GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI. (a cura di) Luigi Longo

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI.

(a cura di) Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Federico Dezzani su Assalto all’Eurasia: la Corea del Nord è solo l’antipasto, apparso sul blog: www.federicodezzani.altervista.org il 26 ottobre m.s., è interessante perché fa riflettere sulle strategie di attacco a tutto mondo degli Stati Uniti d’America.

La prima riflessione. Gli USA minacciano ritorsioni contro la Corea del Nord perché si è dotata della prima bomba termonucleare per la difesa della propria indipendenza. Le minacce non riguardano tanto la Corea del Nord, quanto la Cina e la Russia (l’Heartland) perché osano mettere in discussione gli attuali equilibri statunitensi nell’area pacifica (per non parlare nell’area mediorientale e africana) e indebolire i nodi strategici del Rimland (che va dall’Europa all’estremo Oriente).

La seconda riflessione. L’Europa delle regioni, che avanza sulle rovine delle nazioni, renderà impossibile qualsiasi ruolo da protagonista, nelle fasi multicentrica e policentrica, sia delle nazioni sovrane sia di una futura Europa delle nazioni sovrane.

La terza riflessione. Gli USA vogliono evitare qualsiasi ipotetica alleanza tra la Cina (attuale potenza economica) e la Russia (attuale potenza militare) che possa mettere in discussione il loro dominio mondiale in declino, che essi rilanciano con la forza delle armi perché non accettano un mondo multicentrico. Questo, a prescindere dal conflitto interno tra i loro agenti strategici: la potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza, oltre ad una missione speciale da compiere ed essere pertanto, l’unica nazione indispensabile del mondo (Progetto Messianico).

Non so se le potenze mondiali sono già delineate all’interno dello scontro tra Terra e Mare: i giochi sono aperti e la fase multicentrica sta delineando i centri delle potenze mondiali che saranno definite con le loro alleanze nella fase policentrica. Resta da capire bene le strategie e le percezioni del mondo della Cina sia in relazione alla Russia sia in relazione agli USA (senza dimenticare l’India).

Le relazioni cinesi e russe a livello mondiale, in questa fase, sono orientate rispettivamente l’una dalle sfere economico- finanziaria e politica, l’altra dalle sfere militare e politica: ciò è insufficiente per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Quindi parlo di due potenze mondiali emergenti che si difendono dall’attacco degli USA e lottano per un mondo multicentrico nel rispetto delle proprie differenze.

L’Europa? Essa è uno spazio americanizzato e occupato da basi militari USA-NATO (qui la Nato è intesa prevalentemente come strumento militare dell’agire statunitense) e non sarà protagonista nelle diverse fasi della storia mondiale. E’ sempre più un continente in mano agli USA per le loro strategie di dominio.

 

 

ASSALTO ALL’EURASIA: LA COREA DEL NORD È SOLO L’ANTIPASTO

di Federico Dezzani

Crescono le tensioni tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti d’America: la determinazione di Pyongyang a sviluppare il proprio deterrente nucleare si scontra con la convinzione di Washington che l’atomica nordcoreana abbia una natura offensiva. È ormai chiaro che, qualsiasi amministrazione occupi la Casa Bianca, la strategia di fondo non cambia: la potenza marittima americana ed i suoi alleati mirano a circondare il blocco euroasiatico su ogni lato. L’arsenale atomico di Pyonyang è solo un pretesto per militarizzare la regione e contenere la potenza navale cinese. Un’eventuale attacco alla Nord Corea anticiperebbe soltanto una guerra già ben delineata: l’ennesimo scontro tra terra e mare.

 

L’Heartland (Cina e Russia), il Rimland (la Corea) e le potenze marittime (USA)

Marx ed Engels definivano “struttura” l’economia e il sistema produttivo, “sovrastruttura” la politica, la cultura e la religione. La storia universale sarebbe quindi, secondo i due filosofi tedeschi trapiantati a Londra, questione di lavoro e capitale. Sbagliarono e, probabilmente, furono anche consapevoli del loro errore. “Struttura” è la volontà di potenza degli Stati e la geopolitica, la scienza che studia questa volontà di potenza, è il miglior strumento per capire ed interpretare la storia. In particolare, la storia è basata sulla volontà del “mare” di sottomettere la “terra” e sull’opposto desiderio della “terra” di domare il “mare”. Atene contro Sparta, Cartagine contro Roma, i Saraceni contro Bisanzio, Olanda contro Spagna, Inghilterra contro Francia, Londra contro Berlino, Washington contro Mosca.

Di fronte a questo scontro plurisecolare, mosso da forze telluriche che trascendono il contingente, tutto è “sovrastruttura”: tutto è accessorio, superfluo, quasi scontato. Le ideologie, le religioni, le singole personalità politiche. Tutto si muove perché la terra ed il mare bramano la guerra, in attesa della battaglia finale (se mai verrà).

È più utile, per chi volesse capire lo scenario internazionale, lo studio di “The Geographical Pivot of History”, pubblicato nel 1904 da Halford John Mackinder che la lettura di tutta la stampa specializzata attuale. Mackinder, esponente di spicco della talassocrazia per eccellenza, il Regno Unito, osserva il mappamondo ed individua nel cuore dell’Eurasia, zona inaccessibile alle potenze marittime, “l’area pivot” del globo terrestre: quell’area che, se debitamente organizzata dal punto di vista militare, logistico, economico e sociale, può schiudere, per chi la controlla, l’egemonia mondiale. Mackinder, in particolare, osserva con timore la costruzione delle ferrovie russe, capaci di spostare merci e soldati nelle sconfinate pianure come navi sul mare. Guai, dice Mackinder, se la Russia si alleasse alla Germania. Con un’incredibile preveggenza, Mackinder, chiude il suo pensiero con uno scenario ancora più preoccupante: l’integrazione tra la Cina ed il retroterra russo.

Seguiranno due guerre mondiali, che consentiranno agli angloamericani di annichilire la Germania e insediarsi in Europa (NATO-CEE/UE) e in Oriente (CENTO e SEATO, poi sciolte).

Durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale, lo stratega olandese, naturalizzato americano, Nicholas J. Spykman (1893-1943), pubblica un’opera (America’s Strategy in World Politics) che vuole aggiornare ed integrare il lavoro di Mackinder, per adattarlo alla prossima realtà geopolitica: poco importa, dice Spykman, chi controlla l’Heartland (URSS e la Cina che diverrà presto comunista), l’importante è che le potenze marittime “contengano” il nemico, circondandolo con una serie di Stati-satelliti così di depotenziarlo. A fianco dell’Heartland, nasce così il “Rimland”, rappresentato da tutti quegli appigli (dall’Italia al Giappone, passando per l’India) con cui le talassocrazie possono aggrapparsi alla masse terrestre. Non è, in realtà, un pensiero nuovo: già Mackinder, infatti, aveva evidenziato l’importanza di queste “teste di ponte”, indispensabili per le potenze marittime. Tra le teste di ponte citate da Mackinder nel 1904… c’è anche la Corea!

Iosif Stalin, ben consapevole dell’importanza di questo lembo di terra lungo 950 km, piuttosto brullo ed inospitale, decide di sfrattare gli americani dal condominio che si è creato dopo la sconfitta del Giappone: sovietici ed americani, infatti, si incontrano al 38esimo parallelo ed ognuno, nella propria metà, ha installato un governo amico. All’alba del 25 giugno 1950, l’esercito nordcoreano attraversa il 38esimo parallelo, travolgendo le difese sudcoreane. Caduta Seul, il 30 giugno, il presidente Truman autorizza il generale Douglas MacArthur ad intervenire: comincia così la guerra che si protrarrà fino al 1953 e si concluderà con un sostanziale pareggio (il confine tra le due Coree rimane fissato al 38esimo parallelo), grazie al massiccio intervento della Cina. Il regime di Kim Il Sung (1912-1994) supererà la Guerra Fredda senza altri particolari colpi di scena, grazie al costante appoggio cinese.

Simpatico aneddoto: l’ex-agente del SISMI, Francesco Pazienza, incontra i nordcoreani negli anni ‘80 alle isole Seychelles, dove gestiscono il servizio informazioni del presidente Ti France René. Propongono a Pazienza di eliminare un agente CIA, di cittadinanza italiana, che gira per le isole facendo troppe domande: il suo nome è Antonio Di Pietro1.

Nel 1991 collassa l’URSS e le potenze marittime riprendono la loro marcia verso l’Heartland (allargamento ad est della NATO, Georgia, Asia Centrale, etc. etc.). In questo contesto, la Corea del Nord è una potenza ostile situata nella fascia intermedia, il suddetto Rimland: il suo destino dovrebbe essere lo stesso quello della Jugoslavia. L’amministrazione Clinton, che apre le porte del WTO della Cina, ha però scarso interesse a scatenare una guerra a poca distanza dall’area in cui le imprese americane stanno delocalizzando. L’amministrazione Bush valuta il cambio di regime nel 2003, ma il pantano iracheno raffredda l’ardore bellico di Donald Rumsfeld e soci.

Resta il fatto che qualsiasi Stato ostile agli USA e privo di arsenale atomico può essere rovesciato in qualsiasi momento: Pyongyang accelera quindi il proprio programma nucleare bellico, usando uranio locale, e nel 2006 effettua con successo il primo test atomico. Nel caos dell’Ucraina post-Euromaidan2 (2014), i nordcoreani acquistano i missili balistici SS-18; il 29 agosto 2017 lanciano il primo vettore che sorvola il Giappone per inabissarsi nel Pacifico; il 3 settembre 2017 testano la prima bomba termonucleare.

La Nord Corea è ora nel ristretto club atomico: dispone di un arsenale che, in teoria, dovrebbe dissuadere qualsiasi aggressore. Il celebre “deterrente nucleare”.

La storia finirebbe qui se, come però sottolineato in precedenza, la penisola coreana non fosse parte di quel “Rimland” con cui le potenze marittime circondano, contengono e, all’occorrenza, attacco “l’Heartland”: è proprio quest’ultimo, non la piccola Corea del Nord, che ossessiona le talassocrazie.

L’intero continente euroasiatico, dal Mar Meridionale Cinese al Mar Baltico, si sta coprendo di ferrovie ad alta velocità ed alta capacità, anno dopo anno. Cina e Russia conducono esercitazioni navali congiunte nel Pacifico come nel Mediterraneo. Gasdotti ed oleodotti attraversano i due Paesi. Pechino costruisce linee ferroviarie capaci di raggirare lo Stretto di Malacca (attraverso la Birmania) o di raggiungerlo in poche ore (attraverso la Malesia), indebolendo così la funzione di Singapore. “L’area pivot” di Mackinder non è mai stata così viva e dinamica, ponendo le talassocrazie di fronte ad un bivio: la capitolazione o l’attacco.

È in questa cornice che va collocata la tensione tra angloamericani e nordcoreani: poco importa a Washington dell’arsenale di Kim Jong-un, molto invece della crescente potenza navale cinese (nell’aprile del 2017 i cantieri di Dalian hanno varato la prima portaerei Made in China) e della cooperazione con quella russa. Sia Mosca che Pechino ne sono coscienti ed è per questo che a settembre hanno votato in sede ONU le sanzioni contro Pyongyang, sebbene edulcorate quanto basta da non portare il regime al collasso3: il nucleare nordcoreano è soltanto un pretesto utile alle talassocrazie per tentare di strangolare il blocco continentale.

Un comodo espediente per il dispiegamento dei missili THAAD in Sud Corea4, duramente contestato dalla Cina, per il riarmo del Giappone (che gioca oggi un ruolo identico al Giappone filo-britannico ed anti-cinese di inizio Novecento), per la riesumazione della SEATO: sono questi gli obbiettivi che interessano a Washington e Londra, resi possibili dall’arsenale atomico nordcoreano. Il presidente Donald Trump, sempre più avvinghiato nella ragnatela di Washington, lancerà un attacco preventivo contro la Nord Corea? Se così fosse, significherebbe soltanto anticipare al 2017 una guerra già ben delineata. L’ennesimo scontro tra terra e mare.

1Francesco Pazienza, il Disubbidiente, Longanesi, 1999, pg. 460

2https://www.nytimes.com/2017/08/14/world/asia/north-korea-missiles-ukraine-factory.html

3https://www.vox.com/world/2017/9/12/16294020/russia-china-water-un-sanction-north-korea

4http://edition.cnn.com/2017/09/07/asia/south-korea-thaad-north-korea/index.html

Mueller: Il Cacciatore Fasullo, 16° podcast di Gianfranco Campa

La battaglia politica negli Stati Uniti sta assumendo sempre più l’aspetto di una faida grazie alla quale la criminalizzazione dell’avversario prende il sopravvento sul confronto tra le diverse opzioni politiche che in realtà continuano a sussistere; un confronto, quindi, che rischierebbe di affossare il sodalizio dell’attuale establishment neocon-democratico se condotto secondo i canoni classici della competizione politica. Da qui l’uso apertamente strumentale delle istituzioni più delicate, quali la magistratura. Una situazione ben conosciuta nel nostro paese ormai dagli anni ’90. Una conduzione dello scontro che spinge sempre più alla eliminazione dell’avversario, piuttosto che alla sua subordinazione in un crescendo che ci riserverà parecchie sorprese. Il rischio è quello di trascinare nel discredito le istituzioni chiave del paese minando ulteriormente la coesione e la capacità di controllo di quella formazione sociale. Se la guerra civile a metà ‘800 vedeva due fronti nettamente contrapposti in un quadro di acquisizione di potenza e di capacità di predominio, il conflitto attuale sta degenerando in forme frammentarie e polverizzate sempre più difficili da ricondurre ad una logica unitaria_ Giuseppe Germinario

 

 

Steve Bannon in Italia

Steve Bannon, assieme a Roger Stone, è il principale protagonista del ristretto manipolo di persone che, negli ultimi cinque anni, ha fiutato la crescente fragilità dell’imponente establishment americano dominante e portato alla vittoria presidenziale Donald Trump. Il secondo è la figura pragmatica e disincantata, apparentemente leggera, in grado di muoversi nei meandri e di cogliere a tempo le dinamiche dei centri di potere. Ha iniziato la carriera giovanissimo come assistente di Richard Nixon, guarda caso in una fase analoga di scontro acuto, anche se meno cruento, tra strategie e centri di potere ferocemente contrapposti. Bannon è invece lo stratega, capace di intercettare e orientare i movimenti di opinione e di dare respiro alle tattiche e alla contingenza politica; per questo inafferrabile, almeno sino ad ora e in grado di trasformare la propria condizione di preda in quella di predatore. Il momentaneo sospiro di sollievo dei restauratori, determinato dalla sua uscita dallo staff presidenziale, si è trasformato in inquietudine angosciosa allorquando ha ricominciato a minare, con i suoi successi alle primarie delle prossime elezioni di medio termine, le basi politiche dei neoconservatori e di quei trasformisti che non tarderanno a riaffiorare sotto nuove spoglie. La stampa e il giornalismo nazionali, con alcune rare eccezioni, si sono accontentati pigramente e beatamente di ciò che passava il convento d’oltreatlantico; ce lo hanno presentato come rozzo, razzista, approssimativo, isolazionista, retrogrado. La breve intervista, tenuta in Italia ai primi di ottobre e tradotta in italiano, farà crollare parecchi di questi stereotipi e con esso assesterà un altro colpo alla credibilità del sistema di informazione. Per approfondire sarà sufficiente rovistare nella sua testata, Breibart. Dal canto suo, Bannon appare, assieme a Stone, uno dei pochi politici americani consapevoli delle implicazioni dell’affermazione di un mondo multipolare, se non multicentrico. Uno dei pochi che vorrebbe tentare una impresa ardua, improbabile: un arretramento “ordinato” del proprio paese, in grado di preservarlo da quelle catastrofi che in altre epoche storiche più o meno recenti hanno travolto gli imperi in crisi. Non a caso la caduta dell’Impero Romano è sempre stato oggetto di attento studio negli Stati Uniti. Non è importante, al momento, comprendere se si tratta di una posizione tattica, in attesa che eventuali situazioni di conflitto aperto sempre latenti tra i paesi emergenti, ricollochi gli Stati Uniti in una condizione simile a quella della seconda guerra mondiale; oppure di una visione strategica, sino ad ora minoritaria ma storicamente pur sempre presente nel dibattito politico statunitense anche se in forme diverse, in particolare nei movimenti civici locali. Le intenzioni dei soggetti politici spesso e volentieri sono travolte e stravolte dalle dinamiche conflittuali. L’aspetto rilevante è che il prevalere o il consolidarsi di tali posizioni, non fosse che temporaneo, offre nuovi spazi ed opportunità a quelle élites nazionali che avessero intenzione di riprendere in mano il destino del proprio paese. Un proposito lungi dall’essere coltivato dalle nostre classi dirigenti, beatamente assopite. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

DALLE PRIMAVERE AGLI INVERNI DI SOROS. SARANNO CALDI, MOLTO CALDI di Giuseppe Germinario

UN TORRIDO INVERNO

Questo insolito tepore ottobrino, così siccitoso, lascia presagire un torrido ed infuocato inverno.

Dal punto di vista meteorologico potrebbe essere una previsione troppo azzardata; previsioni del tempo attendibili riescono a coprire un arco di tempo ancora troppo breve, di pochi giorni.

È la temperatura politica del pianeta, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, che pare surriscaldarsi sino a sfiorare pericolosamente il punto critico di formazione di tempeste distruttive e roghi devastanti.

Provo a collegare, più o meno avventurosamente, quattro episodi apparentemente avulsi tra essi.

  1. Il discorso di Trump all’ONU_ Il 19 Settembre scorso Trump ha pronunciato il suo primo e per ora unico discorso all’ONU. Sul sito ne abbiamo già parlato con dovizia http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

http://italiaeilmondo.com/2017/09/27/massimo-morigi-a-proposito-del-podcast-episode-13_-lo-smarrimento-dei-vincitori-di-gianfranco-campa/  ; allo stato attuale, potremmo arricchire e corroborare le nostre valutazioni con una ulteriore supposizione. Quel discorso così apparentemente contraddittorio e paradossale potrebbe essere in realtà un tentativo particolarmente sofisticato e pericoloso di mettere a nudo le debolezze, l’inconcludenza e l’avventurismo delle strategie di quello staff militare dal quale è ormai circondato e che sta cercando di erigere una vera e propria barriera in grado di filtrare rigorosamente i contatti del presidente americano. Sembra voler dire: “volete lo scontro con la Russia e la Cina, l’Iran e la Corea del Nord? Ve lo offro su un piatto d’argento e vediamo se avete la reale intenzione e capacità di portarlo avanti, con quali rischi e a che prezzo!”

Il recente viaggio degli esponenti del ramo prevalente dei Saud, dei regnanti quindi dell’Arabia Saudita, in Russia può essere d’altro canto letto non solo come un sussulto di autonomia di quella classe dirigente di fronte allo stallo della politica di destabilizzazione in Medio Oriente e al recupero di autorevolezza della Russia di Putin; ma anche come una sorta di diplomazia parallela e per interposta persona che le forze fautrici dell’avvento di Trump alla Presidenza Americana continuano a portare avanti. Le aperture ben più esplicite dei generali egiziani alla Russia da una parte e i contatti di Bannon, il mentore ufficialmente disconosciuto e reietto, in realtà ancora costantemente e discretamente consultato dal Presidente, con la dirigenza cinese sembrano confermare l’esistenza di questi doppi canali di comunicazioni e di relazioni.

  1. Lo scandalo a sfondo sessuale del produttore cinematografico americano Weinstein e le rivelazioni di wikileaks sul traffico di uranio con la Russia alimentato da personaggi politici di spicco del Partito Democratico americano hanno una cosa essenziale in comune. Entrambi colpiscono al cuore gli esponenti più importanti e decisivi della coorte che ha sostenuto e determinato in questi decenni l’ascesa e il consolidamento dell’affermazione del sodalizio tra neoconservatori e democratici americani. Più che i danni materiali e i vizi privati sbandierati sui media, risalta l’irrimediabile deterioramento di immagine e di credibilità del costrutto ideologico e mediatico sul quale si sono fondati trenta anni di politica estera e di gestione interna di quel paese.

Gli uni assestano un colpo tremendo all’ipocrisia disgustosa del politicamente corretto tanto fervido ed accorato nell’ostentare le pubbliche virtù e la coerenza del rispetto della dignità umana, quanto certosino nel coltivare nel privato della persona e nei canali riservati delle relazioni politiche i soprusi, le sopraffazioni, le meschinerie, i mercimoni più interessati.

Gli altri rivelano le relazioni e gli interessi inconfessabili di una classe dirigente così apertamente ostile alla formazione di un mondo multipolare, la quale ha individuato nella Russia di Putin il nemico acerrimo della pacificazione unipolare e globalistica, salvo intrattenere con settori di essa gli affari e i commerci più loschi. Le vittime sacrificali predestinate appaiono il produttore Weinstein e il politico Podesta, ma il capro espiatorio finale appare ben più emblematico.

  1. L’Open Society di Soros si è vista rimpolpare in breve tempo il proprio salvadanaio di ben 18.000.000.000 (diciotto miliardi) di dollari.gentiloni-soros Una cifra stratosferica in grado di impressionare manipolatori persino particolarmente adusi e avvezzi al denaro come Soros, in grado di muovere eserciti, bande armate, contestatori, manifestanti e Pussy Riot di mezzo mondo. Sino ad ora il nostro paladino delle libertà e del soccorso umanitario ha utilizzato un doppio metro di comportamento al centro e alla periferia dell’Impero, nonché nei confronti dei riottosi più ostinati esterni ad esso. Apertamente violento e destabilizzatore ai margini; più cauto e pervasivo, più suadente man mano che le trame riguardavano la geografia prossima al centro dei poteri. Qualcosa, evidentemente, comincia a cambiare in questa strategia in maniera assolutamente radicale. Come non bastasse saltano nuovamente alla ribalta organizzazioni, quasi sempre legate al filantropo e beneficiarie dei più disparati finanziamenti pubblici e privati, spesso concessi dagli stessi rappresentanti delle vittime delle loro azioni; tutte dedite, con solerzia e qualche dose inevitabile massiccia di stupidità ed ottusità, alla compilazione di liste di prescrizione foriere di una prossima caccia all’untore. Tra queste brilla ultimamente, secondo RT, https://www.rt.com/news/407347-rt-guests-list-ngo/ , l’associazione http://www.europeanvalues.net/ ,con questo documento http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2017/09/Overview-of-RTs-Editorial-Strategy-and-Evidence-of-Impact.pdf e secondo questo interessante documento fondativo, corredato da un elenco dei finanziatori sorprendente, ma non troppo http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2013/02/VZ2015_ENG_FIN.pdf L’analogia con la caccia alle streghe del Maccarthismo degli anni ’50 è inquietante. A ruoli invertiti, è probabile che le squadracce che vediamo infiltrate nelle manifestazioni di strada antisistema, prointegrazione e via dicendo, diventino lo strumento di giustizia sommaria e di fomentazione provocatoria di questi filantropi.
  2. L’investimento mortale a Charlottesville, in Virginia, di due mesi fa,riviera24-luca-botti-strage-los-angeles-390786 la drammatica strage del cecchino (dei cecchini?) a Las Vegas di due settimane fa, ancora coperta da una fitta e misteriosa coltre di nebbia da cui emergono i sussurri più inquietanti; il tentativo di secessione in Catalogna e lo stesso referendum nel quadrilatero lombardo-veneto annunciano alcune variazioni essenziali sul tema della strategia del caos perpetrata in questi ultimi anni. Le modalità di svolgimento di questi eventi apparentemente sconnessi lasciano sospettare, rispettivamente, a volte una vera e propria provocazione, altre volte una istigazione, altre ancora una manipolazione e per finire una capacità di cogliere opportunità. Non si tratta, quindi, semplicemente, di un complotto ordito a tavolino sin nei particolari; troppo semplicistico! Quanto, piuttosto, di sfruttamento di opportunità create e utilizzate in un contesto di crescente instabilità e di emersione di nuove forze antagoniste, spesso confuse e contraddittorie. Un terreno, tra l’altro, sul quale diventa particolarmente difficile ed insidioso l’intervento politico di forze sovraniste, specie quelle più sensibili alla suggestione della democrazia dal basso e della superiorità dei progetti autonomistici e localistici.

La “strategia del caos” che sino ad ora ha interessato i paesi riottosi al predominio unipolare, in particolare la Russia, ha investito le zone di confine e di contesa ai margini dell’impero, come il Nord-Africa, il Medio Oriente, in parte il Sud-Est Asiatico, l’estremità dell’Europa Orientale pare investire sempre più da vicino i luoghi e la geografia centrale dei centri di potere e delle formazioni sociali connesse attorno secondo gli stessi propositi degli attori-mestatori.

È il segno che lo scontro politico sta investendo direttamente questi centri di potere, piuttosto che essere condotto da essi per interposte persone; li sta costringendo ad un confronto diretto sempre più aspro e risolutivo.

Richiederà il sacrificio di alcuni illustri capri espiatori, alcuni dei quali particolarmente in auge nell’immediato passato.

Nel Partito Repubblicano neoconservatore abbiamo visto cadere qualche testa illustre, ma ancora senza particolare crudeltà.

Nel Partito Democratico americano, la ricomposizione che si sta tentando con buone probabilità di successo tra la componente pragmatica vicina ad Obama e la componente social-radicale prossima a Sanders, il candidato sconfitto da Hillary Clinton alle primarie, in parte lui stesso nominalmente esterno al partito, ma generosamente ricompensato con una buona presa e radicata presenza all’interno di esso, richiederà probabilmente il sacrificio ben più sanguinoso di una intera dinastia politica: quella dei Clinton. Sanguinosa riguardo al futuro delle carriere politiche, ma anche a quello degli averi e della sicurezza economica del sodalizio.

La figura che più si potrebbe attagliare a quella di Hillary Clinton, potrebbe essere metaforicamente proprio quella di Maria Antonietta, vittima predestinata della Rivoluzione Francese.

La signora Rodham Hillary C. si presenta come il capro espiatorio perfetto sul capo riverso della quale costruire le fortune di una nuova classe dirigente ansiosa di liquidare al più presto l’attuale mina vagante dello scenario politico americano: Donald Trump. Una classe dirigente ancora in grado di controllare la quasi totalità delle leve di potere e di controllo e di legarsi ai settori tecnologicamente più vivaci, ma sino ad ora incapace di dare un respiro strategico alla propria iniziativa che riesca a garantire una sufficiente coesione della formazione sociale americana e a coinvolgere in una nuova versione del sogno, buona parte del resto del mondo. Il cumularsi di errori grossolani e di una gretta difesa degli interessi di costoro e la boria legata ad un inguaribile senso di superiorità rischiano di far precipitare quel paese in una crisi analoga a quella che ha prodotto la guerra di secessione di metà ‘800, ma dagli effetti ancora più distruttivi piuttosto che creativi in un contesto di potenza declinante. Non solo, ma di lasciare i propri orfani e sodali disseminati nel mondo, soli ed esposti ad affrontare con scarso sostegno le intemperie e a cercare col tempo nuovi ripari, più per se stessi che per il gregge da accudire, come ogni buon Gattopardo o Generale Badoglio che si comandi.

 La forza e la possibile sopravvivenza delle componenti che hanno espresso Trump risiede proprio nella debolezza strategica dei suoi avversari, piuttosto che nella solidità dei propri mezzi.

Su questo “Italia e il Mondo” cercherà di concentrare la propria attenzione e le proprie scarse energie sin dai prossimi articoli con lo scopo di individuare le opportunità e gli spazi di formazione di una nuova classe dirigente così necessaria a questo nostro “pauvre pays”.

L’ORA X DELLA CATALOGNA, L’ULTIM’ORA DI PUIGDEMONT, di Giuseppe Germinario

Carles Puigdemont ha confermato la dichiarazione di indipendenza della Catalogna ed auspicato una trattativa con il Governo Centrale di Spagna

Raramente accade di una classe dirigente così platealmente votata al suicidio come quella catalana, senza nemmeno l’aura romantica che spesso riveste i predestinati al sacrificio patriottico. Un epilogo tanto tragico quanto farsesco del destino individuale di questi condottieri. Non di tutti, beninteso. I più scaltri e furbi hanno istigato, hanno saputo defilarsi e alcuni arrivano ora a proporsi come mediatori con buone probabilità di qualche riconoscimento istituzionale nel prossimo futuro.

Un gruppo dirigente evidentemente privo di qualsiasi memoria storica. La Catalogna, in epoca moderna, ha conosciuto vari moti indipendentistici conclusisi inesorabilmente tutti più o meno tragicamente nel giro di pochi giorni o mesi.

Privo di cultura istituzionale visto che non solo ha violato apertamente la legge dello Stato centrale, anche se questo è pressoché la norma nei tentativi secessionistici, pur con le recenti eccezioni legate al dissolvimento del blocco sovietico; ha forzato, violato e gestito malamente le procedure della propria istituzione regionale che hanno portato al referendum e alla proclamazione di indipendenza e dirottato apertamente risorse pubbliche a fini privati legati alla promozione mediatica e lobbistica del progetto secessionistico in particolare negli Stati Uniti.

Privo soprattutto di basilare cultura ed accortezza politiche.

Ha con ogni evidenza del tutto sottostimato le implicazioni militari di un tale atto e la capacità reattiva di uno stato e governo centrale lesi in una delle loro prerogative fondamentali. Il recente accordo tra il Governo Centrale e la Regione Basca che riconosce ad essa ulteriore ampia autonomia e addirittura la prerogativa dell’imposizione fiscale deve averli indotti a sopravvalutare gravemente l’indebolimento delle capacità di difesa delle prerogative dello Stato Centrale. Un indebolimento certamente in atto grazie al processo di integrazione militare nella NATO e politico-economico nell’Unione Europea che ne ha accentuato la subordinazione politica e ridotto l’agibilità, ma non ancora del tutto compiuto. La Spagna ha infatti pagato il proprio relativo e fragile sviluppo economico incentrato soprattutto sull’edilizia, sulla creazione di infrastrutture e sul turismo con una cessione significativa del controllo delle proprie attività industriali più importanti; al pari dell’Italia e di altri paesi europei politicamente malconci e a causa di un contesto territoriale determinato dall’esistenza di ben quattro principali grandi nazionalità, ha ceduto maggiormente alle lusinghe europeiste di una regionalizzazione sovrana in grado di agire direttamente con le istituzioni comunitarie, aggirando le prerogative, il coordinamento e gli indirizzi dello stato centrale. Il risultato è la sovrapposizione di una subordinazione storica alla potenza americana a quella franco-tedesca, analoga a quella italiana anche se parzialmente contenuta dai retaggi nazionalistici più pervasivi legati al recente passato franchista.

Ha sorprendentemente glissato sulla indispensabile compattezza quantomeno della popolazione catalana necessaria a sostenere un confronto così aspro e definitivo. Il movimento indipendentista si sta rivelando invece una realtà politica significativa ma minoritaria non solo nell’intera Catalogna, compresa quella non interessata dall’azione referendaria, ma anche nell’epicentro stesso del conflitto, la zona di Barcellona.

Riguardo all’indispensabile sostegno internazionale necessario a rompere l’isolamento e a trarre energia, aiuto militare e appoggio politico sembra aver ignorato le conseguenze dell’appartenenza della Spagna alla Unione Europea e alla NATO. I legami ed il sostegno internazionale, i quali comunque non mancano, non possono infatti manifestarsi con le stesse modalità che hanno caratterizzato le primavere arabe e i movimenti secessionisti e sovvertitori di questi ultimi anni. La grande novità dell’evento di rottura riguarda proprio la sua collocazione geopolitica; non più ai margini della sfera occidentale e nelle zone di attrito con Russia e Cina, bensì al centro dell’Europa occidentale.

Sul tavolo dei congiurati non potevano certo mancare opzioni più graduali ed avvolgenti che implicassero un’alleanza con le altre comunità nazionali di Spagna, compresa quella della costruzione di uno stato federale ormai resa verosimile e praticabile dal recente accordo già citato con i Paesi Baschi.

Quale nefasta congiunzione astrale ha determinato alla fine l’attuale piega degli eventi?

Certamente hanno assunto un ruolo importante le ambizioni e le rivalità all’interno del gruppo dirigente catalano il quale tenta alla fine di trovare una loro compensazione ed uno loro spazio nella neonata entità statale; ma queste trovano espressione solo nel particolare humus e retroterra alimentatosi nella regione.

Nella Catalogna di questi ultimi anni si è condensato un sodalizio sempre più complice tra un gruppo di politici locali, ben radicati negli interessi della comunità e con una visione megalomane della propria collocazione nel contesto internazionale, e la componente sinistrorsa e movimentista riconducibile a Podemos e Sinistra Unita.

Dei primi va sottolineata la pervicacia con la quale hanno confermato la propria collocazione nella NATO e nella UE, l’ostinazione nella ricerca di un sostegno lobbistico negli ambienti angloamericani, per la verità con ampio dispiego di risorse e scarsi risultati. Apparentemente nulla di anomalo rispetto alla necessaria ricerca di alleanze, sostegno o quantomeno neutralità che tutte le forze irridententistiche, rivoluzionarie portano avanti nella loro azione. I legami professionali e la storia di gran parte di questi dirigenti inducono però a pensare a qualcosa di deleterio.

Dei secondi, in particolare di Podemos, va rilevata con qualche attenzione in più la loro impostazione politica. La formazione di questo gruppo dirigente, in particolare di Pablo Iglesias inizia negli ambienti universitari di Los Angeles, la fucina che ha generato il movimento degli indignati e di Occupy Wall Street  http://italiaeilmondo.com/2017/10/11/dal-nostro-indignato-speciale-di-giuseppe-germinario-scritto-il-18102011/( http://italiaeilmondo.com/2017/10/11/dal-nostro-indignato-speciale-di-giuseppe-germinario-scritto-il-18102011/ )di alcuni anni fa; prosegue con un immersione, non priva di contrasti, nei movimenti culturali latinoamericani che hanno sostenuto le svolte di numerosi regimi di quel continente; si insedia nelle università di Madrid e Barcellona, in particolare negli ambienti accademici, dalle quali partono le spinte organizzative e la formazione del soggetto politico. La quasi totalità dell’impegno si fonda su tecniche di comunicazione basate su un particolare recupero del concetto gramsciano di egemonia; elude il problema del controllo degli strumenti coercitivi e punta sulla manipolazione dei sistemi mediatici, per altro nemmeno controllati direttamente. Si tratta in particolare di imporre un linguaggio e i propri contenuti. Il mondo viene schematicamente diviso tra un 1% di dominanti e un 99% di defraudati; il conflitto deve concentrarsi con azioni di partecipazione dal basso; le rivendicazioni si riducono a mere politiche di diritti e di redistribuzione. In Spagna il successo politico del movimento si basa su una campagna mediatica su scala nazionale e sull’alleanza su base locale con le forze autonomistiche e le varie opposizioni sociali.

Il movimento indipendentista catalano è figlio di queste impostazioni, in linea per altro con i tentativi passati. Fonda la propria azione politica sulla base di colpi di mano e di smaccata manipolazione mediatica degli eventi. Una esasperazione analoga a quella cui stiamo assistendo negli Stati Uniti e che sta minando progressivamente la credibilità degli artefici. La gestione strumentale ed approssimativa del referendum, la montatura della critica verso atti repressivi in realtà alquanto blandi stanno spingendo in un vicolo cieco il gruppo dirigente catalano in una azione puramente simbolica e verbale che potrà trovare alimento, probabilmente, solo in provocazioni sempre più pericolose e strumentali. Non si conoscono le effettive capacità e propensioni del governo catalano a condurre in questa maniera e sino in fondo il gioco; c’è di che dubitarne. Come c’è da dubitare delle solide convinzioni di un popolo indipendentista così lesto a smobilitare la piazza, un minuto dopo le dichiarazioni solenni del Presidente Puigdemontes, non ostante l’ombra minacciosa delle forze lealiste in campo.

La conferma della dichiarazione di indipendenza di oggi al parlamento catalano, con un dilazionamento dei suoi effetti, rappresenta una mossa disperata che non cambierà un destino personale ormai segnato dei responsabili catalani e il declino delle formazioni politiche citate già per altro in corso.

Una debolezza che rischia di spingerli sempre più sotto la protezione e il salvacondotto esterni. Non sono mancati a queste forze gli incoraggiamenti, il sostegno e il supporto dei soliti centri di potere che hanno contribuito a sconvolgere l’intera area mediterranea; nemmeno è mancato il sostegno discreto e qualche incoraggiamento altrettanto discreto di centri presenti nei paesi europei.

È mancato rumorosamente, questa volta, l’aperto e sfrontato supporto diplomatico americano messo all’opera direttamente nelle piazze in Egitto, in Ucraina, in Siria, in Kossovo nel recente passato.

Segno che il fronte non è più così compatto e che il confronto in corso negli Stati Uniti sta lasciando la propria impronta anche in Europa.

Quello in corso in Catalogna rappresenta comunque un test, probabilmente anche una forzatura determinata dalla perdita parziale delle leve di comando, di quanto la politica di destabilizzazione e del caos sia ormai esportabile in Europa. Qualche riflesso visibile lo stiamo vivendo anche in Italia con la vicenda del referendum lombardo-veneto. Friedman tempo fa ci aveva avvertiti. Il suo fallimento indurrà, probabilmente, a riproporre, ma sotto mutate spoglie, quella politica; certamente contribuirà a mettere in crisi e a far piazza pulita di queste sedicenti forze di opposizione perfettamente complementari all’azione degli attuali establishment sino a determinarne l’ulteriore sopravvivenza. Si auspica da più parti il successo di una qualsiasi politica di destabilizzazione, perché potrebbe favorire di per sé la formazione di nuove classi dirigenti più autonome e più sensibili alla costruzione di formazioni sociali più coese ed eque, adatte a sostenere il confronto che sta covando nel mondo. È invece proprio la modalità di svolgimento di questo confronto sia all’interno che tra esse che determina la qualità della formazione dei centri strategici.

Il compito faticoso degli analisti e soprattutto dei pochi politici dediti alla causa è appunto quello di discernere il grano dal loglio piuttosto che dedicarsi alla contemplazione del caos primordiale.

14° Podcast _ Trump non va dove lo porta il cuore, di Gianfranco Campa

La vecchia talpa continua a scavare. I centri di potere americani dominanti hanno ripreso in mano le leve del Governo; quelle del governo, non quelle di potere. Queste ultime sono sempre rimaste fondamentalmente sotto controllo. Non sembrano in grado di determinare il consenso e la coesione necessaria a dare forza, rispettabilità e motivazioni alle loro intenzioni. Segno di una strategia inadeguata a garantire nel tempo la supremazia all’esterno e una rappresentazione dell’interesse nazionale appena dignitosa e credibile al proprio interno. Da qui l’erosione interna dei partiti politici americani; di quello repubblicano ma, come vedremo nei prossimi podcast, anche di quello democratico. Gli ultimi avvenimenti in Alabama e in Tennessee sono il prodromo. Alcuni centri in competizione, vedi i cinesi, sembrano accorgersi del fiume sotterraneo. La quasi totalità di quelli europei, aggrappati ostinatamente e ciecamente ai vecchi equilibri, rischiano ancora una volta di essere spiazzati. Dovranno perfezionare ulteriormente le loro qualità di camaleonti._ Giuseppe Germinario

Massimo Morigi a proposito del “podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa”

Un lungo commento di Massimo Morigi  al podcast sulle vicende presidenziali americane, ma con un occhio all’uomo “forte” del recente passato d’Italia

http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

 

«Dell’ “eroe”, sia pure popolare, nel senso emersoniano Mussolini ebbe ben poco (come ben poco ebbe del vero uomo di Stato, mentre indubbiamente fu un notevole uomo politico); in tutti i momenti nodali della sua vita gli mancò la capacità di decidere, tanto che si potrebbe dire che tutte le sue decisioni più importanti o gli furono praticamente imposte dalle circostanze o le prese tatticamente, per gradi, adeguandosi alla realtà esterna, il che non sembra poi molto diverso. Per molti aspetti fu piuttosto, per usare un suo pseudonimo giovanile, l’homme qui cherche e non l’ homme qui va e trovò la sua via giorno per giorno, senza avere una idea di dove sarebbe arrivato, ma “sentendo” da vero politico, quale fosse la propria direzione. Sotto questo profilo bene ci pare lo abbia capito Maurras quando scrisse nel suo Dictionnaire: “[in C. Maurras, Dictionnaire politique et critique, III, Paris 1932, p.124, nota bibliografica dal testo citato]:Mussolini ne procède pas en doctrinaire idéologue. L’expérience le conseille, il en suit la leçon, soucieux, au jour, de restaurer le nécessaire, nullement ambitieux de précipiter les éléments politiques et sociaux à la manière d’une pâte dans un gaufrier. Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.”» : Delio Cantimori, prefazione a Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einuadi, 1994, p. XXIII.

Così il più profondo e tormentato storico italiano del Novecento, Delio Cantimori, nella sua prefazione, si era nel 1965, alla prima edizione del primo volume della biografia di Renzo De Felice su Benito Mussolini, Mussolini il rivoluzionario, volendo rappresentare in pochi icastici tratti la personalità di Benito Mussolini, ci restituiva la rappresentazione di un uomo né genio né demonio ma quella di un personaggio “umano, troppo umano” in cui le debolezze caratteriali venivano celate da un decisionismo di facciata che copriva un vuoto di pensiero e di progetto politico, e in questo non solo troppo umano ma anche troppo italiano, troppo simile a quegli italiani (in questo veramente uguali al di là delle magliette degli opposti schieramenti di destra e di sinistra) dove sia sul piano personale che su quello pubblico pensano che una petizione di principio ed una trombonata retorica possano fare le veci di un serio impegno personale e di una seria preparazione sui problemi pubblici. Al di là dei decenni e delle sideralmente diverse condizioni culturali e politiche, vichiani corsi e ricorsi della storia (ma, ancor più, dell’eterna natura umana, sempre una natura di tipo conflittual-strategico: l’eterno problema è come questa natura viene declinata, se seriamente o in maniera da pagliacci. Insomma la machiavelliana dannata serietà della politica che, se non presa con la dovuta consapevolezza, e questo è uno dei più importanti lasciti del Segretario fiorentino, non solo si ritorce contro chi l’ha così stoltamente concepita ma si tramuta malignamente in una vera e propria crisi di civiltà): nel fresco ritratto di Donald Trump che ci restituisce il tredicesimo podcast di Gianfranco Campa, “Lo smarrimento dei vincitori”, emerge veramente un Donald Trump con tratti terribilmente simili al cantimoriano ritratto di Mussolini. Non una terribile ed onnicalcolante mente dittatoriale (nel caso di Trump, seguendo la vulgata politicamente corretta: un democratico imbevuto di idee fascistoidi) ma piuttosto, un abile, anzi abilissimo politico, che fece del suo principale difetto, la superficialità, la sua principale se non unica arma per la conquista del potere ed una personalità politica dove il decisionismo è una decisionismo completamente di facciata perché la sua unica preoccupazione fu sempre, almeno fino a quando la sua azione di governo ebbe una certa efficacia, quello di una diuturna mediazione fra le varie componenti del fascismo non creando mai una situazione originale e sfruttando costantemente le varie circostanze che gli si presentavano di fronte senza avere mai un approccio veramente creativo (dopo, quando egli pensò di essere veramente un genio non ascoltò più nessuno e a questo punto la sua superficialità unita ad una crescente megalomania lo dannò): comunque tutto si può dire di Mussolini tranne che non fosse un abilissimo uomo politico (nel peggior senso della parola, ovviamente, e in questa sua assenza di “creatività” politica e fortissimo opportunismo e crescente megalomania, vero “padre ignobile” dell’attuale ceto politico antifascista del regime sorto in seguito alla sconfitta militare e che perdura ancora sfacciatamente nonostante che i miti resistenziali abbiano mostrato la loro funzione di “arma di rimozione di massa” dell’esperienza del fascismo) e tutto si può concedere a Mussolini tranne il fatto che fosse uno statista, essendo il significato del suo percorso pubblico e privato la dimostrazione più lampante del suo esatto contrario, il demagogo, specie umana e politica che infesta in egual modo sia le dittature che le c.d. “democrazie”. Continuava Cantimori nel suo ritratto di Mussolini: «Visto in una simile prospettiva lo studio della vita di Mussolini, pur mantenendo tutte le sue peculiarità, assume in un certo senso un valore “tipico”, che può servire a capire non solo l?uomo Mussolini, ma il significato del fascismo stesso, e può costituire anche una sorta di primo specchio del modo e della misura nei quali il socialismo di Mussolini e poi il suo fascismo furono visti e valutati dai suoi contemporanei. È in questa funzione, anzi, che la nostra narrazione della vita di Mussolini procede con una prospettiva, un inquadramento, che potremmo definire “a ventaglio” (allargandosi cioè a mano a mano che gli orizzonti di Mussolini si dilatano e la sua figura assume una portata maggiore sino ad avere un ruolo nazionale ed europeo e, quindi, ad inserirsi in un contesto che non è più locale, di partito, nazionale, ma internazionale), ma contemporaneamente senza precorrere, se così si può dire, i tempi della sua evoluzione e del suo successo. Più che ricorrere per lumi e per conferme al poi, insomma, abbiamo di volta in volta preferito attenerci al presente; nel pensiero e soprattutto nell’azione di Mussolini è possibile infatti riscontrare, per dirla con Maurras, uno sviluppo, una traiettoria che hanno una loro logica precisa; voler vedere però in certe “svolte”, in certe “scelte” della vita di Mussolini la consapevolezza che esse lo avrebbero portato a certe soluzioni, a certi obbiettivi a lungo raggio ci sembra non solo arbitrario, ma tale da distorcere i fatti e la loro comprensione: si finirebbe per fare di Mussolini l’ homme qui va e quindi per non capire più il vero significato degli avvenimenti attraverso i quali egli pervenne al successo e per ridurre tutte le altre figure ad un ruolo subalterno, a manichini messi nel sacco da un mago istrione e non piuttosto a considerarle più correttamente come altrettanti protagonisti di una vicenda che – bene o male – ha corrisposto al momento di crisi della società liberale postunitaria e al realizzarsi (tra incertezze, sbandamenti ed errori, dovuti appunto alla grandiosità e alla novità di questa trasformazione e all’imponenza della posta in gioco) di una nuova società politica di massa.»: Ivi, pp. XXV-XXVI.

Dai podcast di Gianfranco Campa per “L’Italia e il mondo” emerge “un inquadramento a ventaglio” della vicenda di Donald Trump, una ricognizione che dalla puntuale individuazione delle caratteristiche “umane, troppo umane” del personaggio Trump si allarga alla profonda conoscenza di tutti i protagonisti e comprimari culturali, politici, economici e militari che avversandolo (la stragande maggioranza) o favarendolo (sarebbe meglio dire: creandolo) stanno dando origine all’attuale micidiale scontro strategico all’interno dell’attuale establishment americano. E in questo tumultuoso quadro magistralmente e puntualmente – ma anche con profondi e cupi tratti espressionistici – rappresentato da Gianfranco Campa, Donald Trump appare sempre più, piuttosto che l’ homme qui va , l’homme qui cherche, un homme qui cherche veramente all’insegna delle parole conclusive di Charles Maurras su Benito Mussolini: “Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.” Il gramsciano “ottimismo della volontà” di Gianfranco Campa, in un’analisi talmente partecipe della situazione politica statunitense quasi da voler diventare uno degli attori dello scontro che rappresenta (ma questo atteggiamento “attivistico” non costituisce una debolezza della stessa ma, dialetticamente, indica anche una precisa moralità politica per chi, anche in Italia, si pone in posizione radicalmente alternativa rispetto all’attuale “stato delle cose” ma non si concede la scorata passività dell’osservatore mussoliniano di Charles Maurras), oltre a fare, tramite il suo realismo, letteralmente piazza pulita della “pappa del cuore” della menzogna del politicamente corretto che infesta pressoché tutti i commentatori, destra o sinistra non importa, quando parlano degli Stati uniti, costituisce anche una precisa traccia per un’autentica moralità politica che ponga le basi per quel gramsciano “moderno principe” che dovrà essere l’esatta antitesi del tipo umano e politico rappresentato da Marraus descrivendo Mussolini. Che, proprio perché simmetrica antitesi, non dovrà avere nulla da spartire e combattere come i principali nemici coloro che respingono Trump perché lo rappresentano come un fascistoide …

Massimo Morigi – 26 settembre 2017

podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa

Può capitare che anche l’uomo politico più ostinato e cinico, ma con ancora qualche residuo anelito di compassione represso nel fondo dell’animo, possa essere indotto ad un moto, magari un semplice cenno, di comprensione e conforto verso il suo più acerrimo avversario. Lo sconforto che ha colto in mondovisione John Kelly, capo di gabinetto presidenziale, proprio nelle fasi più colorite ed impetuose dell’intervento di Trump all’ONU, può spezzare ogni resistenza e senz’altro indurre a questo impulso. Bisognerebbe del resto mettersi, anche se di malavoglia, nei panni dei rappresentanti del vecchio establishment americano, in particolare neocon. Per mesi hanno dovuto metter mano a tutto il proprio arsenale e portare allo scoperto anche gli arnesi più riservati, quelli da esibire più come deterrenza che da mettere all’opera; hanno pregiudicato la credibilità dei mezzi di informazione, della magistratura, dei servizi investigativi e probabilmente di importanti settori delle forze armate, ma alla fine sembrava che fossero finalmente riusciti una volta per tutte ad addomesticare il Presidente riottoso e ad isolarlo dalla congrega di cattivi consiglieri. Ecco invece riemergere senza preavviso il Trump baldanzoso delle origini. E da quale pulpito! Niente meno che dall’assemblea generale dell’ONU; un sinedrio certamente poco produttivo di strategie politiche, ma certamente spettacolare nella funzione di propagazione mediatica e nella costruzione di immagine di un personaggio politico. Durante la sua performance ha rispolverato gran parte del suo repertorio d’antan: “America First”, il Nazionalismo, l’antiglobalismo, l’antimultilateralismo, l’indispensabile funzione dello stato; ha concesso rispetto ed ammirazione agli statisti dediti alla difesa degli interessi nazionali del proprio paese. Con qualche inverosimile acrobazia logica ha sostenuto però la coerenza della propria politica estera e l’incoerenza dei cosiddetti “stati canaglia” e dei loro sostenitori più o meno occulti. Un funambolismo troppo audace anche per i più perspicaci ed aperti interlocutori. La gran cassa dei saccenti, dimentichi delle batoste elettorali, non ha tardato a pontificare sull’inaffidabilità e sull’irrazionalità del Presidente. Faremmo torto alla nostra intelligenza, oltre che a quella di Trump, ad assecondare questa tesi. Gianfranco Campa ci illumina come di consueto sulla ragione principale di questo comportamento, tutt’altro che irrazionale. Trump sa benissimo che il proprio salvacondotto, nell’operazione trasformista ancora in corso, rimane la conservazione di buona parte del consenso del nocciolo duro del proprio elettorato. Il vecchio establishment non vuol capire che strattonature ulteriori rischiano di isolare del tutto Trump e trascinare il paese in un confronto politico interno dalla virulenza paragonabile solo a quella già conosciuta a metà ‘800. Il taglio particolare del discorso, inoltre, è motivato probabilmente da un’altra ragione ancora più imbarazzante; si tratta forse di una volontà manifesta di evidenziare la contraddizione e di chiedere tra le righe comprensione e tregua a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi interlocutori privilegiati, primo fra tutti Putin, di una politica estera meno interventista e più condivisa. L’inerzia delle attuali dinamiche geopolitiche rende però pressoché impossibili ulteriori prove d’appello. Lavrov, ciò non ostante, ha dichiarato apertamente che “l’attuale incoerenza della politica estera americana” è la conseguenza delle numerose trappole disseminate dalla vecchia amministrazione Obama ai danni del nuovo presidente. Anche su questo Gianfranco Campa è stato particolarmente lucido in un articolo precedente http://italiaeilmondo.com/2017/03/09/sotto-la-copertura-delle-tenebre-di-gianfranco-campa/  _ Giuseppe Germinario

Massimo Morigi commenta il podcast di Gianfranco Campa “una dinastia in bilico”

Nell’ottimo ed illuminante dodicesimo podcast dell’ “Italia e il Mondo” “Una dinastia in bilico”, Gianfranco Campa ( http://italiaeilmondo.com/2017/09/15/755/) , illustrando le attività de facto criminose della Clinton Foundation si pone la domanda del perché Hillary Clinton. che avrebbe apparentemente tutto l’interesse a che sulla sua figura ed il clan Clinton, dopo la terribile sconfitta elettorale, scendesse un rassicurante oblio, abbia velocemente dismesso la prudente – ancorché mai completamente e convintamente praticata tattica di inabissamento e abbia di nuovo cercato di comparire sotto i riflettori dei media e della pubblica opinione. Giustamente Gianfranco Campa “giustifica” questa mossa avventata col tentativo dei Clinton di fare da apripista per una futura carriera politica della loro figlia Chelsea, e in questo c’è molto di vero, nel senso che è pressoché impossibile che le dinastie politiche accettino di piombare nell’oblio (con lessico marxistico d’ antan si sarebbe detto di essere gettati nella “pattumiera della storia”) e non e certo necessario nemmeno scomodare il pensiero elitaristico di Gaetano Mosca e di Michels per avere conferma che, anche in questo caso, le élite al potere sono gruppi autoreferenziali e chiusi e che fanno di tutto per perpetuarsi all’infinito. Ma se ci fermassimo solo a questo livello di analisi, la vicenda dei Clinton, in fondo, altro non sarebbe che l’ennesima conferma delle dinamiche esclusiviste di qualsiasi ceto politico e questo non ci restituisce la natura vera del potere dei Clinton ( e, in extenso, senza voler forzare la mano, della natura intimamente criminale del potere politico presidenziale negli Stati uniti), natura vera che ci viene restituita dal luogo comune – ma per questo non meno vero, risultando anzi verissima quella “legge”di sociologia politica più certa della legge newtoniana di gravitazione universale – che dice che dalla criminalità organizzata, per l’Italia leggi mafia, non ci si può ritirare, pena conseguenza gravi, molto gravi. Rapportato l’adagio popolare alla vicenda Clinton e alla loro benemerita fondazione questo significa: 1) Attraverso la Fondazione si erano fatte delle promesse, queste promesse vanno onorate e l’unica possibilità di onorarle almeno in parte non sta certo rimanendo nell’ ombra e perdendo potere ma dimostrando che la ditta Clinton è ancora on business; 2) Per rimanere on business è necessario avere ingenti risorse e solo una fondazione che faccia da sfondo ad una ditta Clinton assertivamente e sfacciatamente su piazza può sperare di invertire, almeno in parte, il crack seguito alla mancata elezione alla presidenza degli Stati uniti di Hillary Clinton. Insomma, negli Stati uniti se si perde il potere, e questo non vuol banalmente dire non essere più presidenti di quel paese ma perdere rovinosamente una elezione dimostrando così di non poter in alcun modo onorare gli occulti patti collusivi che si erano presi o durante la presidenza o nel tentativo di ottenerla si rischia grosso, molto grosso … Una lezione, quella sull’ intrinseca pericolosità di cadere rovinosamente dal più alto scranno della politica americana, che ha ben presente anche Trump ed in questo, nonostante le apparenti differenze di facciata, il neoeletto presidente e la mancata prima presidente donna degli Stati uniti sono paradossalmente molto simili, una sorta di “gemelli diversi”. Da entrambi per molto tempo ancora siamo destinati a vedere delle belle (ancorché pericolose ed inspiegabili a meno che non si impieghi un semplice ancorché ficcante realismo politico come quello da sempre mostrato da Gianfranco Campa) e buffe piroette … Massimo Morigi – 18 settembre 2017

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (versione integrale)

trump-merkelI DUE PROTAGONISTI

Di Donald Trump temo che continueremo ancora per mesi se non anni a sorbirci soprattutto i resoconti dettagliati dei suoi difetti o sedicenti tali; dalla maldestra improvvisazione alla ruvidità di modi, dall’affettata eleganza alla volubilità di giudizi, alla rozza ignoranza. Con il nobile intento di salvaguardare l’umanità da questo flagello, i campioni dell’informazione democratica, in particolare il NYT (New York Times) e il WP (Washington Post), dimentichi delle restanti cose del mondo, stanno da tempo concentrando la totalità degli sforzi in questa missione piegando ad essa fatti, realtà e soprattutto deontologia professionale. Con la stessa dedizione, ma con evidente minore fatica, gli innumerevoli corifei dell’informazione europea, pervasi da certezze assolute, non fanno altro che spandere a cuor leggero veline e veleni propinati dai capostipiti. Eppure almeno una caratteristica del Presidente Americano dovrebbe accomunare il giudizio dei pochi fautori e dei tanti detrattori del suo prominente impegno: la capacità di scatenare l’aperto spirito bellicoso anche nelle personalità più prudenti e discrete; tra queste, senza dubbio il Cancelliere tedesco.

Di Angela Merkel, nella vicenda delle intercettazioni americane delle sue conversazioni telefoniche, abbiamo apprezzato la capacità di accettare dal versante amico le peggiori intrusioni e umiliazioni senza alcun pregiudizio dei rapporti, in particolare quelli con Obama e senza apparenti sussulti di orgoglio; nella vicenda del milione di profughi siriani, invece il suo spirito di accoglienza talmente ecumenico da equivocare sulle profferte amorose del branco senza autorizzazione delle interessate, salvo cercare di rifilare con discrezione gran parte degli ospiti ai paesi vicini una volta constatata la loro difficoltà di inserimento e la loro preparazione professionale evidentemente non all’altezza delle aspettative; nella vicenda delle contraffazioni dei dati di emissione degli scarichi delle auto tedesche, abbiamo apprezzato la difesa pur tardiva dello spirito puritano a scapito forse dell’immagine di efficienza del sistema industriale e dei sistemi di controllo tedeschi. Il meglio della sua valenza di amministratrice, almeno sino a pochi mesi fa, è emerso nella vicenda del collasso della Grecia quando con mirabile quadratura è riuscita a conciliare l’aura puritana del rigore contabile con il trasferimento sui bilanci pubblici degli stati europei di gran parte delle esposizioni bancarie tedesche verso quel paese, con il consolidamento dei profitti finanziari delle stesse sul debito restante, con l’acquisizione di buona parte della rete logistica greca e, ciliegina sulla torta, con la vendita a caro prezzo all’esercito ellenico di residuati bellici presenti nei depositi della Bundeswehr. Si sa che le trattative politiche riservano come corollario quasi sempre il lato oscuro della meschinità. Nella graduatoria degli inperturbabili la statista tedesca non detiene certo l’esclusiva, di sicuro è in posizione di ascesa. Tra gli innumerevoli esempi, gli allora Generale Wesley Clark e Segretaria di Stato Madeleine Albright si concessero come bottino della missione umanitaria in Jugoslavja una partecipazione azionaria delle società minerarie del Kosovo; la stessa pletora di funzionari, accademici ed economisti americani e tedeschi accorsi al capezzale della moritura URSS e della nascitura Russia di Boris Eltsin ottenne di scambiare le proprie disinteressate consulenze con una partecipazione attiva al saccheggio di quel paese; per non parlare delle cointeressenze in Ucraina. Anghela, come un re Mida dei nobili principi, è riuscita a trasformare anche la meschinità in rigore risanatorio, sempre però con un profilo dimesso e discreto; da pudico comportamento collaterale a qualità volta al bene pubblico.

UN CONFRONTO PREMATURO

Durante il G7/G20 avviene inopinatamente la sua metamorfosi e la consacrazione da Maria Maddalena del cenacolo europeo ad angelo giustiziere dell’attentatore all’ordine mondiale.

Sono bastati pochi mesi dal gelido saluto al non ancora insediato Presidente Americano, alla imbarazzata visita a Washington per finire con la contrapposizione al G7 per passare da una immagine di capo di governo in verità un po’ dimesso, tutt’al più abile ad agire nell’ombra, a quella di statista orgoglioso in grado di contrapporsi apertamente al neopresidente e, aspetto ben più rilevante, di trasformare la Germania da paese in grado di approfittare in maniera surrettizia delle opportunità della globalizzazione a nazione paladina di questa virtù o in alternativa, secondo le interpretazioni, in grado di contrapporsi, assieme alla Cina, alla prepotenza e all’unilateralismo americano.

Da allora è tutto un fiorire di letteratura e di tesi sul destino manifesto di un paese, inesorabilmente portato a scontrarsi con la nazione egemone; quello che divide i sostenitori riguarda il probabile esito finale dello scontro, ma confronto comunque dovrà essere.

La redazione di Limes, autrice di una per altro pregevole monografia sull’argomento, è la portabandiera più autorevole di questa tesi.

Sono sufficienti pochi atti politici pubblici, concentrati in poche settimane, in aggiunta magari al proposito proclamato di costruzione di un sistema diplomatico e di difesa europei autonomo dagli USA, per promuovere l’attendibilità di una svolta politica così straordinaria?

Già la dinamica e la successione dei recenti eventi da adito a parecchi dubbi.

Intanto il tampinamento postpresidenziale di Obama e l’accoglienza trionfale a lui riservata a Berlino, all’esponente quindi che, assieme a Hillary Clinton, suo successore designato, ha cercato ostinatamente di arginare la tendenza al multipolarismo e di destrutturare gli stati viziati da proprie ambizioni autonome, svelano i legami inestricabili di dipendenza e compromissione con il vecchio establishment nonché le aspettative di ripristino dello “statu quo ante” del cancelliere tedesco. Il veemente appello alla crociata in difesa dell’accordo sul clima di Parigi e del libero mercato globalizzato sventolato al G7 di Taormina, ha mostrato per altro subito la corda al G20 di appena due mesi dopo lasciando in mano alla Merkel un vessillo ridotto ad un cerino consunto con alle spalle truppe scarse e poco convinte a difenderlo. Si potrebbe interpretare come un modo spregiudicato di condurre una danza del quale si possiede il filo conduttore della musica. Più che una condottiera dotata di forza propria in realtà si è rivelata lo strumento di uno schema più grande e complesso giocato per lo più Oltreatlantico. Lo stesso pulpito si è rivelato poco attendibile vista la recente propensione della Germania a limitare le acquisizioni cinesi in Europa rivelando così una evidenza chiara ancora a pochi eletti: il confronto sul libero mercato è una battaglia per determinare regole commerciali più favorevoli ad una o l’altra delle formazioni socieconomiche e ai loro centri dominanti all’interno di logiche geopolitiche operanti all’interno ma non riducibili ad un mero o assolutamente prevalente confronto economico. Una riduttivismo invece che ancora prevale oppure tende a riaffiorare surrettiziamente in gran parte delle tesi, anche nella monografia di Limes.

UN APPROCCIO EVENEMENZIALE

L’approccio evenemenziale presente in gran parte degli studi e soprattutto nella divulgazione mediatica tende a focalizzare e spettacolarizzare un particolare duello a discapito degli altri e dello sguardo d’insieme. Il tentativo stesso di Trump di reimpostare in maniera bilaterale i rapporti e le relazioni tra gli stati può indurre ad accentuare tale interpretazione particolaristica. Un tentativo che se inteso come strategia può trascinare alla rovina gli Stati Uniti e favorire uno sviluppo caotico e gravido di incognite del multipolarismo, ma con qualche possibilità in più, per le potenze intermedie, di assumere una propria peculiare fisionomia. In realtà l’adozione del modello di relazioni bilaterali è del tutto irrealistico e fuorviante perché prescinde dal naturale gioco di alleanze che si dipana nel conflitto politico e il cui successo presuppone proprio ciò che l’attuale svolta politica sta sentenziando inappellabilmente: l’inesistenza di un centro dominante indiscusso. Esso conduce in pratica alla stessa sterilità di chiavi interpretative del concetto di globalizzazione fondato sul movimento atomistico dei singoli agenti sul mercato e sul declino inesorabile del ruolo degli stati nazionali. Se adottato altrimenti come espediente tattico, come da probabile intendimento di Trump, può servire ad una destrutturazione del sistema attuale di relazioni in vista di una ricostruzione più controllata delle sfere di influenza, ma a determinate condizioni: che gli attori in grado di condurre il gioco siano limitati, che riconoscano una reciproca legittimazione e che abbiano un’idea sufficientemente precisa della delimitazione delle sfere di influenza. In un modo o nell’altro si tratta di un processo ormai irreversibile rispetto al quale la classe dirigente dominante tedesca sembra molto più temere le incognite ed apprezzare le attuali rendite di posizione che cogliere le incerte opportunità.

Profetizzare, come prevede la redazione di Limes, uno scontro aperto tra Stati Uniti e Germania pare quantomeno prematuro se non azzardato. E infatti, ad eccezione dei contributi esterni in realtà molto più cauti, gli articoli dei redattori suffragano la tesi sulla base di stereotipi ormai consunti.

Da una parte cerca di fondare l’ineluttabilità del conflitto sulla base dell’incompatibilità tra le due culture. In realtà la storia offre innumerevoli esempi di conflitti atroci e di durature alleanze tra paesi e centri strategici dalle culture difficilmente compatibili. Gli stessi Stati Uniti hanno combattuto almeno tre guerre aperte con il paese a loro culturalmente più affine, il Regno Unito. Negli Stati Uniti, lo rivela la stessa rivista, la componente più numerosa è appunto quella di origine tedesca e la sua cultura ha impregnato pervasivamente la formazione politica e sociale americana, pur affermando in esse una scarsa capacità lobbistica. Paradossalmente, secondo i redattori, una stessa identità culturale avrebbe quindi contribuito decisivamente a determinare la costruzione di una nazione e della sua classe dirigente e nel contempo l’ineluttabile conflitto con il paese di origine di quel ceppo, costituitosi in stato nazionale. Una tesi, quindi, fuorviante, versione edulcorata del più famoso ed altisonante conflitto di civiltà teorizzato da Huntington.

Dall’altra cerca di spiegare la dinamica inesorabile di questo conflitto attraverso il confronto asimmetrico tra il peso e la forza economica crescente del paese europeo e la pervasività e la forza politica di quello americano. Una dinamica che tenta di spiegare non solo le modalità del conflitto tra i due paesi ma anche la natura del dilemma che dovranno risolvere le classi dirigenti degli altri paesi, in particolare quello dell’Italia, di fronte alla alternativa posta della alleanza strategica con uno o l’altro dei contendenti. Un confronto quindi tra il peso militare, la capacità diplomatica e la pervasività dei servizi di intelligence da una parte e la solidità finanziaria, la capacità produttiva e la potenza commerciale dall’altra.

Una chiave esplicativa più sofisticata della prima, ma altrettanto fuorviante e non priva di evidenti punti oscuri e vere e proprie omissioni.

8maggio1945germania-770x300LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

1 13 14 15 16 17 19