INFLUENZA BALCANICA. LA SERBIA RIARMA MA NON PER RIVINCITE. OFFRE IL TRANSITO ALL’OLEODOTTO CHE TAGLIA FUORI L’UCRAINA…_di Antonio de Martini

Lo avevamo sottolineato già in alcuni articoli ed interviste di alcuni mesi fa. Prima che ai confini esterni, la NATO si concentrerà nei punti bianchi interni. Da quelle fessure potrebbero aprirsi crepe ingestibili. I Balcani, inoltre, sono il maggior punto di accordo tra gli interessi degli Stati Uniti e della Germania. Un buon modo per tentare di mettere in secondo piano i punti di attrito o di cercare contropartite più impegnative. D’altro canto la sopravvivenza dell’indipendenza politica della Serbia dipende dalla possibilità di rafforzare i legami con la Cina e la Russia. Potrebbero rientrare nel gioco anche Francia e Italia; la prima abituata a strepitare per nulla, la seconda ad acquattarsi contro se stessa_Giuseppe Germinario

I SERBI NEGLI ULTIMI TRE ANNI HANNO RADDOPPIATO LE SPESE PER LA DIFESA SUPERANDO ( NEL 2019) LA CROAZIA PARTNER N.A.T.O. QUEST’ANNO SPENDE IL 2,6% DEL BILANCIO. PIU’ CHE PER IL COVID.

Nel 2018 la spesa per la Difesa della Repubblica di Serbia é stata di 700 milioni di dollari, nel 2019 di 1,14 miliardi e nel 2020 – secondo il Jane’s – ha raggiunto 1,5 miliardi con un aumento anno su anno, del 43%.

Radovan Karadzic prima e dopo la cura. I successori non vogliono il bis.

I suoi vicini, MontenegroKosovoCroazia e Bosnia, sono in allarme, specie quelli che hanno minoranze serbe sul loro territorio e che magari le hanno bulleggiate, forti della presenza protettrice NATO e USA (la KFOR di cui fa parte anche l’Italia).

Ora che la presenza americana viene a mancare e la Serbia riarma – nemmeno silenziosamente- la fibrillazione non manca, stimolata da dichiarazioni tipo “Adesso abbiamo 14 MIG 29” come ha affermato orgogliosamente il presidente Aleksander Vucic. Come a dire che questa volta bombardare la Serbia non sarà facile come nel 96 .

E’risaputo che le fanterie NATO e USA possono affrontare , male evidentemente, guerriglieri afgani, ma non i guerrieri che non hanno temuto di affrontare i turchi,gli Austroungarici o i tedeschi quando se ne é presentata la necessità.

Proprio questo mese é stato creato il “giorno dell’unità, della libertà serba e della bandiera nazionale”. Ottima occasione per revival patriottici.

Alla domanda retorica del presidente croato Zoran Milanovic ” se i serbi non avessero nulla di più importante o intelligente da fare” ha risposto il Ministro dell’interno serbo Aleksander Vulin, spiegando che ” non c’è nulla di più importante dell’identità serba” e con questo ha chiuso la questione, mentre la Serbia ha lanciato la nuova parola d’ordine ” il mondo serbo” del quale potrebbero far parte “volontariamente e informalmente ” i paesi della ex Jugoslavia “per poi aderire in futuro anche giuridicamente. “

Ovvio che dichiarazioni del genere provochino timori o ipotesi interessate di revanscismo che potrebbero potenziare eventuali vecchi rivali, ma la realtà potrebbe essere ben diversa e le dichiarazioni essere semplicemente destinate a rafforzare lo spirito patriottico serbo in vista di futuri cimenti che tengono conto di quanto é effettivamente accaduto in Siria, Irak, Yemen e Afganistan, non appena quei paesi siano stati attraversati dalle linee di rifornimento o rotte commerciali petrolifere americane.

Non credo sia vero.

Pubblico pertanto una carta geoeconomica dell’Europa e delle sue vie di accesso, che illustra in blu il sistema vascolare che alimenta l’Europa ( e l’Italia) in gas e greggio proveniente dalle zone di produzione: Algeria, Russia e Levante. Ci sono gasodotti in progetto e in costruzione ( tratteggiati in rosso). Le linee blu continue sono operative. Quelle irachene le ho viste coi miei occhi,erano tre, ma non ne ricordo più il tracciato esatto, solo i punti terminali alle raffinerie di Haifa e Tripoli di Siria.

Il tratteggiato rosso che attraversa la Serbia, ha creato le premesse di un periodo di instabilità, che non é dovuto all’ipotesi di una ” seconda lezione” ai serbi che si cautelerebbero con un piano di riarmo che ha allarmato i vicini. E’ dovuto alla previsione di rappresaglie contro l’aver offerto ai russi l’opportunità di ” punire” l’Ucraina privandola delle royalties di transito sul suo territorio dei gasodotti russi rivolti a occidente. A fine lavori, la Russia disporrà di due itinerari di rifornimento della Germania e dei paesi centroeuropei “amici”, senza dover subire controlli, ricatti e prezzi degli ucraini protetti dagli USA.

Al contrario , ora l’Ucraina deve temere per la perdita di miliardi di royalties russe di transito, nella indifferenza europea che si vedrebbe comunque rifornita.

La Russia ha raddoppiato il northstream ( anche se il secondo condotto é finito ma non é ancora operativo) e sta moltiplicando gli oleodotti anche da sud ( con l’oleodotto ” Brotherhood e Turkish detti southstream) con l’obbiettivo di impedire che un sabotaggio metta in crisi il sistema di approvvigionamento dell’Europa.

Per evitare di passare sotto le forche caudine dell’Ucraina, ha organizzato un passaggio ungherese attraverso l Serbia e l’Austria ed ora la Serbia si cautela riarmando ed ecco perché l’Austria si vede improvvisamente il premier passato sotto processo per corruzione.

Il ballo é cominciato e Belgrado ha intenzione di vendere cara la pelle.

Per cominciare intimorisce i vicini – specie il Kosovo – che potrebbero ospitare basi ufficiali come la base Usa costruita durante e dopo la scorsa guerra balcanica, sia clandestine in caso la si voglia destabilizzare col solito collaudato sistema di “rivendicazioni popolari democratiche.”

Irussi guardano ai Balcani dalla metà del XIX secolo fino al trattato che va sotto il nome di Sykes-Picot, ma che fu ideazione e proposta di SERGEI SAZONOV , ministro degli esteri dello Zar, nel 1915.

La Russia entrò nel primo conflitto mondiale per difendere la Serbia contro l’impero Austro-Ungarico brandendo la bandiera dell’idea panslava e molti analisti sono pronti a giurare che potrebbe nuovamente scendere in campo in difesa dell’alleato, visto anche il successo del suo intervento in Siria e l’evidente riluttanza americana ad essere coinvolta da sola in azioni dirette.

L’Europa, che già pensa ad armare un corpo di spedizione di 50.000 uomini, dimentica che questo numero era, negli anni novanta, il quorum minimo necessario per una azione di peace keeping. Una guerra guerreggiata contro un esercito di popolo motivato, ansioso di rivincita e modernamente equipaggiato, richiederebbe ben altri mezzi e tutt’altra leadership.

IBalcani sono i nostri vicini di casa e non possiamo non notare che la ragnatela dei metanodotti punta all’Europa – il grande consumatore del globo assieme alla Cina anche’essa rifornita dai russi con un accordo decennale- e sia la rete russa che quella algerina e la costituenda rete levantina puntano verso l’Italia ( quella libica é ipotecata e resterà così a lungo) che é il ponte attraverso il quale tutti vogliono passare per giungere al cuore industriale dell’Europa che é la Germania. Un gasdotto su terra costa molto meno di uno sottomarino e potrebbe usufruire della rete creata dall’ENI in mezzo secolo. Italia e Germania, assieme formano il più ricco mercato del mondo per gli idrocarburi.

COSA VUOLE PUTIN

Con il recente aumento dei prezzi nell’imminenza della stagione autunnale, La Russia intende recuperare la ricchezza perduta con il varo delle sanzioni a suo carico, varate dall’Europa sulla scia degli USA.

La sanzioni economiche alla Russia costano cos^ doppiamente agli europei: in termini di lucro cessante ( mancate vendite ) e di danno emergente ( aumento dei costi del petrolio e del gas).

Putin e Lavrov ( e non va dimenticato Schroeder che , diventato il consulente di Gasprom si é certo vendicato di essere stato sostituito alla guida della Germania da una incolore Hausfrau) hanno usato strategicamente i rifornimenti di idrocarburi abbinati alla politica di armamento.

Hanno fidelizzato la Cina – che era grande amica industriale degli USA – con l’impegno a forniture decennali per tutte le sue industrie e promettono di acquistare armamento terrestre dai cinesi, coi quali hanno recentemente fatto manovre combinate con utilizzo di soli mezzi cinesi di terra – stanno fidelizzando la Serbia offrendole – oltre che la franchigia doganale assoluta per le merci già in atto da anni – royalties di transito degli oleodotti che si apprestano a negare all’infedele Ucraina e allettano la Turchia con offerte analoghe e collaborazione alla progettazione ( notizia della scorsa settimana) di carri armati turchi.

Aentrambe viene offerta anche la certezza di difendersi dalla eventuale schiacciante superiorità aerea USA e le affranca dalla dipendenza in fatto di armamenti e manutenzione in maniera che ulteriori sanzioni USA a loro carico e minacce di intervento risulterebbero inefficaci. Vendono i formidabili sistemi contraerei S 400 e gli aerei MIG 29 che sono superiori ai concorrenti americani e rendono impossibile operazioni come quelle che hanno atterrato Saddam Hussein, Gheddafi e hanno messo in difficoltà Siria e Yemen. Chi compra da Putin diventa intoccabile senza che la Russia possa essere considerata direttamente responsabile…

COSA VORREMMO NOI EUROPEI

Questo é il mistero. Per il momento, ognuno segue una politica basata sulla percezione degli interessi nazionali: La Germania difende il proprio canale di rifornimento di gas ( Northstream 1 e 2 )con la Russia. La Francia segue, ma non sappiamo per quanto ancora, vuole esercitare l’opzione dell’energia nucleare, L’Europa dell’est riapre le proprie centrali a carbone, L’Italia ha , d’accordo col passato governo tunisino, puntato sull’energia solare da produrre in Nord Africa e portare in Germania.

Il problema si é manifestato a causa dell’impennata dei prezzi del Gas dovuta alle restrizioni combinate ” quarantena + sanzioni. La brusca ripresa dell’attività industriale ha provocato una altrettanto brusca ripresa delle forniture e dei prezzi. Unico rimedio finora notato, é stata la riduzione dell’IVA praticata dagli spagnoli, mentre la Francia ha – con tre aumenti successivi- aumentato il prezzo del 57% e gli italiani, hanno nominato una commissione di studio….

Più sempliciotta la soluzione escogitata dal duo Ursula Van Der Leyen e Frans Timmermans che hanno varato un ” piano verde” assortito a uno slogan ” Fit for55″ ( riduzione del 55% delle emissioni di gas serra) con cui si vantano di essere stati i primi al mondo a fissare il traguardo ” clima” delle riduzioni di consumi entro il 2030.

Non indicano come riuscirvi e questo ne riduce la credibilità. Si affidano alla buona volontà delle imprese e danno l’impressione di non rendersi conto degli ostacoli cui andranno incontro a partire dai due anni che mediamente una delibera impiega per giungere in Parlamento con l’approvazione dei singoli paesi. Non a caso i verdi votarono contro la elezione di Ursula alla presidenza della commissione e si astennero alla votazione della fiducia della intera compagine.

D’altronde, la Ursula si é già scusata ufficialmente per una serie di topiche: dal mancato sostegno all’Italia all’atto dello scoppio della pandemia, alla sottovalutazione del trentesimo anniversario dell’indipendenza ucraina (fece comunicare dal capo di gabinetto che non avrebbe partecipato, come per una fiera di paese), al “divanogate” di Ankara ( che ha mostrato un uso approssimativo del suo staff al netto della misoginia del protocollo turco); i ritardi nella consegna dei vaccini ASTRA ZENECA, mentre l’Inghilterra li otteneva puntualmente. Tutto fa pensare che non domina la macchina ma ne é dominata. Non mi meraviglierei se venisse sostituita in corsa ( o anche informalmente) , ad esempio , da Angela Merkel.

Di certo, di fronte a una politica energetica chiara degli USA, della Russia e dei cinesi, L’Unione Europea procede tra indecisioni del centro e miopi egoismi delle periferie.

Il finale della partita strategica ed energetica europea si giocherà nei Balcani dove la Croazia e la Bulgaria si riarmano per ” compliance” coi nuovi requisiti NATO, La Grecia per “difendersi” dai turchi, la Serbia per cautelarsi dalle possibili conseguenze dell’ospitare un gasdotto essenziale per l’economia ucraina in un momento strategico particolare per i rapporti tra est e ovest.

https://corrieredellacollera.com/

Requiem per il “sovranismo”, di Roberto Buffagni

Requiem per il “sovranismo”

Con il voto per il primo turno delle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre, il popolo italiano ha celebrato il requiem per il “sovranismo” italiano. Nelle ultime elezioni politiche di tre anni fa, metà degli elettori italiani ha votato per due partiti – M5* e Nuova Lega – che promettevano, benché confusamente e anche contraddittoriamente, di contrapporsi all’Unione Europea in nome dell’interesse della nazione e del popolo italiano; un movimento culturale e politico che si è convenuto di chiamare, goffamente, “sovranista”. Nel primo turno delle elezioni amministrative appena concluse, una metà degli elettori italiani si è astenuta dal voto.

Certo, la metà degli elettori italiani votante per il sovranismo nel 2018 e la metà astenuta nel 2021 non sono composte dalle stesse identiche persone, e sia nell’astensionismo sia nel voto confluiscono mille motivazioni. La corrispondenza, però, mi pare significativa, e logica. Perché avrebbe dovuto scomodarsi per votare nel 2021, la metà “sovranista” degli elettori italiani, quando i due partiti “sovranisti” del 2018, dopo una caotica e inconcludente esperienza di governo in comune, oggi fanno entrambi parte della maggioranza che sostiene il governo presieduto da Mario Draghi, il maggiore rappresentante italiano del “partito delle istituzioni” euro-atlantiche? Quando in effetti, il programma di governo di Mario Draghi consiste, in sostanza, nell’uniformazione dell’Italia alle linee culturali, politiche, economiche espresse dall’UE? Come ha recentemente rilevato Matteo Renzi, tre anni fa l’Italia aveva il governo più antieuropeista, e oggi ha il governo più europeista d’Europa.

Questa sconfitta del “sovranismo” italiano (non solo italiano) è una sconfitta strategica: non si è perduta una battaglia, si è perduta la guerra, o almeno una intera fase della guerra. Le ragioni pratiche della sconfitta vanno cercate nelle soggettività politiche “sovraniste”, che non sono state all’altezza del compito storico che si erano proposte; o meglio, per essere più precisi e meno ingiusti, del compito che la situazione storica presente imponeva loro malgré eux.

Così che, nonostante gli errori gravissimi commessi dall’avversario negli anni Duemila, nonostante la crisi di progettualità della UE, nonostante le disfunzionalità (tuttora non emendate, e in buona parte inemendabili) del progetto UE e del mondialismo occidentale, nonostante la finestra di opportunità apertasi, sul piano della politica di potenza, con la presidenza Trump che allentava il controllo statunitense sull’Europa; nonostante, insomma, le condizioni oggettive favorevoli alla battaglia “sovranista”, il risultato dello scontro è stata la resurrezione della UE, questo morto che camminava, e delle sue rappresentanze italiane, compreso un partito appena ieri moribondo e impresentabile come il PD; e il ralliement delle due principali formazioni sovraniste, M5* e Nuova Lega; verificatosi, per di più, nella forma ridicola e mortificante di un affannoso trepestio per salire a bordo della scialuppa di salvataggio del governo Draghi. Così agendo, M5* e Nuova Lega si sono disonorati: la parola non si usa più, ma la cosa che designa non ha smesso di esistere.

Il rovesciamento delle alleanze di M5* e Nuova Lega e la loro adesione al governo Draghi replicano infatti, farsescamente, il 9 settembre 1943, con le risse tra maggiorenti di seconda e terza fila sul molo nord di Ortona per riuscire ad imbarcarsi, al seguito della famiglia reale fuggiasca, sulla corvetta Baionetta. Come allora, e come sempre quando chi comanda si disonora, il popolo si disgusta, si rassegna, si rifugia nel cerchio di affetti e interessi personali della vita quotidiana, si spiega il mondo con le tristi ricette del cinismo, e non potendo fare il viso dell’armi tace, fissa lo sguardo a terra, si ostina in un muto diniego: neanche lo sfogo di un popolaresco vaffa gli è rimasto, perché era lo slogan battagliero del M5* “sovranista”, quando prometteva di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno” (!).

Sul come e il perché politici di questa sconfitta strategica c’è molto da dire, e molto ne dirà qualcun altro. Io non ne ho nessuna voglia. Sugli errori strategici della Nuova Lega, a mio avviso la formazione politica “sovranista” italiana più importante, ho già scritto qualcosa nel 20191, nel 20202 e negli anni precedenti. Chi ne avesse voglia cerca il mio nome su http://italiaeilmondo.com/ e trova quasi tutto quel che ho scritto in proposito. Con il senno del poi, mi sembra di averci indovinato spesso, e anche di avere previsto come sarebbe andata a finire, cioè molto male. Basta così. Tanto, non ha più alcuna utilità pratica ragionarci.

Beninteso: le ragioni del conflitto permangono, e con la sconfitta del “sovranismo” il conflitto non è finito: anzi. Esso si riaccenderà, più profondo e violento di prima, e continuerà a divampare per molti anni.

In questo breve scritto, mi preme di indicare – di iniziare a indicare – le cause profonde di questa sconfitta strategica del “sovranismo” italiano.

Scrivo “iniziare a indicare”, perché come cercherò di illustrare più avanti, le cause storiche profonde della sconfitta del “sovranismo” italiano sono anzitutto culturali: e il nodo culturale in cui vanno cercate è un vero e proprio nodo di Gordio, che da almeno due secoli e mezzo la cultura europea cerca di sciogliere o di tagliare, senza riuscirvi. Non ci riuscirò certo io. Mi limiterò dunque a indicare, molto sommariamente, la direzione in cui penso sia fruttuoso volgere sguardo e attenzione.

Il conflitto tra mondialismo e “sovranismo” è, ovviamente, un conflitto tra universale e particolare, o, per usare i termini cari alla cultura idealistica tedesca a cavallo tra Sette e Ottocento, tra Spirito e Natura; impiegando nozioni che datano più avanti nel tempo storico, tra Zivilisation e Kultur.

Per “Natura” va inteso, anzitutto, il mondo vitale degli uomini: i loro costumi, le loro tradizioni, i loro linguaggi, i loro legami di sangue, e in special modo le forme che storicamente integrano nella vita di una comunità tutto ciò che gli uomini non possono scegliere, le loro determinazioni esistenziali: il fatto che gli uomini nascono, maschi o femmine, in un tempo, in un luogo, in un linguaggio, da genitori che sono il loro destino; il fatto che tutti sanno di dover morire; il fatto che mondo, vita, uomo sono infinitamente più misteriosi che noti e compresi; eccetera. Il difetto, o il peccato, caratteristico della “Natura” è l’ostinazione, la cieca ostinazione nella propria particolarità, persuasa del proprio buon diritto a esistere “perché sì”, senza voler mai esaminare criticamente se stessa.

“Spirito” può essere inteso, ed è stato inteso, come “volontà di Dio”, o come “mondo trascendente delle Idee”, fonte della normatività e del giudizio assiologico su bene e male, giusto o sbagliato; oppure come leggi della ragione, pura e pratica, kantiane; oppure, ancora, come logica dell’intelletto astratto, della razionalità strumentale weberiana; eccetera. Nello Spirito, si manifesta la facoltà dell’uomo di riflettere su se medesimo, elevandosi sulla propria condizione, di prendere coscienza – ma scindendosi e alienandosi – di se stesso e del mondo; e di conseguenza, la capacità dell’uomo di modificare il mondo e modificare se stesso. Il difetto, o il peccato, caratteristico dello “Spirito” è la superbia, la cieca superbia persuasa della propria universalità e del proprio buon diritto ad asservire o sradicare ogni particolarità che gli resista: “fiat justitia o veritas o libertas, fiat spiritus – pereat mundus et vita!” scrive Thomas Mann a proposito dello “Spirito” nelle Considerazioni di un impolitico, e aggiunge: “è forse un valido argomento la verità, quando ne va della vita?

Nelle Considerazioni manniane, la Zivilisation è collegata a concetti come progresso materiale, astrattezza, uniformità, radicalismo, bourgeoisie, politica, democrazia, pacifismo, internazionalismo, letteratura, eloquenza pedante, forma vuota, nichilismo. La Kultur è invece definita negativamente rispetto alla Zivilisation, ma anche tramite l’associazione a concetti come conservazione, interiorità, anima, etica, sostanza, Bürgerlichkeit, arte, musica, poesia, Bildung. Sempre in questo suo ricco, tormentato e contraddittorio testo, scritto nel corso della Prima Guerra Mondiale, Mann esprime il suo timore che “in una fusione delle democrazie nazionali in una democrazia europea e mondiale” non sarebbe rimasto “più nulla della sostanza tedesca”.

Forse, il momento storico in cui è più proficuo volgere lo sguardo – non perché stia all’origine del problema, ma perché lì il problema comincia a chiarirsi e a prendere le forme che tuttora conserva in questa sua fase di nuova, acuta crisi – è il Settecento europeo, e il processo di formazione dei Lumi. Con le guerre di religione, si è spezzata la Cristianità; con la pace di Westfalia nasce lo Stato assoluto. Tra chi legge, scrive, pensa e comanda, il cristianesimo comincia a perdere la sua ovvietà, la sua posizione di presupposto indubitabile e indiscusso, di contesto obbligato per ogni riflessione. C’è dunque da ripensare il mondo di qua e di là, e, sul piano politico, da cercare una nuova e più adeguata legittimazione del potere, dei suoi mezzi e dei suoi scopi.

I laboratori in cui si svolge questo radicale ripensamento, e dove si formano i Lumi, sono due: la République des lettres e la Massoneria, come illustra la bellissima tesi di dottorato (1959) di Reinhart Koselleck3. La Massoneria continentale europea si divide presto in due ali, con linguaggio anacronistico denominabili come “di sinistra, progressista, illuminista” e “di destra conservatrice o reazionaria, romantica”. L’una, deistico-razionalista, è la Loggia massonica degli “Illuminati di Baviera”. Vi appartengono personalità come Goethe, Schiller (e il duca di Weimar Carl August), Fichte; si svolge al suo interno un dibattito culturale e politico vivacissimo, spesso aspramente conflittuale, nel quale si forma la cultura politica che darà origine a tutto il ventaglio di posizioni dei rivoluzionari francesi, dai girondini e foglianti ai giacobini. L’altra, cristiano-ermetica-alchemica, è composta da due Logge: l’Ordine della Rosacroce d’Oro e i Cavalieri Beneficenti della Città Santa, a cui partecipano membri della Compagnia di Gesù recentemente disciolta, aderenti al pietismo evangelico, pensatori e politici conservatori: è in queste due logge massoniche “di destra” che si forma la cultura politica che si manifesterà storicamente nella Santa Alleanza.

È interessante e significativo che Goethe, il membro più illustre della Loggia deistico-razionalista “di sinistra” degli “Illuminati di Baviera”, nella sua tarda maturità e vecchiaia sia divenuto un convinto sostenitore di Metternich e della Santa Alleanza. Il giovane incendiario che invecchiando diventa pompiere? Può darsi. Nella seconda parte della sua opera maggiore, il Faust, c’è però una spiegazione diversa, o ulteriore, di questa conversione politica.

Nell’Atto V del Secondo Faust, un Viandante – un Wanderer che è anche un autoritratto del giovane Goethe – turbato e stanco, tanto che “il cuore mi si spezza”, torna all’ “antico recinto, la capanna che mi ricoverò” da un naufragio, per ringraziare i suoi salvatori e riposarsi in un’oasi di pace. Ci vivono Filemone e Bauci, la coppia di vecchi sposi, umili e sereni, della favola ovidiana. A due passi di lì, con l’ausilio di Mefistofele e della sua magia, l’anziano Faust ha intrapreso la sua grande opera di Zivilisation: imbrigliare il mare in un vasto sistema di dighe, strappargli la terra e donarla all’operosità degli uomini. Per completare l’opera, Filemone e Bauci dovrebbero abbandonare la loro capanna, “i tigli antichi” e la cappella dove essi si affidano “alla santa custodia del Dio antico”. In cambio Faust, beninteso, gli ha offerto “una bella terra nel nuovo paese”. Ma Bauci si ostina: “Non aver fiducia nel suolo rubato alle acque: conserva la tua casetta sull’altura.” La caparbia fedeltà dei due vecchi, e il suono della loro campana, infuriano Faust: “Maledetto scampanio, che mi ferisce vergognosamente nel cuore come un colpo di fucile nei cespugli! Il mio regno si stende dinanzi a me senza confini, e consentirò io che il nemico mi derida alle spalle, e mi rammenti con questa invidiosa campana che il mio territorio è illegittimo.” Perché “La resistenza, la testardaggine, amareggiano la più ricca possessione; è solo per tuo danno e per la tua tortura che lavori a metterti sulla strada della giustizia.” Così che Faust incarica Mefistofele di occuparsene, e trasferire i due vecchi, ovviamente senza fargli alcun male: “Va’, dunque, e procura di farli sgombrare! Tu sai qual bel poderetto io abbia destinato a quella vecchia coppia.”

Ma le cose prendono un’altra piega, la piega che prendono “da lunghissimo tempo: la vigna di Naboth esisteva già.”

Insomma, il trasferimento non va liscio: come riferiscono a Faust i Tre Uomini di Mano di Mefistofele, “Perdonate! le cose non riuscirono troppo bene. Abbiamo bussato a quell’uscio, ma non venivano mai ad aprire: allora abbiamo atterrato l’uscio, il quale tutto rosicchiato dai tarli cadde sul pavimento. Abbiamo avuto un bel chiamare, minacciare, ma o non ci udivano o facevano mostra di non sentire; noi allora senza perder tempo te ne abbiamo liberato. La coppia non ha opposto una gran resistenza; essi caddero estinti e ciò fu cagionato dallo spavento. Un forestiero che si trovava colà e che cercò di resisterci, fu da noi freddato, e durante il breve intervallo scorso nel furioso combattimento, i carboni accesero la paglia sparsa intorno. Ora tutto ciò brucia liberamente come un rogo preparato per tutti e tre.

Dall’alto della sua torre Linceo, come Goethe “nato a vedere, eletto a guardare” racconta l’atroce accaduto: “Quale orribile spavento mi minaccia dal seno di questo mondo di tenebre! Vedo lampi fiammeggianti attraverso la doppia oscurità dei tigli; l’incendio si ravviva e divampa sempre più attizzato dal vento. Ah! la capanna brucia all’interno, essa che sorgeva umida e coperta di muschio. Si sente chiamare soccorso ma invano! Ah buoni vecchi, che un tempo vegliavano vicino al fuoco con tanta cura alimentato e custodito, diventano ora preda dell’incendio! Qual orribile caso! la fiamma divampa, il cupo mucchio di muschio non è più che un braciere di porpora. Possa almeno quella brava gente salvarsi da quell’inferno incandescente e furioso! Vivi lampi s’accendono, fra i cespugli, fra il fogliame; i rami secchi che ardono scintillando, si accendono in un batter di ciglio e vanno in cenere. Toccava dunque a voi, o miei occhi, di fare una simile scoperta! Perché mi fu dato di spingere lo sguardo così lontano? La piccola cappella crolla ad un tempo sotto la caduta ed il peso dei rami; acute fiamme serpeggiano già intorno alla cima degli alberi. I ceppi vuoti e scavati s’infiammano e rosseggiano, fino alla radice.”

[Lunga pausa. Canto.]

Il paesello, così bello allo sguardo, coi suoi secoli sparì.

E il Coro commenta, prima di uscire di scena: “L’antica parola dice: obbedisci di buon grado alla forza! e se tu sei deciso, se vuoi sostenere l’assalto, metti a repentaglio la tua casa, il tuo focolare. — e te stesso.”

Più chiaro perché il Consigliere Segreto von Goethe, reggente dei “progressisti” Illuminati di Baviera, in vecchiaia diventò un reazionario tifoso della Santa Alleanza?

Più chiaro anche perché “le ragioni del conflitto permangono, e con la sconfitta del “sovranismo” il conflitto non è finito: anzi. Esso si riaccenderà, più profondo e violento di prima, e continuerà a divampare per molti anni.”?

Mi pare di sì. Ne parleremo ancora.

 

3 Kritik und Krise. Eine Studie zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, Freiburg, 1959, tr. it. Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna, 1972

Tre paradossi di un assalto_di Giuseppe Germinario

Un mondo a rovescio! Almeno per chi ha vissuto e conosciuto il mondo di quaranta anni fa e più.

  • La sorpresa sardonica è tutta per Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, nelle vesti di apostolo e paladino delle libertà dal Green Pass e dalla “dittatura sanitaria”.

  • L’inquietudine serpeggia nelle parole di Giorgia Meloni che adombra il lezzo sulfureo della provocazione organizzata che sia quella autonoma di un gruppo di facinorosi o quella perpetrata e programmata, come più probabile, grazie a probabili complicità e direttive.

  • Il sarcasmo aleggia quando la quasi totalità dei gruppi dirigenti, specie quelli progressisti, ostentano la loro indignazione su un atto così proditorio e “tempestivo”, ma dimentichi dell’essenziale del loro passato.

LA SORPRESA SARDONICA

Tutti i movimenti a carattere rivoluzionario ed eversivo giustificano i propri atti, anche i più brutali, sotto il vessillo della libertà. In suo nome si compiono le azioni più coraggiose, gli atti più efferati, le conquiste più ambiziose e le nuove e peggiori forme di sopraffazione. L’enfasi dell’azione diretta individuale, il carattere di per sé purificatore ed emancipatore di essa, lo spiritualismo orientato al richiamo alla tradizione e a valori immobili come programma politico sono gli ingredienti necessari a tarare un movimento e a segnare la sua deriva progressiva verso un anarchismo individualistico reso politicamente praticabile paradossalmente attraverso una visione rigidamente gerarchica e militare del proprio impegno sino ad assumere un carattere terroristico. Un vicolo cieco che prima o poi, per sopravvivere e non soccombere, porta ad essere strumento e complice, volente e nolente, delle trame di potere più oscure dei centri decisionali. È quanto è successo a Roberto Fiore, a Terza Posizione e ai NAR negli anni ‘70 e ‘80. Uscito indenne con un salvacondotto che gli ha permesso di fuggire ed arricchirsi in Gran Bretagna. Difficile che la sua salvezza non abbia richiesto il pagamento di un qualche pegno pesante qui in Italia e nel luogo di esilio. Ritorna ormai attempato in Italia, ma assieme ad altri commilitoni pronto ad innescare pesanti provocazioni come l’assalto recente alla CGIL. La contingenza suggerisce la volontà di influire sul ballottaggio elettorale; uno sguardo più lontano suggerisce qualcosa di molto più profondo legato alla gestione della pandemia e della profonda ristrutturazione degli assetti sociali e politici.

L’INQUIETUDINE CHE SERPEGGIA

Ha ragione quindi Giorgia Meloni ad alludere sia pure timidamente alla “eccessiva” facilità di movimento di personaggi ormai attempati e conosciuti per il loro particolare impegno politico e a ricondurre la responsabilità di quanto accaduto per lo meno al Ministro dell’Interno. Dovrebbe essere molto più chiara ed esplicita visto che la sua formazione politica, FdI, è la lontana erede del partito che spesso e volentieri ha offerto qualche copertura alle formazioni stragiste di quegli anni. In mancanza, un ulteriore pesante tassello sarà posto al disegno di isolamento e ghettizzazione del suo partito, funzionale alla creazione di una opposizione di comodo. Una morsa che sembra ormai accompagnarla, con tempi e modalità diverse, alla parabola discendente intrapresa da Salvini.

IL SARCASMO CHE ALEGGIA

La prontezza e la decisione con la quale tutto il campo progressista ha reagito alla pesante provocazione nasconde un lato oscuro. La generazione detentrice delle principali redini del potere politico di matrice progressista ha vissuto in prima persona o si è formata nella fase immediatamente successiva agli attentati terroristici e stragisti condannando quegli atti e denunciando le connivenze, le infiltrazioni e le strategie di centri e settori istituzionali nazionali ed esteri. “La strage di Stato” era all’incirca il motivo conduttore di quegli anni. Sarebbe stato quasi scontato almeno ipotizzare qualcosa di analogo senza nemmeno lo sforzo di dover individuare nuovi protagonisti, visto l’evidente problema di ricambio generazionale. Non lo fanno e il motivo è facilmente intuibile.

CONCLUSIONI

I pretesti, le provocazioni, le trappole sono parti integranti dell’armamentario della lotta politica, a maggior ragione nelle fasi più concitate di scontro e nei momenti di scarsa credibilità di un ceto politico. Solitamente favoriscono maggiormente le forze che più controllano le leve e i centri di potere e di influenza.

Trovano condizioni più favorevoli di esercizio quando le questioni sono mal poste e gli obbiettivi individuati dai movimenti di opposizione scarsamente definiti se non fuorvianti.

Nella fattispecie con l’introduzione delle mascherine, il green pass, le chiusure il problema posto dalla contestazione è quello della limitazione delle libertà e dell’incostituzionalità dei provvedimenti, quando il tema reale ed imposto è quello della necessità dello stato di emergenza, delle modalità di applicazione e delle dinamiche di accentramento e di efficacia dell’esercizio del potere con tutte le manipolazioni connaturate o che fungono da corollario.

Può apparire una sottigliezza insignificante; in realtà è dirimente in quanto riconosce la possibilità teorica dell’introduzione di uno stato d’emergenza e costringe ad entrare nel merito della gravità dell’epidemia, del disordine istituzionale, delle misure necessarie in funzione degli obbiettivi da raggiungere e delle manipolazioni politiche ormai sempre più evidenti di questa condizione. Dal punto di vista delle dinamiche politiche può contribuire a superare la fossilizzazione del confronto antitetico-polare tra la visione complottista del grande disegno totalitario perpetrato da una cupola onnipotente e onniveggente e quella tecnocratica-positivista fondata sul verbo a prescindere degli esperti riconosciuti istituzionalmente; una fossilizzazione del dibattito su binari inesorabilmente tracciati di fatto dai secondi.

A corollario induce a porre realisticamente un altro aspetto dalle implicazioni analoghe: quello dell’esorcizzazione e demonizzazione del problema dell’acquisizione dei dati e del controllo di questi e dei comportamenti. Nella realtà qualsiasi progresso scientifico e tecnologico mira a, parte da una crescente capacità di controllo di dati e procedure. Il problema da affrontare è quello dell’utilizzo possibile e del riconoscimento istituzionale di questi da parte dei detentori piuttosto che la limitazione dei flussi.

Sembrano questioni avulse; sono invece dirimenti per liberare la dinamica politica e soprattutto i movimenti contestatori dalla gabbia inesorabile che hanno costruito i centri decisori dominanti, più fragili nella realtà rispetto alle apparenze, ma resi forti anche grazie alla complicità delle stesse vittime.

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IMPOSTE PATRIMONIALI E RENDITE PUBBLICHE

La ventilata riforma del catasto ha ridestato il dibattito sulle imposte patrimoniali, cioè quelle le quali, secondo una definizione diffusa, prescindono dalla percezione di un reddito (come, al contrario, l’IRPEF ed altre) e si applicano a chi è proprietario (o possessore) di un bene. Onde se il bene non produce alcunché, il possessore o proprietario è comunque obbligato a pagare l’imposta.

C’è chi esalta la patrimoniale perché “giusta”, in quanto colpirebbe i proprietari e lascerebbe indenni i non proprietari. Se il criterio della giustizia corrispondesse all’appartenenza proprietaria (secondo un’ingenua opinione del socialismo ottocentesco) tale concezione avrebbe un qualche fondamento. Ma dato che è evidente che non è così, essendoci redditi (e ricchezze) enormi generate con nulla o modesta relazione con la proprietà del bene (come i redditi dei manager, i corrispettivi del commercio, le retribuzioni dei vertici burocratici, ecc. ecc.) e, di converso, proprietà con redditi nulli o modestissimi); onde è la sproporzione di ricchezza, non l’appartenenza a determinarne la “giustizia”. E neppure notano che ad ottenere l’effetto redistributivo non è la patrimonialità o meno dell’imposta, ma l’essere progressiva o no.

Gli è che a sostenere tesi così inconsistenti è che se si esentano i patrimoni “piccoli”, si riduce gran parte della base imponibile e così l’utilità della patrimoniale viene ridotta: ciò quando, invece, il fine della stessa è “mettere le mani nelle tasche” degli italiani come dice Salvini, o “spennare l’oca senza farla troppo gridare” come scriveva Pareto, e cioè aumentare l’assetto predatorio, compensandolo (a beneficio delle oche) con nobili e commoventi discorsi di giustizia, eguaglianza ecc. ecc. che con l’imposta patrimoniale (secondo i di essa sponsor) avrebbero a che vedere più che con altri tipi di prelievo pubblico.

Si potrebbe rispondere a ciò con altri argomenti di natura economica: che la patrimoniale stimola a produrre reddito. Vero, ma del tutto marginale, perché ricavare reddito da un bene, direbbe la Palice è, comunque meglio che non percepirlo affatto e così via.

È interessante, invece, rilevare che la preferenza per la patrimoniale risponde non tanto a criteri economici, quanto a evidenze e regolarità politiche e politologiche.

La prima – tipica dell’Italia repubblicana – perché è la più gestibile da un’amministrazione sgangherata come quella nazionale.

Assai più se l’oggetto del prelievo sono immobili censiti e soggetti a pubblicità. Per cui l’affetto verso tale forma d’imposizione occulta la realtà di non volere e non credere che sia possibile recuperare l’evasione fiscale, generata per lo più da redditi di tutt’altra natura. Cioè non credere alle “riforme” sbandierate da tanti anni. Più che di volontà di cambiare il tutto rivela rassegnazione e compiacimento.

La seconda: scriveva Miglio che ogni sintesi politica dà luogo a rendite politiche distribuite dal vertice ai propri collaboratori e seguaci. La differenza principale delle rendite politiche da quelle di mercato è che le prime sono ottenute con la coercizione e che perciò sono garantite (e per questo assai appetite) dal monopolio della forza. Come sostiene Miglio la garanzia della rendita del seguace è a vita e per ogni situazione (almeno finché dura la sintesi politica). Scrive: “comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la situazione economica, la paga verrà ricevuta”. Mentre le rendite di mercato sono caratterizzate in negativo dall’aleatorietà (ossia dalla dipendenza dalla situazione economica) e in positivo della (tendenziale) assenza di limiti; un imprenditore può morire di fame o divenire Jeff Bezos. L’unico limite, sempre esistente, ma in misura assai differente, è quello dell’imposizione pubblica e soprattutto fiscale.

È da notare l’analogia tra imposta patrimoniale e i caratteri delle rendite politiche: il gettito non dipende dall’andamento di mercato e dai flussi di reddito. Così i quattrini per seguaci ed aiutanti devono essere trovati anche se non “prodotti” (quindi inesistenti).

Il gettito, per la stessa ragione, è garantito (come la rendita) perché la base imponibile è costante e sicura. Ancorare l’imposta al valore di beni non (o poco) deperibili come gli immobili significa, dal lato della spesa, assicurare i redditi erogati dalla classe politica. Non che lo stesso non possa farsi con altri “tipi” d’imposta (che non presentano le suddette analogie): ma è sintomatica la corrispondenza d’amorosi sensi  tra sostenitori della patrimoniale e fruitori delle rendite politiche (per lo più gli stessi).

Dov’è il limite della patrimoniale? È la realtà. Nel senso che, a meno di ritenere i contribuenti affetti da volontà di miseria, per un bene che non da reddito non può, alla lunga, pagare imposte; con la conseguenza che per farlo, il proprietario deve alienare il bene, ossia tollerare la propria spoliazione. Il regime/assetto parassitario (secondo la tripartizione di Pantaleoni) si converte così in assetto predatorio. Con i proprietari espropriati (o, nel migliore dei casi, immiseriti) per alimentare – prevalentemente – i tax-consommers.

Analogamente pensare che un sistema fiscale possa  sostenersi senza che i beni diano un corrispettivo (a meno di alienarli) è concepibile solo ove l’incidenza dell’imposta patrimoniale sia modesta, di guisa che l’adempimento dell’obbligo relativo possa essere assolto con altri redditi del contribuente.

Certo a tali obiezioni si può replicare che questi inconvenienti possono essere causati anche da altri tipi d’imposta: è vero, ma solo nella patrimoniale la corrispondenza tra modalità del prelievo e realtà della politica, delle sue regolarità e del dominio è così evidente. Onde si pensa di mistificarla od occultarla con un’overdose di derivazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

Russia: un ricordo dei crimini di guerra giapponesi al servizio del riavvicinamento con la Cina?_ di Julian Ryall

Ex alleati che dimenticano le ragioni di un sodalizio e rimpiangono di non aver avuto l’esclusiva del dominio mondiale nel dopoguerra_Giuseppe Germinario

La memoria resta una questione politica e diplomatica. Mosca ha sponsorizzato una conferenza internazionale per rivedere i processi tenuti nel 1949 a dodici uomini dell’Unità 731, un’unità di guerra biologica giapponese, accusata di crimini di guerra. I conservatori giapponesi si sono opposti, accusando Mosca di enfatizzare le atrocità commesse per promuovere un’alleanza più forte con Pechino e rafforzare le rivendicazioni russe sui territori settentrionali e sulle Isole Curili meridionali.

Julian Ryall, South China Morning Post , 18 settembre 2021. Tradotto da Alban Wilfert per Conflits

 

Una conferenza internazionale di due giorni organizzata dal governo russo nella città di Khabarovsk all’inizio di settembre per rivedere i processi per crimini di guerra tenuti lì nel dicembre 1949 ha suscitato l’ira dei conservatori giapponesi, che accusano Mosca di allargare la linea dei crimini di guerra. commessi dall’esercito imperiale nella speranza di conquiste geopolitiche.

All’epoca, dodici uomini dell’unità di ricerca sulla guerra biologica nota come Unità 731 , con sede nel nord-est della Cina durante la guerra sino-giapponese, furono condannati per la produzione e l’uso di armi biologiche durante la seconda guerra mondiale. Questi uomini sono stati condannati a pene che vanno dai 2 ai 25 anni di tempo di lavoro.

La conferenza è stata sponsorizzata dalla Russian Historical Society, dal Federal Security Service (FSB) e dal Ministero degli Esteri russo. L’occasione è stata ritenuta abbastanza importante perché il presidente Vladimir Putin e il ministro degli Esteri Sergei Lavrov preparassero essi stessi dichiarazioni che sono state lette durante l’evento.

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Descrivendo le udienze di Khabarovsk come di pari importanza ai processi di Norimberga e Tokyo, dove furono processati i leader delle potenze sconfitte dell’Asse, Putin ha affermato che il tribunale ha “espresso un giudizio legale, morale ed etico su coloro che hanno iniziato la seconda guerra mondiale e sono stati colpevole di terribili crimini contro l’umanità”. “Attraverso questo tribunale, il nostro Paese ha espresso la sua posizione di principio nei confronti di questa flagrante violazione del diritto internazionale, anche per quanto riguarda l’uso di armi chimiche e biologiche”, ha detto, aggiungendo che le sentenze emesse in quel momento hanno spianato la strada per la convenzione delle Nazioni Unite del 1972 che ha messo fuori legge queste armi.

Quando lo svolgimento di questa conferenza è giunto alle orecchie dei conservatori giapponesi, non è stato senza irritarli, che hanno invocato ragioni politiche che Mosca avrebbe dovuto evocare i crimini di guerra commessi dall’esercito imperiale giapponese in Estremo Oriente durante la seconda guerra mondiale.

Secondo loro, la Russia sta cercando di rafforzare la sua pretesa sulle isole contese nell’estremo nord del Giappone, conosciute come i Territori del Nord in Giappone e le Curili del Sud in Russia, e, allo stesso tempo, di promuovere un’alleanza più forte con Pechino , i cui rapporti con Tokyo restano spinosi a causa, tra l’altro, delle atrocità della guerra.

Il perno da Mosca alla Cina

Sebbene il Giappone si sia scusato per le sofferenze causate durante la seconda guerra mondiale, non ha riconosciuto pubblicamente le attività dell’Unità 731. Secondo i media statali cinesi, almeno 3.000 persone, per lo più civili cinesi e alcuni russi, mongoli e coreani, sono state sottoposte a esperimenti come cavie e morì tra il 1939 e il 1945.

Poco prima della conferenza, l’ FSB ha pubblicato ciò che ha presentato come documenti recentemente scoperti sulle attività dell’Unità 731. I titoli dei media internazionali, come “Esperimenti biologici giapponesi sui cittadini sovietici”, no, non hanno tardato.

Hiromichi Moteki, segretario generale ad interim della Società per la diffusione dei fatti storici con sede a Tokyo, ci assicura che le udienze di Khabarovsk non avevano altra base che la propaganda sovietica.

Secondo lui, la Russia sta di nuovo usando queste accuse per criticare il Giappone contemporaneo, perché molte persone “non hanno mai sentito parlare dell’Unità 731, anche perché è successo molto tempo fa. Improvvisamente, quando la Russia oggi annuncia una conferenza sui crimini di guerra e le accuse di guerra biologica, sta attirando l’attenzione mondiale. Moteki aggiunge che “questo non è un caso, in quanto serve anche ad aumentare il sostegno internazionale per l’acquisizione sovietica delle isole che hanno sequestrato dopo aver dichiarato guerra a un Giappone che era, di fatto, già sconfitto”.

Un editoriale in una recente edizione del quotidiano Sankei ha fatto eco a questa opinione, accusando il governo di Vladimir Putin di “sminuire gli atti illegali commessi dall’Unione Sovietica durante la guerra, sostenendo una visione storica in cui l’Unione Sovietica è il bravo ragazzo. e Il Giappone è il cattivo”. “Questo tipo di guerra dell’informazione è indissolubilmente legata all’affermazione del governo Putin che i Territori del Nord sono diventati russi a seguito della seconda guerra mondiale”, ha aggiunto.

Per James Brown, professore associato di relazioni internazionali presso il campus di Tokyo dell’American Temple University, è più probabile che Mosca rafforzi i suoi legami con Pechino per presentare un fronte unito contro gli Stati Uniti e i suoi alleati, tra cui il Giappone. “Questa è un’altra manifestazione del crescente riavvicinamento tra Cina e Russia”, ha detto, osservando che Mosca ha posticipato la celebrazione della fine della guerra contro il Giappone al 3 settembre, in coincidenza con la data ufficiale della vittoria della Cina. “Il Giappone ha motivo di allarmarsi per un tale allineamento tra i due Paesi, ma sembra che la Russia intenda costringere il Giappone a impegnarsi più da vicino e ad offrire maggiori aiuti economici in Estremo Oriente. -Russia orientale”, ha affermato.

1950. Brown aggiunse che la conferenza di Khabarovsk fu il risultato di un calcolo salva-faccia per la Russia, dal momento che l’URSS aveva violato il patto di neutralità sovietico-giapponese attaccando e detenendo decine di migliaia di prigionieri di guerra in Siberia per molti anni dopo la resa di Tokyo. Dei circa 700.000 uomini catturati durante la resa giapponese, non meno di 340.000 morirono in cattività, prima che l’ultimo gruppo fosse rimpatriato nel 1950. “La Russia è probabilmente un po’ preoccupata per l’immagine negativa che circonda l’attacco dei sovietici contro il Giappone ed è usando i processi di Khabarovsk per distrarre dalle proprie azioni “, ha detto.

https://www.revueconflits.com/russie-un-reveil-memoriel-des-crimes-de-guerre-japonais-au-service-dun-rapprochement-avec-la-chine/

GLI EUROPEI DI FRONTE ALLA VECCHIA E NUOVA POLITICA ESTERA DEGLI STATI UNITI, di Hajnalka Vincze

Al momento dell’insediamento, l’amministrazione Biden ha approvato il cambio di paradigma nella politica americana. Dopo le deviazioni, i tentativi ed errori e gli approcci mezzo fico e mezzo chicco che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni, la nuova squadra prosegue e consolida la transizione iniziata dall’odiato predecessore: il XXI secolo sarà dominato, senza alcuna ambiguità , per confronto con la Cina. Il resto – compresi gli altri avversari, così come gli alleati europei – sarà interpretato, elaborato e, se necessario, strumentalizzato secondo questo duello.

Cina, Cina, Cina…

Già sotto l’amministrazione Obama, Cina e Russia sono state identificate come le due potenze “revisioniste” che cercano di “sfidare alcuni elementi dell’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti”. I documenti della presidenza Trump, e ancor più la Strategia nazionale ad interim della nuova squadra di Biden, mettono i riflettori principalmente sulla Cina: “l’unico concorrente potenzialmente in grado di coniugare le sue attività economiche, diplomatiche, militari e la sua potenza tecnologica per porre un sfida duratura a un sistema internazionale stabile e aperto”.[1] Non sorprende che l’Alleanza Atlantica sia esortata ad adeguarsi il prima possibile. Lo farà al vertice di Londra di dicembre 2019, con un timido primo riferimento: la Cina presenta “sia opportunità che sfide,

Alla Conferenza di Monaco del febbraio 2021, il Segretario generale della NATO ha formalmente nominato la Cina prima nelle sfide. Gli alleati europei sono d’accordo ma sono comunque preoccupati per la credibilità delle garanzie americane: è da tempo che gli Stati Uniti abbandonano la dottrina che prevedeva di condurre due guerre contemporaneamente. Lo ha recentemente confermato il presidente democratico della Commissione delle forze armate al Congresso: dobbiamo «ammettere che non possiamo dominare ovunque, soprattutto nei conflitti simultanei».[2] Ma tutti hanno a cuore questo avvertimento dell’eccellente Stephen M. Walt: “Per salvare la NATO, gli europei devono diventare nemici della Cina”.[3] Il presidente dell’Assemblea parlamentare della NATO, il deputato democratico Gerald Connolly, afferma lo stesso,

La Russia come spaventapasseri

I documenti strategici americani operano una sottile distinzione: la Cina viene presentata come il principale “rivale strategico”, la Russia come un “disgregatore”, colui che “destabilizza”. Che li menzionino sempre, però, non è affatto banale. L’essenziale, per gli Stati Uniti, è la loro politica di contenimento della Cina, e l’attivazione della leva europea è fondamentale per raggiungere questo obiettivo. Tuttavia, maggiore è la minaccia russa, più facile è arruolare gli europei in questa “grande strategia”. Washington può assicurarsi la lealtà dei suoi alleati europei, a loro volta divisi, in due modi: o come protettore affidabile per coloro che sono più esposti alle inclinazioni russe; o rendendo impossibile la cooperazione tra Mosca e gli alleati occidentali che potrebbero essere tentati di farlo,

Da qui la fermezza dell’amministrazione Biden di fronte alle mobilitazioni russe al confine ucraino nell’aprile 2021 da un lato, e le sue pressioni accompagnate da minacce sul gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 dall’altro. In entrambi i casi, l’obiettivo è garantire che, secondo le parole di Jens Stoltenberg, “la solidarietà strategica nella NATO abbia la precedenza sull’autonomia strategica europea”.[5] Il terzo pezzo del puzzle è l’accesso americano alla politica di difesa dell’UE. Appena lì, la nuova squadra ha ottenuto la partecipazione al progetto “mobilità militare”, parte di un pacchetto di iniziative volte, in linea di principio, a rafforzare l’autonomia europea. Come ha affermato l’ex consigliere del Pentagono Robert D. Kaplan: “La NATO e la difesa europea autosufficiente non possono entrambe prosperare. Solo uno dei due può, e il nostro interesse è che sia la NATO. L’Europa sarà quindi per noi una risorsa e non un handicap quando affronteremo la Cina”.[6]

La disintegrazione dell’Europa

Per gli osservatori esterni abbastanza lontani, la diagnosi è ovvia: più che Cina o Russia, che comunque non sono banali, è l’immigrazione in massa – con i cambiamenti demografici e le problematiche culturali che essa comporta – che è, per i decenni a venire, la sfida predominante per il nostro continente. Il diplomatico universitario di Singapore Kishore Mahbubani lo descrive molto chiaramente nel suo recente libro, molto notato oltreoceano, “Ha vinto la Cina?” “. [7] Secondo lui: a causa della sua “sfortunata geografia”, per l’Europa, “è molto plausibile la prospettiva di essere invasi da milioni di migranti che arrivano su piccole imbarcazioni”. Se le condizioni politiche ed economiche non migliorano rapidamente nel continente africano, l’Europa può aspettarsi, prosegue,

Data la portata e la complessità del pericolo, gli europei avranno bisogno di tutti i possibili alleati. Nella lotta al terrorismo islamista propriamente detto, gli Stati Uniti continuano ad essere un prezioso alleato, sia operativamente che nell’intelligence. Tuttavia, si trovano in una situazione demografica e geografica completamente diversa: possono certo essere minacciati da alcuni attentati sanguinosi, ma non nella loro coesione sociale, nella loro cultura, nella loro esistenza. Non solo quindi concentreranno la maggior parte delle loro energie su qualcos’altro, la Cina, ma non appena uno si occuperà delle altre dimensioni della sfida, Washington potrà persino trovarsi in contrapposizione ideologica.

Come il presidente Obama che, nel 2009 nel suo famoso discorso al Cairo, tese la mano al mondo musulmano diffamando, senza nominarla, la Francia: “È importante che i paesi occidentali evitino di impedire ai musulmani di praticare la loro religione come desiderano. per esempio, dettando cosa dovrebbe indossare una donna musulmana. Non possiamo mascherare l’ostilità nei confronti della religione sotto le spoglie del liberalismo”. Al contrario, dice, “il governo degli Stati Uniti usa i tribunali per proteggere il diritto delle donne e delle ragazze di indossare l’hijab e per punire coloro che le contestano”.[8] A causa del totale fraintendimento in America circa la nozione stessa di laicità che riducono alla sola libertà religiosa, il presidente Biden e il suo entourage rimarranno su questa linea, se non di più.

Di fronte alla doppia sfida dell’immigrazione di massa e dell’Islam politico, l’Europa avrebbe altri alleati naturali, ma non unanimi in Europa e visti con un occhio molto negativo in America: Cina e Russia. Pechino potrebbe essere un partner particolarmente utile per la stabilizzazione e lo sviluppo dell’Africa. Quanto a Mosca, Jean-Pierre Chevènement, rappresentante speciale del presidente Macron per la Russia, osserva: “Fondamentalmente abbiamo gli stessi avversari, le stesse preoccupazioni, le stesse preoccupazioni nell’ordine internazionale. È un Paese molto grande, cento nazionalità, venti milioni di musulmani. Il terrorismo, lo sanno, lo hanno dovuto sopportare a Mosca, a Beslan in Cecenia. Pertanto, abbiamo ancora degli interessi comuni”.

Un recente rapporto del Congressional Research Service degli Stati Uniti osserva: “I funzionari europei si lamentano regolarmente del fatto che gli Stati Uniti si aspettano un supporto automatico da loro”.[10] In effetti, quando gli europei sentono il presidente Biden dire che l’America “guiderà il mondo” ancora una volta e “unirà l’Alleanza”, sanno che sarà loro chiesto di allinearsi con il loro più potente alleato. In ogni caso, qualunque sia l’amministrazione americana, la reazione degli europei è la stessa. La loro “eccessiva deferenza nei confronti degli Stati Uniti”, definita come tale da un ex consigliere del Dipartimento di Stato ed ex direttore britannico dell’Agenzia europea per la difesa, si verifica ogni volta, inevitabilmente.[11] Sotto Donald Trump, le concessioni venivano fatte per paura,

L’asimmetria fondamentale della relazione non cambia. All’epoca, il generale de Gaulle criticò Washington per aver sostituito la semplice consultazione all’ideale della codecisione. Da allora, anche le consultazioni sono rare. Gli alleati hanno dovuto affrontare un fatto compiuto per la decisione di Joe Biden di ritirarsi dall’Afghanistan (anche se i soldati americani fornivano solo un quarto della forza della forza internazionale). Hanno assistito, stupiti, alle proteste dell’amministrazione Biden che nel giro di pochi giorni ha qualificato Vladimir Poutine di “killer” e la Cina di “genocida” di fronte agli uiguri e “la più grande minaccia alla stabilità internazionale”. Paralizzati dall’idea che la minima deviazione non potesse mettere a repentaglio la partnership con l’America, gli europei si rassegnarono ad essa.

Il Segretario di Stato Anthony Blinken partecipa in videoconferenza al Consiglio Affari Esteri di fine febbraio 2021, che decide sull’attuazione di nuove sanzioni contro la Russia. Un mese dopo, l’Ue impone le prime sanzioni in 30 anni contro la Cina, per il trattamento degli uiguri, in coordinamento con Washington. Il tutto sotto la costante minaccia di rappresaglie americane contro le imprese europee, grazie al regime di sanzioni extraterritoriali. Il ministro della Difesa tedesco non aveva forse avvertito alla vigilia delle elezioni americane che «le illusioni dell’autonomia strategica devono finire»?[12] Gli altri leader europei si sono affrettati a raggiungerla e Parigi resta, come sempre, solo per ripetere: 

***

L’ambasciatore cinese a Bruxelles aveva riso, sulla rinuncia a revocare l’embargo sulle armi alla Cina, sulla “patetica sottomissione” degli europei “incapaci di prendere le proprie decisioni senza farsi influenzare da altri poteri”.[14] Oggi, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Herbert McMaster li avverte: o si schierano con Washington contro la Cina, o scelgono la “schiavitù” a Pechino.[15] Le due visioni si completano e si rafforzano a vicenda. Confermano l’osservazione fatta dal presidente francese: a meno che non assumano pienamente un’ambizione di autonomia, gli europei “avranno la scelta tra due domini” in un mondo “strutturato attorno a due grandi poli: gli Stati Uniti d’America. e la Cina”. [ 16] Il ministro degli Esteri Ue Josep Borrell sostiene valorosamente che “Non dobbiamo scegliere tra i due. Dovrà suonare come la canzone di Sinatra ‘My Way’.[17] Dimentica che la suddetta canzone è solo un adattamento di quella di Claude François, il cui titolo è molto più in linea con l’avversione pavloviana degli europei per qualsiasi idea di emancipazione: “Come al solito”.

Note:
[1] Interim National Security Strategic Guidance, White House, marzo 2021.
[2] Conversazione con Adam Smith, presidente della House Armed Services Committee, “Priorities for the fiscal year 2022 defence budget”, American Enterprise Institute, 22 aprile , 2021.
[3] Stephen M. Walt, “Il futuro dell’Europa è come il nemico della Cina”, Foreign Policy, 22 gennaio 2019.
[4] Gerald E. Connolly, “The Rise of China: Implicazioni per la sicurezza globale ed euro-atlantica “, Rapporto, Assemblea parlamentare della NATO, 20 novembre 2020.
[5] “L’UE non può difendere l’Europa”: capo della NATO, AFP, marzo 2021
[6] Robert D. Kaplan, “Come combatteremo la Cina”, l’Atlantico, giugno 2005.
[7] Kishore Mahbubani, ha vinto la Cina? – The Chinese Challenge to American Primacy, PublicAffairs 2020.
[8] “A new start”, discorso del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, all’Università del Cairo, 4 giugno 2009.
[9] Commento di Jean- Pierre Chevènement sul programma Les Incorrectibles di Sud Radio, 5 gennaio 2020.
[10] Relazioni transatlantiche: interessi e questioni chiave degli Stati Uniti, rapporto CRS, 27 aprile 2020.
[11] Jeremy Shapiro – Nick Witney, “Verso un’Europa post-americana : A Power Audit of EU-US Relations ”, European Council on Foreign Relations, 2 novembre 2009.
[12] Annegret Kramp-Karrenbauer, “L’Europa ha ancora bisogno dell’America”, Politico, 2 novembre 2020.
[13] La dottrina Macron : una conversazione con il presidente francese, Le Grand Continent, 16 novembre 2020.
[14] Ambasciatore cinese: il servilismo dell’UE è ‘patetico’, EUObserver, 16 dicembre 2010.
[15] HR McMaster, «Perché Trump è andato duro con la Cina e Biden seguirà», Politico, 15 aprile 2021.
[16] Discours du presidente Emmanuel Macron à la Conférence des ambassadeurs, 27 agosto 2019.
[17] Borrell: L’UE non deve scegliere tra Stati Uniti e Cina, EUObserver, 2 giugno 2020.

Hajnalka Vincze, Gli europei di fronte alla vecchia-nuova politica estera americana, Impegno n° 131 (estate 2021) , ASAF ( Associazione per il sostegno dell’esercito francese ).

https://hajnalka-vincze.com/list/etudes_et_analyses/599-les_europeens_face_a_lanciennenouvelle_politique_etrangere_americaine

Le rane bollite, di Giuseppe Germinario

Quatto quatto, sornione il vero vincitore di questa tornata elettorale è stato paradossalmente chi non vi ha partecipato e ha agito per vie indirette. Pur con qualche ombra, Mario Draghi.

Non il Presidente del Consiglio bensì il funzionario, l’emissario incaricato di mettere ordine nello stallo e nelle fibrillazioni sterili di un ceto politico allo sbando, di gestire il PNRR rispettando principi e direttive comunitarie, di ridefinire i criteri europei di compatibilità delle finanze pubbliche, soprattutto di fungere da terzo in grado di ricondurre le eventuali pulsioni autonomiste europee nei tradizionali canali filoatlantisti.

Proprio le novità su quest’ultimo aspetto rischiano però di ridimensionare e circoscrivere localmente la sua missione; l’esito delle elezioni tedesche porterà probabilmente al varo di un governo ancora più filoatlantista. Se a questo dovesse aggiungersi una vittoria troppo netta di Macron, il cerchio si stringerebbe ulteriormente e l’azione dell’emissario non più indispensabile. Resta comunque la qualità del personaggio, superiore di molte spanne al livello del ceto politico che infesta lo scenario italiano; qualità, però che rischiano di essere offuscate da una eccessiva e troppo prolungata esposizione, del tutto inusuale e controproducente in tempi ordinari per uomini di potere abituati a muovere leve e tessere trame in modo riservato. Una dinamica destabilizzante, già all’opera da alcuni anni negli Stati Uniti, che potrebbe innescarsi e sfuggire al controllo anche in Italia.

La tifoseria mediatica si è invece concentrata tutta sul palcoscenico. Ha levato sugli scudi la clamorosa vittoria del PD, ha deposto nelle ceneri la débâcle della Lega; con qualche circospezione ha sottolineato il tracollo del M5S e la crescita di Fratelli d’Italia. Una sicumera che, tra le varie cose, tiene in scarsa considerazione il carattere locale delle elezioni, l’importanza della differente qualità dei candidati e soprattutto la debolezza del radicamento militante e la ridotta capacità di influenza e di richiamo alla fedeltà dei partiti nazionali.

La realtà offre quindi tinte meno nette almeno nel primo caso.

Più che una vittoria e una travolgente avanzata, l’esito elettorale del PD sembra annunciare la fine, si vedrà se definitiva o temporanea, di una tendenza verso il tracollo, interrotta più per dabbenaggine e limiti evidenti degli avversari che per merito proprio; una interruzione o una pausa per altro molto più appariscente nei grandi centri urbani e nelle città che nella provincia e nelle periferie del paese.

La Lega offre un quadro molto più complesso da decifrare. La rappresentazione mediatica del disastro appare verosimile solo rispetto alla proiezione irrealistica tracciata sulla base dell’esito delle elezioni europee del 2018; in un contesto più equilibrato si può considerare ancora più una situazione di stallo tendente verso il ribasso che di vero e proprio collasso con punte di crisi più accentuate nelle grandi realtà urbane e di confermata scarsa significanza nel Sud e parte del Centro Italia. Una condizione di crisi latente accentuata dalla fallimentare gestione leghista dell’emergenza pandemica in alcune aree della Lombardia; fattore però destinato a restare meno determinante in un contesto di elezioni politiche generali nel quale la contestuale disastrosa gestione nazionale della crisi pandemica, specie del secondo Governo Conte, spingerà ad un generale comportamento omertoso di tutte le parti politiche. Crisi resa endemica e sempre meno gestibile dal dualismo, appena tollerabile in una fase ascendente di consenso e di opposizione al governo, tra l’aspirazione conclamata a costruire un partito nazionale, dedito all’interesse nazionale e la realtà di un radicamento e di una formazione politico-culturale di una classe dirigente localistica e particolaristica, sensibile tuttalpiù in maniera opportunistica alle sirene universaliste dell’europeismo.

Un dualismo appunto irrisolvibile nell’attuale contesto politico se non con la riproposizione di un altro dualismo, ancora più precario e problematico nel tempo, con una componente conservatrice egemone preferibilmente esterna alla Lega, già proposto a suo tempo durante l’apogeo della leadership di Berlusconi, ma irrealizzabile date le caratteristiche ed i limiti evidenti di Fratelli d’Italia, il partito al momento emergente del centro-destra.

Da questo punto di vista appare evidente e ormai sancita dal responso elettorale l’incapacità del gruppo dirigente della Lega di inserirsi nei centri decisionali e nei settori, presenti soprattutto nelle grandi aree metropolitane, le quali dovranno trainare nel bene e nel male i processi di ristrutturazione economica e riconfigurazione della formazione sociale, nonché determinare la collocazione geopolitica del paese; gli rimane una capacità residua di contrattazione legata al suo radicamento particolaristico.

Non è purtroppo una caratteristica esclusiva della Lega; riguarda piuttosto l’intero arco della rappresentanza politica, compresa quella del PD.

Nella loro pochezza, ne hanno offerto una rappresentazione plastica i discorsi di commento dei due partecipanti all’accesso al ballottaggio alle comunali di Roma: Gualtieri per il PD, Michetti per il centrodestra.

Il primo tutto teso alla missione universalistica, europeista di Roma nella veste di capitale d’Europa, con qualche concessione compassionevole alla condizione materiale della città e di gran parte dei suoi cittadini; il secondo con la sua enfasi esclusiva ai problemi particolari di degrado dei quartieri con qualche riferimento demagogico ai fasti imperiali passati e con nessun riferimento al ruolo e all’immagine di una capitale di una nazione e di uno stato nazionale.

L’uno espressione di una élite universalista in realtà arroccata e del tutto dipendente da scelte esterne, l’altro proteso in una difesa confusa e demagogica di interessi popolari talmente indefiniti da essere rinchiusi in prospettive particolaristiche ed immobilistiche. Entrambi incapaci culturalmente, non solo politicamente, di coniugare il ruolo politico e geopolitico di una capitale e di una nazione con la costruzione di una formazione sociale più equa, dinamica e coesa.

Lo specchio esatto di quello che è in grado di offrire il quadro politico e dirigenziale nazionale.

Per i media nazionali, detentori sedicenti dell’orientamento della pubblica opinione, l’aspetto dirimente di questa elezione è invece la sconfitta del populismo e del sovranismo.

Il sollievo evidente quanto infantile sotteso a questo giudizio è esattamente proporzionale alla compiacenza indegna con la quale hanno gestito la vergognosa vicenda degli “affaires” Morisi e Fidanza-Lavarini; indegna molto più per la gestione giornalistica che per il merito dei fatti e delle trappole probabilmente orchestrate all’uopo.

Il giudizio sul populismo, a parere dello scrivente, ha un qualche fondamento; ma solo nel merito, non nel carattere definitivo della sua sconfitta. Se per populismo si intende l’attitudine a “servire il popolo”, a scambiare per strategia, tattica e programma politico slogan, proclami ed aspirazioni generiche di un ceto politico emergente il quale tende a nascondere i propri limiti e il più delle volte le proprie reali ambizioni e finalità dietro le pulsioni ed aspirazioni popolari da questi ovviamente e univocamente interpretati, la crescita dell’astensionismo, lo stallo legato alle improbabili e improvvise giravolte, alla volubilità rappresentano certamente l’indizio di una crisi di credibilità tanto di questi che del ceto politico elitario e progressista che intende contrapporsi e sostituirlo, ma che in realtà finisce per rimanere arroccato nelle sue enclaves.

Quella tra populismo e sovranismo è però una associazione possibile, ma non inestricabile, la cui scissione potrebbe creare teoricamente condizioni più favorevoli all’affermazione più matura di quest’ultimo.

Se per sovranismo si intende il fatto che lo stato nazionale e la formazione di una classe dirigente nazionale sono condizioni necessarie ed indispensabili ad affrontare le dinamiche multipolari e i processi di globalizzazione; se con esso si esprime di conseguenza la necessità di modificare, ampliare e potenziare le prerogative statuali in grado di consolidare l’identità e la coesione di una formazione sociale e sostenere il confronto geopolitico, il discorso, con buona pace degli universalisti e dei lirici europeisti, è tutt’altro che chiuso. Può essere tutt’al più rimosso, pratica dei quali gli universalisti, specie progressisti, sono maestri, ma con conseguenze tragiche nel tempo delle quali si cominciano a intravedere diversi aspetti nel nostro paese. È la chiave che consente di individuare i giusti strumenti per cambiare e ridefinire il sistema di relazioni e di rapporti nel continente europeo in modo tale da affrancare i paesi e le nazioni dalla condizione di asservimento , di paralisi e di incapacità cui ci ha condotti l’Unione Europea e la NATO.

La crisi pandemica, la profonda riorganizzazione delle catene produttive, l’invenzione di nuovi prodotti e l’annunciata scomparsa di alcuni tradizionali, lo spostamento del centro di confronto nel Pacifico sono tutte condizioni oggettive che potrebbero facilitare il sorgere di forze “sovraniste”, meglio definire nazionali più mature nel perseguire propositi di contestuale coesione e dinamismo sociale ed indipendenza e autonomia politica nelle decisioni.

Nella fattispecie la riorganizzazione della componentistica nella industria dell’auto e della meccanica, l’attuale conformazione dell’industria agroalimentare, le scelte energetiche e in materia di difesa, lo stesso comparto finanziario, settori alcuni dei quali forniscono le basi di una stretta ed asfissiante dipendenza economica dalla Germania in primo luogo, base della propensione culturale al particolarismo della Lega ed alla sua soggezione politica ai centri bavaresi potrebbero essere la molla per la trasformazione positiva di queste forze politiche o per la creazione, dalle loro ceneri, di una formazione politica più matura in grado di comprendere la complessità delle dinamiche, di adottare le migliori strategie e tattiche, di conquistare la testa non solo le pulsioni dei ceti più dinamici.

Non è escluso, tra l’altro, che la potenza di queste dinamiche inducano soprattutto parti della Lega a risolvere il dualismo che la costituisce e con esso scindano alla fine il partito stesso prima che arrivi a consumarsi.

Nella componente progressista, quella purtroppo meglio predisposta al “buon governo”, un processo del genere attualmente non appare neppure ipotizzabile. Nello schieramento opposto il particolare radicamento sociale è oggettivamente più favorevole a questa trasformazione; rimangono l’enorme ritardo culturale e la volubilità e volatilità estrema del suo ceto politico, retaggio del populismo d’anteguerra e del particolarismo autocelebrativo ad impedire la nascita di una espressione politica matura.

Per governare processi complessi di questa portata occorre infatti un ceto politico solido ed autorevole capace di orientare pulsioni ed interessi, piuttosto che rimanere strumento ed ostaggio di questi. Le attuali condizioni di esercizio della democrazia, assieme al dissesto istituzionale, non fanno altro che alimentare queste dinamiche sino a portarle presumibilmente a condizioni di rottura, con i suoi esponenti destinati a finire come rane bollite, grazie alla loro sostanziale inconsapevolezza della posta in palio.

La velocità sempre più repentina con la quale ascendono e tramontano i leader politici da oltre venti anni a questa parte sono il sintomo di tale condizione.

Una dinamica che rischia di trasformare l’esperimento temporaneo della gestione della scena politica da parte di un tecnocrate-decisore, quale è Draghi, in qualcosa di più duraturo. Una tempistica che rischia di logorare e compromettere ulteriormente non solo il ceto politico, ma anche la stessa classe dirigente di solito preposta a gestire le cose con modalità solitamente più riservate, ma già di per sé impedita da evidenti limiti di capacità e comprensione, anche essa circoscritta sempre più al ristretto “particulare” perfettamente compatibili e propedeutici a subordinazione ed asservimento scevri da ogni ambizione.

LA GUERRA ASIMMETRICA HA FALLITO IL COLPO, di Antonio de Martini

LA SIRIA ROMPE DEFINITIVAMENTE L’ASSEDIO E LIBERA LA FRONTIERA OCCIDENTALE.

Dopo undici anni di ostilità verso la Siria  e appoggio logistico e politico  ai “ ribelli siriani” rivelatisi una banda di mercenari stranieri pagati dagli USA, re Abdallah II  di Giordania ha avuto ieri ( domenica 3 ottobre) una lunga conversazione telefonica col presidente siriano Bashar El Assad

Nella lunga conversazione il re – alleato degli USA e figlio di una inglese – ha confermato l’apertura delle frontiere, dichiarato il pieno sostegno della Giordania alla « stabilità , sovranità e unità territoriale » della Siria.

L’accenno alla «  unità territoriale » vale sia per Idlib al nord  (Turchia) che per il Golan a sud (Israele).

La posizione giordana va letta anche come vendetta contro l’intesa israelo-saudita che, l’estate scorsa, ha tentato una congiura di palazzo per  detronizzare il re e aprire la via al saudita Mohammed Ben Salman che aspira a soppiantare la dinastia Hashemita nel ruolo ( riconosciuto ufficialmente anche da Israele) di protettore di Gerusalemme terza città santa dell’Islam, anche per confermare il ruolo usurpato di protettore delle altre due città sante: Mecca e Medina.

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l’Arabia Saudita va verso l’isolamento nel mondo arabo?

L’ accanita, intelligente, difesa dell’esercito siriano e dei volontari libanesi, Falangisti cristiani e Hezbollah,  ha portato i suoi frutti: dopo l’Egitto e gli Emirati che stanno riaprendo le sedi diplomatiche a Damasco, un altro importante paese arabo leva l’assedio e apre alla riammissione della Siria in seno alla Lega Araba.

L’isolamento dell’Arabia Saudita e del suo reggente assassino si accentua, cosi come continua a svuotarsi  la politica USA  nel Levante.

Da undici anni di sforzi, finanziamenti e «  primavere », gli USA raccolgono solo la grave crisi dei rapporti con la Turchia e raggiungono un plebiscitario picco di impopolarità da Tunisi a Kabul.
E ci saranno altre conseguenze. In Yemen dove i ribelli Houti sono ormai alle porte di Marib ( principale città alla frontiera nord con l’Arabia Saudita), il che vuol dire la crisi dei rifornimenti tra i sauditi e il fronte.

Fermenti prevedibili anche in Sudan, dove il tentato golpe del mese scorso da parte di un reparto corazzato, fa temere l’inizio di un ripensamento rispetto alla recente scelta filoamericana e democratica, grazie anche a un crescente interessamento egiziano per una intesa contro il ricatto etiopico sulle acque del Nilo su cui poggia – tramite agricoltura di controstagione con l’Europa- tutta la raccolta di valuta pregiata dell’Egitto, canale a parte.

Un’altra arma di ricatto made in USA destinata a cadere o provocare una guerra. Intanto ha già provocato una guerriglia nella zona mussulmana del Tigrai, mentre per lo sfruttamento delle acque della Renaissance Dam manca completamente la palificazione elettrica tra ladina e la capitale…

Un’altra prova che la geopolitica é un’arma a doppio taglio per chi é sprovvisto di adeguata cultura storica, geografica e politica e vuole partecipare al grande gioco solo perché si sente forte. Come ha scritto Friederich Nietsche oltre un secolo fa, vincerà chi ha più memoria. Non chi immagazzina più dati ( NdR).

Lo stato della questione del Sahara, di Bernard Lugan

Nel 1956, quando il Marocco riconquistò la sua indipendenza, doveva ancora completare la sua riunificazione territoriale. La sua sovranità infatti era stata ripristinata solo sulle due ex zone dei protettorati francese e spagnolo, il che significava che diverse province o parti del paese dovevano ancora essere recuperate. Al nord, Sebta, Melilla, le isole Jaafarin, al sud, Ifni, Tarfaya, Saquia el Hamra e Oued ad Dahab, tutto sotto la sovranità spagnola.

 

Il signor Allal el Fassi, leader del partito nazionalista lstiqlal (Indipendenza), era stato molto chiaro su questo argomento il 27 marzo 1956 quando aveva dichiarato che: “Finché Tangeri non sarà liberata dal suo status internazionale finché il deserti spagnoli del sud, finché il Sahara da Tindouf ad Atar, finché i confini algerino-marocchini non saranno liberati dalla loro tutela, la nostra indipendenza rimarrà zoppa e il nostro primo dovere sarà quello di continuare l’azione per liberare la patria e unificarlo. Perché la nostra indipendenza sarà completa solo con il Sahara”. A tal fine, il sultano Mohammed V aveva dato il suo sostegno allo svolgimento nel marzo 1956 del Congresso della Saquia el Hamra dove diverse migliaia di rappresentanti di tutte le tribù della regione avevano proclamato la loro marocchinità. Nel giugno 1956 il Rguibat imbraccia le armi e nel novembre 1957 praticamente tutto il Sahara spagnolo è sotto il controllo dell’ALN, ad eccezione di tre punti di resistenza: Villa Cisneros, El Ayoun (Laâyoune) e Cape Juby (Capo Bojador, Boujdour). Questo sviluppo della situazione ai confini dell’Algeria, dove l’esercito francese stava combattendo l’FLN algerino, non poteva lasciare indifferente lo stato maggiore francese ed è per questo che, insieme alle autorità spagnole, fu deciso un intervento congiunto nel febbraio 1958. Fu Operazione Swab che ha cambiato i dati dei problemi nel Sahara Occidentale perché le tribù più impegnate nella lotta per l’attaccamento della regione al Marocco sono poi andate in esilio in territorio marocchino. Tuttavia, questi rifugiati erano al centro del problema della creazione delle liste elettorali per il referendum sull’autodeterminazione nel Sahara occidentale. Nel 1962, il re Hassan II chiese al Comitato per la decolonizzazione delle Nazioni Unite di inserire Ifni e il Sahara occidentale nell’elenco dei territori da decolonizzare. Nel 1964 e nel 1965, l’ONU sostenne la rivendicazione marocchina e invitò la Spagna ad aprire immediatamente i negoziati. Il 20 dicembre 1966 l’Assemblea Generale chiese a Madrid di restituire l’area di Sidi Ifni al Marocco e di organizzare, sotto gli auspici dell’ONU, un referendum nel Sahara occidentale. La Spagna si arrese a Ifni nel 1969, ma la spinosa questione del Sahara occidentale rimase irrisolta. Il 23 luglio 1973, i presidenti Boumediene d’Algeria, Ould Daddah di Mauritania e re Hassan II si incontrarono ad Agadir per definire un piano d’azione comune sulla questione del Sahara occidentale. Durante questo vertice sono state espresse in pieno giorno le opposte posizioni del Marocco e dell’Algeria: – La posizione di Rabat è stata chiara: in cambio del riconoscimento dell’esistenza della Mauritania da un lato e del suo confine con l’Algeria dall’altro, Algeri e Nouakchott doveva sostenere il desiderio del Marocco di recuperare il “suo” Sahara. Il Marocco ha accettato l’autodeterminazione solo a condizione che il ballottaggio avvenga o al ritorno della regione al Marocco o al mantenimento dello status quo spagnolo. – L’Algeria, che voleva invece uno “Stato sahariano” indipendente, vedeva nell’autodeterminazione un mezzo per ottenere questa indipendenza. Le soluzioni possibili erano quattro:
1) Attaccamento e integrazione in Marocco. 2) La divisione del territorio tra Marocco e Mauritania. 3) La costituzione di un’entità da definire sotto la triplice influenza di Marocco, Algeria e Mauritania. 4) La costituzione di uno Stato sahariano indipendente. Madrid ha applicato le risoluzioni Onu, in particolare quella relativa al referendum, ma in un senso non in linea con le opinioni marocchine.

Il 20 agosto 1974, re Hassan II si oppose ufficialmente al referendum indetto dalla Spagna perché, per lui, non c’era motivo di sottoporre al voto un territorio marocchino e ciò per staccarlo definitivamente dal Marocco. Quindi, il 17 settembre 1974, in questo contesto di situazione bloccata, il sovrano marocchino ha presentato la controversia marocchino-spagnola alla Corte internazionale di giustizia. Il 16 settembre 1975, quest’ultimo rese noto il suo parere: – Il Sahara occidentale non era una “terra nullius” al momento della sua colonizzazione da parte della Spagna poiché il territorio: – La Corte ha riconosciuto: “(…) l’esistenza, al tempo della colonizzazione spagnola, dei legami legali di fedeltà tra il Sultano del Marocco e alcune tribù che vivevano nel territorio del Sahara occidentale”. – La Corte ha ammesso: “(…) che le peculiarità dello Stato marocchino nascevano anzitutto dai fondamenti stessi del potere in Marocco, di cui il vincolo religioso dell’Islam e quello di fedeltà costituivano, più che la nozione di territorio, il due elementi fondamentali”. Legalmente in una posizione di forza, il re Hassan II cercò un modo per costringere il governo spagnolo a negoziare con lui. Ha quindi immaginato di riunire 350.000 volontari di cui 35.000 donne, in rappresentanza di tutte le province, regioni e città del Marocco, per coinvolgerli in una marcia pacifica verso il Sahara occidentale. Era la “marcia verde” che iniziò giovedì 6 novembre 1975 e che riunì diverse centinaia di migliaia di manifestanti in un’abbondanza di bandiere marocchine. Madrid ha accettato il fatto compiuto e il 14 novembre è stato firmato l’accordo tripartito Spagna, Marocco e Mauritania. Prevede la spartizione dell’ex colonia spagnola tra Marocco e Mauritania. In Marocco la parte settentrionale, cioè la Saquia el Hamra e in Mauritania la parte meridionale o Oued ad Dahab. Per il bene di una soluzione globale, il Marocco aveva quindi accettato di abbandonare la parte meridionale del Sahara occidentale alla Mauritania per allearsi con Nouakchott. La concessione, che era cospicua, fu però capita solo perché la Mauritania era diventata amica del Marocco. Tuttavia, l’Algeria e il Polisario cercarono di opporsi alla nuova situazione e nell’ex territorio spagnolo scoppiarono pesanti combattimenti. Nella zona marocchina l’esercito reale è riuscito a contenere gli assalitori ma non è stato lo stesso nel sud dove è stato surclassato l’esercito mauritano, cosa che ha costretto il Marocco ad intervenire. Per l’Algeria, infatti, non si trattava di lasciare che il Marocco si estendesse lungo la costa atlantica, chiudendo così tutti gli sbocchi del Sahara algerino a ovest e all’oceano. La sua politica era quindi semplice: contestare con tutti i mezzi il carattere marocchino del Sahara occidentale e sostenere la finzione dell’esistenza di un popolo sahariano che ha il diritto di autodeterminarsi in modo da creare un mini stato sahariano sul quale Algeri potrebbe esercitare il controllo. di protettorato. Per raggiungere questo obiettivo, l’Algeria agisce in due direzioni: 1) Contestando l’accordo tripartito del 14 novembre 1975, non riconoscendo: “ai governi di Spagna, Marocco e Mauritania ogni diritto di disporre del territorio del Sahara e del destino di la sua gente; per questo considera nulla la Dichiarazione di Principi presentata dalla Spagna e non conferisce alcuna validità alle sue disposizioni”. (Lettera del rappresentante permanente dell’Algeria all’ONU, 19 novembre 1975. 2) Dare al Polisario i mezzi militari che gli permettano di condurre una vera guerra. Prima contro la Mauritania per destabilizzare il governo, poi, poi, contro il Marocco. Algeri ha beneficiato per la prima volta del sostegno spagnolo.

Madrid ha così denunciato l'”espansionismo marocchino” e ha avanzato l’idea dell’autodeterminazione del “popolo sahariano”. Poi, dopo la “Marcia Verde” e il ritiro spagnolo, l’Algeria è rimasta sola contro il Marocco. Poiché la sua azione politica e diplomatica non aveva avuto i risultati sperati, l’Algeria diede al Polisario i mezzi militari che gli mancavano e patrocinò una “Repubblica Araba e Democratica del Sahara” (RASD) che fu proclamata all’inizio del mese di febbraio 1976 e portò al fonte battesimale dell’Algeria, il cui interesse regionale era triplice: politico, economico [2] e strategico [3]. Per Algeri non si trattava di lasciare che il Marocco si estendesse lungo la costa atlantica e chiudesse così tutti gli sbocchi dal Sahara algerino all’oceano. La sua politica era quindi quella di contestare con tutti i mezzi il carattere marocchino del Sahara occidentale e di sostenere la finzione dell’esistenza di un popolo sahariano avente diritto all’autodeterminazione, in modo da creare un mini-stato sul quale potesse esercitarsi. sorta di protettorato. Il 25 ottobre 1977 un’azione spettacolare del Polisario portò al rapimento di ostaggi europei a Zouératen in Mauritania e il Marocco si trovò costretto ad intervenire per evitare il crollo dell’esercito mauritano. Il 10 luglio 1979, un colpo di stato rovesciò il presidente mauritano Mokhtar Ould Daddah che fu sostituito dal colonnello Ould Mohamed Salek. Pochi giorni dopo, al 16° vertice dell’OUA tenutosi a Monrovia, la Mauritania ha fatto sapere che si stava dissociando dal suo alleato marocchino e ha votato una risoluzione che chiede un referendum nel Sahara. Poi, il 5 agosto 1979, ad Algeri, alla presenza di quattro ministri algerini, fu firmato un accordo di pace in base al quale la Mauritania abbandonò ufficialmente la parte del Sahara che occupava, ovvero l’Oued ed Dahab ribattezzato Tiris El Gharbia. Di fronte a quello che considerava un rischio di esca, il Marocco ha poi fatto sapere che il territorio abbandonato dalla Mauritania era storicamente parte del regno marocchino. L’11 agosto l’esercito marocchino ne prese possesso e il 14 agosto i rappresentanti delle tribù di Oued ed Dahab giunsero a Rabat per giurare fedeltà al re Hassan II. Il Sahara occidentale era tornato completamente marocchino, ma le tensioni con l’Algeria, retrobase del Polisario, non cessarono mai. Inoltre, nel 1980, il Marocco decise di costruire un muro lungo 2700 chilometri proteggendo il territorio dai raid motorizzati lanciati dal Polisario dall’Algeria, che consentirono all’esercito marocchino di riprendere l’iniziativa sul terreno. La questione del Sahara occidentale è stata ancora una volta fortemente risolta nel 2020 e nel 2021. Nel febbraio 2020, durante il 33° vertice dell’Unione africana (ULA), e quando era appena stato investito alla guida dell’Algeria, il sig. Abdelmadjid Tebboune, è chiaramente in linea con la continuità della politica algerina nei confronti del Sahara marocchino. Poi, il 9 e 10 febbraio 2021 al vertice dell’Unione africana tenutosi ad Addis Abeba, il suo presidente, il sudafricano Cyril Ramaphosa. Questo fermo sostegno della RASD e del Polisario si è basato sul capo della Commissione per la pace e la sicurezza dell’UA, il diplomatico algerino Smail Chergui, anch’egli impegnato nella causa della RASD, per cercare di bloccare i progressi diplomatici. degli interessi marocchini. Per il sostegno della RASD e del Polisario c’era davvero un’emergenza, la RASD avendo visto il suo appoggio sciogliersi come neve al sole. Infatti, ancora riconosciuto da 70 Stati membri delle Nazioni Unite alla fine del XX secolo, la RASD è oggi riconosciuta solo da 24, di cui 12 in Africa, ovvero Algeria, Angola, Botswana, Nigeria, Etiopia, Mozambico, Mauritania, Namibia, Sudafrica , Uganda, Tanzania e Zimbabwe. All’interno dell’UA, il Marocco ha un forte sostegno.

Per la cronaca, nel novembre 1985, il regno si ritirò dall’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) quando questa organizzazione riconobbe ufficialmente la RASD. Nel 2017, dopo 3 decenni di assenza, il Marocco è tornato nell’UA insieme a una politica africana attiva illustrata dagli importanti tour del re Mohammed VI nel 2016 e nel 2017 [4]. Nel tentativo di silurare la diplomazia marocchina, all’inizio del 2021, nell’estremo sud del territorio marocchino, il Polisario ha tagliato la strada che collegava il Senegal e la Mauritania al Mediterraneo prima di essere respinto dall’esercito marocchino. Poiché il Polisario ovviamente non ha agito di propria iniziativa, era chiaro che l’Algeria l’aveva ingaggiato per testare la volontà marocchina. Tanto più che il 27 febbraio 2021, ampiamente riportato dall’APS, l’agenzia di stampa ufficiale algerina, il Polisario ha celebrato il 45° anniversario della RASD in una cornice direttamente ereditata dalle celebrazioni marxiste degli anni 70. Totalmente emarginato, il Polisario, una sorta di cumulo di testimonianze delle lotte antimperialiste di un tempo, sarebbe poi sopravvissuto solo grazie allo stillicidio dei servizi algerini.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

 

Le ragioni della crisi franco-algerina, di Bernard Lugan

L’Algeria ha appena richiamato per consultazione il suo ambasciatore a Parigi, poi ha deciso di chiudere il suo spazio aereo agli aerei francesi  per i rifornimenti di Barkhane. La ragione? Semplice calcolo elettorale o vera e lodevole consapevolezza, il presidente Macron che, fino ad allora, parlava della colonizzazione come di un “crimine contro l’umanità”, ha sorprendentemente solo mostrato “viriltà” denunciando il cuore del “Sistema” che pompa la sostanza dell’Algeria dal 1962 Due punti della dichiarazione presidenziale hanno letteralmente ulcerato i leader algerini:

1) I predatori che governano l’Algeria sopravvivono attraverso uno squarcio di memoria mantenuto da una falsa storia.

2) L’esistenza dell’Algeria come nazione è discutibile poiché è passata direttamente dalla colonizzazione turca alla colonizzazione francese. Tuttavia, i vertici di Algeri non denunciano mai il primo.

Il presidente Macron leggerebbe dunque il mio libro Algeria, la storia al posto , un libro inviato all’Eliseo in occasione della pubblicazione del deplorevole “rapporto Stora”, e in cui la falsa storia algerina è smantellata in dieci capitoli? Si potrebbe davvero pensarlo poiché, l’Algeria vive effettivamente al ritmo di una falsa storia sostenuta da un’associazione di sanguisughe, l'”Organizzazione nazionale dei Moudjahidines” (ONM), i “veterani”. Tuttavia , come ha affermato l’ex ministro Abdeslam Ali Rachidi, “tutti sanno che il 90% degli ex combattenti, i mujaheddin , sono falsi” (El Watan, 12 dicembre 2015). Ho così dimostrato, sempre nel mio libro, che i mujaheddin erano in realtà cinque volte meno degli algerini che combattevano nelle file dell’esercito francese.

Nel 2008, Noureddine Ait Hamouda, vice RCD (Raggruppamento per la cultura e la democrazia), si è spruzzato questo falso storico e il mito dei 1,5 milioni di morti causati dalla guerra di indipendenza. Una cifra che tutti gli algerini seri considerano del tutto fantasiosa, ma che permette al “Sistema” di giustificare il numero surrealista di vedove e orfani, ovvero 2 milioni di titolari della tessera mujaheddin e beneficiari, tra cui ¾ sono falsi…
Questi falsi mujaheddin che vivono della rendita commemorativa nata dalla falsa storia, beneficiano del 3° bilancio dello Stato, subito dietro a quelli dell’Istruzione e della Difesa. Perché, “originalità” algerina , e contrariamente alla legge naturale che più si avanza nel tempo, meno c’è gente che ha conosciuto Abd el-Kader…, in Algeria, invece, più passano gli anni, e più il numero degli “ex combattenti” aumenta… Così, alla fine del 1962-inizio 1963 , l’Algeria aveva 6.000 mujaheddin identificati, 70.000 nel 1972 e 200.000 nel 2017…

Come guardare in faccia la storia quando, in Algeria, a sei decenni dall’indipendenza, si ottiene ancora la tessera di ex mujaheddin sulla semplice dichiarazione di immaginari “fatti d’armi”? Il motivo è che i suoi titolari così come i loro beneficiari ricevono una pensione statale, beneficiano di prerogative, godono di prebende e hanno privilegi. Questa carta permette anche di ottenere una licenza taxi o alcolici, agevolazioni di importazione, in particolare auto esentasse, riduzioni del prezzo dei biglietti aerei, agevolazioni creditizie, posti di lavoro riservati, possibilità pensionamento, avanzamenti più rapidi, priorità abitative ecc.
In queste condizioni, qualsiasi messa in discussione della falsa storia porterebbe alla rovina dei prebendiers e alla morte del “Sistema”. Per questo i leader algerini si sono sentiti direttamente presi di mira dalle affermazioni del presidente Macron.
 
La situazione economica, sociale, politica e morale in Algeria è così catastrofica che migliaia di giovani senza speranza tentano l’avventura mortale dell’haraga , la traversata del Mediterraneo. Quanto al “Sistema”, totalitario e impotente allo stesso tempo, messo alle strette dalla strada in un vicolo cieco, è a bada. Ridotto a espedienti e basse manovre, per cercare di creare un diversivo, per questo, completamente diplomaticamente isolato e tagliato fuori dalla sua stessa popolazione, ordinò una doppia offensiva, sia contro il Marocco, da qui la rottura delle relazioni diplomatiche con Rabat ( vedi il numero di ottobre di Real Africa) e contro la Francia. Una corsa suicida a capofitto.

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