno della Casa Bianca al classico canovaccio che vede nella Russia l’avversario da battere e la Cina la potenza da contenere e da inglobare in qualche maniera. Con il tramontare, pur anche agli albori, di questa nuova strategia rimane comunque un ruolo più diretto ma più circoscritto degli Stati Uniti e della sua stessa diplomazia. Quest’ultima, spesso e volentieri, vedi anche l’Ucraina, rimaneva defilata salvo agire per vie traverse sabotando o reinterpretando accordi sottoscritti da altri. Fallisce, probabilmente, l’obbiettivo prioritario di ridare coesione alla formazione sociale americana attraverso una politica di massiccio reinsediamento industriale e produttivo a scapito dei tanti paesi economicamente emergenti sulla base del deficit commerciale americano da perseguire attraverso un rivoluzionamento del sistema di accordi commerciali e finanziari. Il punto di compromesso tra le forze originarie residue sostenitrici di Trump e la parte del vecchio establishment disponibile, almeno all’apparenza, ad un accordo sarà probabilmente un parziale riequilibrio delle compensazioni commerciali che non metta in discussione l’impianto delle relazioni economiche e finanziare e del sistema delle relazioni internazionali. Un compromesso che, probabilmente, risulterà insufficiente a ricomporre le divisioni e la disgregazione che sta colpendo quel paese, al pari di tanti altri soprattutto del blocco occidentale. Da qui la considerazione che la battaglia politica non sia affatto conclusa nei termini così aspri e cruenti manifestatisi ultimamente. Il rientro di Gorka a Breibart e il programma di rifondazione del sito sono lì a testimoniare la determinazione. Resta da vedere quanta parte delle élites dissidenti sono disposte a seguirli. Da lì si vedrà se lo scontro assumerà le forme di una riproposizione o assumerà tutt’altre conformazioni e chiamerà nuovi leader alla ribalta. Giuseppe Germinario

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Le intenzioni e le dichiarazioni di Bannon e Gorka sono tutte lì a testimoniare, pur nel residuo ossequio formale al Presidente, come pure però le grandi contraddizioni irrisolte di quel movimento che meriteranno una riflessione a parte, soprattutto alla luce delle possibilità di azione politica nel nostro paese che si potranno creare.

Qui il link con il testo integrale delle dimissioni di Sebastian Gorka

http://www.breitbart.com/big-government/2017/08/28/in-full-dr-sebastian-gorkas-explosive-white-house-resignation-letter/

 

tf78gy9uhoijpQui sotto la traduzione (utilizzando un traduttore)

Il dottor Sebastian Gorka, che da gennaio ha servito come vice assistente del presidente Donald Trump, si è dimesso dall’amministrazione della Casa Bianca venerdì sera, dicendo: “è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa di MAGA (Make America Great Again)sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca. “

Breitbart News ha ora ottenuto una copia completa della sua lettera di dimissioni:

Caro Signor Presidente, 

È stato un mio grande onore servire nella Casa Bianca come uno dei tuoi Vice Assistenti e Strategisti.

Negli ultimi trent’anni la nostra grande nazione, e soprattutto le nostre élite politiche, mediatiche ed educative, si sono allontanate così lontano dai principi della Fondazione della nostra Repubblica, che abbiamo affrontato un futuro triste e ingiusto.

La tua vittoria dello scorso novembre era veramente un “passaggio di Ave Maria” sulla via per ristabilire l’America sui valori eterni sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza.

Per me è dunque più difficile sostenere le mie dimissioni con questa lettera.

La tua presidenza si dimostrerà uno degli eventi più significativi della politica moderna americana. L’8 novembre è il risultato di decenni durante i quali le élite politiche e mediatiche hanno ritenuto di sapere meglio di quelle che li hanno eletti in carica. Non lo fanno, e la piattaforma MAGA ha permesso di ascoltare finalmente le loro voci.

Purtroppo, al di fuori di te, gli individui che hanno più incarnato e rappresentato le politiche che “faranno di nuovo grande l’America” sono state contrastate internamente, rimosse sistematicamente o minacciate negli ultimi mesi. Questo è stato fatto chiaramente ovviamente mentre leggevo il testo del tuo discorso su Afghanistan questa settimana.

Il fatto che chi ha formulato e approvato il discorso abbia rimosso qualsiasi menzione di “islam radicale” o “terrorismo islamico radicale” dimostra che un elemento cruciale della vostra campagna presidenziale è stato perso. 

Semplicemente preoccupante, quando discuteva le nostre azioni future nella regione, il discorso ha elencato gli obiettivi operativi senza definire mai le condizioni di vittoria strategiche per le quali stiamo lottando. Questa omissione dovrebbe disturbare seriamente ogni professionista della sicurezza nazionale e qualsiasi americano insoddisfatto degli ultimi 16 anni di decisioni politiche disastrose che hanno portato a migliaia di americani uccisi e trilioni di dollari dei contribuenti spesi in modi che non hanno portato sicurezza o vittoria.

L’America è una nazione incredibilmente resiliente, la più grande sulla Terra di Dio. Se non fosse così, non avremmo potuto sopravvivere attraverso gli anni incredibilmente divisivi dell’amministrazione Obama, né assistere al tuo messaggio per sconfiggere in modo sconfitto un candidato che ti ha spedito in modo significativo con il suo complesso industriale di Fakenews è al 100%.

Tuttavia, dato gli avvenimenti recenti, è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa MAGA sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca.

Di conseguenza, il modo migliore e più efficace per poterti sostenere, signor Presidente, è al di fuori della Casa del Popolo.

Milioni di americani credono nella visione di rendere l’America ancora grande. Essi contribuiranno a riequilibrare questa sfortunata realtà temporanea.

Nonostante il trattamento storicamente senza precedenti e scandaloso che hai ricevuto da parte di coloro che sono all’interno dell’istituzione e dei principali media che vedono perenne l’America come il problema e che vogliono re-ingegnerizzare la nostra nazione nella loro stessa immagine ideologica, so che tu resterai sicuramente per il bene di tutti i cittadini americani.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta nei tuoi uffici a New York, nell’estate del 2015, è stato immediatamente chiaro che amate la Repubblica e a questo non dovrai mai rinunciare una volta che ti sei impegnato nella vittoria.

Quando si tratta dei nostri interessi vitali della sicurezza nazionale, la tua leadership garantisce che il terrorismo islamico radicale sarà eliminato, che la minaccia di un Iran nucleare sarà neutralizzata e che le ambizioni egemoniche della Cina comunista saranno contrastate in modo robusto.

I compatrioti ei stessi lavoreranno all’esterno per sostenere te e il tuo team ufficiale quando torniamo l’America al suo luogo giusto e glorioso come la splendida “città su una collina”.

Dio benedica l’America.

In gratitudine,

Sebastian Gorka

Qui sotto l’estratto di un interessante documento sulla possibile evoluzione del conflitto politico-sociale negli Stati Uniti (dovete però tradurvelo):

Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 1 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

Founded in 1972. Formerly Defense & Foreign Affairs Daily Volume XXXV, No. 42 Friday, August 18, 2017 © 2017 Global Information System/ISSA.
Early Warning The Impulse in the US Toward Civil War Analysis. By Gregory R. Copley, Editor, GIS/Defense & Foreign Affairs. Yes, there is a civil war looming in the United States. But it will look little like the orderly pattern of descent which spiraled into the conflict of 1861-65. It will appear more like the Yugoslavia break-up, or the Russian and Chinese civil wars of the 20th Century. It will appear as an evolving chaos. And the next US civil war, though it yet may be arrested to a degree by the formal hand of centralized government, will destabilize many other nation-states, including the People’s Republic of China (PRC). It may, in other words, be short-lived simply because the uprising will probably not be based upon the decisions of constituent states (which, in the US Civil War, created a break-away confederacy), acting within their own perception of a legal process. It is more probable that the 21st Century event would contage as a gradual breakdown of law and order. The outcome, to a degree dependent on how rapidly order is restored, would likely be the end, or constraint, of the present view of democracy in the US. It would see a massive dislocation of the economy and currency. It would, then, become a global-level issue. Humans mock what they see as an impulse toward species suicide among the beautiful lemming clan of Lemmus lemmus.1 In fact, these tiny creatures have a societal survival pattern which seems more consistent than that of their human detractors. The pattern of human history shows that civilizations usually end through internal illness rather than at the hand of external powers. It is significant that the gathering crisis in the United States was not precipitated by the November 7, 2016, election of Pres. Donald Trump, and neither was the growing polarization of the United Kingdom’s society caused by the Brexit vote of 2016. In both instances, the election of Mr Trump and the decision by UK voters for Britain to exit the European Union were late reactions — perhaps too late — by the regional populations of both countries to what they perceived as the destruction of their nationstates by “urban super-oligarchies”.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 2 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

The last-ditch reactions by those who voted in the US for Donald Trump and those who voted in the UK for Brexit were against an urban-based globalism which has been building for some seven decades, with the deliberate or accidental intent of destroying nations and nationalism. It is now crystallizing into this: urban globalism sees nations and nationalism as the enemy, and vice-versa. The battle lines have been drawn. The urban globalists — the conscious and unconscious — have thrown their resources behind efforts to avert a return to nationalism, particularly in the US and UK, but also in Europe, Canada, Australia, and the like. Urban globalists control most of the means of communications [is this new “means of production”; the 21st Century marxian dialectic?] and therefore control “information” and the perception of events. “Nationalists”, then, are operating instinctively, and in darkness. There is little doubt that the US, despite the evidence that economic recovery is at hand, could spiral into a self-destructive descent of dysfunction, dystopia, and anomie. The path toward a “second civil war” has significant parallels with the causes of the first US Civil War (1861-65). Both events — the 19th Century event and a possible 21st Century one — saw the polarization of a fundamentally urban, abstract society against a fundamentally regional, traditional society. In some respects, it is a conflict between people with long memories (even if those memories are flawed and selective) and people to whom memories and history are irrelevant. Equally, it is a conflict between identity and materialism, with the abstract social groups (the urban populations) the most preoccupied with short-term material gain. I have covered the US for 50 years, and my earliest view of it was, a half century ago, that its populations would inevitably polarize into protective islands of self-interest, surrounded by seas of unthinking locusts. What is ironic is that the present islands of wealth and power — the cities — have come to represent short-term materialism, as cities have throughout history. But what is interesting is that, despite the global attention on the political/geographic polarizations occurring in the US and other parts of the Western world, there has been a reversion in other parts of the world to a sense of Westphalian or pre-Westphalian nationalism. The fact that “the West” may have ring-fenced Iran, Russia, and so on, with sanctions and other forms of isolation may well be what ensures their enduring status. They have avoided the contagion of globalism. Russia, indeed, recovered from the Soviet form of globalism in 1991. An urban globalist “victory” over Trump and Brexit would trigger that meltdown toward a form of civil societal collapse — civil war in some form or other — as the regions disavow the diktats of the cities. That would, in turn, bring about the global economic uncertainty which could impact the PRC and then the entire world.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 3 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

But such a conflict — physical or political — could, equally, lead to a victory for nationalism over globalism, and to the protection of currencies and values. We have seen this cycle repeated for millennia. It is the eternal battle. Footnotes: 1. See, Copley, Gregory R.: “The Lemming Syndrome and Modern Human Society”, in UnCivilization: Urban Geopolitics in a Time of Chaos. Alexandria, Virginia, USA, 2012: the International Strategic Studies Association.

 

RITORNO DA UN LUOGO MAI RAGGIUNTO, di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link del discorso odierno di Donald Trump sul rinnovato impegno in Afghanistan. Si può dire che ormai il processo di normalizzazione della presidenza americana sia compiuto; cambia, almeno nelle intenzioni, la maggiore selettività degli obbiettivi e la copertura ideologica ormai lacerata della tutela dei diritti umani. Si direbbe che Trump e i suoi nuovi tutori fossero alla ricerca del battesimo del sangue di avvio della presidenza. Rivelatisi al momento impraticabili la Corea del Nord e l’Iran, ceduta l’iniziativa in Siria, è rimasto l’Afghanistan, il teatro di azione comune e ormai poco originale alle ultime tre presidenze americane. Lo scontro politico è però tutt’altro che compiuto. Il nocciolo duro del suo elettorato, anche se minoritario, ha mantenuto la propria compattezza e non si lascerà incantare dalle sirene che accompagnano il suo voltafaccia; gran parte del gruppo iniziale di sponsor e sostenitori originari, pur avendo sciolto ormai da tempo la propria rete operativa, hanno aspramente criticato l’illuminazione sulla via di Kabul. Altre volte, negli Stati Uniti, sono emerse queste componenti; si sono rivelati dei fuochi fatui. Questa volta, dopo aver destabilizzato il Partito Repubblicano senza riuscire a controllarlo, le basi appaiono più solide e durature; non è escluso che riescano a trovare la strada per la formazione di una forza politica inedita. Per questo la virulenza dello scontro politico sarà destinata a crescere. La sopravvivenza di Donald Trump, probabilmente, dipenderà dall’esito del suo tentativo di conservare almeno parzialmente il consenso di quel nocciolo; dipenderà in gran parte dalla condizione economica del paese e i dati sembrano offrirgli qualche possibilità. Il probabile fallimento pregiudicherà la sua stessa esistenza di uomo politico e il suo opportunismo cialtrone, esercitato in verità in condizioni estreme, servirà a ben poco. Vedremo gli sviluppi seguendo le sorti di Breibart; sarà la spia che ci aiuterà a cogliere i profondi movimenti nel sottofondo. Sotto il link è disponibile una traduzione in verità approssimativa data la mancanza di tempo. L’Afghanistan  si rivela, ancora una volta, come il crocevia dove le ambizioni di controllo ed egemonia delle potenze di turno rischiano di naufragare. Le forze disponibili annunciate da Trump appaiono limitate, l’entusiasmo degli alleati più stretti sotto terra; tutto si giocherà, probabilmente, sulle rivalità e sui giri di valzer delle potenze regionali. Di sicuro l’asse in via di formazione tra Russia e Cina sarà messo a dura prova dal coinvolgimento dell’India. Dovesse rivelarsi un bluff, le carte non tarderanno ad essere scoperte.

Vice Presidente Pence, il Segretario di Stato Tillerson, i membri del Consiglio dei Ministri, Generale Dunford, vice segretario Shanahan, e il colonnello Duggan. Soprattutto, grazie agli uomini e alle donne di Fort Myer e tutti i membri delle forze armate degli Stati Uniti in patria e all’estero.

Mandiamo i nostri pensieri e preghiere alle famiglie dei nostri marinai coraggiosi che sono stati feriti e persi dopo una tragica collisione in mare, così come a coloro che conducono di ricerca e di recupero sforzi.

Sono qui stasera a tracciare il nostro cammino in avanti in Afghanistan e in Asia meridionale. Ma prima di fornire i dettagli della nostra nuova strategia, voglio dire qualche parola ai servicemembers qui con noi stasera, a chi guarda dai loro posti, e per tutti gli americani ad ascoltare a casa.

Sin dalla fondazione della nostra repubblica, il nostro paese ha prodotto una classe speciale di eroi il cui altruismo, coraggio e determinazione non ha eguali nella storia umana.

patrioti americani provenienti da ogni generazione hanno dato il loro ultimo respiro sul campo di battaglia per la nostra nazione e per la nostra libertà. Attraverso le loro vite – e se le loro vite sono state stroncate, nelle loro opere hanno ottenuto l’immortalità totale.

Seguendo l’esempio eroico di coloro che hanno combattuto per preservare la nostra repubblica, possiamo trovare l’ispirazione del nostro paese ha bisogno di unificare, per guarire, e di rimanere una nazione sotto Dio. Gli uomini e le donne del nostro esercito operano come una squadra, con una missione condivisa, e un certo senso condiviso di scopo.

Esse trascendono ogni linea di razza, etnia, religione, e il colore per servire insieme – e il sacrificio insieme – nella coesione assolutamente perfetto. Questo perché tutte le servicemembers sono fratelli e sorelle. Sono tutti parte della stessa famiglia; si chiama la famiglia americana. Prendono lo stesso giuramento, lottano per la stessa bandiera, e vivono secondo la stessa legge. Essi sono tenuti insieme da uno scopo comune, la fiducia reciproca, e la devozione disinteressata alla nostra nazione e tra di loro.

Il soldato capisce quello che noi, come nazione, troppo spesso si dimentica che una ferita inflitta un singolo membro della nostra comunità è una ferita inflitta su tutti noi. Quando una parte d’America fa male, siamo tutti male. E quando un cittadino subisce un’ingiustizia, soffriamo tutti insieme.

La lealtà verso la nostra nazione esige lealtà reciproca. L’amore per l’America richiede amore per tutti i suoi abitanti. Quando apriamo i nostri cuori al patriottismo, non c’è spazio per i pregiudizi, non c’è posto per il bigottismo, e nessuna tolleranza per odio.

I giovani uomini e donne che inviamo a combattere le nostre guerre all’estero meritano di tornare in un paese che non è in guerra con se stessa a casa. Non possiamo restare una forza di pace nel mondo se non siamo in pace con l’altro.

Come va il nostro più coraggioso per sconfiggere i nostri nemici all’estero – e ci sarà sempre vincere – lasciare che siamo noi a trovare il coraggio di guarire le nostre divisioni all’interno. Facciamo una semplice promessa agli uomini e alle donne chiediamo di combattere nel nostro nome che, quando tornano a casa dalla battaglia, troveranno un paese che ha rinnovato i sacri vincoli di amore e di fedeltà che ci uniscono insieme come una sola.

Grazie alla vigilanza e l’abilità del militare americano e dei nostri molti alleati in tutto il mondo, orrori sulla scala dell’11 settembre – e nessuno può mai dimenticare che – non sono state ripetute sulle nostre coste.

Ma dobbiamo anche riconoscere la realtà io sono qui per parlare di stasera: che quasi 16 anni dopo gli attacchi dell’11 settembre, dopo lo straordinario sacrificio di sangue e il tesoro, il popolo americano sono stanchi della guerra senza vittoria. In nessun luogo questo è più evidente che con la guerra in Afghanistan, la guerra più lunga nella storia americana – 17 anni.

Condivido la frustrazione del popolo americano. Condivido anche la loro frustrazione per una politica estera che ha speso troppo tempo, energia, denaro e, soprattutto vite, cercando di ricostruire i paesi a nostra immagine, invece di perseguire i nostri interessi di sicurezza al di sopra di ogni altra considerazione.

Ecco perché, poco dopo il mio insediamento, ho diretto il Segretario della Difesa Mattis e la mia squadra di sicurezza nazionale di intraprendere una revisione completa di tutte le opzioni strategiche in Afghanistan e in Asia meridionale.

Il mio istinto iniziale era quello di tirare fuori – e, storicamente, io come seguire il mio istinto. Ma tutta la mia vita ho sentito che le decisioni sono molto diversi quando ci si siede dietro la scrivania nello Studio Ovale; in altre parole, quando sei il presidente degli Stati Uniti. Così ho studiato l’Afghanistan con dovizia di particolari e da ogni angolo immaginabile. Dopo tanti incontri, nel corso di molti mesi, abbiamo tenuto il nostro ultimo incontro lo scorso Venerdì a Camp David, con il mio gabinetto e generali, per completare la nostra strategia. Sono arrivato a tre conclusioni fondamentali su interessi fondamentali americani in Afghanistan.

In primo luogo, la nostra nazione deve cercare un risultato onorevole e duratura degno dei tremendi sacrifici che sono stati fatti, in particolare i sacrifici di vite. Gli uomini e le donne che servono la nostra nazione in combattimento meritano un piano per la vittoria. Essi meritano gli strumenti di cui hanno bisogno, e la fiducia che hanno guadagnato, di combattere e di vincere.

In secondo luogo, le conseguenze di una rapida uscita sono sia prevedibile e inaccettabile. 9/11, il peggior attacco terroristico della nostra storia, è stato progettato e diretto dall’Afghanistan perché questo paese è stato governato da un governo che ha dato conforto e rifugio ai terroristi. Un ritiro affrettato creerebbe un vuoto che i terroristi, tra cui ISIS e al Qaeda, avrebbero riempito immediatamente, proprio come è successo prima dell’11 settembre.

E, come sappiamo, nel 2011, l’America frettolosamente ed erroneamente si ritirò dall’Iraq. Come risultato, i nostri guadagni duramente conquistati scivolato di nuovo nelle mani dei nemici terroristi. I nostri soldati hanno guardato come le città che avevano combattuto per, e Bled per liberare, e ha vinto, erano occupati da un gruppo terrorista chiamato ISIS. Il vuoto che abbiamo creato, lasciando troppo presto ha dato rifugio sicuro per ISIS per diffondere, a crescere, reclutare, e lanciare attacchi. Non possiamo ripetere in Afghanistan l’errore nostri capi realizzati in Iraq.

Terzo e ultimo, ho concluso che le minacce alla sicurezza che abbiamo di fronte in Afghanistan e nella regione più ampia sono immense. Oggi, 20 US-designati organizzazioni terroristiche straniere sono attive in Afghanistan e Pakistan – la più alta concentrazione in qualsiasi regione qualsiasi parte del mondo.

Da parte sua, il Pakistan spesso dà rifugio sicuro agli agenti di caos, violenza e terrore. La minaccia è peggio, perché il Pakistan e l’India sono due stati dotati di armi nucleari le cui relazioni tesa minacciare di spirale in conflitto. E che potrebbe accadere.

Nessuno nega che abbiamo ereditato una situazione difficile e preoccupante in Afghanistan e in Asia meridionale, ma non abbiamo il lusso di andare indietro nel tempo e prendere decisioni diverse o migliori. Quando sono diventato Presidente, mi è stata data una mano male e molto complessa, ma sono pienamente sapevo cosa stavo entrando: problemi grandi e intricati. Ma, in un modo o nell’altro, questi problemi saranno risolti – Sono un risolutore di problemi – e, alla fine, vinceremo.

Dobbiamo affrontare la realtà del mondo come esiste in questo momento – le minacce che abbiamo di fronte, e la Confronting di tutti i problemi di oggi, e le conseguenze estremamente prevedibili di un ritiro frettoloso.

Abbiamo bisogno di non guardare oltre vile, feroce attacco della scorsa settimana a Barcellona per capire che i gruppi terroristici si fermeranno davanti a nulla per commettere l’omicidio di massa di innocenti uomini, donne e bambini. L’hai visto di persona. Orribile.

Come ho descritto nel mio intervento in Arabia Saudita tre mesi fa, l’America ei suoi partner sono impegnati a nudo i terroristi del loro territorio, tagliando il loro finanziamento, e di esporre la falsa fascino della loro ideologia del male.

I terroristi che macellano persone innocenti troveranno nessuna gloria in questa vita o nella prossima. Essi non sono altro che delinquenti e criminali, e predatori, e – che è di destra – perdenti. Lavorando a fianco dei nostri alleati, noi spezzare la loro volontà, asciugare il loro reclutamento, impedire loro di attraversare i nostri confini, e sì, ci sarà sconfiggerli, e noi li sconfiggere facilmente.

In Afghanistan e in Pakistan, gli interessi americani sono chiari: Dobbiamo fermare la rinascita di rifugi sicuri che consentono ai terroristi di minacciare l’America, e dobbiamo impedire che armi e materiali nucleari di venire nelle mani dei terroristi e di essere usata contro di noi, o in qualsiasi parte del mondo per quella materia.

Ma di perseguire questa guerra, ci sarà imparare dalla storia. Come risultato della nostra recensione completa, strategia americana in Afghanistan e in Asia meridionale cambierà radicalmente nei seguenti modi:

Un pilastro fondamentale della nostra nuova strategia è un passaggio da un approccio basato sul tempo per uno in base alle condizioni. L’ho detto molte volte come controproducente sia per gli Stati Uniti per annunciare in anticipo le date che intendiamo per iniziare, o alla fine, opzioni militari. Noi non parlare di numeri di truppe oi nostri piani per ulteriori attività militari.

Condizioni sul terreno – non orari arbitrari – guideranno la nostra strategia d’ora in poi. nemici dell’America non devono mai conoscere i nostri piani o credere di poter aspettare fuori. Non voglio dire che quando stiamo per attaccare, ma l’attacco ci sarà.

Un altro pilastro fondamentale della nostra nuova strategia è l’integrazione di tutti gli strumenti del potere americano – diplomatici, economici e militari – verso un esito positivo.

Un giorno, dopo uno sforzo militare efficace, forse sarà possibile avere una soluzione politica che include elementi dei talebani in Afghanistan, ma nessuno sa se e quando ciò accadrà mai. L’America continuerà il suo sostegno al governo afghano ei militari afgani che si confrontano con i talebani in campo.

In ultima analisi, spetta al popolo dell’Afghanistan a prendere possesso del proprio futuro, di governare la loro società, e per raggiungere una pace eterna. Siamo un partner e un amico, ma non vogliamo imporre al popolo afghano come vivere, o il modo di governare la propria società complessa. Non siamo ancora una volta la costruzione della nazione. Stiamo uccidendo i terroristi.

Il prossimo pilastro della nostra nuova strategia è quello di cambiare l’approccio e come trattare con il Pakistan. Non possiamo più tacere porti sicuri del Pakistan per le organizzazioni terroristiche, i talebani e altri gruppi che rappresentano una minaccia per la regione e oltre. Il Pakistan ha molto da guadagnare da partnership con il nostro sforzo in Afghanistan. Ha molto da perdere, continuando a nutrire criminali e terroristi.

In passato, il Pakistan è stato un partner di valore. I nostri militari hanno lavorato insieme contro nemici comuni. Il popolo pakistani hanno sofferto molto dal terrorismo e l’estremismo. Riconosciamo i contributi e quei sacrifici.

Ma il Pakistan ha anche riparato le stesse organizzazioni che cercano ogni giorno di uccidere la nostra gente. Abbiamo prestato miliardi Pakistan e miliardi di dollari, allo stesso tempo sono le stesse che ospitano terroristi che stiamo combattendo. Ma che dovrà cambiare e che cambierà immediatamente. Nessun collaborazione può sopravvivere l’ospitare di un paese di militanti e terroristi che prendono di mira servicemembers e funzionari degli Stati Uniti. E ‘tempo per il Pakistan per dimostrare il suo impegno per la civiltà, l’ordine e la pace.

Un’altra parte fondamentale della strategia per l’Asia del Sud per l’America è quello di sviluppare ulteriormente il partenariato strategico con l’India – la più grande democrazia del mondo e un titolo chiave e partner economico degli Stati Uniti. Apprezziamo importanti contributi indiane verso la stabilità in Afghanistan, ma l’India fa miliardi di dollari nel commercio con gli Stati Uniti, e noi vogliamo che ci aiutano di più con l’Afghanistan, in particolare in materia di assistenza economica e di sviluppo. Ci siamo impegnati a perseguire i nostri obiettivi condivisi per la pace e la sicurezza in Asia meridionale e la più ampia regione indo-pacifica.

Infine, la mia amministrazione farà in modo che voi, i coraggiosi difensori del popolo americano, avrà gli strumenti e le regole di ingaggio necessarie per fare questo lavoro strategia e lavorare in modo efficace e lavorare velocemente.

Ho già revocato le restrizioni precedente amministrazione immessi sul nostri combattenti che hanno impedito il Segretario della Difesa e dei nostri comandanti sul campo da completamente e rapidamente conducendo la battaglia contro il nemico. Microgestione da Washington, DC non vince battaglie. Essi si vincono nel disegno campo sul giudizio e la competenza dei comandanti di guerra e dei soldati di prima linea che agiscono in tempo reale, con l’autorità reale, e con una chiara missione per sconfiggere il nemico.

Ecco perché ci sarà anche ampliare l’autorità per le forze armate americane di indirizzare le reti terroristiche e criminali che seminano la violenza e il caos in tutto l’Afghanistan. Questi assassini devono sapere che hanno nulla da nascondere; che nessun luogo è fuori dalla portata delle armi forza e americani americani. Retribution sarà veloce e potente.

Come abbiamo eliminare le restrizioni ed espandere le autorità nel campo, stiamo già vedendo i risultati drammatici nella campagna per sconfiggere ISIS, tra cui la liberazione di Mosul in Iraq.

Fin dal mio insediamento, abbiamo raggiunto il successo da record al riguardo. Ci sarà anche massimizzare le sanzioni e altri provvedimenti esecutivi finanziaria e della legge contro queste reti per eliminare la loro capacità di esportare il terrore. Quando l’America si impegna i suoi guerrieri in battaglia, dobbiamo fare in modo di avere tutte le armi per applicare rapida, decisiva, e una forza schiacciante.

Le nostre truppe combatteranno per vincere. Ci batteremo per vincere. D’ora in poi, la vittoria avrà una definizione chiara: attaccare i nostri nemici, cancellando ISIS, schiacciando al Qaeda, i talebani impedendo di prendere il controllo dell’Afghanistan, e fermare gli attacchi di terrore di massa contro l’America prima che emergano.

Chiederemo ai nostri alleati della NATO e partner globali per sostenere la nostra nuova strategia con ulteriori truppe e di finanziamento aumenta in linea con la nostra. Siamo sicuri che lo faranno. Dal suo insediamento, ho chiarito che i nostri alleati e partner devono contribuire molto di più soldi per la nostra difesa collettiva, e lo hanno fatto.

In questa lotta, il fardello più pesante continuerà ad essere sostenuti dal buon popolo afghano e le loro forze armate coraggiose. Come il primo ministro dell’Afghanistan ha promesso, ci accingiamo a partecipare allo sviluppo economico per aiutare a sostenere il costo di questa guerra per noi.

Afghanistan sta combattendo per difendere e proteggere il loro paese contro gli stessi nemici che ci minacciano. La più forte delle forze di sicurezza afghane diventano, meno dovremo fare. Afgani assicurare e costruire la propria nazione e definire il proprio futuro. Vogliamo che per avere successo.

Ma ci sarà più usare la potenza militare americana per la costruzione di democrazie in terre lontane, o provare a ricostruire altri paesi a nostra immagine. Quei giorni sono ormai finita. Invece, lavoreremo con gli alleati e partner per proteggere i nostri interessi comuni. Non stiamo chiedendo altri a cambiare il loro modo di vita, ma di perseguire obiettivi comuni che permettono ai nostri figli di vivere una vita migliore e più sicure. Questo realismo di principio guiderà le nostre decisioni in movimento in avanti.

Il potere militare da sola non porterà la pace in Afghanistan o fermare la minaccia terroristica provenienti da quel paese. Ma strategicamente forza applicata mira a creare le condizioni per un processo politico per raggiungere una pace duratura.

L’America lavorerà con il governo afghano finché vediamo la determinazione e il progresso. Tuttavia, il nostro impegno non è illimitato, e il nostro sostegno non è un assegno in bianco. Il governo dell’Afghanistan deve portare la loro parte di fardello militare, politico ed economico. Il popolo americano si aspetta di vedere riforme vere, reali progressi e risultati reali. La nostra pazienza non è illimitata. Vi terremo gli occhi ben aperti.

Nel rispetto del giuramento che ho preso il 20 gennaio, rimarrò fermo nel proteggere vite americane e gli interessi americani. In questo sforzo, faremo causa comune con tutte le nazioni che sceglie di stare in piedi e combattere al nostro fianco contro questa minaccia globale. I terroristi prendono attenzione: l’America non sarà mai mollare fino a quando si è trattata una sconfitta duratura.

Sotto la mia amministrazione, molti miliardi di dollari in più viene speso per i nostri militari. E questo include una grande quantità di essere spesi per il nostro arsenale e difesa missilistica nucleare.

In ogni generazione, abbiamo affrontato il male, e abbiamo sempre prevalso. Abbiamo prevalso perché sappiamo chi siamo e cosa stiamo combattendo.

Non lontano da dove ci siamo riuniti questa sera, centinaia di migliaia di grandi patrioti americani giacevano nel riposo eterno al cimitero nazionale di Arlington. Non v’è più coraggio, sacrificio e amore in questi motivi sacri che in qualsiasi altro posto sulla faccia della Terra.

Molti di coloro che hanno combattuto e sono morti in Afghanistan arruolati nei mesi dopo l’11 settembre 2001. Essi volontari per un semplice motivo: Amavano America, e sono stati determinati per proteggerla.

Ora dobbiamo fissare la causa per la quale hanno dato la loro vita. Dobbiamo unirci per difendere l’America dai suoi nemici all’estero. Dobbiamo ripristinare i legami di lealtà tra i nostri cittadini a casa, e dobbiamo raggiungere un risultato onorevole e duratura degno del prezzo enorme che tanti hanno pagato.

Le nostre azioni, e nei mesi a venire, tutti loro saranno onorare il sacrificio di ogni eroe caduto, ogni famiglia che ha perso una persona cara, e ogni guerriero ferito che hanno versato il loro sangue in difesa della nostra grande nazione. Con la nostra determinazione, faremo in modo che il vostro servizio e che le vostre famiglie porteranno la sconfitta dei nostri nemici e l’arrivo di pace.

Noi spingere in avanti alla vittoria con il potere nel nostro cuore, il coraggio nelle nostre anime, e l’orgoglio eterna in ognuno di voi.

Grazie. Che Dio benedica i nostri militari. E che Dio benedica gli Stati Uniti d’America. Grazie mille. Grazie.

Presidente Donald J. Trump

Mutazioni alla Casa Bianca, di Giuseppe Germinario

Qui sotto il link di una intervista a Steve Bannon, ormai prossimo ad uscire dallo staff presidenziale. Non ho il tempo per offrire una versione in italiano, ma con un buon traduttore, si può cogliere appieno la rilevanza ed il significato dei suoi argomenti. La normalizzazione di Trump procede ormai a passo sostenuto. In particolare è ormai evidente:

  • la divergenza in politica estera riguardo alla rilevanza prioritaria della Cina come avversario strategico;
  • la divergenza sulla gestione della crisi coreana vista l’insostenibilità di uno scontro militare dall’esito catastrofico e suscettibile di alimentare il peso della Cina;
  • la strumentalità delle accuse di simpatia e connivenza con la destra suprematista e razzista che investiranno sempre più Bannon;
  • il velleitarismo, a mio parere, della scelta di operare piazzando all’esterno dello staff presidenziale, non si sa con quale mezzi, i portatori di una politica di opposizione decisa alla Cina;
  • la speranza di aprire contraddizioni anche nel campo democratico sulla base di un nazionalismo estraneo alle tentazioni etnico-razziali
  • alla base del confronto la considerazione se l’attuale sistema di relazioni, in particolare economiche, sia in grado di garantire la coesione della formazione sociale statunitense

Dopo l’intervista a Bannon, segue una dichiarazione di Roger Stone, il principale artefice dell’elezione di Trump, precedente all’intervista e critica delle scelte di Bannon. Molto significative le sue critiche a Bannon, vista anche la consolidata amicizia. Appena possibile cercherò di fornire una trascrizione anche di questa. Alla luce di quanto esposto assume ancora più importanza il podcast di Gianfranco Campa del 15 agosto che invito a riascoltare

il primo link

http://prospect.org/article/steve-bannon-unrepentant

il secondo link

Report: White House Chief Strategist Steve Bannon Out

10° Podcast _ DALLAS o WATERGATE? Tertium datur: l’avventurismo, di Gianfranco Campa

Sono poche le voci in grado di fornire informazioni e soprattutto interpretazioni fondate sugli avvenimenti cruciali che da quasi un anno investono e si dipartono dalla Casa Bianca. Gianfranco Campa, con la sua partecipazione emotiva, ci conduce nelle stanze dove si sta consumando una battaglia politica di insolita cruenza. Raramente il conflitto politico tra gruppi dirigenti assume contorni così espliciti. Gli obbiettivi e le intenzioni sono adattati alle strategie e alle tattiche, se non sacrificati alle esigenze di sopravvivenza di uno dei contendenti. La distinzione che i teorici più accorti fanno tra regnanti, governanti e dominanti appare a tratti anche agli osservatori meno esperti. Una cosa mi pare ormai certa. Il vecchio establishment, dovesse prevalere, non potrà più tornare alle vecchie tattiche e appare incapace di intravedere nuove strategie; la permanenza di questo conflitto nei termini così acuti rischia di trascinare l’intera classe dirigente americana in una condizione caotica di stallo in grado di innescare una condizione di declino e pregiudicare ulteriormente la coesione di quella formazione sociale. Si vedrà sino a che punto i paesi rivali saranno in grado di approfittare di questa situazione. Giuseppe Germinario

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