LA REPUBBLICA DIMEZZATA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA REPUBBLICA DIMEZZATA

Ha suscitato un modesto interesse che la Corte di giustizia UE abbia condannato la Repubblica italiana perché (cito testualmente)  “Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni”.

Che l’interesse sia stato modesto lo si deve probabilmente da un lato al fatto che tutti sanno – anche se nei mass-media se ne legge poco – che i ritardi nei pagamenti dei creditori del settore pubblico sono enormi, molto peggiori di quanto risulti dagli atti citati dal Giudice europeo nella sentenza, dall’altro che le decisioni giudiziarie sui ritardi sono tante che non “fanno più notizia”.

Ciò stante, dall’arresto suddetto della Corte risulta che l’argomentazione dell’Italia per difendere la prassi (costante e reiterata) del ritardato adempimento (spesso di anni e talvolta di lustri) consisteva in ciò che (cito testualmente) “le direttive europee…non impongono, invece, agli stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi circostanza, dei suddetti termini da parte delle loro pubbliche amministrazioni. La direttiva 2011/7 mirerebbe ad uniformare non i tempi entro i quali le pubbliche  amministrazioni devono effettivamente procedere al pagamento… ma unicamente tempi entro i quali essi devono adempiere alle loro obbligazioni senza incorrere nelle penalità automatiche di mora”. Cioè non conta se il creditore è stato pagato, perché ad avviso della nostra Repubblica “non implicherebbe uno stato membro sia tenuto ad assicurare in concreto il rispetto di detti termini”… perché le “direttive non assoggettano…. lo Stato membro… ad obblighi di risultato, ma, tutt’al più ad obblighi di mezzi”. Traducendo tali espressioni tecniche in linguaggio più corrente, lo Stato membro europeo avrebbe l’obbligo di tradurre in norme nazionali le direttive U.E., ma se poi queste vengono aggirate o di fatto disapplicate dalle pubbliche amministrazioni o dai giudici, col lasciare i creditori “a becco asciutto” il tutto non darebbe adito ad alcun dovere né responsabilità dello Stato. Cioè i creditori dovrebbero essere appagati che il (loro) diritto al (sollecito) pagamento sia stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, che magari  sia stato anche statuito in altra sede, tuttavia, senza poter pretendere che lo Stato si attivi perché il pagamento sia effettuato. A parte la sottile quanto involontaria comicità di tale impianto argomentativo, dato che per i creditori veder riconoscere il proprio diritto al pagamento è qualcosa, ma essere pagati è tutto (mentre per la Repubblica italiana è il contrario), va esaminato non solo perché la prassi è reiterata, ma perché rientra nel dibattito sul sovranismo (o meglio sulla sovranità) tanto demonizzata.

Lo stato moderno è responsabile in linea generale dell’applicazione del diritto sul proprio territorio. Scriveva (tra i tanti) un maestro del diritto internazionale come Triepel che, in caso di violazione di un diritto garantito da norme internazionali “per quanto lo Stato col mantenersi inattivo verso chi lede un altro Stato non diventi complice di costui, è tuttavia esatto dire che è responsabile se non procede contro di lui”. E ciò avviene perché “la responsabilità ha nel nostro caso un carattere schiettamente territoriale, essa è conseguenza necessaria della sovranità territoriale… tale responsabilità è giustificata dal fatto che determinati interessi furono lesi entro la cerchia cui si estende la esclusiva sovranità di uno Stato”.

Onde lo Stato è responsabile anche per gli atti dei suoi organi; degli enti pubblici e comunque “per la condotta delle persone che ha investito di una pubblica funzione” sia che abbiano commesso atti illeciti che leciti (secondo il diritto internazionale). Le norme che consentono di sanzionare i funzionari che li abbiano commessi secondo il giurista tedesco “costituiscono diritto internazionalmente indispensabile”.

Diversamente da quello che pensano gli adepti del “politicamente corretto” è proprio la sovranità territoriale a garantire non solo l’esistenza politica delle comunità umane, ma anche l’effettiva applicazione del diritto; e così a prendersi carico dei relativi obblighi e responsabilità, sia che derivino da fonti del diritto interne che internazionali. Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”. È questo un aspetto peculiare dello Stato moderno che consiste anche di un’organizzazione di applicazione del diritto, la cui funzione è di rendere reali e concreti i diritti enunciati nella legislazione o comunque vigenti. Diversamente dalle monarchie feudali in cui la realizzazione delle pretese era spesso rimessa agli interessati medesimi (così, in genere, come nelle forme arcaiche di ordinamenti politico-sociali).

Situazione pericolosa. Lo Stato moderno, anche per questo, conquistò oltre al monopolio della violenza legittima, quello dell’applicazione del diritto (ne cives ne arma ruant). che non è il monopolio del diritto, giacché questo è generato in parte considerevole, spesso la più importante, non da organi statali: ma è quello della sua concreta esecuzione e realizzazione.

Se la Repubblica si difende in giudizio sostenendo che non è suo compito assicurare che il diritto sia realizzato, vuol dire che sta regredendo verso forme pre-moderne di ordinamento: o meglio che è in de-composizione. Come, in effetti, è ogni Stato che non pretende di essere sovrano.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Wellingtoniana e… Salviniana, di Piero Visani

Wellingtoniana e… Salviniana

       Dal momento che mi pare di capire – da certi comportamenti – che non solo si intende insistere in strategie comunicative totalmente errate, ma si vuole pure accentuarle, ricorrerò all’aneddotica, soluzione immaginifica adatta a penetrare (forse…) nelle menti più semplici e meno provvedute…
       Notte fra sabato 17 e domenica 18 giugno 1815. Piana di Waterloo. La giornata è stata afosa e il calare delle tenebre non ha portato refrigerio. Qualche tuono annuncia che presto potrebbe scoppiare un temporale anche di forte intensità, ma per il momento ancora si fa attendere.
       Nel quartier generale britannico, nei pressi di Mont Saint-Jean, gli aiutanti di campo (molti dei quali giovani e giovanissimi rampolli della nobiltà inglese) e gli ufficiali subalterni si affollano intorno al loro comandante, il duca di Wellington, certamente per trarre conforto e sicurezza dalla sua calma glaciale. Per alcuni, che per ragioni anagrafiche non avevano potuto prendere parte alla Guerra Peninsulare in Spagna e Portogallo (1808-1814) contro i francesi, quella che si annunciava per l’indomani era la prima grande battaglia della loro vita (e per non pochi di essi sarebbe stata anche l’ultima…)
       Il desiderio di avere indicazioni su cosa sarebbe potuto accadere il giorno dopo era troppo forte, per cui i più audaci azzardarono a chiederlo al loro comandante: “Vostra Grazia, che cosa accadrà domani?”.
       Con il suo consueto, nobiliare distacco, il “Duca di ferro” [così era soprannominato] li guardò con l’aria serena di un comandante che di battaglie ne aveva vinte molte, contro i francesi, e rispose: “Verranno su alla solita vecchia maniera [si riferiva al fatto che i francesi erano soliti attaccare in colonne di battaglione, invece che in linea] e noi li batteremo alla solita vecchia maniera” [vale a dire con i reparti schierati in linea, che potevano sviluppare un volume di fuoco nettamente superiore a quello dei francesi, come era accaduto a partire dalla battaglia di Maida, in Calabria, nel 1806, ed era continuato per tutta la Guerra Peninsulare, senza che i comandanti francesi – salvo pochissime eccezioni – si accorgessero della natura del problema].
       Questo accadde puntualmente anche il giorno dopo, a Waterloo.
       L’aneddoto serve solo a ricordare che l’iterazione di tattiche e strategie già dimostratesi perdenti in varie occasioni, specie quanto si va all’attacco di gente molto abile nella difesa, serve solo a perdere una volta di più e forse sarebbe meglio cambiarle. Forse…

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione, di Andrea Zhok

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione
tratto da facebook

1) Lo scenario contemporaneo
Due grandi tendenze caratterizzano la politica dell’ultimo quarto di secolo nel mondo occidentale. La prima, e più importante, è rappresentata dal trionfo del modello liberale con i connessi processi di globalizzazione; e in maniera concomitante, dalla crescita di reazioni di rigetto di tali processi (dai ‘no-global’ degli anni ’90, al ‘populismo’ e ‘sovranismo’ odierni).
La seconda tendenza, derivativa, è una crisi profonda delle categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’; tale crisi si è manifestata sia come ‘crisi d’identità’ che in cortocircuiti e ribaltamenti concettuali, dove posizioni tradizionalmente ascrivibili alla ‘sinistra’ sono state assimilate dalla ‘destra’ e viceversa.
Questi due processi vanno intesi insieme e sono parte di una medesima configurazione. La prima tendenza è quella strutturalmente portante e definisce il carattere della nostra epoca, come epoca del trionfo della ‘ragione liberale’ (e della sconfitta del suo principale competitore storico, dopo la caduta del muro di Berlino). In mancanza di avversari la ragione liberale ha accelerato le tendenze di sviluppo interne, e segnatamente i processi di movimentazione globale di merci, forza-lavoro e capitale. Quest’accelerazione ha riportato alla luce i limiti del progetto politico liberale e capitalistico, che dopo la crisi finanziaria del 2008 appaiono manifesti a chiunque non sia ideologicamente accecato.
Il rimescolamento odierno delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’ è un effetto diretto dell’apogeo, e della concomitante crisi, della ragione liberale. Una chiara manifestazione ne è stato lo scivolamento negli anni ’80 e ‘90 della ‘sinistra’ occidentale (comunisti e socialisti) su posizioni liberali, facendo proprie le istanze di ciò che fino a poc’anzi era il ‘nemico’. Ciò è avvenuto facendosi carico dell’intero blocco ideologico liberale, dalla tradizione dei diritti umani, al libertarismo individualista, dalla contestazione dello Stato, alla venerazione delle libertà di mercato. Solo alcune minoranze della ‘sinistra’ tradizionale hanno continuato, con non pochi imbarazzi e ambiguità teoriche, a tener fermi alcuni punti di contestazione al blocco liberal-capitalistico. Simultaneamente, il vuoto nella rappresentanza di istanze anticapitalistiche e antiliberali prodotto dalla defezione della ‘sinistra’ ha fatto spazio ad una sua parziale appropriazione da parte della ‘destra’.
Questo duplice processo di riposizionamento sta trasformando il paesaggio politico tradizionale, ma il tutto si sta svolgendo in una cornice di opacità e scarsa consapevolezza, che nasconde il carattere strutturalmente obsoleto delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’. Finora chi ha osato denunciare tale obsolescenza è stato tacciato di ‘qualunquismo’ o di ‘tradimento’, in un pervicace rifiuto di riconoscere uno stravolgimento già avvenuto. In molti rimangono abbarbicati a simulacri delle vecchie categorie, oramai scarnificate o ‘geneticamente modificate’, senza voler riconoscere che la realtà si è lasciata alle spalle quelle forme, come un serpente la sua pelle. A sinistra, dove l’esplicitazione dell’apparato teorico è stata storicamente più definita, l’irrigidimento delle posizioni appare particolarmente persistente, con l’aggrapparsi ansioso ad una coperta di Linus fatta di parole d’ordine e riflessi condizionati. La minore elaborazione teorica della destra si è rivelata, in questa fase, un paradossale vantaggio, consentendo aggiustamenti di tiro più pragmatici (o semplicemente più opportunisti).
Il processo cui stiamo assistendo è dotato di una logica storica ferrea, che però deve trovare riconoscimento teorico, e rappresentanza politica, per superare l’attuale situazione di incertezza e paralisi. Ciò cui assistiamo oggi è la faticosa ricomposizione di quel mondo umano che il modello liberal-capitalistico ha progressivamente marginalizzato. Tale ricomposizione deve avvenire recuperando in un’immagine unitaria le contestazioni della ragione liberale presenti tanto nella tradizione ‘di destra’ che in quella ‘di sinistra’.
2) Le radici storiche
Il modello liberal-capitalistico ha poco più di due secoli nell’Europa continentale e solo qualche decennio di più in Inghilterra, dove mosse i primi passi. In Europa il suo imporsi passò attraverso lo spartiacque, determinante quanto ambiguo, della Rivoluzione francese, che fu anche il contesto in cui vennero alla luce le categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’.
Come noto, questa distinzione nacque nell’Assemblea Nazionale Costituente del 1789, a partire dalla posizione fisica dei gruppi rispetto al presidente: alla sua destra stavano monarchici, conservatori e tradizionalisti, mentre filorivoluzionari e illuministi stavano alla sinistra. Successivamente, nell’Assemblea Legislativa del 1791, la destra venne assegnata ai fautori della monarchia costituzionale – che accettavano l’abolizione del feudalesimo –, e la sinistra ai repubblicani seguaci delle idee dell’Illuminismo (Giacobini, Cordiglieri, Girondini, ecc.).
L’evoluzione interna del processo rivoluzionario portò alla luce ben presto una discrasia interna alla parte vincente, cioè alla ‘sinistra’. Schematicamente, l’opposizione alle gerarchie di sangue dell’Ancien Régime iniziò a mostrare una divaricazione tra chi intendeva sostituirle con una gerarchia di censo e chi intendeva sostituirle con una società egalitaria. Le istanze egalitarie, che persero terreno dopo il 1794, riemersero in varie forme di neogiacobinismo dopo la Restaurazione, ricevendo una nuova investitura con l’opera di Karl Marx, in cui l’egalitarismo usciva dall’astrattezza giacobina e prendeva la veste chiarificatrice di una richiesta di giustizia sociale, nella cornice di una critica ai meccanismi di produzione e riproduzione del capitale.
Il modello liberal-capitalistico si impose in Europa, nella scia della Rivoluzione francese, come presa del potere da parte della borghesia (che rappresentava allora una minoranza della popolazione, inferiore al 10%). Ad essa nel corso dell’800 si opposero dunque un fronte conservatore e tradizionalista (destra), e un fronte egalitario (frazione dell’originaria ‘sinistra’). La loro diversa genesi tenne l’antiliberalismo della destra e quello della sinistra (socialista e comunista) a distanza nel corso dell’intero XIX secolo e per parte del XX. Per tutta la prima metà del XIX secolo – la ragione liberale ebbe motivazioni storiche potenti per imporsi, presentandosi come una necessità storica dotata di un carattere ‘progressivo’ che né l’egalitarismo di ‘sinistra’, né il tradizionalismo di ‘destra’ potevano vantare.
Nella seconda metà del XIX secolo l’elaborazione marxiana fornì alla ‘sinistra’ antiliberale un potente strumento di analisi che, identificando il ruolo fondamentale del capitale, consentiva di approntare politiche popolari strutturate. È su questa base che il movimento socialista poté espandere la sua base di consenso nel corso dell’800, fino a divenire una concreta minaccia per il modello liberal-capitalistico.
Diversa fu la storia dell’antiliberalismo di destra, nel cui ambito non vi fu una figura di impatto comparabile a quello di Marx, e la cui impronta ab origine antirivoluzionaria (e antipopolare) lo relegò a lungo in una posizione di opposizione tendenzialmente aristocratica ed elitista. La mancanza di una teorizzazione dominante lasciò tuttavia spazio ad una varietà di posizioni, che oscillavano dal tradizionalismo, al conservatorismo religioso, al nazionalismo, al populismo, al darwinismo sociale spenceriano, all’individualismo nietzscheano. Questa minore definitezza teorica ha spesso consentito alla destra di adattarsi alle circostanze in maniera pragmatica (od opportunistica), come visibile nella parabola fascista, dove tutte le istanze citate, per quanto in contraddizione tra loro, riuscirono a trovare spazio.
D’altro canto, tanto nella tradizione di destra che in quella di sinistra hanno trovato posto forme di assimilazione del paradigma liberal-capitalistico.
A destra ciò è avvenuto precocemente, rigiocando la concezione gerarchica della società, originariamente di matrice aristocratica, in chiave di gerarchizzazione economica: il darwinismo spenceriano e versioni divulgative del superomismo nietzscheano hanno fornito spesso il pretesto per assimilare istanze capitalistiche. Un’ampia parte della tradizione di destra, a partire da fine ‘800 ha rivestito il capitalista vittorioso (‘padroni del vapore’ o ‘maghi della finanza’ che fossero) dei panni dell’eroe guerriero: Shylock che recita Sigfrido.
A sinistra l’assimilazione di istanze liberali avvenne più tardi, una volta venuta meno la fiducia nella lezione marxiana, ma a quel punto essa avvenne con grande radicalità, rendendo nell’ultima parte del XX secolo pressoché indistinguibili posizioni liberali e posizioni ‘di sinistra’.
Ma tanto nell’ambito della destra quanto in quello della sinistra ha continuato a sussistere una dimensione, minoritaria ma viva, di consapevole contestazione del modello liberal-capitalistico.
3) Parzialità strutturali e il dovere di superarle
Tanto la tradizione antiliberale di destra, che quella di sinistra sono naufragate più volte contro limiti e parzialità delle rispettive letture della realtà. Ma percepire dei limiti non è di per sé ancora sufficiente a definire un orizzonte di superamento.
D’altro canto chi aderisce al modello liberal-capitalistico non vede alcuna necessità di ‘superare destra e sinistra’, perché ne considera le versioni antiliberali meri tratti folcloristici finiti nella “pattumiera della storia”, e ne contempla come concrete solo le varianti liberali, che sono espressioni essenzialmente intercambiabili del modello dominante (il ‘bipolarismo’ politico degli ultimi decenni ne è chiara testimonianza).
La percezione, spesso acuta, della necessità di superare le parzialità della ‘destra’ e della ‘sinistra’ tradizionali non è di per sé sufficiente a produrre una sintesi feconda. Confuse evocazioni di ‘incontri a metà strada’, e formule ad effetto tipo “valori di destra, idee di sinistra” lasciano il tempo che trovano, finché non se ne determinano gli specifici punti ciechi.
Alla tradizione della destra antiliberale è mancata l’analisi marxiana e post-marxiana. Essa ha perciò sofferto di tre fondamentali tendenze: 1) a sottovalutare la capacità delle condizioni economiche di determinare i rapporti di potere, interni ed esterni; 2) a sottostimare l’impatto dell’educazione e della cultura sulle disposizioni umane; 3) a misconoscere la diversificazione degli interessi di classe e la loro essenziale divergenza in una cornice capitalistica. Nonostante alcuni autori di matrice marxista, come Gramsci, siano stati in parte recepiti da minoranze della riflessione di destra (es.: Alain De Benoist), questa dimensione analitica resta subottimale nella ‘destra sociale’, e ciò ne limita la capacità di avere una visione pienamente realistica della società e di incidere sui processi capitalistici.
Alla tradizione di sinistra, sulla scorta del suo originario innesto nell’universalismo illuminista, è mancata un’adeguata comprensione del significato antropologico di tre fattori: 1) il radicamento territoriale; 2) l’appartenenza alla natio (famiglia, comunità, stato-nazione); e 3) l’adesione ad un éthos (costumi, tradizioni, cultura materiale). Nonostante in Marx, sulla scorta di Hegel, ci sia un apparato teorico capace di fare spazio a questi fattori, tale dimensione è rimasta ambigua nelle pagine marxiane, e successivamente verrà marginalizzata con l’assimilazione del socialismo scientifico in chiave positivistica. Tanto il socialismo nel XIX secolo, che il comunismo nella prima parte del XX secolo, manterranno comunque aperta la porta a questa dimensione etica di radicamento e appartenenza, che fa capolino in intellettuali come Gramsci e Pasolini. Tuttavia dopo il ’68 la componente libertaria e individualistica avrà la meglio, espellendo l’idea stessa di ‘comunità’, così cruciale alla tradizione ideale del ‘comunismo’ – che precede di molto Marx – dal novero delle idee ‘di sinistra’.
Lo scarso credito che oggi caratterizza l’antiliberalismo di ‘sinistra’ e quello di ‘destra’, separatamente presi, è dovuto alle loro strutturali parzialità, emblematicamente rappresentate dall’insuccesso dei comunismi e dei fascismi storici. Sul piano simbolico (sospendendo il piano della realtà storica, molto più articolato e complesso) i comunismi-socialismi realizzati sono percepiti come appiattimento individuale e ateismo di stato, mentre i fascismi come prevaricazione violenta, irrazionalismo e intolleranza. In entrambi i casi questa approssimazione simbolica segnala un fondo reale.
L’ispirazione comunista-socialista ha sofferto di un fondamentale punto cieco, nell’assumere una visione astratta dell’umano, di matrice illuminista. In questa visione il razionalismo si tradusse frequentemente in riduzionismo scientifico e laicismo forzoso, dove l’uomo sottratto alla dimensione storico-tradizionale e a quella spirituale veniva uniformato e semplificato. Ciò prese la forma a fine ‘800 di una ‘naturalizzazione’ dell’uomo secondo un modello positivista e riduzionista, modello profondamente inadeguato a fornire una spinta motivazionale e un’adesione affettiva duratura alle aggregazioni sociali. Tale astrattezza si palesa già nella difficoltà teorica per le riflessioni marxiane di attribuire contenuti positivi al comunismo a venire: la definizione del comunismo come “movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti” ne rivela in trasparenza il carattere essenzialmente negativo. Questa labilità della matrice socialista/comunista nell’istituire un’adesione partecipativa profonda può essere scorta in filigrana – al netto di un’ovvia semplificazione storica – in molti momenti decisivi della sua storia. L’impotenza dei partiti socialisti di opporsi all’empito nazionalista che fece da volano alla Prima Guerra Mondiale ne mostrò drammaticamente un aspetto. La scarsa ‘fidelizzazione’ delle popolazioni sotto il ‘socialismo reale’, una volta venute meno le esigenze di guerra, ne fu un’altra espressione. L’involuzione delle ‘sinistre’, fino all’odierno ‘sconfittismo’, una volta venuta meno la fiducia nel modello critico marxista, dopo il ’68, ne è una terza espressione. Finché c’è un nemico, la componente critico-negativa dell’apparato socialista-comunista può rappresentare da sola un collante sufficiente, ma in mancanza di questo ruolo oppositivo l’adesione promossa da un paradigma positivista e riduzionista risulta fragile. Per quanto questo problema non sia strettamente imputabile alla concettualizzazione marxiana, che rimane nell’essenza umanista e storicista, esso è stato spesso caratterizzante degli sviluppi storici socialisti/comunisti.
L’ispirazione di destra ha invece sofferto di un differente punto cieco, anch’esso discendente dalla mossa originante che la mise al mondo: l’originaria ostilità al razionalismo illuminista si sviluppò spesso in generico irrazionalismo e anti-intellettualismo. Quest’aspetto ha preservato la destra dal riduzionismo e dall’astrattezza positivista, ma l’ha spesso consegnata al mero pregiudizio. Questa permeabilità al pregiudizio, al convincimento prerazionale e prescientifico, è alla radice dei suoi due principali difetti storici. Da un lato, l’aspettativa che le diversità di fondo, i contrasti, siano razionalmente inestricabili ha promosso una propensione alla ‘sbrigatività semplificatoria’ che non di rado è sfociata in violenza o prevaricazione, vissute come necessità di tagliare nodi gordiani razionalmente indissolubili. Dall’altro lato, lo spazio lasciato al giudizio pre-analitico, al pre-giudizio, ha aperto le porte a scivolamenti nella xenofobia e nel razzismo. Per quanto il rigetto da destra delle astrazioni illuministe e dello scientismo sia perfettamente compatibile con un’idea forte di razionalità (ad esempio quella hegeliana), questa tendenza irrazionalistica ha spesso preso il sopravvento nelle prospettive di destra.
Queste due parzialità spiegano anche i modi specifici in cui la teoria liberale ha potuto assimilare di volta in volta talune istanze sia di destra che di sinistra. La ragione liberale è infatti caratterizzata dalla giustapposizione di due errori complementari. Da un lato promuove una visione dell’umano ridotto ad un’individualità impermeabile e irriducibile, sottratta a valutazioni razionali, una scatola nera come agglomerato di desiderata insindacabili, di pulsioni che si esprimono in meri atti di preferenza. Dall’altro lato essa promuove una visione della natura (mondo) come luogo governato da leggi rigorose e inviolabili (fisiche o economiche), leggi che pongono la natura come mero materiale a disposizione, anonimo strumento dominabile attraverso cause e computazioni. La prima posizione, che possiamo chiamare di “individualismo a-razionale”, ha dato ospitalità ad alcune istanze di destra, mentre la seconda, che possiamo chiamare di “naturalismo riduzionistico e costruttivista”, è risultata compatibile con alcune istanze di sinistra.
È importante sottolineare come l’antiliberalismo ‘di destra’ e quello ‘di sinistra’ siano accomunati proprio nell’opposizione a questi due pilastri della concettualità liberale. Entrambi infatti assumono una base ‘umanistica’, per cui esiste una ‘essenza dell’umano’, irriducibile all’individuale, che consente di definire ciò che è giusto o ingiusto, ciò che è di valore o disvalore. Ed entrambi assumono l’idea di una natura dotata di valore e sviluppo (una storia), e che non è semplicemente ‘a disposizione’ come strumento per finalità arbitrarie.
4) Necessità e difficoltà di una nuova direzione
Il tacito presupposto di tutto quanto precede è l’identificazione del ‘nemico’ in questa fase storica. Per chi scrive (per ragioni che troveranno esplicitazione in un lavoro di prossima uscita), il problema strutturale dell’epoca che abbiamo la ventura di vivere è rappresentato dalla necessità inderogabile di superare il modello liberal-capitalistico, modello che ha esaurito la sua spinta storica propulsiva e che ora comincia a divorare sé stesso, avvelenando simultaneamente tutto ciò che lo circonda, uomini e natura, valore e senso, storie e speranze.
Il modello di società liberal-capitalistico, pur presentando linee di rottura molteplici, possiede, come tutti i sistemi storici consolidati, grande inerzia e resilienza. Non basta segnalarne i gravi problemi per decretarne il superamento, ma è necessario disporre di un’offerta politica con un’alternativa che permetta di percepire per contrasto l’intollerabilità del sistema vigente.
Ciò significa che vanno riconosciuti i modi fondamentali dell’influsso dell’economia sulla società (alienazione, sfruttamento), che vanno denunciati i meccanismi di ricatto economico su individui e gruppi, che va compreso come la mercificazione operi in profondità nel disgregare soggetti e forme di vita. Al tempo stesso bisogna comprendere come ciascun soggetto sia pienamente ciò che è in quanto nato e cresciuto in uno specifico contesto: famigliare, territoriale, linguistico, culturale, materiale; e che tale appartenenza ne definisce in parte significativa l’orizzonte valoriale e il senso. Bisogna comprendere che tanto l’identità individuale quanto l’identità collettiva rappresentano fattori determinanti nella definizione di ciò che di volta in volta è ‘di valore’, e che perciò svuotare tali identità nel nome di un’umanità astratta composta di individui idiosincratici e, di principio, mutuamente estranei è non solo un errore teorico, ma una fondamentale minaccia al senso che gli uomini conferiscono alle proprie esistenze.
Questo significa che una politica che voglia rappresentare un’alternativa al modello dominante deve far posto a idee e valori che si sono trovate storicamente su versanti differenti: giustizia sociale, solidarietà, redistribuzione, comunità, appartenenza, identità, lealtà, onorabilità, riconoscimento, senso dello Stato e amore per la propria terra. Si tratta di una costellazione di nozioni non soltanto internamente compatibili, ma fondamentalmente coessenziali, e strutturalmente alternative a tutte le tendenze di fondo del modello liberal-capitalistico.
Molti problemi contingenti si oppongono a questa esigenza, pure inderogabile. Ne voglio menzionare qui solo uno, apparentemente minore, e tuttavia insidioso, che probabilmente continuerà ad ostacolare a lungo la creazione di una sintesi capace di superare le parzialità storiche di ‘destra’ e ‘sinistra’. Non si tratta di una difficoltà teorica, ma squisitamente psicologica. Ciascuna tradizione ha avuto, ed ha, le sue letture preferenziali della storia, in cui ha collocato sia i propri ‘eroi indiscussi’ che le sue ‘figure controverse, ma difendibili’. La ricostruzione storica in forme convenienti, proiettandovi le proprie ragioni e i torti altrui, è sempre stata una forma influente per creare un senso di gruppo e una sfera di mutuo riconoscimento. Due secoli di evoluzione politica su binari paralleli ha creato dei ‘pantheon’, negativi e positivi, costruiti per essere mutuamente incompatibili.
Ora, fino a quando le prospettive antiliberali di destra e di sinistra si incontrano sul terreno dell’analisi del presente e sulla progettazione di prospettive future, non vi sono ragioni sostanziali perché esse non possano conciliarsi, creando anzi una sintesi assai più potente delle sue parti. Ma nel momento in cui esse confrontano le proprie narrazioni storiche e i relativi ‘pantheon’, lo scontro è sempre latente. (Questa insidia è peraltro ben presente anche all’interno della stessa storia della ‘sinistra’, dove il ‘pantheon’ socialista e quello comunista sono ben lontani dal coincidere.) Ci sono figure e personaggi storici costruiti in modo da suscitare la semplice immediata repulsione in un gruppo mentre magari sono stimati, o almeno giustificati, nell’altro. Ci sono letture degli eventi articolate e consolidate che confliggono senza scampo. Per quanto la freddezza dell’analisi storica possa in linea di principio restituire ragioni e torti, riconfigurare luci ed ombre di qualunque figura del passato, è dubbio che tale differenza di retroterra possa essere liquidata con facilità. La nascita di una prospettiva politica che superi destra e sinistra in una chiave critica del modello liberale è una necessità storica, ma l’esatta forma in cui ciò potrà avere luogo appare ancora piena di incognite.

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura (dall’avere all’essere), Ed. Arianna 2019, pp. 159 € 15,00

È inconsueto leggere nel “proemio” del libro che “Al liceo e all’Università mi hanno insegnato che la guerra è la continuazione della politica, con altri mezzi; adesso insegno che l’economia può essere la continuazione della guerra, con vari mezzi”. Il che significa: a) che la politica – e il politico – è determinante; b) che l’economia riproduce – e spesso serve – le stesse distinzioni e finalità del politico. Cioè crea (e supporta) inimicizia ed amicizia, situazioni di comando ed obbedienza. Cosa ovviamente nota al pensiero moderno da Marx a Weber, Schmitt o Wittvogel, ma dimenticata da quello contemporaneo per cui l’economia (lo sviluppo economico) dovrebbe avere come effetto di eliminare il dominio, pacificare, e così subordinare il politico.

L’esprit de commerce limita l’esprit de comquete: che la considerazione di Constant non fosse una regolarità, ma solo una possibilità, più probabile dopo la rivoluzione francese che qualche secolo prima, lo provano, dopo la morte del pensatore di Losanna, le guerre imperialistiche che hanno connotato – in parte – il XIX e XX secolo. Nello stesso periodo, il raggruppamento amico/nemico è stato, almeno fino al collasso del comunismo, determinato (per lo più) da una scriminante economica: la proprietà o meno dei mezzi di produzione.

In tale prospettiva è chiaro che servirsi sempre di moneta a debito – com’è quella che l’istituto d’emissione presta allo Stato – può non essere opportuno, specie in situazioni di crisi. Ricorda Galloni “durante la Prima Guerra Mondiale il Ministro del Tesoro del Regno Unito, trovandosi in difficoltà, scelse di emettere sterline non a debito (non fornite dalla Banca d’Inghilterra), così risolvendo un enorme problema per il suo Paese (e non si può negare che ciò abbia contribuito alla conclusione positiva delle belligeranze per il suo Paese … eppure funzionò” e potrebbe ancora funzionare.

Onde l’economista propone di emettere moneta a sola circolazione nazionale, non convertibile, come mezzo per uscire dalla crisi. Mesi fa, polemizzando con Draghi il quale aveva sostenuto – mal applicando l’albero di Porfirio (la c.d. “divisione esauriente”) e riferendosi ai mini-Bot proposti dalla Lega che questi o sono illegali o generano ulteriore debito – che non era vero né l’uno né l’altro. Infatti perché fossero illegali occorrerebbe che fossero vietati da una legge o un Trattato: ma il Trattato di Lisbona non li vieta. Che aumentino lo stock di debito non è neanche vero, nella proposta leghista, perché da un lato sono liberamente accettati dal creditore, il quale lo fa perché opta di essere pagato subito con quelli e non anni dopo con l’euro. D’altra parte se il creditore li gira in pagamento a qualche (proprio) creditore, anche in tal caso il terzo può liberamente accettarli o meno. Il tutto fu (ampiamente) sperimentato in Germania negli anni ’30 con un mezzo simile: le cambiali MEFO (garantite dallo Stato). Scriveva Schacht, il quale tale sistema aveva ideato e realizzato, che data la garanzia del Reich e il buon saggio d’interesse, gran parte delle cambiali finirono per essere girate a terzi o detenute in attesa della scadenza, piuttosto che presentate per lo sconto alla Reichsbank.

L’effetto (anche) delle cambiali Mefo fu di finanziare gli enormi investimenti pubblici del Terzo Reich (compreso il riarmo). Anche in tal caso “funzionò”. Ma contro tali strumenti alternativi si ricorre ad ogni genere di esorcismo anche a quello della logica.

Dimenticando quello che l’Europa (tanto amata) ci ricorda sempre, da ultimo con la sentenza della Corte UE del 28 gennaio: che i debiti vanno pagati. e alla scadenza. L’inverso di quanto praticato dalla finanza (piddina soprattutto) della seconda repubblica.

Peraltro nascondendo che di tali – o simili – mezzi alternativi d’estinzione delle obbligazioni si era fatto uso con risultati positivi. Dato però che l’assetto di potere economico oggi prevalente è diverso, occorre non intaccarlo. E con buona pace dell’ “ottimo” economico, torniamo così al rapporto di dominio.

Teodoro Klitsche de la Grange

Vittorie perdute, di Roberto Buffagni

Vittorie perdute[1]

 

Cari Amici vicini & lontani,

proviamo a fare il punto della situazione dopo le elezioni regionali del 26 gennaio. Vi propongo una ipotesi di lavoro, questa.

Per uscire dall’angolo morto in cui si è ridotta provocando, in agosto, la crisi del governo gialloverde, la Nuova Lega nazionale di Matteo Salvini ha trasformato le elezioni regionali in Emilia Romagna in un referendum sul proprio progetto, sul governo giallorosa, e sulla persona, o meglio sul personaggio del “Capitano”.

Obiettivo politico, il medesimo perseguito e fallito con l’apertura agostana della crisi: delegittimando il governo in carica e disgregandone la coesione, costringere il Presidente della Repubblica a indire le elezioni politiche,  per trasformare i vasti consensi a proprio favore in voti politicamente efficaci e conquistare maggioranza relativa parlamentare e governo della nazione.

Nonostante un successo elettorale ragguardevolissimo in territorio tradizionalmente sfavorevole al centrodestra, per la seconda volta la Nuova Lega ha fallito l’obiettivo politico che s’era proposto, e ha probabilmente raggiunto il punto culminante della vittoria: il momento in cui l’attaccante, procedendo nell’avanzata, “si trova ad aver perso la propria superiorità iniziale, stabilendosi un equilibrio tra le sue capacità offensive e quelle difensive del difensore. Oltre il punto culminante della vittoria, i rapporti di forza divengono favorevoli al difensore[2] e quest’ultimo acquista una capacità offensiva sufficiente ad annientare l’attaccante.[3]

E’ un’ipotesi di lavoro che mi pare valga la pena di esser presa in considerazione, se si pensa che:

  1. Con il successo difensivo in Emilia Romagna, il PD e il “partito delle istituzioni” hanno guadagnato tempo preziosissimo (almeno un anno) per riconfigurare le proprie forze, migliorarne la coesione, logorare l’avversario Salvini, dividere la coalizione di centrodestra; e soprattutto, si sono garantiti la possibilità di decidere le nomine delle partecipate ed eleggere il regista della politica italiana, il Presidente della Repubblica: vale a dire, la possibilità di determinare l’orientamento di fondo della politica italiana nei prossimi anni, persino nel caso di una vittoria del centrodestra alle prossime elezioni politiche.
  2. Per la seconda volta consecutiva nel giro di pochi mesi Salvini ha perseguito lo stesso obiettivo con gli stessi metodi, l’ accumulazione del consenso per mezzo di una instancabile attività di propaganda, e per la seconda volta consecutiva ha fallito; mentre il suo avversario principale (PD + “partito delle istituzioni”) ha dato prova di un’apprezzabile capacità di imparare dai propri errori, adattare e rinnovare le proprie tattiche, cercare nuove alleanze, profittare degli errori dell’avversario.

Salvini, insomma, ha per due volte ceduto l’iniziativa all’avversario: la prima volta, in agosto, facendogliene un vero e proprio insperato regalo quando esso era debole, diviso, disorientato, scosso da una seria crisi intestina; la seconda volta, in gennaio, provocandolo a battaglia campale anche simbolicamente decisiva sul terreno a lui più favorevole, e perdendola dopo aver condotto molto male le operazioni.

Perché Salvini ha condotto molto male le operazioni nella battaglia per l’Emilia Romagna? Qui elenco solo alcuni tra i più vistosi errori tattici del “Capitano”.

  1. Delegittimare la candidata Lucia Borgonzoni accompagnandola ovunque come il papà accompagna una bambina timida e ansiosa il primo giorno di scuola elementare (errore direttamente conseguente alla scelta di trasformare le elezioni emiliano-romagnole in un referendum Salvini Sì/Salvini No, nel quale i candidati leghisti, Borgonzoni in testa, erano solo comparse)
  2. Annunciare a gran voce che il Capitano veniva da via Bellerio, Milano, “a liberare” l’Emilia Romagna dall’oppressione della sinistra e/o, a seconda delle versioni, “dei comunisti”, programma senz’altro gradito ai molti elettori ex-comunisti che già avevano votato Lega, o che ci stavano facendo un pensierino; e che si parva licet, ha incontrato lo stesso successo dell’esportazione della libertà e della democrazia in Iraq o in Afghanistan da parte degli USA.
  3. Espiantare dalla propaganda ogni parvenza di argomentazione razionale e progettazione politica, locale e nazionale, sostituendovi mozioni dei sentimenti, buoni e cattivi, e bagni di folla corredati di digressioni foto-gastronomiche (errore direttamente conseguente alla rinuncia ad affrontare seriamente il tema dei rapporti con la UE, cioè la fondazione razionale della protesta che ha valso a Salvini la moltiplicazione dei consensi)
  4. Millantare un atteggiamento di aggressività popolaresco-squadrista: capolavoro, la citofonata minacciosa in favore di telecamere al presunto spacciatore tunisino del quartiere Pilastro, a Bologna; quando (per fortuna) la Lega non ha né la voglia, né la capacità di fare sul serio dello squadrismo o del vigilantismo.
  5. Far candidamente annunciare alla candidata Borgonzoni la privatizzazione del 50% della sanità pubblica emiliano-romagnola, una delle migliori se non la migliore d’Italia; un annuncio senz’altro gradito dai ceti sociali a basso reddito, gli “esclusi dalla globalizzazione” che sono i principali sostenitori della protesta leghista.
  6. Costellare la campagna regionale con esternazioni a margine quali “Gerusalemme capitale d’Israele”; “Soleimani terrorista, giusto ucciderlo”; “chi odia Israele è un criminale che va prima curato poi messo in galera”; perle di saggezza da grande statista, consapevole di quali siano gli interessi vitali d’Italia nel Mediterraneo, che gli hanno certamente conquistato le più vive simpatie degli elettori emiliano-romagnoli cresciuti nelle culture politiche del PCI, del PSI e della DC.
  7. Insomma, aver provocato a battaglia decisiva l’avversario sul terreno a lui più favorevole senza darsi la pena di studiare né l’avversario, né il terreno. Per riassumere, non aver capito che in Emilia-Romagna c’è un solido sistema di potere sorretto da una metapolitica ben strutturata, e che se non si capisce e non si sa contrastare efficacemente la metapolitica, il sistema di potere non si abbatte neanche vincendo le elezioni: al massimo, vi si può ritagliare un posticino anche per sé.

A quanto fanno prevedere le dichiarazioni a caldo di Salvini – “Dovrete aspettare vent’anni perché mi stanchi”, “Rifarei tutto daccapo citofonata compresa”, “Le elezioni politiche? sono nelle mani del buon Dio” – la Nuova Lega e il suo Capitano continueranno a battere la stessa via, un’elezione locale dopo l’altra, e probabilmente con il medesimo successo, nella speranza che “il buon Dio”, che sarebbe poi il Presidente Mattarella, indica le elezioni politiche, e l’elettorato italiano continui a premiare il Capitano.

Non è detto che ciò accada, perché il tempo, che è “il santo protettore della difesa[4] logora la speranza; e nella sua infaticabile, efficacissima azione di propaganda, che ha fatto passare la Lega dal 3% al 30% e oltre dei consensi, il Capitano da tre anni vende speranza al popolo italiano. Speranza di protezione, speranza di una via d’uscita praticabile dalla crisi sociale, morale, politica in cui versiamo; speranza di riconoscimento per chi si sente escluso e scoraggiato. Il Capitano vende speranza, ma per ora – un “per ora” che comincia a farsi lungo – non riesce a consegnare la merce sperata; e “più la vittoria si fa attendere e più le armi si arrugginiscono[5].

Andrebbe qui affrontato anche il tema più importante e più serio, vale a dire: che cos’è “la merce sperata”, in concreto? Ottenuta la vittoria elettorale politica, che cosa dovrebbe e potrebbe fare, in concreto, un governo guidato dal Capitano? Quali sarebbero, gli obiettivi raggiunti i quali si potrebbe dichiarare “vittoria”? E con quali mezzi, provvedimenti, alleati raggiungerla?

Per ora, mi limito a osservare che alla Nuova Lega e il suo Capitano Matteo Salvini va riconosciuto il merito insigne d’ aver suscitato un vasto movimento popolare di protesta; constatando però che purtroppo, non sembra sapere come e dove guidarlo.

That’s all, folks.

 

 

 

[1] Riprendo il titolo, Verlorene Siege, di un bel libro uscito nel 1955 del Feldmaresciallo von Manstein, il miglior generale della Wehrmacht nella IIGM.

[2] Perché difendersi è molto più facile che attaccare, tant’è vero che nei manuali di tattica abitualmente si dice che l’attaccante, per avere buone probabilità di successo, deve garantirsi un rapporto di forze di almeno 3:1 sul difensore (nel punto dell’attacco, ovviamente).

[3] Gen. Carlo Jean, Manuale di studi strategici, Roma, Franco Angeli ed., 2004, p. 153. In questo passo e nei successivi Jean illustra il concetto clausewitziano di “punto culminante della vittoria”, al quale il grande teorico prussiano dedica il cap. XXII del libro VII nella sua opera maggiore, Della guerra. Il concetto di “punto culminante della vittoria” è il precipitato teorico dell’esperienza vissuta da Clausewitz nelle guerre napoleoniche, che combatté nell’esercito russo e studiò brillantemente nel suo Der Feldzug von 1812 in Rußland (La campagna del 1812 in Russia, non tradotto in italiano). Il “punto culminante della vittoria”, per Napoleone, fu la battaglia di Borodino, come la chiamarono i russi e, grazie alla celeberrima descrizione di Tolstoj in Guerra e pace, la chiamiamo anche noi; o la battaglia della Moskova, come la chiamarono i francesi. Borodino/Moskova, “la più terribile delle mie battaglie” nelle parole di Napoleone, fu uno spaventoso macello (250.000 soldati in campo, 35.000 perdite francesi, 44.000 perdite russe). Alla fine della giornata i francesi avevano conquistato le posizioni nemiche, e il gen. Kutuzov, comandante in capo delle armate russe, aveva ordinato la ritirata: ma le truppe russe, nonostante le terribili perdite subite, rimanevano in campo e non mostravano segni di collasso. L’obiettivo strategico di Napoleone (fiaccare la volontà di combattere del nemico, far sì che i suoi dirigenti politici si riconoscessero sconfitti, aprire una trattativa in posizione di forza) non era stato raggiunto. Da quel momento in poi, nell’interpretazione degli eventi bellici di Clausewitz (e di Tolstoj) inizia la sconfitta della Grande Armée napoleonica.

[4] Clausewitz.

[5] Sun Tzu.

Chi vince, chi perde, chi aspetta. di Giuseppe Germinario

Il responso delle elezioni regionali in Emilia/Romagna e in Calabria più che una sentenza rappresenta una sospensione di giudizio, tranne che per uno dei protagonisti

CHI HA VINTO

Ha vinto il PD, ma solo perché ha guadagnato tempo; non è comunque poco. Ha mantenuto sostanzialmente le posizioni delle elezioni europee non ostante le due mini scissioni di Calenda e Renzi; la presa sul sistema di potere ed amministrativo della regione emiliano-romagnola, il vero zoccolo duro del partito, presenta ormai delle crepe ormai durature e definitive. Per resistere ha dovuto addirittura fingere di negare se stesso. Le sue speranze di ripresa o quantomeno di galleggiamento sono riposte nel recupero del voto grillino avvenuto, al momento, solo in piccola parte non ostante i proclami della stampa; il fìo da pagare in termini di statura politica e autorevolezza di governo sarà pesante con i suoi legami con i corpi intermedi e i ceti produttivi, la vera ossatura del fu PCI, sempre più allentati. Riproporrà con un po’ più di coraggio una politica redistributiva ad uso elettorale, ma perderà sempre più la pur scarsa capacità di indirizzare i settori sempre più risicati legati agli interessi nazionali e con essa la velleità, anch’essa già scarsa di suo, di contrattazione in sede europea. Il suo modello è Corbyn, nel momento tardivo della amara sconfitta.

Ha perso Matteo Salvini, soprattutto nell’immediato perché ha puntato alla luna, al naufragio di Giuseppi, usando per sgabello le elezioni regionali; i precedenti infausti delle cadute di precedenti illustri leader politici, perché aggrappati a boe di salvataggio improprie non sono stati di monito; ha perso, soprattutto nel lungo termine, perché si è dimostrato solo un tribuno che crede a quello che fa e che dice; gli manca l’autorevolezza e l’intelligenza dello statista e del leader autorevole. Ha rivelato una propensione spiccata, specie in politica internazionale, ad un servilismo gratuito e compiacente, meno discreta ma del tutto speculare alla classe dirigente piddina e del tutto inutile, se non controproducente, ad ottenere la considerazione benevolente del potente della fazione avversa.

Galleggia la Lega. Ha il privilegio e la fortuna di essere, non ostante il recente congresso semiclandestino, ubiqua ed ambigua. E’ Lega Nazionale di nome, ma conserva saldamente gran parte dell’anima della Lega Nord. Non cresce, ma consolida i risultati eccezionali di questi ultimi due anni. Qualche scricchiolìo si intravede, specie nei nuovi terreni elettorali di caccia. Riesce a mantenere il consenso solido, anche nella composizione sociale del voto, nel Nord-Italia, consolida i varchi aperti nel Centro-Italia, annaspa nel Centro-Sud. Ha raccolto il massimo del voto di protesta e delle vittime della globalizzazione e dei ceti intermedi in crisi; di più non potrà se non arriva a formare una nuova classe dirigente e nuovi leader politici. Impresa improba ed improbabile. Dovrebbe avere chiara la propria idea di interesse nazionale, a cominciare dalla collocazione nella Unione Europea e nello schieramento atlantico e definire una tattica di apertura di contraddizioni e di rottura di questo cappio di relazioni. Piuttosto che verbosità roboanti che celano accettazioni e subordinazioni supine o obtorto collo, tattiche più discrete ma determinate. Su queste basi riuscire a convogliare gli interessi “forti” suscettibili di essere catturati, senza i quali difficilmente si potrà passare da un atteggiamento protestatario alla costruzione di un blocco di potere e sociale alternativi e patriottici. Il rischio permanente rimane un ritorno sotto mutate spoglie alle origini.

Vincono le sardine. Non sono una pura emanazione del PD. Sono qualcosa di molto più complesso e sofisticato, ispirate e mosse da centri ben più accorti. Sono nate con l’obbiettivo di delegittimare e ridicolizzare il loro avversario, Salvini; di proporre una visione tecnocratica ed aristocratica, sinonimo nella fattispecie di spocchiosa, di formazione e conferma di una classe dirigente; di riportare nell’alveo progressista quell’area movimentista e parolaia che ricondurrà all’ovile parte di quel bacino elettorale, ma che segnerà definitivamente le sorti e le caratteristiche del Partito Democratico. Una negazione e un negativismo caratteristico delle “open society” di matrice sorosiana, a prescindere dalla loro espressione diretta. Se e quando scompariranno non sarà una loro sconfitta; semplicemente il compimento di un servizio. Un ulteriore veleno instillato per garantire qualche tempo di sopravvivenza ad una classe dirigente marcia e decadente in un paese già in tragico ritardo rispetto alla complessità e drammaticità degli eventi. Un gioco al quale Salvini si è prestato involontariamente. Le Sardine hanno indotto Salvini ad esagerare; non gli ci è voluto molto.

Cresce, ma rimane nella nicchia, sia pure appena più larga, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. L’ambizione di essere un partito nazionale è grande, la vocazione di riportare il tutto nell’ambito del centrodestra prevale, i retaggi del passato e il peso dei resti berlusconiani al suo interno fanno il resto; sono la zavorra che impediscono di spiccare il volo.

Naufraga senza scampo il M5S. Alle europee ha conosciuto un esodo parziale verso Salvini ed un congelamento nell’astensione di una buona metà dell’elettorato. Con le lezioni regionali è iniziato un parziale travaso del voto restante nell’area progressista e una attesa generale del grosso dei votanti residui. Un gruppo dirigente allo sbando e un ceto di eletti destinati in gran parte all’anonimato. Una miscela esplosiva produttrice del peggior opportunismo e trasformismo. Prima si consumeranno, meglio sarà.

Intanto si attendono le prossime elezioni regionali.

Che ne sarà nel frattempo?

Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini

Lo scenario libico e le condizioni che potrebbero rendere praticabile l’ipotesi di una forza militare di interposizione secondo l’autorevole punto di vista del generale Marco Bertolini, in una intervista tratta dal sito https://formiche.net/2020/01/libia-missione-pacificazione-bertolini/?fbclid=IwAR3AzgqDQQe6g9PS2BBufcJm2of0Hk9O3MAafHrqtkfIML5xkWmOru7Ojrc

Generale, dalla Conferenza di Berlino è arrivato il via libera per un comitato congiunto di supervisione sulla tregua. Basterà per evitare l’inasprimento del confronto sul campo?

È sicuramente un punto di partenza. Per ora ci dobbiamo accontentare. Haftar si sente militarmente forte per adesso, e il fatto che abbia accettato un comitato congiunto con il suo competitor per vigilare sulla tregua è di per sé positivo. Bisogna però vedere cosa accadrà nei prossimi giorni.

Non crede alla tregua?

Sul processo generale permangono molti dubbi. La situazione è fluida. Haftar è a un passo da Tripoli, nella periferia sud della città. Non vorrei che la tentazione di risolvere la questione prima che i turchi rafforzino il sostegno a Serraj giochi brutti scherzi.

C’è poi l’ipotesi di mandare degli osservatori dell’Onu. Cosa significa?

Onestamente credo che in una situazione come quella attuale gli osservatori non otterrebbero grandi risultati. Ci sono osservatori delle Nazioni Unite nel Sahara occidentale, a Cipro tra turchi e greci, nel Kashmir tra Pakistan e India. Sono situazioni in cui non è in corso una guerra combattuta, ma in cui c’è uno stato di non belligeranza abbastanza stabile. Per la Libia, sempre che le parti lo accettino, sarebbe più funzionale un modello tipo Libano, fatte chiaramente le dovute differenze.

È stato il ministro Di Maio a proporre un “modello Libano”. Ma quali sono le differenze?

Prima di tutto in Libano c’è una linea di confronto definita, la cosiddetta blue line al confine con Israele, marcata dai “blue barrel”, materialmente chiusa da una recinzione che corre in zone disabitate o scarsamente abitate. Vigilare su di essa è relativamente semplice. Se per “modello Libano” intendiamo la replicazione di Unifil, da un punto di vista operativo siamo fuori strada. In Libia la situazione è ben diversa: la linea di confronto è molto frastagliata, si inserisce negli abitati e persino in grandi città come Tripoli e Sirte, attualmente occupata dalle milizie di Haftar. Servirebbero dunque forze di diverso tipo e di diversa entità rispetto a quelle impiegate in Libano.

Intende più equipaggiate?

Senza dubbio. Si tratterebbe di un contingente internazionale con parecchi partecipanti. Ammesso e non concesso che i contendenti accettino il nostro Paese (credo e spero di sì), dovremmo avere il comando e controllo, presumibilmente a Tripoli, che però è già zona di confronto.

E poi?

Poi servirebbe una componente per controllare materialmente una linea di confronto che spesso è difficile da individuare. In Libano si fa con i pattugliamenti. In Libia servirebbe invece anche una presenza fissa, e dunque delle unità di fanteria in un numero cospicuo.

Si è fatto un’idea?

La missione Onu in Libano conta circa undicimila militari, di cui 1.100 italiani. In una prima approssimazione, procedendo per pennellate, direi che non si potrebbe risolvere la questione libica senza quantomeno raddoppiare questi numeri.

È la famosa “forza di interposizione”?

Esatto. Attualmente esiste solo in Libano con la missione Unifil. Il concetto andrebbe adattato alla Libia. Oltre alle unità di fanteria per presidiare il territorio lungo la frastagliatissima linea di contatto, ci sarebbe bisogno di una componente di riserva, la cosiddetta Quick reaction force, una forza di pronto intervento in grado di intervenire laddove sorgano problemi di carattere tattico. Dovrebbe inoltre avere una sua pesantezza.

Che intende?

Le forze che si confrontano in Libia hanno a disposizione unità pesanti e corazzate. Con il solo intervento di uomini appiedati non sarebbe possibile garantire la tregua. Sarebbe difatti necessaria anche la componente eliportata, basata su un aeroporto che potrebbe essere quello di Tripoli o di Misurata, o addirittura entrambi. Servirebbe a proiettare rapidamente le forze, uomini e fuoco, ad esempio i nostri elicotteri AW129 che si sono dimostrati risolutivi in Afghanistan in moltissime occasioni. Va infatti considerato che c’è anche un terzo incomodo sul campo.

Quale?

L’Isis. Troppo spesso ci concentriamo solo su Haftar e Serraj, ma le forze jihadiste restano radicate in molte zone del Paese, con una presenza ancora forte nell’entroterra. È questo un motivo per cui non ci si potrà limitare a un pattugliamento o a una presenza leggera. Servirà una capacità di risposta importante anche nell’eventualità di azioni dell’Isis che approfittino della situazione. A tutto questo va aggiunta la componente logistica, a partire dal supporto sanitario.

Si potrebbe sfruttare l’ospedale da campo che l’Italia ha stabilito a Misurata?

Certo. Tra l’altro si trova all’interno dell’aeroporto, cioè una zona facilmente accessibile da cui potrebbero partire gli elicotteri per l’evacuazione sanitaria di eventuali feriti. Si consideri inoltre che l’Italia è in una condizione particolare. Qualora partecipi a tale ipotetico impegno, potrebbe sfruttare il proprio territorio metropolitano, ad esempio con l’aeroporto di Lampedusa, a circa 300 chilometri dalle coste libiche, in cui potrebbe essere schierata la componente elicotteristica. Quest’ultima potrebbe poi utilizzare le piattaforme navali di cui disponiamo, non solo le portaerei, ma anche le Lpd, navi anfibie come la San Marco o la San Giorgio, per i rifornimenti. Alla base di tutto resta però una valutazione strategica.

Ci spieghi meglio.

Per l’Italia sarebbe importante avere una presenza a Tripoli in caso di missione. Abbiamo investito per anni con la presenza militare e con il contatto costante con le autorità locali. Abbiamo conoscenza della situazione, e la città è favorevole nei nostri confronti. Qualora partisse un impegno internazionale, dovremmo essere in grado di farci assegnare come settore non una parte desertica, ma la linea di costa che da Tripoli arriva fino alla frontiera tunisina. A metà strada c’è lo snodo di Mellitah da cui parte il Greenstream, un gasdotto da cui in passato arrivava il 25% del nostro rifornimento energetico, ora ridotto all’8%. È importante inoltre essere presenti dove sono gli impianti dell’Eni, compreso nel Fezzan. Tra l’altro, la linea di costa tra Tripoli e la Tunisia è quella utilizzata dai trafficanti di esseri umani. La presenza nella zona garantirebbe deterrenza e repressione di tale attività.

Per l’embargo delle armi, pare ormai probabile prima di tutto il rilancio della missione europea Sophia. Potrebbe funzionare?

Nella sua terza e quarta fase, la missione Sophia doveva proiettare la sua presenza nelle acque territoriali libiche e sulla costa del Paese nordafricano, proprio al fine di intervenire contro i trafficanti. Si è però fermata alla sua seconda fase, cioè al controllo in alto mare. Se messa a sistema con una presenza di forze sul terreno, ora potrebbe riuscire ad avanzare come non è riuscita a fare in passato.

In ogni caso, un intervento militare richiede il consenso delle forze libiche e il mandato dell’Onu. Giusto?

Non c’è ombra di dubbio. Serve l’egida delle Nazioni Unite. Non sono mai state eseguite operazioni di questo tipo senza il mandato dell’Onu. Solo in Libano nel 1981 si è utilizzata la formula dalla coalizione di volenterosi dopo l’operazione Pace in Galilea, ma era una situazione profondamente diversa. All’epoca, l’Onu non aveva maturato l’esperienza che ora ha acquisito grazie a Unifil in Libano.

E una missione con il cappello dell’Ue?

All’Unione europea farebbe molto comodo poter condurre un’operazione del genere. Permetterebbe di presentarsi come entità capace di condurre operazioni di pacificazione, ma non credo che possa farlo senza il mandato dell’Onu. Inoltre, per ragioni di prossimità, l’Ue ha troppi interessi in campo per ritagliarsi il ruolo di attore terzo. Diverso il caso in cui decidesse di imporre la pace e di intervenire senza il consenso delle parti in campo, ma è un’ipotesi remota e non si tratterebbe di interposizione ma di vera e propria guerra. Una politica poco credibile, tra l’altro ammesso che esista una politica estera e militare dell’Unione europea.

Perché all’inizio della nostra conversazione ha detto che “spera” che l’Italia partecipi a un’eventuale missione in Libia?

L’Italia è purtroppo stata cacciata dalla Libia. L’interventismo turco l’ha resa marginale, ed è un peccato alla luce dei rapporti importanti che il nostro Paese ha con i libici. Il nostro interesse andrebbe tutelato. Per questo, se si presentasse l’opportunità di un accordo tra Haftar e Serraj, non vedrei male un intervento italiano. In questo caso, l’Italia dovrebbe avere la forza di fare in modo che gli interessi nazionali siano condivisi dalla comunità internazionale, che sia l’Onu o l’Unione europea. Che non partano flussi incontrollati di migranti o che venga assicurato il rifornimento energetico non è un problema solo italiano.

I margini per farsi valere sembrano però pochi.

È vero. Bisogna vedere se gli interlocutori libici accetteranno una maggiore presenza italiana. Serraj ha già preferito i turchi a noi, mentre con Haftar abbiamo sempre avuto un rapporto altalenante avendo deciso di seguire la linea Onu. Eppure, abbiamo ora il dovere di non appoggiarci semplicemente alla comunità internazionale. L’Italia ha già pagato tanto per una guerra fatta contro i suoi interessi e sta continuando a pagare con una migrazione mal ripartita. Deve chiarire il suo diritto sacrosanto a far valere i suoi interessi prioritari.

 

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO…., di Teodoro Klitsche de la Grange

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO….

Da quando è in sella il governo giallorosso i suoi sostenitori decantano che i rapporti con l’Europa sono tornati al bello stabile, che il governo è tra i più considerati a Bruxelles e così via.

Nessuno, che mi risulti, ha notato, all’apertura di tali cori, che l’Unione Europea aveva concesso all’Italia un incremento del rapporto deficit/PIL del di 2,2% per il corrente anno, a fronte del 2,04% assicurato al governo “nemico” Lega-M5S.

Questo (misero) 0,16% del PIL, pari a poco più di 2,5 miliardi di euro, ci ha dato la misura dell’amicizia nutrita dall’establishment europeo nei confronti del nuovo governo. Per fare un paragone è assai meno del deficit concesso alla Francia e comunque inferiore a quello realizzato dalla Spagna (2,5%) che non sembrano preoccupare granché i vertici europei. Anche in passato sono stati tollerati rapporti deficit/PIL superiori al 10% senza ansie eccessive. Vero è che per l’Italia – a differenza di altri Stati (come l’Irlanda e il Portogallo) – le dimensioni economiche e il complesso del debito pubblico rende l’incremento più rischioso.

Ciò stante resta il fatto che laddove esiste un rapporto d’amicizia politica o quanto meno un interesse comune degli Stati i rapporti economici non si misurano col bilancino e la partita doppia, ma seguono esigenze e criteri di carattere politico. Facciamo due esempi di questa costante nel secolo scorso.

Il primo: quando la Gran Bretagna, già in guerra con il III Reich, si trovò a corto di contante, Roosvelt ne finanziò l’armamento con la legge “affitti e prestiti” con cui praticamente concesse un credito amplissimo alla Gran Bretagna (e non solo). Rischiando grosso, perché questa era esposta all’invasione delle Panzer Divisionen, per cui i creditori americani correvano il rischio di ritrovarsi il debitore inglese “al gabbio” tedesco.

Qualche anno dopo, di fronte ad un’Europa distrutta dalla guerra, il Presidente Truman col piano Marshall decise di aiutarne la ricostruzione con copiosi aiuti economici. Anche in tal caso determinante fu l’esigenza politica di bloccare l’espansionismo sovietico e di consolidare il rapporto con i governi amici dell’Europa occidentale; comunque il piano si rivelò una mossa azzeccata anche economicamente, perché consentì di accelerare il recupero delle economie europee con notevoli benefici anche per quella USA.

Se i Presidenti USA avessero valutato le situazioni ricordate in base al giornalmastro, forse l’Inghilterra sarebbe finita sotto un Gauleiter o qualche paese europeo-occidentale sotto un governo comunista o para-comunista (di “larghe intese”) con notevole ridimensionamento della potenza USA (e probabilmente, anche  dell’economia). Quindi era stata una scelta corretta e provvida quella di aiutare gli amici politici, anche correndo un rischio elevato.

Se questo è vero, occorre capire perché i governanti europei sono così avari nei confronti dei loro “alleati” italiani e lesinino loro anche gli zerovirgola.

La prima spiegazione è che gli eurocrati pensino che l’economia debba prevalere sulla politica; ma l’ipotesi non è del tutto credibile – anche se in linea col pensiero prevalente (oggi al tramonto). Questo perché l’ascesa del popul-sovranisti rischia di mandare a casa gran parte degli attuali governanti europei (in particolare quelli di centrosinistra, debilitati dalla disaffezione del loro elettorato); e in politica, l’obiettivo di conservazione del potere è primario onde non è credibile che, per  qualche zerovirgola si ripeta quanto già successo nel 2018: che l’Italia è stata il primo paese dell’Europa occidentale ad avere un governo popul-sovranista.

Tenuto conto che comunque c’è un interesse a dare una mano al governo giallorosso, occorre cercare i motivi perché, a Bruxelles si limitino alla falange del mignolo. All’uopo possono formularsi due ipotesi.

La prima è che si considera il governo giallorosso poco o punto affidabile, per due ragioni concorrenti. L’una che tutti i governi italiani dal 2008 ad oggi, pur applicando, spesso con zelo, le direttive europee, non hanno fatto altro che aumentare l’indice deficit/PIL.

Per cui il PD che di quei governi (con l’eccezione del Conte 1) e dell’attuale è il sostegno più qualificante è considerato poco affidabile. Alla fin fine coniuga le direttive europee con la conservazione degli assetti vintage e la strategia delle mance (alle banche, alle concessionarie “privatizzate”, ai tax-consommers) per cui l’aumento del deficit e della spesa non ha alcun effetto politico gratificante. La crescita dei consensi, anche rispetto alle politiche 2018, dei partiti sovranisti (LEGA e          FDS) lo comprova. Come parimenti il crollo rovinoso dei 5S, aumentato dopo il varo del governo Conte-bis. E qua veniamo alla seconda ragione: se il governo attuale, già minoritario, continua a perdere consensi, l’aiuto è politicamente inutile. Meglio trattare con chi ha una reale legittimazione democratica, e cioè il consenso del potere maggioritario, perché quanto meno, ha più autorità nel far valere poi gli accordi stipulati e mantenerli.

Insomma c’è un grave sospetto che quello 0,16% in più di deficit sia dovuto alla scarsa considerazione che “la dove si puote ciò che si vuole” si ha delle declinanti élite italiane. Altre ragioni si potrebbero enumerare, ma paiono d’impatto minore. La sostanza è che in Europa si aspettano l’imminente tracollo – se non definitivo, almeno per un decennio – degli “amici” italiani.

Per cui come succede in guerra dove gli ascari o gli auxilia erano i primi ad essere sacrificati, così lo saranno gli “amici” italiani, a prova di un rapporto ineguale più che di amicizia, di sudditanza. Politicamente normale per chi la accetta.

Teodoro Klitsche de la Grange

La questione energetica e la sostenibilità territoriale, di Luigi Longo

La questione energetica e la sostenibilità territoriale

di Luigi Longo

 

 

  1. Le riflessioni

 

Il presente scritto è la rielaborazione parziale de L’imbroglio delle fonti energetiche rinnovabili pubblicato nel 2011. La rielaborazione è stata pensata in occasione del mio intervento al seminario su Le fonti di energia rinnovabile e lo sviluppo locale territoriale, organizzato dal Comitato No Eolico Selvaggio e dai Verdi Ambiente Società, tenutosi a Foggia il 25 ottobre 2018, che ha visto la partecipazione di diverse università [Università degli Studi di Foggia, Politecnico di Bari, Università degli Studi di Napoli Federico II, Università di Leeds (Regno Unito)], degli enti intermedi (Consorzio per la bonifica della Capitanata e Acquedotto pugliese) e dei comitati di lotta territoriali (Foggia, Avellino, Benevento…) contro l’uso insostenibile delle fonti di energia rinnovabile.

Vengono riproposte, perché attuali, le seguenti riflessioni di fondo della questione energetica che nulla hanno a che fare con l’ideologia del Green Deal dell’Unione Europea né con i processi di una generica decarbonizzazione dei processi produttivi e dei processi di produzione e consumo di energia (1).

La prima riflessione, che si serve del sapere della geopolitica, riguarda il conflitto mondiale tra le potenze nazionali per l’appropriazione delle fonti energetiche non rinnovabili e rinnovabili che segue la logica dello sviluppo ineguale, soprattutto nelle fasi multicentrica e multipolare. Una appropriazione che interessa la conquista e l’allargamento delle aree di influenza, la guerra economica, la instabilità di vaste aree mondiali ad opera delle potenze che si contendono l’egemonia mondiale (sia dominante, gli USA, sia in ascesa, la Cina e la Russia).

La seconda concerne la mancanza di una politica energetica autonoma sia a livello nazionale sia a livello di Unione Europea che, non essendo un soggetto politico, non può avere una strategia energetica innervata ad una idea di sviluppo coordinato in quanto in essa vige la logica dei rapporti di forza tra le nazioni. Pertanto lo spazio del continente Europa, con i suoi differenti sistemi di valore territoriali (2), è scollegato e non coordinato!

La terza afferma che le fonti di energia tradizionali esauribili saranno ancora, per un lungo periodo, importanti per accendere in modo appropriato (energia in forma concentrata ed in gran quantità) lo sviluppo che la società a modo di produzione capitalistico si è dato in termini politici, economici, sociali, culturali e territoriali.

La quarta tratta l’importanza di una politica economica autonoma e autodeterminata cioè di una economia politica capace di relazioni positive e rispettose con i paesi produttori di fonti fossili (Oriente e Africa settentrionale).

La quinta ribadisce che le Fer, oltre ad essere marginali, non competitive e produttive di energia in forma meno concentrata rispetto alle fonti fossili, non hanno niente a che fare con la sostenibilità territoriale e seguono la logica sistemica della produzione di merci.

La sesta guarda alle Fer non come la semplice sostituzione di fonti di energia, ma come un passaggio d’epoca che coinvolge, nelle fasi multipolare e policentrica, tutti gli aspetti della società cosiddetta capitalistica in generale (economici, politici, sociali, istituzionali, culturali, ideologici) e in particolare, secondo la loro peculiarità storica, territoriale e sociale, le singole formazioni economiche e sociali (nazioni).

 

 

2.La questione energetica nel mondo

 

Il problema dell’energia è sempre stato fondamentale nella storia del genere umano sessuato per accendere il motore dello sviluppo attraverso i suoi modi di produzione e riproduzione della vita sociale e individuale storicamente data. Si è passato dalla fase dell’Homo sapiens, in cui venivano usati i convertitori biologici di energia come gli animali e i vegetali, alla fase attuale della società capitalistica in cui vengono usati convertitori inanimati di energia da fonti fossili ( petrolio, carbone, gas naturale, altro) e da fonti rinnovabili ( sole, vento, acqua, altro) passando per la rivoluzione agricola e la rivoluzione industriale: << Se la Rivoluzione Agricola è il processo mediante il quale l’uomo pervenne a controllare e ad aumentare la disponibilità di convertitori biologici ( piante ed animali), la Rivoluzione Industriale può essere considerata come il processo che permise di intraprendere lo sfruttamento su vasta scala di nuove fonti di energia per mezzo di convertitori inanimati >> (3).

Oggi viviamo in una società in cui lo sviluppo è acceso da una energia prodotta da fonti inanimate esauribili e da fonti inanimate inesauribili fino a quando il sole avrà vita (i lunghi << tempi biologici >>): nel 2009 il consumo mondiale di energia prodotta da fonti fossili è pari al 80% contro il 20% prodotta da fonti energetiche rinnovabili (FER) (soprattutto idrica), nucleare e altre fonti (4). << La parte del leone nella fornitura di energia nel mondo spetta alle sorgenti fossili, in particolare agli idrocarburi in virtù della disponibilità di infrastrutture in grado di estrarre, raffinare 1.000 barili al secondo di grezzo e di distribuire convenienti vettori energetici, che hanno reso disponibile l’energia in ogni luogo, in qualunque momento e alla potenza desiderata (corsivo mio) >> (5).

Quindi l’energia prodotta da fonti fossili esauribili è un elemento fondamentale dello sviluppo della società capitalistica e diventa indispensabile l’appropriazione e la disponibilità delle risorse energetiche da fonti fossili che non sono sparse in maniera omogenea sulla terra ma sono concentrate in alcune aree [ per esempio, la maggior parte delle riserve di petrolio si trovano in Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait;( in una ristretta zona del Medio Oriente chiamata << ellissi strategica >>); la maggior parte delle riserve di gas naturale in Russia, Iran, Qatar; la maggior parte delle riserve di carbone in Stati Uniti, Russia, Cina ] (6). La loro appropriazione segue la logica dello sviluppo ineguale e del conflitto tra potenze nazionali per l’egemonia mondiale (7).

L’uso dell’energia, sia da fonti rinnovabili sia da fonti esauribili, è determinato storicamente dal modo di produzione e riproduzione della società. Per esempio, l’uso del cavallo come mezzo di mobilità corrispondeva ad un determinato modo di produzione e riproduzione della società e del territorio (società tradizionale); l’uso della macchina come mezzo di mobilità implica un diverso determinato modo di produzione e riproduzione della società e del territorio (società capitalistica) (8).

Il passaggio da risorse energetiche con fonti esauribili (preponderanti) a quello d’uso di fonti energetiche “inesauribili” (marginali) è subordinato ad una diversa produzione e riproduzione della società e del territorio. Passaggio che avrà i suoi tempi storici e le sue modalità di attuazione. E’ una vera trasformazione sociale che porterebbe ad una diversa configurazione della società (una rivoluzione dentro o fuori il capitale inteso come rapporto sociale) in generale, e ad una specificità propria delle formazioni economiche e sociali particolari che si conterranno l’egemonia mondiale (9).

Quindi la sostituzione di sorgenti inesauribili di energia inanimata con le sorgenti attualmente insostituibili rappresenta uno fra i principali problemi della società a modo di produzione capitalistico generale e particolare (le varie formazioni sociali) che coinvolge, attraverso il suo legame sociale, l’insieme conflittuale della società (politica, economica, sociale, culturale) e del suo rapporto con le leggi della natura. Non è la semplice sostituzione di fonti di energia, ma è un passaggio d’epoca, attraverso la fase multipolare e la fase policentrica (10), che coinvolge tutti gli aspetti della società capitalistica (economici, politici, sociali, istituzionali, culturali, ideologici) in generale e, in particolare, secondo la loro peculiarità storica, territoriale e sociale, le singole formazioni economiche e sociali (nazioni).

 

 

3.La questione energetica in Italia

 

L’Italia da oltre due decenni non ha un piano energetico nazionale, cioè non ha un quadro di riferimento strategico di approvvigionamento e di produzione di energia sia da fonti fossili sia da fonti rinnovabili (11). Ha un “Piano di Azione Nazionale per le energie rinnovabili ( direttiva 2009/28/CE)” del 2010, elaborato dal Ministero dello Sviluppo Economico, che riguarda gli aspetti dei consumi finali lordi di energia e gli strumenti per lo sviluppo delle energie rinnovabili [ misure di sostegno: finanziamenti pubblici diretti e indiretti con incentivazioni all’interno del Programma Operativo Interregionale (POIN) Energia 2007/2013 a valere sui fondi strutturali comunitari e del Fondo di Rotazione per Kyoto, procedure amministrative, specifiche tecniche, eccetera ], visti soprattutto in funzione degli obiettivi fissati in sede di Unione Europea, che non è un soggetto politico e non ha una politica energetica europea, da raggiungere nel 2020 che sono a) la copertura del 17% dei consumi finali lordi; b) la copertura dei consumi nel settore dei trasporti pari al 10% (12).

Quindi la disponibilità di una consistente fetta di denaro pubblico per la produzione di energia da FER non ha nulla a che fare con lo sviluppo energetico, con lo sviluppo produttivo e riproduttivo, con l’autonomia energetica, con l’ecologia e con la difesa del territorio del nostro Paese.

Riporto un passo di Giorgio Nebbia nel quale si dice: << Le leggi che hanno consentito la crescita delle fonti energetiche rinnovabili erano motivate dalla buona intenzione di diffondere il solare e l’eolico per motivi ecologici, ma hanno ben presto dato vita ad un ingegnoso sistema di produzione di soldi a mezzo di energia (corsivo mio). Gli incentivi, alcuni miliardi di euro ogni anno (13) ( si stimano 170 miliardi di euro nei prossimi venti anni, precisazione mia), sono pagati dai cittadini sia sotto forma di imposte, sia sotto forma di aumento del prezzo dell’elettricità che figura, nelle bollette elettriche, nella voce tariffaria A3 ( il prelievo tariffario obbligatorio presente sulla bolletta di ogni utenza elettrica pesa per il 4% in quelle domestiche e per il 6% in quelle industriali, precisazione mia), per cui ciascuno di noi regala soldi a chi vende, installa e gestisce motori eolici e pannelli fotovoltaici solari, tanto che molti terreni agricoli sono coperti di pannelli solari perché si guadagna di più in questo modo che coltivando carciofi o uva. Che la situazione sia drogata dimostra lo spavento che sta colpendo tutti gli interessati davanti alla prospettiva di una diminuzione degli incentivi che cominciano ad apparire esagerati. Purtroppo si ha l’impressione che le leggi energetiche siano scritte più da gruppi di interessi economici che da una nuova politica nazionale energetica (corsivo mio), coraggiosa e lungimirante diretta ad aumentare l’uso delle fonti rinnovabili senza speculazioni, a far diminuire il costo dell’elettricità per le famiglie e le attività economiche, a far diminuire l’inquinamento e le alterazioni ambientali, a una produzione nazionale di dispositivi solari ed eolici adatti alle caratteristiche del nostro territorio. L’attuale politica che ha portato alle speculazioni finanziarie sulle fonti rinnovabili sta gettando il discredito su tali fonti, di cui avremo invece bisogno sempre di più in futuro, e sta facendo il gioco di chi vuol far credere che l’unica salvezza va cercata nel nucleare, il che non è certo vero. >> (14).

L’autosufficienza energetica complessiva in Italia è molto modesta, il 16.5%. L’83,5% di energia importata (UE-27, circa il 53%) è soprattutto petrolio e gas naturale che raggiungono rispettivamente il 41% e 36%.
Nel 2009, in Italia, la composizione percentuale delle fonti energetiche impiegate per la copertura della domanda è stata determinata con il 77% di produzione da combustibili fossili [ petrolio (41%) e gas naturale (36%) ], il 19,3% da fonti rinnovabili (energia eolica, idroelettrica, solare e geotermica), il 13,3% da fonti solidi e il rimanente 5% di energia elettrica (Rapporto Enea, 2010).

La produzione italiana di energia elettrica nel 2010 da fonti non rinnovabili è stata pari al 63,8% della produzione nazionale totale, con utilizzo di gas pari al 44.9%, di carbone pari al 10,8%, di altri combustibili pari al 7,1% e di idraulica da pompaggio pari all’1%.

Nel 2010 la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è stata invece pari, nel suo complesso, al 22,8% della produzione nazionale, ma non bisogna dimenticare che in questa percentuale vengono computate anche le quote da combustione rifiuti, annoverate tra le rinnovabili e incentivate dai Cip6, ma a tutti gli effetti da non considerarsi come tali. A tale risultato hanno contribuito per il 15,3% l’energia idroelettrica, per il 2,7% le bioenergie (biomasse, biogas, bioliquidi), per l’1,5% l’energia geotermica, per il 2,7% l’energia eolica e per lo 0,6% l’energia solare e fotovoltaica.

Il saldo estero per la produzione di energia elettrica è stato invece pari al 13,4%.

In sintesi la produzione netta, espressa sia in valori assoluti, TWh (l’unità di misura pari a mille miliardi di watt), sia in valori percentuali, del bilancio elettrico nazionale per l’anno 2010 è la seguente: da fonti non rinnovabili 210.9 (63,8%); da fonti rinnovabili 75,4 (22,8%); saldo estero 44,2 (13,4%). Mentre i consumi, espressi in TWh e in percentuale, al netto delle perdite di rete (20,6 TWh), sono: agricoli 5,6 (1,8%); industriale 138,4 (44,7%); terziario 96,3 (31%); domestici 69,6 (22,5%).

E’ importante aggiungere (tralasciando l’ importanza che la mobilità rappresenta nell’organizzazione e nella trasformazione del territorio) che il settore dei trasporti in Italia, come in tutti i paesi sviluppati, riguarda una fetta rilevante dei consumi energetici: << Gli impieghi finali di energia per i trasporti, inclusi quelli delle famiglie che si stima incidano per circa il 40 per cento, rappresentano il 30 per cento del totale e sono cresciuti dal 1990 a un tasso medio annuo dell’1,5 per cento. Per quasi il 90 per cento sono legati al trasporto su strada di persone e merci >> (Banca d’Italia, Relazione Annuale 2010, pp.125-126).

La soluzione da agrocarburanti (di prima e seconda generazione) per la sostituzione di fonti fossili (petrolio) nella mobilità è lontana e poco credibile tant’è che le nuove ricerche suggeriscono che se vogliamo convertire le biomasse in energia, la cosa migliore è trasformarle in elettricità.

L’Italia per quanto riguarda la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nell’Europa-15 è tra i maggiori produttori con le seguenti posizioni: 3° posto per il solare, 4° posto per le bioenergie e quinto posto per l’eolico (15).

Gli impianti installati in Italia hanno una capacità di produzione potenziale di oltre 106 gigawatt (l´unità di misura pari a un miliardo di watt): contro una richiesta che ha toccato il picco storico di 56,8 GW nell´estate 2007 e una potenza media disponibile stimata in 67 GW. Per di più, negli ultimi due anni, la crisi economica ha ridotto ulteriormente la domanda (51,8 GW nel 2009). In altre parole la potenza di cui disponiamo corrisponde al doppio di quella che occorre.

In sintesi siamo un Paese che:

  1. è dipendente dall’estero per l’83,5% di energia da fonti fossili;
  2. non ha un piano energetico nazionale strategico;
  3. ha un piano di azione nazionale per le FER finalizzato alla distribuzione dei finanziamenti pubblici e comunitari a favore di imprese e banche di investimenti soprattutto degli USA (16);
  4. ha un livello limitato di investimenti in ricerca, in conoscenza e in brevetti in generale, e, in particolare, sulle FER;
  5. ha una produzione di energia elettrica potenziale pari ad oltre il doppio di quella occorrente.

E’ un Paese dove i decisori/blocchi di potere della Grande Finanza parassitaria (GF) e della Industria Decotta (ID) delle passate ondate della rivoluzione industriale (17) non hanno una politica energetica autonoma nazionale. Non tutelano le poche imprese internazionali strategiche nel settore dell’approvvigionamento (e non solo) dell’energia da fonti fossili. Non creano alleanze strategiche con i nostri maggiori fornitori (Russia, Medio Oriente, Africa ), anzi, hanno aggredito, bombardato e distrutto popolazioni e territori della Libia, una delle nazioni da cui importavamo gas naturale e petrolio di ottima qualità (rispettivamente il 13.2% e 23% del fabbisogno nazionale), seguendo le nuove strategie mediterranee degli agenti dominanti USA in funzione anti Russia e Cina <<… entrambe hanno subito una battuta d’arresto e un significativo danno economico…30.000 operai cinesi evacuati dalla Libia, vaste forniture militari e sfruttamento di giacimenti gas/petroliferi annullati alla Russia, ecc…>>(18).

L’egemonia mondiale degli USA (anche se incomincia ad essere messa in discussione) non passa solo attraverso il controllo e l’appropriazione delle risorse naturali di energia fossile (19), ma passa attraverso il dominio, hard o soft, del proprio modello di sviluppo e della propria concezione della vita materiale e del mondo che è un continuo ri-modellare, è un continuo ri-creare l’insieme della propria nazione da esportare egemonicamente nelle formazioni economiche e sociali particolari (le nazioni) che formano la società capitalistica mondiale storicamente data. Per dirla con Raimondo Luraghi << Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza): ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento americani penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia >> (20).

 

 

4.La questione energetica in Puglia

 

La Puglia si caratterizza come regione nella quale si concentra la produzione di energia per autoconsumo oltre a esportare energia (più dell’80%) verso altre Regioni confinanti: infatti, la Puglia presenta un surplus di produzione di energia elettrica, ossia produce più elettricità (soprattutto mediante combustione di carbone) di quella richiesta dai carichi in essa localizzati (PEAR, 2007).

La regione Puglia è la prima regione d’Italia nel settore fotovoltaico e la seconda nel settore eolico sia in termini di produzione sia in termini di potenza installata (fonte: GSE, 2010). Nella divisione del lavoro territoriale energetico della Regione si ha che lo sviluppo dell’eolico è prevalente nella Capitanata (o provincia di Foggia) e lo sviluppo del fotovoltaico è prevalente nel Salento (province di Lecce, la parte centro meridionale di Brindisi e la parte orientale di Taranto). I settori delle FER da sviluppare strategicamente sono: eolico, solare, biocarburanti, biomasse (agroenergie)(21).

La Regione ha prodotto una serie di strumenti (linee guida, regolamenti regionali, pianificazione energetica, distretto delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica, eccetera) finalizzati allo sviluppo delle FER, nella logica della propaganda che rovescia la realtà innanzi esposta, senza nessuna interconnessione, verifica e coordinamento con gli strumenti della pianificazione territoriale, economica ed ambientale. Ha sacrificato e distrutto il territorio, l’ambiente e il paesaggio per sovrapprodurre energia elettrica senza ricaduta in termini di costruzione completa della filiera FER (ricerca, investimenti, produzione, occupazione, ecc.). Le tecnologie per le fonti rinnovabili e/o tecnologie efficienti sono in genere prodotti all’estero: i pannelli (l’80% dei componenti sono importati dai paesi asiatici) e le pale eoliche; in Puglia (e in Italia) queste tecnologie assicurano occupazione soltanto per le opere di installazione e di manutenzione.

In Puglia la sovrapproduzione di energia elettrica, pari a 18.158 GWh differenza tra produzione 34.585,5 GWh e consumo 16.427,5 GWh, non è sufficiente a programmare la chiusura con riconversione delle centrali a carbone di Brindisi ( le più inquinanti d’Italia con 14,8 milioni di tonnellate di CO2 all’anno ); evidentemente la logica del minimo costo e del massimo profitto (una delle ragioni fondamentali della produzione capitalistica) e il blocco di potere dei rapporti sociali territoriale e nazionale ( politici, economici, istituzionali) hanno la forza di contrastare nei fatti il protocollo di Kyoto e il pacchetto energia e clima (il cosiddetto 20-20-20), che, a mio avviso, si rivelano quali strumenti ideologici negativi degli agenti strategici mondiali del sistema capitalistico. Voglio dire che le cause vanno inquadrate nella logica del capitale, inteso come rapporto sociale, che ha nell’accumulazione infinita a mezzo di produzione di merci la sua ragione di essere. La merce energia deve essere prodotta in modo da ridurre i costi e incentivare maggiormente i consumi (quello che gli economisti chiamano l’effetto rebound) e l’acquisto di altri beni di consumo il cui bilancio (in termini di impiego di energie fossili) sarà probabilmente ancora più negativo per l’ambiente. Così mi spiego la continuazione della produzione di energia elettrica da parte della centrale Enel di Brindisi Sud-Cerano e della centrale Edipower di Brindisi Nord con il carbone (22).

Il territorio agricolo si avvia verso una trasformazione della sua produzione con gravi conseguenze economiche e sociali essendo l’agricoltura un settore fondamentale per la maggior parte del territorio pugliese. Un esempio per rendersi conto della gravità della situazione e dell’orientamento nefasto dell’UE sia con la nuova PAC (politica agricola comunitaria) sia con l’obiettivo di coprire i consumi del settore dei trasporti con una produzione di biocarburanti pari al 10%, arriva direttamente dagli agricoltori del tavoliere foggiano e della Lomellina padana (23).

L’agricoltore del Tavoliere foggiano:<< …la disperazione favorisce il fotovoltaico. Prezzi bassi e costi elevati, speculazione sui prodotti agricoli, pagamenti in ritardo, le associazioni di categoria che invitano a non investire per ridurre alcune produzioni (per es. il pomodoro), aumento di fertilizzanti, fitofarmaci, diserbi, semi, eccetera portano alla necessità per sopravvivere di dare spazio al fotovoltaico.>> (24).

L’agricoltore della Lomellina padana:<< Faccio l’esempio che ho sotto gli occhi della Lomellina, territorio vocato alla coltivazione del riso. Quest’ultima è una coltura che proprio per il particolare valore assegnato al prodotto riceveva dall’Europa incentivi pari all’incirca a mille euro l’ettaro. Con la nuova Pac il contributo scenderà a duecento euro. Questo significa che molti imprenditori saranno spinti a seminare non più riso ma ad esempio mais per produrre biogas, che a quel punto sarà molto più redditizio. Ecco perché la nuova Pac potrebbe cambiare addirittura il paesaggio di territori come la Lombardia o il Piemonte» (25).

Sintetizza così Carlo Petrini:<< Ecco allora che il sistema degli incentivi, cui si uniscono quelli europei per la produzione di mais, ha fatto sì che convenga costruire impianti grandi e costosi (anche 4 milioni di Euro), che possono essere ammortizzati in pochi anni. Soltanto nel cremonese nel 2007 c´erano 5 impianti autorizzati, oggi sono 130. E lì oggi si stima che il 25% delle terre coltivate sia a mais per biogas. In tutta la Lombardia si prevede che entro il 2013 dovrebbero esserci 500 impianti. Ci sarebbe da riflettere su quante volte un cittadino che versa anche le tasse arrivi a pagare quest´energia “pulita”, ma l´emergenza è di altro tipo: così si minacciano l´ambiente e l´agricoltura stessa. Primo e lapalissiano: si smette di produrre cibo per produrre energia. Secondo: la monocoltura intensiva del mais è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua, prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate >> (26).

La regione Puglia non si chiede concretamente se questa produzione di energia, soprattutto elettrica, conduce a uno sviluppo ecologico e territoriale sostenibile per usare termini retorici che riempiono piani territoriali, piani strategici, studi e ricerche. Non ha delegato nessuna provincia in termini di decisione finale sugli investimenti, ad eccezioni di strumenti tecnici vuoti, non incisivi, come la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) e la Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Nè le Province hanno chiesto e posto il problema dell’autodeterminazione territoriale sui progetti e gli investimenti FER visto che producono pianificazione strategica e pianificazione territoriale: strumenti vuoti di relazioni sociali e di rapporti sociali, strumenti vuoti di strategie, strumenti costruiti senza nessuna idea di progetto di territorio, senza nessuna tensione ideologica positiva per raggiungere obiettivi di sviluppo.

En passant, la Provincia è un ente intermedio importante e non va eliminata ma va ripensata e rifondata tenendo conto che << poiché il comune è la base dell’edificio dello Stato, una razionale definizione territoriale del comune consentirà un disegno più ordinato delle province ed una nuova funzionale strutturazione territoriale delle regioni >> (27).

Il paradosso si ha con la provincia di Foggia, la prima provincia d’Italia per potenza e produzione eolica ( fonte: GSE, 2010; Piano Energetico Ambientale della Provincia di Foggia, 2011), che produce e approva il Piano Energetico Ambientale dopo che l’eolico è stata realizzato abbondantemente (oltre 1500 pali eolici senza considerare quelli in progetto in attesa di tempi migliori) prendendo letteralmente d’assalto il territorio (la stessa cosa si sta ripetendo con il fotovoltaico e le biomasse) e la cui linea di fondo della politica energetica è quella che è il libero mercato (sic) che stabilisce il livello della produzione e le modalità delle trasformazioni territoriali (28).

La Capitanata sta diventando un territorio dell’eolico e del fotovoltaico, FER che distruggono risorse, territorio, paesaggio, ambiente e settori economici importanti come l’agricoltura, senza sviluppo locale e tutela del paesaggio, cioè, non sono in relazione con il territorio e le sue configurazioni spaziali (borgate, centri rurali, insediamenti sparsi) (29). Ha blocchi di potere dediti solo a sfruttare i residui delle risorse finanziarie nazionali e comunitarie (così è stato con i finanziamenti del Grande Giubileo 2000, con il Contratto d’Area di Manfredonia, ed ora con le FER giusto per rimanere alla storia locale recente).

E’ facile ipotizzare che la provincia di Foggia da territorio granaio d’Italia (che ha/aveva alle spalle una struttura economica e sociale storicamente consolidata) diventerà territorio eolico d’Italia (che avrà solo l’amara illusione di uno sviluppo economico e sociale ecosostenibile fondato sulle energie rinnovabili).

La regione Puglia e le sue sei Province sono luoghi dove si creano blocchi di potere, a servizio di agenti strategici di imprese internazionali, che, in maniera servile, sfruttano le ingenti risorse finanziarie che ruotano intorno alle FER per l’accrescimento del proprio potere politico (consensi, occupazione di luoghi istituzionali, gestione di imprese pubbliche locali, di agenzie energetiche , di distretti produttivi energetici), economico (piccole imprese locali) e sociale (filiera della produzione di nuove professioni “qualificate”nei vari comparti delle FER che passa attraverso le istituzioni, le università, le imprese sociali no profit di formazione che intrattengono i giovani con lunghi corsi di formazione con la prospettiva illusoria di un futuro occupazionale!).

La conseguenza di quanto detto è la distribuzione a livello territoriale di risorse finanziarie che sono appannaggio di decisori (già consistenti nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura) che investono al puro scopo di sfruttare le briciole dei finanziamenti pubblici senza ricaduta alcuna sullo sviluppo del territorio e su quello di settori strategici capaci di valorizzare l’economia peculiare del territorio.

Sono risorse finanziarie che vengono distribuite a dominanti locali che rafforzano il sistema egemonico di agenti strategici nazionali servili alla potenza egemone USA che considera il territorio italiano strategico per le sue politiche di dominio nel Mediterraneo e nel Medio Oriente (la guerra in Libia ha chiaramente illuminato il blocco di potere nazionale servile e l’uso del territorio italiano come base di teatri di guerra futuri) in funzione dell’egemonia mondiale.

I decisori locali sono succubi delle grandi imprese internazionali, dei fondi di investimento, delle banche di investimenti che investono nel territorio pugliese stravolgendolo e distruggendolo (altro che identità e peculiarità territoriali da tutelare!) con impianti che non sfruttano la potenza installata per le carenze innanzi dette, ma sfruttano le ingenti risorse finanziarie degli italiani.

 

 

5.La questione energetica: che fare

 

In Italia, oggi, vogliono far credere che l’energia elettrica prodotta con le FER sia l’energia per lo sviluppo del paese. Ma le FER non sono competitive, in termini di costi, con le energie prodotte da fonti fossili, se non con forti sovvenzioni pubbliche che sono a forte appannaggio degli agenti strategici delle imprese estere e le poche imprese italiane stanno investendo all’estero nella classica ottica liberista di vedere il commercio, anziché la produzione, come cuore pulsante dello sviluppo.

Oggi, parlare di sviluppo basato sulle FER è una narrativa ideologica perché:

  1. a) le fonti di energia tradizionali esauribili saranno ancora, per un lungo periodo (30), importanti per accendere in modo appropriato (energia in forma concentrata ed in gran quantità) lo sviluppo che la società capitalistica si è dato in termini politici, economici, sociali, culturali e territoriali;
  2. b) lo sviluppo delle FER (probabilmente energia in forma meno concentrata e un minore consumo) presuppone una diversa organizzazione produttiva e riproduttiva della società << Ogni “rivoluzione” ebbe le sue radici nel passato, ma ogni “rivoluzione” creò anche una profonda frattura con quello stesso passato. La prima “rivoluzione” trasformò cacciatori e raccoglitori in pastori e agricoltori; la seconda mutò agricoltori e pastori in operatori di “schiavi meccanici” alimentati da energia inanimata >> (31);
  3. c) la ricerca e la tecnologia non sono ancora mature e lunga è la fase per arrivare all’innovazione reale, cioè alla svolta epocale << Va considerato che, per avere dati certi sui contributi delle energie alternative, occorrerebbero ricerche di enti che impieghino un gran numero di ricercatori. È fuori dalla portata di un singolo (o anche di più singoli), al di fuori da centri di ricerca organizzati e da finanziamenti appositi, riuscire nell’impresa. Ci sono troppi parametri in gioco, e molte intelligenze e competenze occorrerebbero per tali studi. E certamente i tagli brutali alla ricerca approntati dal centrodestra [e dal centro sinistra, per chi crede, oggi, ancora a queste apparenti divisioni, precisazione mia] ci rendono ultimi nell’ambito dei Paesi che si pretendono avanzati >> (32);
  4. d) la produzione attuale di energia (da FER) ha bisogno di ingenti finanziamenti pubblici per essere competitiva << […] gli incentivi italiani dedicati allo sviluppo delle fonti rinnovabili ai fini della generazione elettrica sono tra i più alti del mondo. >>(33);
  5. e) la carenza e l’insufficienza delle infrastrutture di rete per il trasporto e la distribuzione di energia che impediscono la massima valorizzazione degli impianti delle fer << …lo Strategic Energy Technology Plan presentato dalla Commissione Europea nel 2007 comprende, fra le azioni prioritarie per i prossimi 10 anni, lo sviluppo delle reti intelligenti, mentre assume come obiettivo per il 2050 l’elaborazione di strategie per la transizione verso reti energetiche integrate a livello europeo. Attraverso lo sviluppo delle Smart Grids la Comunità definisce un percorso di progressiva migrazione delle reti di trasmissione verso un modello di rete decentrata, che integri quote crescenti di produzione da fonti rinnovabili e la generazione distribuita di energia elettrica >>(34).

C’è bisogno, invece, di una politica energetica autonoma creando relazioni con i nostri principali fornitori di risorse energetiche da fonti fossili che saranno ancora per un lungo periodo le fonti energetiche del modo di produzione e riproduzione delle società capitalistiche. Occorre quindi uscire dal giogo della potenza mondiale USA: l’ultima miserevole partecipazione alla guerra di aggressione alla Libia insegna questo! Occorre farlo con decisione e attenzione perché la storia energetica del nostro Paese è sempre stata ostacolata con forme di potere forte (la morte di Enrico Mattei) e forme di potere morbido (il blocco della ricerca e la distruzione del patrimonio di esperienza costruito attorno a Felice Ippolito).

Le FER hanno bisogno di forti finanziamenti per la ricerca scientifica, siamo l’ultimo paese cosiddetto sviluppato in termini di investimenti nella ricerca, nella conoscenza e nei brevetti. Bisogna spostare gli ingenti finanziamenti dal commercio alla produzione delle FER intesa come costruzione della filiera che va dalla ricerca applicata alla produzione reale e competitiva nella economia del Paese. Per questa ragione bisogna difendere la nostra autonomia con forme di protezionismo che è una condizione imprescindibile nella ricerca di autonomia così come fanno tutte le nazioni sviluppate e soprattutto le potenze mondiali (USA, Russia, Cina). Protezionismo come forma di autonomia nazionale per le relazioni mondiali, che si realizza con una strategia che passa anche attraverso la formazione di un Piano Energetico Nazionale. Cerchiamo di andare oltre l’attuale maschera del libero scambio: viviamo in una società capitalistica universale e in specifici capitalismi nazionali in lotta perenne per il potere e l’egemonia mondiale non in una fantastica società alternativa di sviluppo eco-sostenibile.

Chi deve farsi carico di un processo-progetto di autonomia nazionale in un paese privato di sovranità politica e geopolitica << Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi >>? (35).

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

  1. Si veda sia il Green Deal europeo https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it, sia la comunicazione su Una tabella di marcia verso una economia competitiva a basse emissioni di carbonio nel 2050 della Commissione Europea, documento 52011 DC0885, eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:52011DC0885&print=true.
  2. Sui sistemi di valori territoriali si rimanda a D.Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 131-172.
  3. M. Cipolla, Uomini, tecniche, economie, Feltrinelli, Milano, 1989, pp. 27-28. Sulle diverse fasi della rivoluzione industriale si rimanda a D.S. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino, 1978.
  4. Enea, Rapporto energia e ambiente. Analisi e scenari 2009, novembre 2010, in enea.it. << Oggi i consumi mondiali vedono al primo posto il petrolio con circa 4200 milioni di tonnellate all’anno, seguito dal carbone con circa 5000 milioni di tonnellate all’anno (ma con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 3500 milioni di tonnellate di petrolio), e al terzo posto il gas naturale con circa 3000 miliardi di metri cubi all’anno (con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 2500 milioni di tonnellate di petrolio). I bilanci energetici si fanno con una unità di energia che si chiama tep (tonnellate equivalenti di petrolio)… Circa un terzo del petrolio consumato nel mondo va nei trasporti terrestri, aerei, navali; i principali mezzi di trasporto terrestre sono, da decenni, gli autoveicoli azionati da motori a scoppio a ciclo Otto; la rotazione delle ruote è assicurata dall’energia liberata dalla combustione di un carburante liquido, la benzina o il gasolio, entrambi derivati dalla raffinazione del petrolio >> in G. Nebbia, Se un giorno il petrolio scomparisse in “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 15/5/2011.
  5. Carrà, Energia e tecnologia in “ Energia” n.1/2001. Si vedano anche le visioni e le raccomandazioni sull’evoluzione della domanda di energia a livello italiano dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IAE), Politiche energetiche dei paesi membri dell’AIE, 2009, in www.iea.org/books e gli scenari a livello mondiale ed europeo sull’evoluzione della domanda di energia dell’Enea, Rapporto energia e ambiente. Analisi e scenari 2009, novembre 2010, in www.enea.it; J. Giliberto, Lo stop di solare ed eolico dopo 10 anni di crescita in www.ilsole24ore.com, 13/4/2019; la prima edizione del Rapporto annuale sul settore dell’energia in Italia e nel Mediterraneo Med & Italian Energy Report in www.sr-m.it/events/napoli-3-aprile-2019-med-italian-energy-report/?lang=en, 2019.
  6. Per ulteriori dettagli e statistiche si rimanda a N. Armaroli e V. Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna, 2008; per un quadro informativo aggiornato sullo stato di fatto della questione FER, delle fonti di energie fossili e sulla transizione dalle energie da fonti fossili a quelle da fonti rinnovabili si rinvia alla lettura critica del libro di V. Termini, Il mondo rinnovabile. Come l’energia pulita può cambiare l’economia, la politica e la società, Luiss University Press, Roma, 2018.
  7. La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005; G. La Grassa, Oltre l’orizzonte, Besa, Lecce, 2011; P. Visani, Storia della guerra dall’antichità al Novecento, Oaks editrice, Milano, 2018; F. Pieraccini, Russia e Cina devono arginare gli Stati Uniti per trasformare pacificamente l’ordine mondiale in multipolare in www.lantidiplomatico.it, 20/2/2019.
  8. <<Le società tradizionali (le società basate esclusivamente sullo sfruttamento dell’energia solare) potevano permettersi solo un numero limitato di grandi città perché le elevate densità di potenza energetica rese necessarie dal fabbisogno alimentare e dai consumi di combustibile erano garantite solo dalla raccolta delle risorse di energia organica situate nelle zone immediatamente circostanti gli insediamenti urbani. I consumi alimentari e il fabbisogno di combustibile complessivi di una grande città pre-industriale richiedevano la presenza di un’area di campi e boschi quaranta volte più estesa della superficie del territorio urbano. Inoltre, l’indisponibilità di motori primi efficienti e potenti limitava in modo molto evidente le possibilità di trasporto di alimenti e materie prime nelle città, la distribuzione delle risorse idriche e lo smaltimento dei rifiuti urbani. Nelle società tradizionali, le città dovevano contare sulla concentrazione di flussi di energia diffusa; le società moderne, al contrario, sfruttano la diffusione di energia concentrata (corsivo mio)…>> in V. Smil, Storia dell’energia, il Mulino, Bologna, 1994, p. 292.
  9. Per analogia, da prendere con cautela, si pensi a ciò che avvenne con la prima fase della rivoluzione scientifica (e della relazione tra scienza e tecnica) durante lo sviluppo industriale della società capitalistica, si veda C. M. Cipolla, Le tre rivoluzioni, il Mulino, Bologna, 1989; Idem, Le macchine del tempo, il Mulino, Bologna, 1996; C. Merchant, La morte della natura, Garzanti, Milano, 1988.
  10. La Grassa, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2009; G. La Grassa, In cammino verso una nuova epoca, Mimesis, Milano, 2018; G. La Grassa, Crisi economiche e mutamenti (geo)politici, Mimesis, Milano, 2019.
  11. Tra gli obiettivi di fondo del PEN, oltre alla riduzione della dipendenza dall’estero, ci sono lo sviluppo dell’industria del settore energetico, lo sviluppo dell’occupazione, le possibilità di esportazione, l’orientamento dei consumi, l’efficienza energetica, il risparmio dell’energia, ecc. Persino l’Agenzia Internazione dell’Energia (IAE) raccomanda all’Italia di << Creare una strategia globale di lungo termine per lo sviluppo del settore energetico nazionale…>> in IEA, Politiche…, op.cit., p.6.
  12. Il “Piano di Azione Nazionale per le energie rinnovabili (direttiva 2009/28/CE)” del 2010, elaborato dal Ministero dello Sviluppo Economico, è scaricabile dal sito internet governo.it/Governoinforma/dossier . La logica non è cambiata con la Strategia Energetica Nazionale (SEN). Una strana strategia in assenza di un Piano Energetico Nazionale, tant’è che la SEN si riduce di fatto ad una strategia elettrica nazionale come mettono in evidenza le Associazioni ambientaliste rilevando le criticità evidenziate nella SEN in La Strategia Energetica Nazionale deve comprendere anche la salvaguardia del territorio in www.salviamoilpaesaggio.it, 26/6/2018.

 

  1. << Uno studio di AT Kearney per “il Sole24Ore” (3 maggio 2011 ) ha stimato il valore del mercato delle rinnovabili in Italia nel 2010 in circa 21 miliardi di euro, di cui 7,2 per elettricità e incentivi… e 13,7 miliardi di investimenti in nuovi impianti. Prevale tra i diversi comparti il fotovoltaico con circa 11,5 miliardi, grazie alla realizzazione di oltre 3.000 MW nel 2010. Seguono l’idroelettrico con 4,5 miliardi, l’eolico con 2,6 (in calo di circa il 15% rispetto al 2009), le biomasse con 1,8 miliardi e infine il geotermico con 500 milioni >> in Svimez, Rapporto Svimez 2011 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna, 2011, pag.726.
  2. Nebbia, Una situazione drogata in “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 21/1/2011; sull’intreccio di interessi tra grandi imprese (grossi impianti), piccole imprese (piccoli impianti), politica e criminalità organizzata si veda l’esempio dell’eolico (la rinnovabile più competitiva) in C. Bertani, Abitudine consolidata in www.carlobertani.blogspot.com, 20/4/2019.
  3. Per il bilancio elettrico nazionale si rimanda a GSE (Gestore Servizio Elettrico), Rapporto statistico 2010. Impianti a fonti rinnovabili, in gse.it . La produzione di energia elettrica può essere ottenuta da numerose fonti energetiche. Attualmente, a livello mondiale, rimangono ancora i carburanti fossili con il 64% (40% carbone, 17% gas, 7% petrolio) la principale fonte di produzione di energia elettrica. Seguono le rinnovabili con circa il 18,5%, di cui il 17% è rappresentato dall’energia idrica e solo l’1,5% dalle altre (eolico 1,3%, fotovoltaico 0,1%). La restante parte è coperta per il 14% dal nucleare e per circa 3,5% da altre fonti. Per quanto riguarda l’Europa, il peso dei combustibili fossili scende al 55% (30% carbone, 21% gas, 4% petrolio), mentre quello del nucleare sale al 30% e quello delle rinnovabili si ferma intorno al 13%, di cui il 9% è costituito dall’energia idrica e il 4% circa dalle altre rinnovabili (4% eolico e 0,1% fotovoltaico). Il restante 2% è prodotto con altre fonti (dati Terna, WEO, Enerdata dai rispettivi siti internet: www.terna.it, www.iea.org , www.enerdata.net .).
  4. Nell’ultimo rapporto della Bank of America Merryl Linch si prevedono entro il 2030 investimenti pari a 20 mila miliardi di dollari nel settore delle FER. Sulle società di venture capital come strumento importante per promuovere lo sviluppo delle FER ( strumento usato maggiormente dagli USA), soprattutto nei tre settori che sembrano destinati ad una crescita marcata: solare ( fotovoltaico e termico), eolico e biomasse, e sulle tendenze in atto in materia di finanziamento delle FER a livello mondiale, europeo e italiano si veda Enea, Finanza, venture capital e tendenze globali dell’investimento in energia sostenibile: quali sviluppi per l’Italia?, dossier, 2008, in old.enea.it/produzione_scientifica/dossier/D015_Finanza.
  5. Su questi temi rinvio a G. La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008, soprattutto la prima parte pp. 7-102.
  6. << Tutto sembra sia stato scatenato dall’accordo tra ENI, governo italiano e libico: l’Eni accettava di vedersi ridurre le percentuali di pagamento del petrolio e gas estratti, percentuali che scendevano al 12,5 % invece delle precedenti 30-40%; in cambio l’Italia avrebbe avuto congrui appalti per infrastrutture. Questo accordo suscitò la violenta reazione delle compagnie petrolifere francesi (Total), inglesi (BP) e americane (Chevron, Exxon) che temevano veder applicato anche a loro la riduzione al 12.5 % sui barili estratti. Vedremo i nuovi accordi col governo fantoccio. Gli appalti per la costruzione di infrastrutture e per lo sfruttamento di nuovi giacimenti erano stati affidati dal governo libico di Gheddafi a italiani russi cinesi (in piccola parte anche ai tedeschi), tagliando fuori le potenze atlantiche: già ora il governo del CNT li sta consegnando alla Francia, che ha già presentato il conto, e che sta avocando a se la ricostruzione delle infrastrutture e le forniture militari (precedentemente russe e italiane). Per le ingenti risorse idriche sotto il Sahara che il Governo libico di Gheddafi aveva fatto incanalare nella più grande infrastruttura idrica mai costruita dall’uomo, ancora la Francia sta manifestando interesse. >> in L. Ambrosi, 10 osservazioni geopolitiche sull’occupazione della Libia, 2011, in comedonchisciotte.org ; si veda anche G. Gaiani, Parigi presenta il conto a Tripoli. Pressioni sulla Libia dopo il forte calo delle commesse militari in “Il Sole 24 ore” del 20 ottobre 2011; B. Lugan, Il rebus turco in Libia, www.italiaeilmondo.com, 7/1/2020. Si pensi alla situazione dell’Algeria in piena crisi economica e sociale da cui l’Italia importa soprattutto gas naturale: è il secondo fornitore dopo la Russia e importiamo attraverso le pipeline del Transmed quasi il 30% dei consumi in B. Lugan, Algeria: dietro le enormi manifestazioni di rigetto della candidatura di Abdelaziz Bouteflika a un quinto mandato, il salto verso l’ignoto è assicurato in www.italiaeilmondo.com, 27/2/2019 e A. Negri, Non solo gas e incubo terrorismo: ecco perché ci deve interessare la nuova battaglia di Algeri in www.tiscali.it, 2/3/2019; A. Negri, Il patto diabolico di Bouteflika sulla pelle degli algerini in www.ilmanifesto.it, 5/3/2019; J. Perier, Le proteste algerine sono una rivoluzione colorata? in www.comedonchisciotte.org, 16/3/2019. Si osservi l’azione degli USA finalizzata ad azzerare l’export di petrolio iraniano in A. Negri, Sanzioni all’Iran: ecco come l’Italia (e l’Eni) cede a Usa ed Israele in www.ariannaeditrice.it, 18/4/2019 e si veda il progetto dei Tre Mari (Baltico, Nero e Adriatico) degli USA per creare una cintura di isolamento della Russia dall’Europa dell’Est attraverso il conflitto sulle risorse energetiche (riduzione delle esportazioni energetiche in Europa) in Lorenzo Vita, Tre Mari, quel piano USA per l’Europa che mette in pericolo l’Italia in www.insideover.com, 10/6/2019.
  7. << […] Alle spinte della lobby della deflazione, corrispondono analoghe spinte di parte statunitense per un aumento stabile dei prezzi del petrolio, in modo da favorire la produzione americana di petrolio di scisto. Questo petrolio è talmente costoso da risultare competitivo solo se i prezzi del petrolio superano i settanta dollari al barile. Da questa esigenza di creare condizioni di mercato per il petrolio di scisto, derivano i tentativi americani di mettere fuori mercato per i prossimi anni il petrolio del Venezuela, dell’Iran e della Russia. Un aumento del presso del petrolio in presenza di una generale stagnazione economica potrebbe innescare effetti recessivi devastanti, di una portata difficile da prevedere […] >> in Comidad, Le specificità della menzogna europea in comidad.org, 14/2/2019 e Comidad, La Libia ancora nella morsa del petrolio di scisto, www.comidad.org, 2/1/2010. Per la mancanza di una effettiva politica energetica dell’Unione Europea che si troverà sempre più dipendente dalle strategie energetiche USA per limitare le aree di influenza della Russia e della Cina si veda P. Rosso, North Stream 2: il conflitto si sposta all’UE in www.conflittiestrategie.it, 23/2/2019.
  8. Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Nuova storia universale dei popoli e delle civiltà, volume sedicesimo, Torino, 1974, pag. XXI.
  9. Si veda Agenzia Regionale per la Tecnologia e l’Innovazione (ARTI), L’innovazione nelle energie rinnovabili: possibili progetti prioritari per la Puglia, quaderno n.14/2008 in arti.puglia.it; Idem, Le energie rinnovabili in Puglia. Strategie, competenze, progetti, quaderno n.5/2008 in www.arti.puglia.it.
  10. L’<< effetto rebound >> in energia si ha quando si riduce l’impiego di energia di un servizio, il suo costo si abbassa; quindi, il risparmio realizzato permette un consumo maggiore dello stesso servizio in C. Gossart, Quando le tecnologie “verdi” in << Le Monde Diplomatique >> del 20 luglio 2010 (versione italiana).
  11. Per una interpretazione delle Fer appiattita sulle politiche deleterie della UE che non ha nessuna politica energetica, intesa come processo unitario delle Nazioni che la compongono, si rimanda a M. Reho, a cura di, Fonti energetiche rinnovabili, ambiente e paesaggio rurale, Franco Angeli, Milano, 2009.
  12. Lettera di un agricoltore in “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19/4/2011.
  13. Del Frate, La riforma degli aiuti? Cambierà il paesaggio nelle nostre campagne, intervista a Federico Radice Fossati in “Corriere della Sera” del 14 ottobre 2011.
  14. Petrini, Il boom delle energie rinnovabili spinge molti agricoltori a cambiare mestiere. E i campi diventano centrali per fotovoltaico e biogas in “La Repubblica” del 28 luglio 2011. Sulle gravi conseguenze degli agro combustibili sull’alimentazione, sulle risorse e sull’ambiente a livello mondiale si veda M. Grunwald, I sette falsi miti sulle energie rinnovabili in “il Sole 24 ore” del 6 settembre 2009; F. Houtart, Lo scandalo degli agrocombustibili nei paesi del Sud, 2009, in www.puntorosso.it.; Idem, Agroenergia. Soluzione per il clima o uscita per il capitale dalla crisi? Edizioni Punto Rosso, Milano, 2009; E.Holtz-Gimenez, I cinque miti della transizione verso gli agro carburanti in “Le Monde Diplomatique, giugno 2007 (versione italiana).
  15. Gambi, L’irrazionale continuità del disegno geografico delle unità politico-amministrative in L. Gambi, F. Merloni, a cura di, Amministrazioni pubbliche e territorio in Italia, il Mulino, Bologna, 1995.
  16. Maddalena, a cura di, Lo sviluppo delle energie alternative: il caso Puglia, Franco Angeli, Milano, 2012; sull’attivazione della politica popolare sui problemi ormai superati, una sorta di lotta per chiudere le porte della stalla dopo che i buoi sono stati rubati, si rimanda a M. Della Luna, Lotta politica e ingegneria sociale in www.marcodellaluna.info, 2/3/2019.
  17. Si veda sul rapporto tra produzione di energia e città diffusa B. Secchi, Il futuro si costruisce giorno per giorno. Riflessioni su spazio, società e progetto, a cura di G. Fini, Donzelli editore, Roma, 2015, pp.99-118.
  18. Per un’analisi prevalentemente tecnica e neutrale sulle previsioni della produzione e del consumo energetico per grandi aree, si veda G. Zanetti, Energia: proiezioni di domanda e offerta in scenari a elevata complessità in S. Carrà, a cura di, Le fonti di energia, il Mulino, Bologna, 2008.
  19. M.Cipolla, Uomini…, op.cit., pag.52.
  20. Renzetti, Dal petrolio al nucleare: diversa la fonte, analoga la dipendenza in “Indipendenza” n.24/2008. Per un approfondimento sul misero livello in Italia degli investimenti in ricerca, in conoscenza e in brevetti si rimanda a R. Renzetti, a cura di, Ricerca & sviluppo: dati recenti (2005) sul caso italiano in www.fisicamente.net; per un aggiornamento sull’andamento della ricerca e sviluppo in Italia e nei principali paesi OCSE in www.progetti.airi.it, oltre ovviamente al sito dell’OCSE ( www.oecd.org).
  21. Annoni, Spillo/Eni e il boomerang delle rinnovabili per l’Italia, www.sussidiario.net, 2/1/2020; G. Montanino ed altri, Lo sviluppo delle rinnovabili nel settore elettrico verso il traguardo del 2020 in “Economia delle fonti di energia e dell’ambiente” n.1/2010, pag. 32. Sul peso dell’elevato costo degli incentivi pubblici al fotovoltaico sopportato dagli italiani (un debito di quasi 90 miliardi, il 5% di tutto il debito pubblico) si legga G. Ragazzi, Ma quelle fonti di energia hanno costi esorbitanti (31/8/2010) e Idem, Le follie del fotovoltaico (6/5/2011) in www.lavoce.info. Sulle difficoltà che incontrano gli USA sullo sviluppo delle FER (necessità di continui sussidi governativi e impossibilità di avvantaggiarsi di economie di scala) si veda H. W. Parker, Le fonti rinnovabili beneficiano di economie di scala? In “Energia” n.3/2009.
  22. R. Vittadini, Come ti gestisco la trasmissione elettrica in “QualEnergia” nn. settembre /ottobre e novembre/dicembre 2008. Si veda anche G. Selmi, A.Sileo, L’intelligenza elettrica che trasforma la rete: le smart grid in www.nelMerito.com (16/9/2011); sulla criticità delle rete di trasmissione nazionale si rimanda a Terna, Piano di sviluppo 2011 in www.terna.it . L’International Energy Agency (IEA, Agenzia Internazionale dell’Energia) sostiene che in Italia << Dall’analisi dei vari settori emerge un elemento comune a tutti gli operatori che realizzano infrastrutture energetiche: la difficoltà di far avanzare i progetti dalla fase di pianificazione iniziale alla fase di completamento. Nonostante numerose iniziative prese a livello dell’amministrazione pubblica centrale in questi ultimi anni, rimangono ancora problemi essenziali da risolvere come testimoniano i ritardi nella costruzione di nuove strutture destinate al GNL ( Gas Naturale Liquefatto, precisazione mia) e alla fase di produzione upstream (la catena produttiva che include: l’esplorazione, la perforazione, l’ingegneria e la produzione e infine la coltivazione dei giacimenti, precisazione mia) di petrolio e gas, di nuove infrastrutture per la trasmissione di energia elettrica e di nuovi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili >> in IEA, Politiche energetiche dei paesi membri dell’AIE, 2009, p.5, in www.iea.org/books .
  23. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag.1.
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