DA “IL COSTRUTTORE” , di Massimo Morigi

DA “IL COSTRUTTORE” DI GIUSEPPE GERMINARIO: FRA CORSI E RICORSI (SALAZARISTI) GOVERNO DRAGHI, POVERTÀ DEL SOVRANISMO E NUOVE PROSPETTIVE

 Di Massimo Morigi

 

        Scrive in data 17 febbraio 2021 Giuseppe Germinario sull’ “Italia e il Mondo” in Il costruttore (all’URL https://italiaeilmondo.com/2021/02/17/il-costruttore-di-giuseppe-germinario/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210220074947/https://italiaeilmondo.com/2021/02/17/il-costruttore-di-giuseppe-germinario/): «L’avvento di Mario Draghi sancisce il fallimento del movimento sovranista così come lo si è conosciuto e declamato in questi anni. Alla mancanza di una visione complessiva e di un programma credibile, all’assenza di una prospettiva tale da configurare nuovi schieramenti e nuovi sistemi di relazione in particolare tra i paesi europei che portassero ad una maggiore autonomia ed indipendenza politica, ha corrisposto il sopravvento surrettizio dell’opportunismo e del trasformismo, l’accodamento acritico all’atlantismo più codino. Di fatto una via obbligata per non scomparire o perire sotto i colpi della reazione. Del resto anche i movimenti “sovranisti” di riferimento in Europa Orientale hanno come riferimento nemmeno la NATO, ma l’americanismo più allineato condito con una dipendenza dai fondi europei tale da rendere fragili i loro aneliti, almeno sino a quando continueranno a coltivare la loro russofobia. È esattamente il contesto che ha determinato la situazione in cui si è cacciata la Lega, un partito sempre più espressione dei gruppi che rappresenta piuttosto che capace di sintesi e di indirizzo di una comunità.» Fra i vari e tutti ampiamente condivisibili ragionamenti sviluppati dall’articolo di Germinario (in estrema sintesi: governo Draghi come definitivo sigillo della tragica minorità culturale, geopolitica ed economica dell’Italia, classi dirigenti del paese del tutto inadeguate  non tanto a mostrare un minimo di autonomia rispetto ad input di eterodirezione provenienti dall’estero e in particolare dagli Stati uniti ma, appunto, ad essere funzionali a questi input e quindi necessità della loro sostituzione iniziando questo processo con Draghi, appunto) è proprio sulla minorità culturale e strategica della c.d. area sovranista che si impernia tutto il ragionamento complessivo svolto in Il costruttore, ed è su questa base che dovrà poggiare qualsiasi futuro discorso non diciamo ‘sovranista’ (parola ora che alla luce delle reazioni scomposte e non lucide dei ‘sovranisti’ alla grande novità politica del governo Draghi è ampiamente, ci si passi il termine, sputtanata, e non ci riferiamo soltanto ai “sovranisti” rappresentati in parlamento…) ma, diciamo, semplicemente strategico,  intendendo per ‘strategico’ tutto quel campo semantico e di azione politico-sociale ed  etico-politico del  grande realismo politico dei  pensatori italiani della filosofia della prassi che prende il via da Niccolò Machiavelli e che, riassunto  nell’Ottocento da Giuseppe Mazzini, sfocia nel Novecento in Giovanni Gentile ed Antonio Gramsci. Ad onor del vero, Giuseppe Germinario non è certo nuovo ad appassionate ma soprattutto lucide analisi sulle possibilità dell’Italia di una politica autonoma o, perlomeno, non servile. Da  Per un recupero delle prerogative dello stato nazionale italiano, per la salvaguardia dell’integrità del paese, verso una posizione di neutralità vigile (“L’Italia e il Mondo” in data 2 febbraio 2018, all’URL https://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210220113443/https://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile/ ), a Sovranità, sovranismo e sovranismi (“L’Italia e il Mondo”  in data 23 settembre 2018, all’URL https://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210215214828/https://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario/), a  Sovranismi limitati (in “L’Italia e il Mondo”, in data  25 novembre 2019, all’URL https://italiaeilmondo.com/2019/11/25/sovranismi-limitati-di-giuseppe-germinario/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210201090624/http://italiaeilmondo.com/2019/11/25/sovranismi-limitati-di-giuseppe-germinario/), per finire, appunto, con il contributo oggetto della presente comunicazione, tutto il pensiero di Germinario si snoda lungo una linea di saldo realismo, dove le critiche, sempre  asprissime e tranchant, sulle responsabilità delle condizioni del nostro paese, sono dirette, ancor prima che alle classi dirigenti espressamente deputate a mantenere lo stato di servilismo in qui versa l’Italia, contro coloro che dovrebbero rappresentare una credibile alternativa a questo stato di cose ma che, o per loro inguaribile insipienza o per volgare e scientemente praticata vuota demagogia, sono i principali nemici per cominciare ad uscire dal vile stato di soggezione e sottomissione dell’Italia iniziato nel secondo dopoguerra e ora giunto a completa e razionale maturazione attraverso il governo Draghi (un drastico salto di qualità  nell’esecuzione dei compiti di servilismo che fra l’altro, ci dice Germinario e noi condividiamo completamente, è un cambiamento che  sta per essere messo in atto  da una persona seria e capace, Mario Draghi appunto, e quindi,  per Germinario ed anche per  noi marxianamente ragionando, del tutto positivo perché potenzialmente foriero di esplosione di contraddizioni che il precedenti governanti fantoccio  sono riusciti, questo il loro grande “merito” storico,  a sopire ed imbastardire,  un sopimento ed imbastardimento dove la vittima sacrificale è il popolo italiano che culturalmente ed antropologicamente  ha perso, come s’è visto anche nell’ultima emergenza del Coronavirus, ogni qualsivoglia élan vitale, strategico e confllittuale).

        Recupero, quindi, di spirito e slancio combattivo favorito dalle esplosioni delle contraddizioni colpevolmente sopite ed avvelenate dalle classi dirigenti ormai messe da parte con l’ultima operazione di palazzo suggellata dalla definitiva intronizzazione di  Mario Draghi (operazione che, fra l’altro,  richiama nelle sue dinamiche, più che la miserrima vicenda dell’assunzione del ruolo di primo ministro del “tecnico” Mario Monti,   la chiamata al potere del dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, anch’esso uomo come Draghi di grandissima qualità e chiamato al capezzale di una repubblica portoghese morente e alla quale il futuro dittatore diede il  giusto ed inevitabile colpo di grazia. Come si dice, corsi e ricorsi …) sono le possibilità che ci offre questa nuova fase politica, possibilità non solo analizzate nell’articolo di Germinario ma per le quali viene offerto nel suo articolo la via per renderle effettivamente possibili ed operative, il rifiuto cioè antropologico e  culturale di tutti quei vecchi (o meglio: precocemente invecchiati) tromboni che fino ad oggi hanno  preteso di interpretare il rifiuto a questo stato di cose ma che,  lo ripetiamo, per insipienza culturale o per lucido calcolo (ad ognuno attribuire l’una o l’altro tipo di  colpa ai propri passati beniamini, ognuno è amante tradito da un proprio specifico incantatore di serpenti e si lascia ad ognuno  la libertà di pubblicamente comminare loro  il tipo di giudizio che in cuor proprio si sente di formulare) hanno fatto fallire clamorosamente. Giusta la via indicata da Germinario e come si dice, il dibattito è aperto (ma, ancor meglio, parafrasando il titolo di quest’ultimo contributo di Germinario, da ora è aperta l’azione per nuove azioni di costruzione cultural-politiche), permettendosi lo scrivente di aggiungere che per le nuove idee e linee d’azione non bisogna immaginare futuri salvatori ma risalire, anche se occhio criticamente educato, a quanto la storia del nostro paese ha saputo egregiamente – anche se tragicamente ed anche contradditoriamente  – produrre. Ed è appunto questa mia considerazione finale, il mio contributo sul percorso di (ri)costruzione ora  come sempre brillantemente  indicato da Germinario.

 

Cinque punti sull’accordo Cina-UE, di Olivier Prost e Anna Dias

Cinque punti sull’accordo Cina-UE

Con l’ambizione di “riequilibrare” i propri rapporti con la Cina, l’Unione Europea ha firmato con Pechino un accordo globale di investimenti, frutto di negoziati iniziati nel 2013 in un contesto politico completamente diverso. Sebbene il suo contenuto sia stato pubblicato di recente, Olivier Prost e Anna Dias forniscono un’analisi informata su un accordo sensibile.

Il 30 dicembre 2020, Ursula von der Leyen, Charles Michel, Angela Merkel ed Emmanuel Macron hanno annunciato in videoconferenza la conclusione di un accordo di investimento globale con la Cina di Xi Jinping, chiudendo i negoziati avviati nel 2013 (il “CAI” o “Accordo” ).

Il suo contenuto, recentemente svelato1, mostra un ambito tecnico relativamente modesto. Tuttavia, spetterà chiaramente alle imprese europee, attraverso gli strumenti offerti dall’accordo e gli strumenti per l’efficace attuazione degli accordi bilaterali della Commissione, far vivere al massimo le sue disposizioni e cercare soluzioni costruttive e pragmatiche, che gli impegni della Cina in termini di accesso agli investimenti nel suo territorio diventano una realtà più visibile.

Politicamente, tuttavia, l’Accordo è tanto coerente quanto tecnicamente modesto. Concluso in un particolare contesto geopolitico, dà alla Cina la speranza di migliorare la sua posizione nelle relazioni commerciali triangolari tra l’Unione europea (UE) e gli Stati Uniti. Questa non è la garanzia per la Cina di evitare sistematiche opposizioni UE-USA nei suoi confronti, ma la speranza che l’UE possa non allinearsi sistematicamente con le posizioni degli Stati Uniti.2. Questo costo politico, significativo per l’UE, è senza dubbio uno dei motivi per cui i suoi organi sono stati colti da diversi mesi da una frenesia di proposte normative volte a disciplinare il flusso di importazioni ingiuste, destabilizzanti o addirittura non rispettose di alcuni principi fondamentali quali come quelli relativi ai diritti umani. Sebbene queste iniziative siano rivolte a tutti i paesi, nessuno può negare che siano guidate principalmente dalla Cina.

1.  Un primo passo compiuto in un contesto particolare, un processo ancora lungo

Il trattato di Lisbona ha conferito all’Unione la competenza esclusiva nel settore degli investimenti esteri diretti (IDE). Spetta quindi ora a lui promuovere la sua competitività sui mercati mondiali attraverso maggiori investimenti e un migliore accesso ai mercati dei paesi terzi. Questa estensione delle competenze conferisce inoltre all’Europa una maggiore influenza sugli accordi di investimento internazionale, uno strumento essenziale in qualsiasi reazione alla globalizzazione.

L’obiettivo dei negoziati avviati nel 2013 con la Cina e sfociati nell’Accordo appena “firmato politicamente” è stato innanzitutto quello di sostituire il “mosaico” degli accordi bilaterali di investimento conclusi dagli Stati membri dell’UE, 25 in il tutto, comprendente perimetri diversi e incentrato sulla protezione degli investitori, senza affrontare la questione essenziale dell’accesso al mercato.

Già a settembre, a seguito di una videoconferenza con il presidente cinese Xi Jinping, il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva dichiarato alla stampa: “La Cina deve convincerci che vale la pena di avere un accordo di investimento”. La Cina sembra quindi essere stata persuasiva, facendo nuove offerte e riconoscendo che la conclusione di un accordo sotto la Presidenza tedesca offriva una finestra di opportunità che rischiava di chiudersi in seguito. Eppure, se gli ultimi quattro anni ci hanno insegnato qualcosa – il recente accordo sulla Brexit, la rinegoziazione del NAFTA, l’accordo di Fase 1 tra Stati Uniti e Cina – è che gli accordi commerciali e gli investimenti sono più che semplici accordi tecnici tra due economie.

Gli accordi commerciali e di investimento sono più che semplici accordi tecnici tra due economie. Sono diventati sempre più sforzi politici.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

L’Unione Europea ha deciso di suggellare l’accordo con Pechino, pur sottolineando che non era probabile che impedisse una stretta collaborazione con gli Stati Uniti sulle questioni cinesi. Lo testimonia la presentazione, lo scorso dicembre, di una nuova agenda transatlantica, di cui la Cina si qualifica ancora una volta come “rivale sistemica”. Stava rispondendo all’amministrazione Biden, che al suo arrivo ha anche sottolineato il suo impegno a lavorare con i suoi alleati e partner per affrontare le sfide che la Cina presenta agli standard e alle istituzioni globali.

Ciò non è sembrato sufficiente a creare una certa confusione nell’amministrazione Biden sul reale posizionamento dell’Unione nei confronti della Cina, e la stessa Cina sembra nella sua comunicazione pubblica dare l’impressione di aver stretto una nuova alleanza con l’Europa. È vero che la temporalità della conclusione è più che particolare: mentre le relazioni diplomatiche tra Unione, Stati Uniti e Cina sono segnate da un insieme di temi di grave e altamente politica preoccupazione (repressione degli oppositori politici a Hong Kong, deportazione di Uiguri ai campi di lavoro, censura e mancanza di trasparenza nella gestione dell’attuale pandemia) – tutte preoccupazioni che hanno portato gli Stati Uniti a prendere sanzioni nei confronti della Cina e dei suoi leader – l’Unione Europea decide di concludere un Accordo che segna una dinamica di apertura agli investimenti e di rinnovata fiducia con il suo partner cinese. Tuttavia, non si può negare che le relazioni economiche sino-europee avevano un disperato bisogno di un nuovo inizio. La Cina ha accumulato per molti anni un ritardo significativo nell’attuazione dei suoi impegni commerciali, in particolare quando è entrata a far parte dell’OMC. Potremmo ovviamente considerare la Cina come un partner in malafede, ma l’Unione Europea, sotto la guida del Cancelliere Merkel e del Presidente Macron, ha invece scelto una strada pragmatica,

La Cina ha accumulato per molti anni un notevole ritardo nell’attuazione dei suoi impegni commerciali, in particolare quando ha aderito all’OMC. L’Unione Europea, sotto la guida del Cancelliere Merkel e del Presidente Macron, ha invece scelto una strada pragmatica, che consente di sbloccare questa situazione e di far avanzare concretamente le cose a favore delle imprese europee che investono in Cina.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Quanto all’entrata in vigore dell’Accordo stesso, la strada da percorrere è ancora lunga e dovranno precederla diverse tappe importanti.

Primo, perché il testo attuale non è un testo definitivo, nonostante l’importante comunicazione pubblica da entrambe le parti. La Commissione ha indicato che sta effettuando revisioni tecniche di cui non si conosce l’entità. Inoltre, l’accordo concluso dal negoziatore, vale a dire la Commissione europea, deve quindi essere riesaminato dai giureconsulti e quindi ratificato, come qualsiasi trattato internazionale, per acquisire forza di legge. È probabile che il processo di ratifica sia complesso. La Commissione ha dichiarato di ritenere che l’accordo rientri nella competenza esclusiva dell’Unione europea come definita dal trattato, il che implica una ratifica limitata al Parlamento europeo. Alla luce delle recenti esperienze con accordi conclusi, ad esempio, con Singapore o il Canada, si discute la questione delle competenze esclusive o condivise tra l’Unione e gli Stati membri. Per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte di giustizia, quello che riguarda la tutela degli investimenti è una competenza condivisa, necessita quindi di una ratifica estesa a tutti i Parlamenti nazionali, con il rischio di blocchi e ritardi, come abbiamo visto. Con l’accordo con Canada. D’altra parte, poiché le questioni relative alla protezione degli investimenti sono state rinviate per ulteriori negoziati nell’Accordo con la Cina, si potrebbe pensare che la ratifica sarebbe limitata al Parlamento Europeo, ad eccezione di un gruppo di Stati membri. Non soddisfatto dell’Accordo non lo fa. dimostrare che alcune clausole riguardano effettivamente la protezione degli investimenti. quello che riguarda la tutela degli investimenti è una competenza condivisa, quindi richiede una ratifica estesa a tutti i parlamenti nazionali, con il rischio di blocchi e ritardi, come abbiamo visto con l’accordo con il Canada. D’altra parte, poiché le questioni relative alla protezione degli investimenti sono state rinviate per ulteriori negoziati nell’Accordo con la Cina, si potrebbe pensare che la ratifica sia limitata al Parlamento europeo, ad eccezione di un gruppo di Stati membri che non sono soddisfatti dell’Accordo non mostra che alcune clausole riguardano in realtà la protezione degli investimenti. quello che riguarda la tutela degli investimenti è una competenza condivisa, quindi richiede una ratifica estesa a tutti i parlamenti nazionali, con il rischio di blocchi e ritardi, come abbiamo visto con l’accordo con il Canada. D’altra parte, poiché le questioni relative alla protezione degli investimenti sono state rinviate per ulteriori negoziati nell’Accordo con la Cina, si potrebbe pensare che la ratifica sarebbe limitata al Parlamento Europeo, ad eccezione di un gruppo di Stati membri. Non soddisfatto dell’Accordo non lo fa. mostrano che alcune clausole riguardano effettivamente la protezione degli investimenti.

È chiaro che il processo darà luogo a un dibattito politico sulla posta in gioco delle relazioni Europa-Cina che andrà ben oltre le questioni economiche e commerciali con il potenziale o il rischio di bloccarne l’attuazione a tempo indeterminato.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

È chiaro che in un caso o nell’altro – ratifica da parte del Parlamento europeo o di tutti i 27 parlamenti nazionali – il processo darà luogo a un dibattito politico sulla posta in gioco delle relazioni Europa-Cina che andrà ben oltre le questioni economiche e con potenziale o il rischio di bloccarne l’implementazione a tempo indeterminato. Alcuni temi delicati legati a questo Accordo, come il commercio sostenibile oi diritti umani, dovranno assolutamente essere “chiariti” per la firma finale dell’Accordo che dovrebbe avvenire a metà della Presidenza francese dell’Unione Europea, nel primo metà del 2022, anno delle elezioni presidenziali anche in Francia. La strategia globale dell’Unione europea nei confronti della Cina dovrebbe pertanto essere quanto più chiara possibile entro il 2022.

2.  Le caratteristiche principali dell’accordo

L’accordo mira innanzitutto a consentire alle imprese europee un migliore accesso al mercato cinese e ad offrire loro condizioni di concorrenza più eque su questo mercato. D’altra parte, bisognerà attendere altri due anni prima di scoprire il secondo pilastro di questo Accordo che, una volta effettuato l’investimento, mirerà a tutelarlo da espropriazioni o altre misure penalizzanti. Questo sarà quindi il momento in cui le regole bilaterali a livello europeo sostituiranno i 25 trattati bilaterali in vigore sulla protezione degli investimenti conclusi tra la Cina e gli Stati membri.

2.1 Garantire un migliore accesso ai mercati

L’accordo contiene nuove aperture e nuovi impegni sull’accesso al mercato. In pratica, ciò significa porre fine alle restrizioni che limitano il numero di società suscettibili di operare in uno specifico settore, ai limiti alla partecipazione di capitali esteri oa requisiti come l’obbligo di costituire joint venture con una società cinese come condizione per operare in territorio cinese. Oltre a ciò, l’Accordo merita attenzione in quanto l’Unione Europea è riuscita a elencare un gran numero di impegni, ispirati da tante esperienze negative incontrate dalle aziende europee negli ultimi vent’anni – e altrettante clausole legali, specifiche, e quindi meno suscettibili all’interpretazione, che può, se necessario, essere soggetto al meccanismo delle controversie bilaterali. Tra queste clausole, si segnala il divieto di trasferimenti forzati di tecnologia o l’obbligo di svolgere una certa percentuale di ricerca e sviluppo in Cina.

Se queste concessioni cinesi possono sembrare un’importante vittoria per l’Unione Europea, va anche ricordato che molte di queste clausole erano già state concesse dalla Cina nella sua legge sugli investimenti esteri entrata in vigore nel 2020, largamente ripresa nella fase un accordo commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Se queste concessioni cinesi possono sembrare un’importante vittoria per l’Unione Europea, va anche ricordato che molte di queste clausole erano già state concesse dalla Cina nella sua legge sugli investimenti esteri entrata in vigore nel 2020, largamente ripresa nella fase un accordo commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. Ad esempio, la legge cinese già proibiva i trasferimenti forzati di tecnologia, concedendo il trattamento nazionale alle imprese a investimento straniero e garantendo loro pari diritti di partecipazione agli appalti pubblici. Inoltre, per quanto riguarda la graduale apertura dell’accesso al mercato agli investimenti esteri, dal 1995 la Cina ha classificato i settori come “limitati” o “vietati” per l’accesso da parte di investitori stranieri. Quando questo elenco negativo è stato aggiornato l’ultima volta, conteneva solo 34 settori. Inoltre, alcuni degli impegni di apertura del mercato assunti dalla Cina ai sensi dell’Accordo sono già coperti dalle sue normative o politiche nazionali e sono applicabili a tutti gli investitori stranieri, inclusi alcuni dei settori chiave dell’Accordo.

Resta il fatto che è inutile cercare la “paternità” definitiva delle concessioni fatte dalla Cina. La cosa più importante è che esistono, e inoltre la Commissione Europea ha sottolineato che sarebbero applicabili a tutti i paesi membri dell’OMC applicando la clausola della nazione più favorita. Ma soprattutto, per le imprese europee, era fondamentale che fossero “scolpite nella pietra” in un accordo bilaterale che univa Unione Europea e Cina e capaci di essere oggetto di risoluzione bilaterale delle controversie, che non necessariamente favorisce l’approccio del contenzioso, ma la ricerca di soluzioni costruttive da parte delle aziende interessate, con il supporto dei rispettivi Stati. Perché un impegno dalla Cina poteva esistere da diversi anni e un’azienda europea,

2.2 Rafforzare la parità di condizioni

L’accordo contiene anche impegni intesi a promuovere condizioni di parità) a vantaggio delle imprese europee (cui è concesso il “trattamento nazionale”) e una maggiore trasparenza nella regolamentazione dei sussidi e delle licenze. Tra le sue disposizioni volte a garantire parità di condizioni, l’Accordo presenta un articolo volto alla regolamentazione e alla trasparenza delle sovvenzioni, con ampia copertura dei settori dei servizi. L’accordo adotta la definizione di sovvenzioni dell’Accordo sulle sovvenzioni e le misure compensative (ASCM) e non si applica alle sovvenzioni per la pesca e i prodotti della pesca o per i servizi audiovisivi. Un allegato specifica i settori ai quali si applicano gli impegni in termini di trasparenza delle sovvenzioni: servizi alle imprese, servizi di comunicazione, servizi di costruzione e relativi servizi di ingegneria, servizi di distribuzione, servizi ambientali, servizi finanziari, servizi relativi alla salute, servizi relativi al turismo e ai viaggi, trasporti e fornitura di servizi. Questo articolo prevede che le parti debbano pubblicare informazioni su obiettivi, base giuridica, forma, importo e destinatario di ciascuna sovvenzione. Questi impegni in materia di trasparenza dovrebbero entrare in vigore entro due anni dall’entrata in vigore dell’accordo.

Tenuto conto del fatto che la Cina è riuscita ad escludere le sovvenzioni dall’ambito della risoluzione delle controversie, si può affermare che in termini di controllo delle sovvenzioni concesse dal governo cinese nel suo territorio, l’accordo rimane di portata estremamente limitata.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Tuttavia, va notato che in termini a volte un po ‘diversi, gli obblighi inclusi nel CAI in termini di trasparenza dei sussidi agli investimenti erano simili a certe disposizioni dell’OMC applicabili alla Cina dal 2001 che non erano mai state attuate correttamente fino ad oggi. Si può pensare in particolare agli obblighi di notifica delle sovvenzioni nel settore delle merci, procedura che dal 2001 è rimasta lettera morta. Inoltre e soprattutto, se si tiene conto del fatto che la Cina è riuscita ad escludere le sovvenzioni dal settore applicazione della risoluzione delle controversie, si può affermare che in termini di controllo delle sovvenzioni concesse dal governo cinese nel proprio territorio, l’accordo resta di portata estremamente limitata.

2.3 Incoraggiare il commercio sostenibile 

La lotta contro il lavoro forzato e la necessità di impegnare la Cina ad aderire alle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) e agli strumenti di protezione ambientale sono stati una questione importante durante i negoziati IAC. In base all’accordo, la Cina si impegna, ad esempio, a continuare ad aumentare il livello di protezione dell’ambiente e del lavoro. Né dovrebbe indebolire la protezione in quest’area per attrarre investimenti stranieri, e le discipline ambientali o lavorative non possono costituire una restrizione mascherata agli investimenti stranieri. In particolare, la Cina si impegna ad attuare efficacemente la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e l’Accordo di Parigi. Accetta inoltre di attuare efficacemente le Convenzioni ILO che ha già ratificato e accetta di lavorare per la ratifica di altre Convenzioni fondamentali ILO, in particolare le Convenzioni n. 29 e 105, che trattano di lavoro forzato.

Su questo punto, gli impegni cinesi in materia di clima e lavoro sono probabilmente senza precedenti nel contesto di un accordo bilaterale. Resta il fatto, tuttavia, che gli impegni in questione si basano essenzialmente su clausole di ” best effort ” e soprattutto che, come le sovvenzioni, la Cina ha ottenuto che tali disposizioni siano oggetto solo di un processo di consultazione. Caso di disaccordo, meccanismo senza effetto vincolante.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Su questo punto, gli impegni cinesi su clima e lavoro sono probabilmente senza precedenti in un accordo bilaterale. Resta il fatto, tuttavia, che gli impegni in questione si basano essenzialmente su clausole di ” massimo impegno “.E soprattutto che, come i sussidi, la Cina ha ottenuto che queste disposizioni siano soggette a un processo di consultazione solo in caso di disaccordo, un meccanismo senza alcun ambito vincolante. Si può quindi ragionevolmente pensare che la salvezza delle imprese europee interessate in questo settore passerà anche, e forse soprattutto, dall’utilizzo degli strumenti giuridici autonomi dell’Unione Europea, in particolare quelli che sono in gestazione come il “dovere di diligenza “(Commissario Reynders) e il” regime di sanzioni globali dell’UE nel settore dei diritti umani “, che prenderà di mira le persone e le entità responsabili (partecipanti o associate) di gravi violazioni o abusi nel campo dei diritti umani. sanzionare attori statali e non statali.

3. La Cina onorerà i suoi impegni?

Il record della Cina nel rispettare i suoi impegni commerciali è a dir poco mediocre, alcuni potrebbero persino optare per una qualificazione più severa. Lo stato cinese continua a guidare l’economia e il commercio, nonostante le sue stesse dichiarazioni e impegni a trasformare la sua economia in un’economia di mercato. Dalla sua adesione all’OMC, i membri dell’Organizzazione hanno perseguito molteplici sforzi per spingere la Cina a rispettare i suoi impegni. Non hanno portato a cambiamenti significativi nell’approccio della Cina all’economia e al commercio.

Dalla sua adesione all’OMC, i membri dell’Organizzazione hanno perseguito molteplici sforzi per spingere la Cina a rispettare i suoi impegni. Non hanno portato a cambiamenti significativi nell’approccio della Cina all’economia e al commercio.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Questo approccio continua a imporre costi significativi ai suoi partner commerciali, arrivando fino alla distorsione sistematica di settori critici dell’economia mondiale come l’acciaio e l’alluminio, devastando i mercati dei paesi industrializzati. La Cina continua inoltre a prevenire la concorrenza straniera da parte di preziosi settori della sua economia, in particolare i settori dei servizi. Allo stesso tempo, la Cina mantiene una politica aggressiva di investimenti all’estero, intervenendo per conto delle sue imprese in nuovi settori e paesi emergenti dell’economia mondiale.

Sulla carta, l’accordo raggiunto rappresenta quindi un importante passo avanti, visto il contesto sopra citato. Pertanto, nei settori in cui sono stati concordati impegni di accesso al mercato, la Cina non sarà in grado di imporre limitazioni al numero di imprese che possono svolgere attività economiche, al valore totale delle transazioni, al numero totale di persone da assumere, limitare o richiedono la costituzione di una joint venture o di una specifica entità giuridica come condizione per operare. Inoltre, l’accordo prevede il divieto del trasferimento forzato di tecnologia.

Tuttavia, l’accordo ha valore solo se viene effettivamente attuato dalla Cina. E in base all’esperienza, è lecito interrogarsi su questo punto, poiché è vero che il rispetto delle sue disposizioni implica uno sconvolgimento del sistema cinese di controllo sull’economia. Tuttavia, la Cina non adotterà misure che minerebbero la sua stabilità sociale o economica. Di conseguenza, le disposizioni dell’Accordo che mirano al rispetto delle misure che incidono sul controllo dell’economia e sul rispetto delle norme ambientali e sociali sono poco restrittive, così come quelle finalizzate all’accesso al mercato, che non sono in discussione il sistema politico ed economico cinese, sono fermi e potenzialmente efficaci per le imprese.

La Cina non adotterà misure che mettano a repentaglio la sua stabilità sociale o economica. Di conseguenza, le disposizioni dell’Accordo che mirano al rispetto delle misure che incidono sul controllo dell’economia e sul rispetto delle norme ambientali e sociali sono poco restrittive, così come quelle finalizzate all’accesso al mercato, che non sono in discussione il sistema politico ed economico cinese, sono fermi e potenzialmente efficaci per le imprese.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Da un lato, per quanto riguarda il controllo delle sovvenzioni promesso nell’accordo, la Cina ha finora rifiutato di adottare misure efficaci in questo settore. Sono come un’estensione del potere del partito e sostengono a debita distanza le imprese pubbliche in fallimento o lo sviluppo aggressivo delle imprese nei mercati interni o di esportazione.

Ad esempio, sebbene la Cina si sia impegnata ad aprire i servizi di pagamento elettronico ai fornitori stranieri come parte della sua adesione all’OMC, ha mantenuto le restrizioni, mentre un’impresa di proprietà statale (SOE), la China’s Union Pay , gode dell’accesso esclusivo al mercato interno, ha costruito una rete di servizi di pagamento elettronico in 179 paesi. È quindi improbabile che l’apertura di questi servizi agli investitori stranieri nell’accordo determini una migliore concorrenza poiché la posizione di monopolio dell’impresa statale è stabilita oggi.

D’altra parte, l’accordo include disposizioni relative all’ambiente e alle condizioni di lavoro. Richiede l’adesione ai protocolli di base dell’ILO, compreso il diritto di formare sindacati, la contrattazione collettiva e il divieto del lavoro forzato. La Cina si è impegnata solo a fare il massimo per raggiungere questo obiettivo, ma questa promessa è difficilmente credibile, dati gli scarsi risultati della Cina su questi temi.

In queste condizioni, per garantire che l’accordo non rimanga lettera morta, il meccanismo essenziale è quello che consente di risolvere le controversie e questo è uno degli obiettivi comprovati dell’Unione europea in tutti i recenti accordi commerciali che ha concluso di porre in collocare processi che consentano l’applicazione di sanzioni efficaci o misure correttive, se necessario.

Tuttavia, in questa fase, risulta che sui due punti sensibili sopra – il controllo degli interventi finanziari dello Stato nell’economia e gli impegni ambientali e il diritto del lavoro – i meccanismi destinati a garantire gli impegni di attuazione assunti nei confronti dello Stato gli interventi finanziari nell’economia o in questioni sociali e ambientali non sono vincolanti. In entrambi i casi è escluso il ricorso al meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dalla Convenzione, che consente a una delle parti di adottare, se necessario, misure correttive. Ciò implica che per le disposizioni più delicate dell’accordo, gli unici mezzi di ricorso sono le consultazioni ministeriali e la buona volontà delle parti.

Ciò non è molto rassicurante alla luce dell’esperienza passata e un po ‘paradossale se confrontiamo questa situazione con l’accordo Brexit appena concluso, dove i nostri vicini britannici sono soggetti alla minaccia di sanzioni rapide, dissuasive ed efficaci in caso di mancato -conformità all’Accordo su questi temi specifici. Viene data la curiosa impressione di essere più flessibili con la Cina che con il Regno Unito.

Si dà la curiosa impressione di essere più flessibili con la Cina che con il Regno Unito.

OLIVIER PROST E ANNA DIAS

Tuttavia, l’accordo prevede un adeguato processo di risoluzione delle controversie per le disposizioni sull’accesso al mercato che è paragonabile a quello che può esistere in altri recenti accordi commerciali e di investimento in Canada, nell’Unione europea (Canada, Corea del Sud, Giappone, ecc.).

Del tutto convenzionalmente, questo meccanismo di risoluzione incoraggia innanzitutto le parti a risolvere le controversie avviando consultazioni. Le parti possono anche optare per la mediazione. Se le parti non raggiungono una soluzione concordata di comune accordo, la parte richiedente può chiedere l’istituzione di un collegio arbitrale. Gli arbitri saranno selezionati dalle due Parti, per essere scelti da una lista predisposta dal Comitato Investimenti istituito dall’accordo. L’arbitrato funziona come i meccanismi di risoluzione delle controversie da stato a stato che si trovano nella maggior parte dei moderni accordi commerciali o di investimento. Gli arbitri devono presentare una relazione intermedia entro 120 giorni e la relazione finale entro 180 giorni dalla composizione del collegio. Le decisioni devono essere accettate incondizionatamente dalle Parti, ma non devono creare diritti o obblighi per le persone fisiche o giuridiche. L’Accordo prevede inoltre alle Parti la possibilità di applicare misure temporanee in risposta al mancato rispetto del lodo arbitrale, inclusa la ritorsione incrociata – violazione in un settore, sospensione di diritti / obblighi in un altro. La sospensione degli obblighi sarà temporanea e cesserà non appena la parte reclamata notificherà le misure che dimostrano la conformità con la decisione del collegio. Il testo prevede inoltre che, laddove una particolare misura abbia presumibilmente violato un obbligo ai sensi della IAC e un obbligo equivalente ai sensi di un altro accordo internazionale come l’OMC, la parte attrice può scegliere il foro di sua preferenza.

4. Il successo dell’Accordo presuppone che le aziende “lo facciano vivere  “

Per anni, quando un’azienda europea si è imbattuta in una legislazione cinese protezionistica o discriminatoria, il suo primo istinto è stato spesso quello di sollevare la questione in modo “politico” con le proprie autorità politiche, la Camera di Commercio Europea in Cina o altre istanze. Le aziende europee devono ora imparare ad attuare le disposizioni dell’accordo di accesso al mercato, prendendo l’iniziativa per stimolare la risoluzione delle controversie con la Commissione europea. Bisogna ripeterlo, non necessariamente per andare in contenzioso, ma per utilizzare tutti i pallet offerti dall’accordo permettendo di trovare una soluzione costruttiva con la Cina.

Le aziende europee devono ora imparare ad attuare le disposizioni dell’accordo di accesso al mercato, prendendo l’iniziativa per stimolare la risoluzione delle controversie con la Commissione europea.

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Infatti, se gli Stati stanno manovrando per negoziare gli accordi, sono le società che stanno al timone per farli rispettare. Per fare questo, devono rivolgersi a Bruxelles e alla DG Commercio per sensibilizzare il ”  Chief Trade Enforcer Officer”. (CTEO) e ottenere dai propri servizi, in caso di violazione dell’Accordo, l’ingaggio del sistema di risoluzione delle controversie, concepito non soprattutto come contenzioso, ma soprattutto come soluzione costruttiva! Ciò è particolarmente vero per un paese come la Cina, che raramente favorisce i conflitti nella risoluzione delle controversie. Il meccanismo di risoluzione delle controversie dell’Accordo, che considera il contenzioso solo come la soluzione definitiva, è quindi benvenuto a questo riguardo, a condizione che le società europee non indeboliscano e integrino l’Accordo e la sua risoluzione delle controversie “multiforme” nelle loro strategie di commercio di esportazione, in altre parole il diritto di servire le esportazioni.

In effetti, ciò che è essenziale per noi ricordare è che le società europee non dovrebbero essere spaventate dalla natura “statale” di questa risoluzione delle controversie. Al contrario, con il ritorno della politica all’economia, questo tipo di risoluzione delle controversie sta gradualmente diventando la norma nel contesto di molti accordi bilaterali. La cosa migliore che un’azienda può fare per risolvere le controversie in questo tipo di accordo è (i) presentare una valida argomentazione che dimostri l’illegittimità di una misura cinese con l’accordo e (ii) cercare, in collaborazione con la Commissione europea, un costruttivo soluzione con la Cina. Questa ricerca sarà minacciata da una decisione del Panel che, essendo di natura orizzontale, potrebbe essere molto più penalizzante per la Cina. Preferirà davvero,

A questo proposito, è chiaro che un’Europa potente si esprime ora in molti regolamenti autonomi della Commissione, in particolare nella modifica del regolamento del 2014 che consente di rafforzare i poteri della Commissione quando un paese terzo che ha un accordo con il L’Unione non la rispetta.

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Ovviamente, affinché possa emergere una soluzione costruttiva, deve ancora sussistere il rischio di sanzioni (nell’ambito di un Panel bilaterale). Se la Cina sa che l’Europa non ha i mezzi legali o la volontà di avere una pratica sancita dall’adozione di contromisure consentite alla fine del Panel bilaterale, questa debolezza priverà le società interessate di ogni motivazione, e alla Cina ogni incentivo a cercare soluzioni costruttive. A questo proposito, è chiaro che un’Europa potente si esprime oggi in numerosi regolamenti autonomi della Commissione, in particolare nella modifica del regolamento del 2014 (”  regolamento di applicazione “) Ciò consente di rafforzare i poteri della Commissione quando un paese terzo che ha un accordo con l’Unione non lo rispetta. Tale regolamento, infatti, consentirà di adottare misure di ritorsione, non solo nel settore oggetto della violazione (ad esempio il commercio di beni), ma anche estendendolo al commercio di servizi o alla proprietà intellettuale. Si tratta in tal senso di un testo complementare ed essenziale alla risoluzione delle controversie stabilite dall’Accordo.

5. Il CAI: solo una parte del progressivo riequilibrio dei rapporti economici con la Cina

Parallelamente all’apertura del dialogo con la Cina, l’Europa vuole essere allo stesso tempo estremamente ferma sui flussi ingiusti o destabilizzanti cinesi in Europa. Questa realtà ci invita a comprendere che l’Accordo è solo un aspetto del riequilibrio delle relazioni economiche che l’Unione europea desidera portare avanti con la Cina. Questo riequilibrio si riflette anche nel moltiplicarsi negli ultimi mesi di proposte normative autonome a tutela di un mercato unico innovativo e competitivo, disciplinando ulteriormente le nostre relazioni con i paesi terzi, primo fra tutti la Cina.

L’accordo è solo un aspetto del riequilibrio delle relazioni economiche che l’Unione europea desidera perseguire con la Cina.

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5.1 Controllo degli investimenti

A seguito delle crescenti preoccupazioni per l’acquisizione di società altamente strategiche in tutta Europa, in particolare da parte di investitori cinesi, gli Stati membri hanno cercato di proteggere le proprie tecnologie e infrastrutture, senza un approccio europeo coordinato. L’Unione, da parte sua, ha introdotto una normativa entrata in vigore nell’ottobre 2020, intesa a rafforzare la cooperazione e il coordinamento tra gli Stati membri e la Commissione europea.3. Gli Stati membri dovranno ora notificare alla Commissione i casi soggetti alle loro procedure nazionali di controllo degli investimenti. Vengono quindi emessi pareri sugli investimenti o rimborsi proposti che devono essere presi in considerazione dallo Stato membro in cui ha luogo l’investimento.

Non appena annunciato l’accordo, la Commissione europea ha chiarito che non stava abbandonando gli strumenti di controllo degli investimenti appena messi in atto nei confronti della Cina e che la firma dell’accordo non segnala in alcun modo un abbassamento di tali controlli per quanto riguarda la Cina. L’Accordo, infatti, prevede esplicitamente il diritto di ciascuna parte di esercitare i propri diritti di rivedere e controllare gli investimenti dell’altra parte in conformità alla legislazione in vigore. Possiamo quindi aspettarci un aumento dell’utilizzo del nuovo strumento europeo di revisione degli investimenti perché è nuovo, ma anche perché l’accordo appena concluso dovrebbe tradursi in un aumento degli investimenti cinesi in Europa.

Possiamo aspettarci un aumento dell’utilizzo del nuovo strumento europeo di revisione degli investimenti perché è nuovo, ma anche perché l’accordo appena concluso dovrebbe tradursi in un aumento degli investimenti cinesi in Europa.

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Il focus sarà sulla tecnologia, che i governi europei generalmente considerano correlata alla sicurezza nazionale, e in particolare quelle relative all’intelligenza artificiale, ai materiali avanzati e alla crittografia. La tecnologia Internet mobile di quinta generazione (5G) è un esempio fallimentare di coordinamento europeo in questo settore. Con l’escalation delle tensioni geopolitiche tra i governi occidentali e Pechino, le restrizioni agli investimenti influenzeranno chiaramente le società cinesi. Cresce il disagio di molti governi europei per il coinvolgimento dello Stato cinese in industrie strategiche, così come la pressione politica degli Stati Uniti per ridurre l’accesso cinese alle nuove tecnologie.

5.2 Controllo degli aiuti di Stato esteri

Nel 2021 è previsto anche il riequilibrio delle relazioni UE-Cina in tema di controllo degli aiuti di Stato esteri. È anche un argomento che dovrebbe portare a pressioni molto forti durante l’anno. Infatti, contro le sovvenzioni estere, in particolare quelle cinesi, le aziende europee possono utilizzare prima di tutto strumenti di difesa commerciale, in particolare quelli che consentono di contrastare le distorsioni commerciali derivanti dall’ingerenza dello Stato cinese ( antidumpinge antisovvenzioni). Ma questi strumenti attualmente mirano solo al commercio di merci. Attualmente esiste una falla nella normativa europea, contro, ad esempio, le società cinesi presenti sul mercato europeo e che verrebbero sovvenzionate direttamente o indirettamente dallo Stato cinese nelle loro acquisizioni o partecipazioni ad appalti pubblici. Questo è il motivo per cui il Commissario Vestager ha già proposto un Libro bianco sull’argomento e ha presentato rapidamente una proposta di regolamento.4.

Attualmente esiste una falla nella normativa europea, contro, ad esempio, le società cinesi presenti sul mercato europeo e che verrebbero sovvenzionate direttamente o indirettamente dallo Stato cinese nelle loro acquisizioni o partecipazioni ad appalti pubblici.

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Conclusione

Sul CAI si è parlato molto dalla sua pubblicazione.

Prima di tutto, notiamo che il multilateralismo è fallito. Non metteremo attorno al tavolo a breve, anche se questo rimane l’obiettivo a lungo termine, 164 paesi per modernizzare e rafforzare regole insufficienti e mal applicate, che è una fonte permanente di tensione, soprattutto quelle sui sussidi industriali. Il bilateralismo, di cui il CAI è un buon esempio, permette di superare le attuali carenze del multilateralismo.

Allo stesso tempo, dobbiamo misurare i limiti di questo Accordo, che è vincolato dall’asimmetria tra il sistema cinese ed europeo, ad esempio sui sussidi industriali e sul commercio sostenibile. Per questo, in particolare, l’UE deve continuare a costruire parallelamente una politica di regolamentazione autonoma che consenta di stabilire discipline che vadano oltre ciò che può negoziare bilateralmente o a fortiori multilateralmente.

Infine, nelle loro relazioni con la Cina, le aziende europee – a seconda del loro posizionamento e dei loro interessi – devono entrambe impegnarsi risolutamente nell’attuazione dell’Accordo per migliorare l’accesso al mercato cinese, insieme alla Commissione Europea e ai loro governi. Allo stesso tempo, devono avvalersi, quando necessario, degli strumenti autonomi dell’Unione europea. È così che la strategia di riequilibrio dell’Unione nei confronti della Cina sarà una strategia vincente.

FONTI
  1. Le principali misure previste dall’Accordo sono disponibili in lingua inglese sul sito della Commissione Europea: https://trade.ec.europa.eu/doclib/press/index.cfm?id=2237
  2. L. Van Middelaar, ”  Accordo UE-Cina: l’America è ancora in grado di diventare il leader del mondo libero?  », Le Grand Continent , 12 gennaio 2021.
  3. Regolamento (UE) 2019/452 che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione.
  4. Cfr. Il Libro bianco sugli effetti distorsivi causati dai sussidi esteri all’interno del mercato unico: https://ec.europa.eu/france/news/20200617/subventions_etrangeres_marche_interieur_fr

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare, di Giuseppe Gagliano

La questione ambientale sarà un terreno fondamentale di confronto e di scontro politico. Dagli indirizzi che verranno imposti e dagli strumenti che verranno utilizzati dipenderà la prevalenza dei particolari centri decisionali e la conformazione delle formazioni politico-sociali. E’ già un terreno di duro scontro nelle dinamiche geopolitiche celato dietro un lirismo stucchevole e strumentale. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Che cosa succede in Francia sull’energia nucleare

di

L’articolo di Giuseppe Gagliano sulla chiusura della centrale nucleare di Fessenheim in Francia

 

“Nella notte tra lunedì 29 giugno e martedì 30, la centrale nucleare alsaziana di Fessenheim ha cessato definitivamente l’attività prima di essere smantellata. Situata sulle rive del Reno, vicino alla Germania e alla Svizzera, la più antica centrale elettrica della Francia ha smesso per sempre di produrre elettricità. Nei prossimi quindici anni ne è previsto lo smantellamento, a partire dalla rimozione del combustibile altamente radioattivo, che, secondo il programma sarà completato nel 2023”.

La chiusura è stata accolta come un successo della lotta ambientalista. Da molti anni infatti numerosi attivisti antinucleari hanno portato avanti manifestazioni non violente e azione di lobbying sulle autorità francesi per chiudere la centrale nucleare di Fessenheim alle quali hanno risposto provocatoriamente gli attivisti pro – nucleare.

In un primo momento si era previsto che questa chiusura dovesse essere per così dire sincronizzata con il lancio della terza centrale a Flamanville.

Ma la data di completamento è stata posticipata a causa di nuovi problemi al 2023. Quindi, come produrre i 12,32 TWh prodotti nel 2019 dalla centrale nucleare?

È più che ingenuo scommettere su mega fattorie di pannelli solari o turbine eoliche. La prevista installazione massiccia di un pannello solare nell’Alto Reno in sostituzione di Fessenheim fornirebbe solo il 17% della potenza dell’impianto. È importante sottolineare che il sole della regione ha una percentuale del 13%.

Per continuare e per compensare questa improvvisa perdita di energia, EDF dovrà rivolgersi a centrali termiche. Queste ultime pesano molto nella produzione di carbonio rispetto alle loro omologhe nucleari. Dove l’elettricità nucleare emette solo 6 g di CO2 per KWH, quella prodotta dal gas emette fra 500 e 1000 g di CO2 prodotta dall’energia dal carbone.

Anche se è necessario credere nelle fonti energetiche rinnovabili come l’eolico, il solare o l’idroelettrico, occorre assumere un atteggiamento realistico: il miraggio di questa transizione non tiene conto di molteplici elementi.

Per citarne solo uno, l’offshoring dell’inquinamento. Infatti per poter avere elettricità verde, occorre importare pannelli solari o turbine eoliche. Merci prodotte per la stragrande maggioranza nella Repubblica popolare cinese in modo molto inquinante e che richiedono materie prime estratte in modo identico e in condizioni umane più che deplorevoli.

Sarebbe quindi più realistico e soprattutto più ecologico parlare di complementarità energetica, dove le fonti di energia rinnovabile producono simultaneamente centrali nucleari, riducendo la quota di elettricità a base di carbonio.

Partendo dalla constatazione di natura storica che il nucleare sia civile che militare ha consentito alla Francia autorevolezza e credibilità sia nel contesto della autonomia energetica che in quello della politica internazionale, il caso francese dimostra in modo esemplare come i fondamentalismi in campo ecologico conducano i governi a scelte che finiscono per danneggiarne l’autonomia energetica e soprattutto la competizione globale.

A tale riguardo è di estremo interesse l’intervista rilasciata dall’ex direttore dell’impianto nucleare Joël Bultel che smentisce numerosi luoghi comuni. Secondo l’ex direttore seguire il modello tedesco costituirebbe un grave danno per la Francia.

In primo luogo gli impianti tedeschi producono quasi 10 volte più CO2 rispetto al sistema francese nel quale i consumatori pagano circa il 75% in più per la loro elettricità rispetto ai loro omologhi francesi. Si tratta di un modello energetico dai costi altissimi: parliamo di oltre 500 miliardi di euro.

Sostituire una tecnologia che produce quanto effettivamente serve con un’altra tecnologia che produce in modo intermittente a seconda delle condizioni meteorologiche significa degradare l’autonomia energetica.

In secondo luogo la chiusura di questo impianto è stata in realtà dettata da motivi squisitamente politici e questa chiusura sarà pagata molto cara da i consumatori: quasi mezzo miliardo di euro a breve termine e diversi miliardi cumulativi (tra 4 e 7 per un prezzo medio di mercato dell’elettricità compreso tra 40 e 50 € / MWh) per i prossimi 20 anni per compensare il danno.

In terzo luogo — sottolinea il direttore — questo impianto era in realtà funzionante e avrebbe potuto continuare a produrre elettricità a basso costo per altri vent’anni. Infatti la Corte dei Conti francese ha sottolineato il grave danno economico che una tale chiusura determinerà.

In quarto luogo questa vicenda dimostra per l’ennesima volta il ruolo sempre più importante e rilevante delle associazioni e delle ONG ambientaliste nel condizionare le scelte di politica energetica dei governi e dall’altro lato dimostra la debolezza della classe politica che per ragioni di consenso politico — non certo per convinzione — asseconda queste scelte.

https://www.startmag.it/energia/che-cosa-succede-in-francia-sullenergia-nucleare/?fbclid=IwAR1sKIHI1dKPW9-yz87f5qNgSMmVOLu4wb1aHXXh44NHxuLSgltKWFxO-9I

La trappola delle cose gratuite, di Davide Gionco

 

La trappola delle cose gratuite

Di Davide Gionco
07.02.2021

Che cosa spinge un topolino a farsi prendere dalla trappola, dopo avere rosicchiato il pezzo di formaggio? Che cosa spinge un pesce a mangiare l’esca, per poi finire pescato e, a sua volta, mangiato da un essere umano?
In entrambi i casi il movente è la certezza di avere un pasto gratis, senza rischi. Insieme ad una mancata valutazione delle conseguenze. E’ noto che il topolino ed il pesce vengono ingannati e fanno una brutta fine, negli interessi dell’essere umano che voleva catturarli.

Il famoso generale cinese Sun-Tzu diceva chiaramente “Ricorda: la guerra si fonda sull’inganno“.
Chi vuole catturare il topo con una trappola, sceglie un cibo irresistibile per il topo ed una posizione per la trappola comoda da raggiungere. Un bravo pescatore sa scegliere un’esca irresistibile per i pesci e si mette a pescare dove sa che i pesci passeranno.
E’ il modo migliore per catturare il topo, il miglior modo per pescare il pesce. E’ il migliore modo per vincere la guerra, se sei un generale.
E’ il migliore modo per piegare la gente ai propri interessi economici (e magari politici), se sei una multinazionale, indirizzando le (credute) libere scelte di milioni di persone verso situazioni sconvenienti per loro e convenienti per la multinazionale.

Il cuore della trappola è una perfetta preparazione dell’esca.

Cosa c’è di più allettante di una televisione gratuita, che ci offre in prima serata programmi che stuzzicano i nostri istinti? Storie strappalacrime, immagini sensuali, spettacoli leggeri e divertenti, che non impegnano la mente?
Cosa di più rassicurante di una informazione martellante e unanime, che ripropone sempre la stessa narrativa sul mondo, affinché non dobbiamo fare la fatica di mettere in discussione le nostre convinzioni ed attivare il nostro senso critico?
E il tutto senza pagare: l’esca perfetta.

A parte il fatto che, ovviamente, il prezzo lo paghiamo, da qualche parte, dato che tutto quello che ci fanno vedere comporta dei costi coperti dall’acquisto dei prodotti reclamizzati, più costosi (per pagare la pubblicità) e di cui probabilmente non avremmo mai avuto bisogno.
“Gratis”, però, non riguarda tanto il prezzo economico, quanto soprattutto lo sforzo mentale che (non) dobbiamo fare per renderci conto della situazione.

Se il pesce si fermasse ad osservare per capire il meccanismo esca+amo+lenza, si guarderebbe bene dall’abboccare. Invece non si ferma a riflettere: vede l’esca da mangiare, abbocca e viene pescato.
Lo stesso avviene nel mondo dei mass media.
Il vero prezzo che paghiamo è essere portati a credere alla rappresentazione acritica della realtà che “ci viene venduta gratis”.  Tutto semplice da capire, poco da ragionare, una comunicazione ripetitiva e coerente che non fa venire dubbi. Tale rappresentazione è molto spesso funzionale a tutelare gli interessi del famoso “uno per cento del mondo“, quello che diventa sempre più ricco, mentre gli altri diventano sempre più poveri.

Facciamo qualche esempio recente.

Nel corso delle ultime elezioni presidenziali negli USA quale narrativa ci è stata proposta? Mentre il “candidato presidente cattivo” Donald Trump ci veniva presentato con molti aspetti negativi, il “candidato presidente buono” Joe Biden veniva presentato come il candidato senza difetti, senza nulla ceccepire sul suo sostegno alla guerra in Irak (che, secondo la rivista The Lancet, ha complessivamente causato 790 mila morti), sul suo voto favorevole alla guerra in Serbia, in Libia e infine in Siria. E, naturalmente, tutti contenti perché, alla fine, il buono ha vinto ed il cattivo ha perso.
Facile: il buono vince, il cattivo perde (come nei vecchi film). Il formaggio è buono e il topo è preso dalla trappola.
In questi giorni il presidente Sergio Mattarella ha incaricato Mario Draghi per la formazione di un nuovo governo. Tutte le televisioni e i giornali, unanimi, continuano a rivolgere elogi sperticati all’ex governatore della Banca Centrale Europea, senza neppure una voce critica. Nessuna voce critica sul passato di Draghi, sulle conseguenze sociali delle privatizzazioni da lui promosse quando era al Tesoro, sulle sue dichiarate intenzioni di adottare le solite dottrine neoliberiste per l’economia italiana, le stesse che hanno prodotto povertà e disoccupazione in tutto il mondo, come sempre a favore del solito 1% del mondo.
Non si tratta di essere “pro” o “contro” il Biden di turno o il Draghi di turno, ma si tratta di un sistema di informazione “gratuito” (mentalmente non impegnativo) che, deliberatamente, ci presenta una narrativa totalmente acritica e molto distante dalla realtà. E lo fa per perseguire obiettivi ben precisi, senza stimolare il nostro senso critico per esprimere un nostro giudizio sulla realtà, perché se venisse risvegliato il nostro senso critico, potremmo assumere una opinione diversa da quella desiderata da chi decide come fare l’informazione.

Il meccanismo si ripropone con i social media, che ci troviamo comodi sul telefonino, che ci consentono di condividere contenuti con amici in tutto il mondo…
Anche in questo caso, ovviamente, i costi di funzionamento di questi servizi, come pure gli utili miliardari di chi li possiede, ovviamente li paghiamo quando acquistiamo i prodotti che ci hanno proposto, dopo avere conosciuto i nostri gusti (i famosi like  = mi piace).
Ma non solo. Pensavamo di poter disporre di un comodo sistema per essere informati sulla realtà, indipendente dai mass media, dove ciascuno può “dire la sua”. Peccato che gli algoritmi di funzionamento dei social media limitino il nostro accesso alle notizie “diverse da come la pensiamo” tramite le cosiddette “bolle di filtraggio” (filter bubble). L’effetto non è molto diverso da quello del coro unico delle televisioni.
I social media preferiscono darci conferme sulle idee che già abbiamo (spesso provenienti dalle televisioni e dai principali giornali), piuttosto che farci confrontare con idee fuori dal coro. Se poi qualcuno, dal loro punto di vista, esagera, i vari Facebook, Twitter, Youtube, Instagram, ecc. applicano sempre di più la censura unilaterale delle notizie che ritengono che non debbano essere diffuse. Esattamente come avveniva ai tempi del fascismo, quando le notizie da censurare erano quelle che criticavano il regime. Ricordiamoci che, ai tempi del fascismo, erano giudicate “fake news” le critiche alla guerra in Etiopia (con uso di armi chimiche) ed alle leggi razziali.
Anche Google, che si presenta come un motore di ricerca “tecnico”, neutro, gratuito ed efficiente, in realtà decide che cosa dobbiamo trovare, cosa no e in quale ordine. Ci dà la sensazione di navigare liberi su internet come potremmo fare andando a spasso in una città, ma in realtà ci sono zone della “città virtuale” che ci sono precluse, sconosciute e, quindi, di fatto inaccessibili, senza che noi neppure ce ne rendiamo conto.

Ma la trappola più pericolosa di tutte, nella quale stiamo incoscientemente cadendo, viene dal settore del commercio. Amazon e Alibaba continuano a proporre ai consumatori prodotti a prezzi decisamente inferiori a quelli dei negozi, tempi di consegna rapidi e direttamente a casa, vasta gamma di scelta: davvero sembra non esserci competizione. Anche perché Amazon paga poco o nulla di tasse, a differenza dei suoi concorrenti che vendono tramite negozi fisici sul territorio o anche online, ma senza usufruire dei vantaggi fiscali delle multinazionali.
Anche in questo caso il pezzo di formaggio è molto allettante: un gran numero di italiani si indirizza verso queste forme di vendita, guardando solo ai vantaggi a breve termine e senza porsi interrogativi sulle conseguenze di questa scelta.

Vi è la convinzione profonda che un prodotto sia unicamente costituito da una qualità e da un prezzo, per cui, una volta scelta la qualità, la soluzione più conveniente è quella che costa di meno.
La trappola scatterà una volta che tutti i negozi delle nostre città avranno chiuso, per cui saremo obbligati a fare acquisti unicamente dal sig. Jeff Bezos o dal sig. Jack Ma.

I quali potranno mettersi d’accordo nell’alzare unilateralmente i prezzi, non avendo più concorrenti, per cui i consumatori attualmente poco accorti non avranno via di scampo dai prezzi gonfiati.
Ma non solo. Anche i produttori dei beni commercializzati saranno messi sotto scacco. Infatti non avranno altro modo per raggiungere i loro clienti che passare per la distribuzione monopolistica di Amazon & c., i quali potranno imporre ai produttori di minimizzare i prezzi (e le loro rendite), al fine di massimizzare le rendite del distributore. Rendite minime per i produttore significheranno, ovviamente, salari minimi per i lavoratori.
Quindi i consumatori poco accorti verranno presi in trappola una seconda volta, dopo l’aumento dei prezzi, anche dalla riduzione del salario come lavoratori.

Infine non dobbiamo dimenticare le conseguenze sociali derivanti dalla chiusura di gran parte dei negozi in Italia. Oltre alla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore dobbiamo prefigurarci dei centri abitati sostanzialmente privi di negozi. Immaginiamo le conseguenze per la vita sociale delle nostre città. I negozi non sono solamente dei punti vendita di merci, ma luoghi di incontro fra le persone, vetrine che abbelliscono le nostre vie e rendono vivi i luoghi in cui viviamo.

I legislatori dovrebbero tenere conto del prezioso valore sociale del commercio al dettaglio e tutelarlo dalla concorrenza della grande distribuzione delle vendite online. Ma anche noi cittadini dovremmo imparare a stare molto più attenti ogni volta che ci vengono proposti beni e servizi gratuiti o a prezzi eccezionalmente concorrenziali, perché quello che a prima vista sembra molto conveniente in molti casi non è altro che un’esca irresistibile che ci porterà a conseguenze per nulla convenienti.
Non lasciamoci prendere in trappola!

L’OROLOGIO DI BIDEN E LA NUOVA QUESTIONE D’ORIENTE, di Antonio de Martini

L’OROLOGIO DI BIDEN E LA NUOVA QUESTIONE D’ORIENTE
Nella sua foga di prendere le distanze dalla politica di Trump smaccatamente favorevole a Israele e rigida verso il resto del Vicino Oriente, il Presidente Biden ha dato rilievo al fatto che ha atteso quattro settimane prima di telefonare al premier Netanyahu.
Il problema è che si è anche astenuto da ogni altra forma di intervento sugli attori dell’area, consentendo a ciascuno di progettare pericolosi scenari pro domo sua.
Gli israeliani, in queste quattro settimane, certi di non poter piu godere degli stessi atteggiamenti di complicità evidente e desiderosi di mettere l’amministrazione democratica USA di fronte a fatti compiuti, ha elaborato una nuova strategia.
Si tratta della teoria di “ una guerra piccola tra due grandi” testata con una manovra militare chiamata “ giorni di combattimento” svoltasi nei giorni scorsi alla frontiera libanese.
In buona sostanza è una riedizione della politica delle “ spedizioni punitive” degli anni passati consistenti in puntate offensive in territorio libanese limitate nel tempo e negli scopi.
Ma dall’altra parte non c’è più solo il pacifico Libano. C’è l’Hezollah, l’obbiettivo strategico di cui vorrebbero aver ragione ma di cui non riescono a valutare il potenziale e la crescita provocata dalla guerra di Siria.
C’è anche la forte tentazione da parte di Netanyahu di decidere le sorti delle elezioni politiche generali che si terranno tra un mese ( per la quarta volta in poco piu di un anno), con un blitz militare di successo che elimini depositi e officine mimetizzate nei villaggi abitati da civili.
A queste minacce e a questa strategia l’Hezbollah ha risposto con un video.
Assieme a riprese del Premier e di alti gradi israeliani che biasimano il miscuglio tra impianti militari e abitazioni civili minacciando distruzioni, il video assume un aspetto da briefing militare mostrando immagini satellitari del territorio israelo palestinese – con tutti i riferimenti geografici del gergo militare- indicanti identico miscuglio tra abitazioni civili e installazioni militari con esatta specifica della natura di ciascuna installazione.
Poi espone la strategia Hezbollah della “ risposta equilibrata” .
Se verrà colpita una abitazione, la risposta colpirà una abitazione. Se un villaggio, un villaggio, se una città, una città….
L’ampiezza e l’accuratezza degli obbiettivi indicati non lascia dubbi circa la credibilità della minaccia e la professionalità della preparazione.
La capacità balistica avversaria gli israeliani la conoscono già.
Qualcosa di simile è accaduto nei giorni scorsi nel kurdistan iracheno, nei pressi di Erbil , dove una base con personale e contractors americani – finora off limits- è stata oggetto di un attacco di una nuova formazione chiamata “ i guardiani del sangue.”
In pratica, ciascun protagonista dello scacchiere dispone di una nuova strategia mentre la nuova amministrazione americana brancola nel buio.
Il nuovo segretario di Stato Blinken ha dovuto frettolosamente rettificare una frase infelice del suo portavoce dubitativa di una dichiarazione turca circa l’eliminazione di 13 ostaggi turchi in mano ai curdi.
In Afganistan, in attesa della promessa evacuazione entro il 1 aprile, i talebani hanno lanciato la solita offensiva di primavera.
La tensione cresce in attesa di una iniziativa conciliatrice USA verso l’Iran, stremato dalle sanzioni ingiustificate, che ritarda e dà la sensazione – errata- che l’esagitato abbia lasciato il posto al rimbambito.
L’orologio americano è rimasto fermo a quando il mondo rispettava i suoi tempi.
Un tempo credevamo che i nemici degli USA fossero anche i nostri. Ora non più.
Hanno esagerato.

MEGLIO ARISTOTELE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO ARISTOTELE

Tra le tante cose che ci ha portato il Covid, v’è l’analisi/prospettiva/auspicio della riduzione/depotenziamento/annichilimento dei ceti medi e del loro ruolo nelle comunità umane. Sembra che le decadenti élite globalsinistre esorcizzino il proprio declino auspicando quello degli strati sociali meno ben disposti verso di loro. Pomposi accademici, elzeviristi mainstream, economisti di regime (e anche non di regime) profetizzano che dopo la scossa del Covid lavoratori autonomi, professionisti, artigiani, commercianti, quadri del settore privato (e anche di quello pubblico) diverranno pochi, inutili e miseri. Qualcuno sostiene idee del genere basandosi sul darwinismo sociale, altri sulle profezie marxiste, altri scomodano la “mano invisibile”.

Tutti sembrano contenti dell’auspicato evento: ma non tengono conto di quanto “pesino”, soprattutto se si passa da criteri economici a quelli politico-sociali i ceti medi; perché questi sono stati spesso considerati l’ossatura della società, i garanti dell’equilibrio politico-sociale sul quale ogni comunità durevole – ma soprattutto quelle democratiche – si fonda.

Già Aristotele – sostenitore dello Status mixtus, cioè di costituzioni che tenessero insieme elementi di più forme “pure”1 – lo sosteneva; si chiede infatti qual è la costituzione migliore, quale “forma di vita partecipata”, e fa ricorso al “giusto mezzo”2. Dove non c’è il giusto mezzo dei “ceti intermedi” ma prevalgono i troppo ricchi o i più poveri, si creano, per così dire, problemi di governabilità “Si forma quindi uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi, di gente che invidia e di genere che disprezza, e tutto questo è quanto mai lontano dall’amicizia e dalla comunità statale, perché la comunità è in rapporto con l’amicizia, mentre coi nemici non vogliono avere in comune nemmeno la strada” (il corsivo è mio) e conclude che questo è l’ordinamento migliore: “È chiaro dunque, che la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio e che possono essere ben amministrati quegli stati in cui il ceto medio è numeroso e più potente, possibilmente delle altre due classi, se no, di una delle due, ché in tal caso aggiungendosi a una di queste, fa inclinare la bilancia e impedisce che si producano gli eccessi contrari”3.

Nell’età moderna il rapporto tra ricchezza e istituzioni è spesso considerato analogamente4. Una particolare menzione merita Gaetano Mosca che nell’analisi della classe politica e del regime liberale (lo “Stato rappresentativo”) scrive che “il principio liberale trova le condizioni migliori per la sua applicazione quando il corpo elettorale è composto in maggioranza da quel secondo strato della classe dirigente che forma la spina dorsale di tutte le grandi organizzazioni politiche”5.

Marx ed Engels vedono invece i ceti medi, classi superate dallo sviluppo capitalistico; non si pongono il problema della democrazia (in senso classico) perché questa come ogni regime politico è destinata a sparire con la realizzazione della società comunista6.

È un pensiero ricorrente quindi che, ai fini dell’ordine politico sociale, ancor più in comunità democratiche, è decisiva l’esistenza di un ceto medio che garantisca l’equilibrio politico e sociale (e così moderi la lotta politica) e da cui viene reclutata (parte) della classe dirigente.

Ed è quindi quanto mai curioso che non sia considerata la funzione politica del “giusto mezzo” nelle società umane e di come la decadenza di questo apra a scenari di lotta aspra e dissoluzione istituzionale. Probabilmente va ascritto, almeno in buona parte – alla tendenza a pensare il criterio economico per valutare il buon governo prevalente su ogni altro; ed ancor più che un risultato quantitativamente “pagante” per tutti debba essere apprezzato anche da parte di coloro che pagano il conto. Ma in politica non è così: vale ancora il giudizio di Friederich List (da me spesso citato) che giudicava la propria come economia politica perché teneva conto dell’interesse della comunità, mentre quella di Adam Smith era economia cosmopolitica perché considerava quanto giovava all’homo aeconomicus, astratto e distaccato da ogni legame d’appartenenza politica e sociale.

In effetti è proprio del pensiero politico che l’interesse della comunità organizzata in Stato e non quello dell’umanità sia da conseguire. In primo luogo riguardo all’equilibrio del sistema, senza il quale quello all’esistenza viene, prima o poi, ad essere compromesso.

Teodoro Klitsche de la Grange

1“Diciamo di seguito a quanto s’è trattato in che modo sorge, oltre la democrazia e l’oligarchia, la cosiddetta politia, e in che modo bisogna costituirla. Insieme risulterà chiaro anche come si definiscono la democrazia e l’oligarchia, perché si deve fissare la distinzione tra queste due forme e poi metterle insieme, prendendo per dire un contributo da ciascuna delle due” i passi sono ripresi da Aristotele, La politica, IV, 9, 1294 a-b e ss. trad. it. di R. Laurenti.

2 Scrive “In tutti gli stati esistono tre classi di cittadini, i molto ricchi, i molto poveri, e, in terzo luogo, quanti stanno in mezzo a questi. Ora, siccome si è d’accordo che la misura e la medietà è l’ottimo, è evidente che anche dei beni di fortuna il possesso moderato è il migliore di tutti, perché rende facilissimo l’obbedire alla ragione, mentre chi è eccessivamente bello o forte o nobile o ricco, o, al contrario, eccessivamente misero o debole o troppo ignobile, è difficile che dia retta alla ragione” e prosegue “Oltre ciò, quelli che hanno in eccesso i beni di fortuna, forza, ricchezza, amici e altre cose del genere, non vogliono farsi governare né lo sanno… mentre quelli che si trovano in estrema penuria di tutto ciò, sono troppo remissivi. Sicché gli uni non sanno governare, bensì sottomettersi da servi al governo, gli altri non sanno sottomettersi a nessun governo ma governare in maniera despotica” (il corsivo è mio) op. cit., 1295 b..

3 Op. cit., 1296 a.

4 Per sintetizzarlo v. la voce Buon governo di P. Silvestri nel Dizionario del liberalismo “Con la progressiva emersione della sfera pubblica moderna, e in vista di un nesso più stretto tra governati e governanti, sotto forma di equilibrio delle forze sociali. In questo senso, e secondo l’idea sette-ottocentesca di «civilizzazione» che individuava un circolo virtuoso tra tra borghesia e progresso, il ceto medio era chiamato a svolgere un ruolo cruciale nell’ideale del governo misto. L’idea di «civilizzazione» supponeva che nella misura in cui lo sviluppo economico-sociale avrebbe allargato i fianchi del ceto medio (inteso come fulcro della società civile), a sua volta l’espansione del ceto medio avrebbe dovuto assorbire e mediare la lotta sociale e l’antagonismo fra le classi, anche in virtù di una maggiore osmosi tra sfera della proprietà e sfera pubblica” ed autori lì citati.

5 Ovviamente di Stato liberale si tratta. Ma nel discorso di Mosca per liberale lo s’intende non tanto in senso ideal-tipico, ma come assetto concreto che i poteri pubblici (ormai democratico-liberali) avevano all’inizio del XX secolo. E aggiunge “Al di sotto del primo strato della classe dirigente ve ne è sempre, e quindi anche nei regimi autocratici, un altro più numeroso, che comprende tutte le capacità direttrici del paese. Senza di esso qualunque organizzazione sarebbe impossibile, perché il primo strato non basterebbe da solo ad inquadrare e dirigere l’azione delle masse. Sicché dal grado di moralità, d’intelligenza e di attività di questo secondo strato dipende in ultima analisi la consistenza di qualunque organismo politico” v. Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 412 ss.

6 “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato” Manifesto del partito comunista.

Il costruttore, di Giuseppe Germinario

A Giuseppe Conte non è riuscito il colpo di convincere un pugno di “costruttori”, diciassette, per raggiungere al Senato quella maggioranza assoluta che gli avrebbe consentito di galleggiare ancora per qualche tempo.

Ci è riuscito invece Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica. Ne ha raccolti addirittura quasi venti volte tanto, più di trecento. Per attirarli ha dovuto liquidare con qualche malcelato sollievo Conte ed accogliere e investire un vicerè da tempo atteso, Mario Draghi.

Un vero trionfo, il suo di quest’ultimo; degno dei fasti riservati dal popolo italico ai suoi antesignani sin dai tempi di Carlo VIII, annunciato a tambur battente e ormai predestinato alla consacrazione delle assise parlamentari.

Quasi superfluo soffermarsi sugli apologeti, entusiasti e ben disposti a stringersi intorno al carro del vincitore. Pronti ad esaltare a spron battuto le virtù giovanili di un discepolo dal promettente futuro keynesiano, corroborate nella sua piena ed inoltrata maturità da una volitiva fermezza nel contrastare, in qualità di Presidente della BCE, le fisime oltranziste di austerità dei suoi comprimari tedeschi; altrettanto lesti e sommessi nel rimuovere le pesanti ombre calate sulla sua figura di teorico e solerte esecutore delle sciagurate scelte economiche soprattutto nella seconda metà degli anni ‘90 e in minor misura nella prima decade del 2000.

Altrettanto fuorviante rischia di essere, nel loro impeto denigratorio, l’esorcismo praticato da coloro i quali incentrano l’attenzione esclusivamente sulla sua azione svolta in quel periodo cruciale con la ciliegina del suo importante incarico in Goldman&Sachs, incasellato e prigioniero nel ruolo di campione del liberismo estremo.

Due sguardi complementari entrambi rivolti al passato che paradossalmente, non ostante l’enfasi, tendono a irrigidire e sminuire la statura, la posizione e il ruolo del personaggio.

Mario Draghi non è uomo legato ad una stagione, né fossilizzato religiosamente ad una impostazione teorica cui piegare a tutti i costi la realtà.

Grazie alla straordinaria rete di relazioni tessuta sin dai suoi studi universitari negli States e coltivati nei periodi di Direttore al Ministero del Tesoro, alto dirigente di G&S, Presidente di Banca d’Italia e componente di numerosi organismi internazionali, Mario Draghi rientra nella ristretta élite dei decisori o quantomeno degli esecutori direttamente a contatto con i primi; pronto quindi a sostituire paradigmi e modalità operative non più efficaci. In questa veste è stato invocato e in questa veste sta prendendo in mano le redini del Governo.

Poco a che vedere con la ruspa messa in moto da Mario Draghi dieci anni fa.

In questa veste ha tracciato, con consenso ormai ecumenico, i due solchi che dovranno segnare l’indirizzo politico: l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea.

Non sono certo una novità, ma diverso è il modo di segnarli e riempirli con l’avvento della nuova amministrazione americana e con il protrarsi dell’incertezza e della debolezza della situazione politica in quel paese.

Una condizione che ostacola la riproposizione delle mire egemoniche nei termini posti durante la Guerra Fredda e a cavallo del nuovo millennio e che richiede nell’agone europeo la presenza di almeno tre interlocutori di potenza paragonabile e in competizione tale da poter giocare e limitare le ambizioni di scelte più autonome di qualcuno tra di questi; tanto più che una importante pedina, la Gran Bretagna, ha deciso di tirarsi fuori da uno dei campi di azione, la UE.

Con l’amministrazione Trump ci sono già stati inviti più o meno espliciti ad una maggiore iniziativa specie nell’area mediterranea, ma anche nella UE. Conte e l’intero ceto politico nostrano hanno dato l’impressione di non essersi neppure accorti delle opportunità. In un contesto del tutto diverso e con l’amministrazione Biden appena insediata è arrivato tempestivamente un vicerè a condurci con mano lungo la strada, a proporci ed attuare quei cambiamenti strettamente necessari a perseguire più efficacemente gli indirizzi politici.

Il vuoto determinatosi nel Mediterraneo dalla passività italiana, la gestione disastrosa della pandemia anche in rapporto a quella non esaltante dei principali paesi europei e la disarmante incapacità di elaborare un piano PNRR appena presentabile, per non parlare della improbabile capacità di attuazione di esso devono aver allarmato non solo i gestori imperiali, ma anche i più famelici predatori della famiglia europea riguardo alla tenuta generale del paese. Da qui l’esigenza di insediare un promotore competente ed un interlocutore più credibile, perché più capace e rappresentativo dei centri operativi in campo, con il quale trattare.

Si sa però che in politica, ancor più nelle dinamiche geopolitiche, la generosità altrui comporta prezzi ben più salati da pagare rispetto alla iniziativa propria di una classe dirigente e di un ceto politico autoctoni e più autonomi.

Non lo vedremo in politica estera, al di fuori del consesso europeo delle cui prerogative si è appropriato non a caso Draghi in prima persona, giacché la conferma di un fuoco fatuo, Luigi di Maio, a Ministro degli Esteri ne sancisce l’assenza e l’irrilevanza per almeno un triennio ancora. Lo percepiremo invece, ma a giochi fatti nelle modalità di salvaguardia, ristrutturazione e rinnovamento che pur dovranno essere perseguiti di quel che rimane e rimarrà del nostro apparato economico, specie di quello industriale e del complesso militare-industriale.

Sempre meglio, probabilmente, della caricatura di politica economica ed industriale perseguita dal Governo Conte e della pedissequa ed inetta accondiscendenza agli imput della Commissione Europea del Ministro Gualtieri.

Già prima di insediarsi Mario Draghi ha ottenuto un enorme successo politico e di immagine, a dispetto dei cantori della morte della politica: aver assorbito nell’alveo dell’ortodossia europeista e strettamente atlantista pressoché l’intero arco delle forze e delle frazioni politiche, di aver dissolto per un tempo indeterminato ogni singulto “sovranista” credibile politicamente, di aver evidenziato definitivamente i limiti e la verbosità sterile di tale espressione politica. Limiti che non tarderanno a manifestarsi apertamente anche in ambito europeo, in particolare in Francia.

La conduzione assertiva del Governo ne potrà sancire il trionfo definitivo a futura memoria, almeno nei simulacri delle attuali élites imperanti, o la malinconica caduta nell’anonimato dei più, tra le tante promesse mancate di questa lunga transizione politica.

Oltre alle parole e ai programmi è la composizione stessa della compagine governativa a rivelare le intenzioni e ad essere lo specchio della situazione e quindi:

  • il divario qualitativo esistente tra il ceto politico particolarmente dimesso e ai margini delle posizioni di potere espresso e spesso riconfermato dai partiti nella compagine e le componenti tecnico-politiche collocate nei posti chiave da Draghi si rivela eclatante. Con le dovute eccezioni di Guerini alla Difesa e Giorgetti allo Sviluppo, ma con l’incognita dello svuotamento di competenze del Ministero di quest’ultimo da un lato; con quella di Colao dall’altra, vista la sopravvalutazione mediatica del personaggio e la poco edificante prestazione a capo dello staff di esperti nominati da Conte in sede di elaborazione del piano di ricostruzione. A latere una decisione apparentemente inspiegabile rimane la nomina intemerata di Renato Brunetta a Ministro della Pubblica Amministrazione, un ambito imprescindibile per l’elaborazione e l’attuazione del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e per l’esercizio delle prerogative statali e di governo. È probabilmente l’indizio che il Capo del Governo vorrà procedere, nell’esecuzione del PNRR e delle politiche economiche ad esso collegate, attraverso la nomina di esperti e commissari vista l’impellenza; una procedura non nuova che però quasi sempre ha accompagnato, all’insegna dell’urgenza, il conseguimento di successi immediati alla duplicazione di apparati e strutture rimaste poi nel tempo a sovrapporsi ed accavallarsi in una condizione di paralisi progressiva degli ambiti dello Stato. Un duro colpo comunque alla credibilità dei partiti foriero di una radicale ricomposizione e scomposizione dei partiti e degli schieramenti

  • la priorità dell’azione di governo è rivolta al PNRR, alla ristrutturazione profonda dell’economia e alla garanzia di politiche assistenziali più mirate che renda socialmente sostenibile un processo di riorganizzazione pesantissimo e drammatico. Ha trovato piena accondiscendenza nell’intero quadro politico ed associativo: le parti sociali hanno iniziato ad avviare e concludere inaspettatamente i contratti di lavoro; qualche notizia di nuovi importanti insediamenti industriali come quello di batterie in Piemonte; la dirigenza europea più disponibile probabilmente a trattare a condizioni più paritarie sulle condizioni di rientro del debito, anche se l’ambizione di Draghi, sostenuta ormai da vari ambienti, va oltre l’intenzione di trattare sulle condizioni di austerità. Nel discorso di insediamento al Senato il nuovo Presidente del Consiglio ha parlato del resto chiaramente: “gestire la politica economica, la riorganizzazione dei settori, la selezione dei rami produttivi e delle aziende da sostenere e quelle da abbandonare al loro destino è compito della politica”. Una tesi ben lontana dagli orientamenti liberisti più rigorosi. È il segno di un cambio di paradigma o quantomeno di rappresentazione già per altro preannunciato in questi ultimi due anni da ambienti ben più altolocati. La stessa retorica del “grande reset” fa parte di questo tentativo. La nomina di Roberto Cingolani, proveniente da Leonardo, a Ministro dell’Ambiente è il segno di un tentativo di scendere dalle altitudini rarefatte dell’integralismo ambientalista a quello della fattibilità scientifica e tecnologica, con tempi di transizione più realistici.

L’avvento di Mario Draghi sancisce il fallimento del movimento sovranista così come lo si è conosciuto e declamato in questi anni.

Alla mancanza di una visione complessiva e di un programma credibile, all’assenza di una prospettiva tale da configurare nuovi schieramenti e nuovi sistemi di relazione in particolare tra i paesi europei che portassero ad una maggiore autonomia ed indipendenza politica, ha corrisposto il sopravvento surrettizio dell’opportunismo e del trasformismo, l’accodamento acritico all’atlantismo più codino. Di fatto una via obbligata per non scomparire o perire sotto i colpi della reazione. Del resto anche i movimenti “sovranisti” di riferimento in Europa Orientale hanno come riferimento nemmeno la NATO, ma l’americanismo più allineato condito con una dipendenza dai fondi europei tale da rendere fragili i loro aneliti, almeno sino a quando continueranno a coltivare la loro russofobia. È esattamente il contesto che ha determinato la situazione in cui si è cacciata la Lega, un partito sempre più espressione dei gruppi che rappresenta piuttosto che capace di sintesi e di indirizzo di una comunità.

Nell’altro versante, più che la formazione di un movimento riformista e produttivista accompagnato e sostenuto da una riedizione del “welfare”, sembra favorire nell’immediato un sodalizio nel quale il PD, nel tentativo di assorbimento dei resti del M5S, non fa che assimilarne anche i tratti di assistenzialismo unito all’atavica acritica adesione ai precetti della UE e delle classi dirigenti che la esprimono e ai legami di interesse con gli ambienti del terzo settore dal quale scaturisce ormai gran parte del gruppo dirigente.

Due dinamiche all’interno delle quali si inserisce il tentativo efficentista di Mario Draghi reso ancora più ambiguo e problematico dalla sua mancanza di visione dell’interesse nazionale e dal fatto che un nuovo sistema di relazioni tra stati europei presuppone la ricostruzione di uno stato nazionale secondo una visione di interesse nazionale che consenta di trattare con pari dignità con gli interlocutori.

Un tentativo che intende affrontare nell’immediato l’emergenza pandemica e del PNRR e contestualmente avviare le riforme nel lungo termine nella posizione di esecutore prima in qualità di PdC e di supervisore dopo in qualità di Presidente della Repubblica.

Una situazione in apparenza disperante per altri punti di vista praticabili, ammesso che ci siano.

Le vicende politiche di questi ultimi cinque anni, specie quelle verificatesi negli Stati Uniti, lasciano qualche spiraglio agli “imprevisti”. Classi dirigenti e ceti politici che dispongono praticamente di tutte le leve di potere e di tutti gli strumenti di manipolazione sono stati sorpresi dal “fenomeno Trump” ed hanno dovuto penare ben cinque anni per ripristinare una situazione ancora lungi dall’essere normalizzata. Di sicuro hanno preso una grande spavento e perso gran parte della loro sicumera. In Europa sembra andare loro un po’ meglio e non è un caso che personaggi come Soros abbiano scelto negli ultimi tempi questo continente come base e retrovia per perseguire le loro trame. La tattica “inclusiva” sembra funzionare ancora.

Le ciambelle però escono sempre meno con il buco e l’azione di Draghi di certo non sfugge a questa eventualità.

Tanto per fare un esempio calzante, il Recovery Fund, come i fondi strutturali possono diventare un fatale cappio al collo per gli stati nazionali; se accompagnati però da investimenti autonomi complementari, non vincolati alle normative europee possono rivelarsi comunque uno strumento utile. È quello che fanno con relativo successo esattamente la Francia e la Germania, come pure alcune regioni in Italia. È un ambito operativo entro il quale possono inserirsi le frange residue del movimento sfruttando gli eventuali ulteriori margini di debito per ricostruire ed ampliare la base industriale del paese. Le stesse politiche industriali, meglio ancora dei gruppi industriali, dietro la retorica del libero mercato nascondono trattative politiche e processi decisionali che perseguono politiche di accorpamento o di fondazione di nuovi gruppi. Sono tutti spazi i quali, anche nei peggiori dei contesti, offrono opportunità operative a condizione di avere una classe dirigente e un ceto politico capaci e consapevoli. Uno dei promettenti potrebbe essere ad esempio il progetto di caccia di VI generazione italo-inglese da condividere in futuro con quello franco-tedesco ancora tutto da avviare. È un banco di prova, per quanto limitato, per dimostrare che la scelta di sostegno a Draghi non è una mera operazione trasformista o di difesa lobbistica di interessi a carico e ai danni della collettività.

La tabella di marcia del prossimo governo sarà irta di ostacoli e di problemi da affrontare; pare anzi che più di qualche centro abbia l’intenzione di incalzarlo e metterlo già in affanno. La recente sentenza del TAR di Lecce sulla chiusura della ex-ILVA di Taranto è la prima mina piazzata a bella posta sul percorso. Sarà questione di giorni, nemmeno di mesi, per trovare conferma dei timori e delle incognite di questa operazione come pure del fatto che anche questo tentativo rimanga impantanato nella palude dei conflitti di potere e delle oligarchie chiuse in se stesse.

Ci sarà una terza alternativa tra la padella e la brace, quella cioè di diventare cuochi? Draghi si confermerà un vicerè o un capobastone? Staremo a vedere.

ITALIA 2030, di Pierluigi Fagan

ITALIA 2030.
Mattarella ha fatto di necessità virtù. La necessità era data da quello che ha ricordato nel suo messaggio ovvero che non si dava nessuna maggioranza politica possibile. Si aprivano così due strade: elezioni o governo di transizione nazionale. Quanto alle elezioni, tra scioglimento delle Camere e presa operativa di un nuovo governo con in mezzo le elezioni sono passati 4 mesi nel 2013 e 5 nel 2018. Se si fosse andati ad elezioni, in questo mentre, si sarebbe comunque dovuto gestire la pandemia, porre in essere la necessaria campagna vaccinale, presentare comunque il Recovery Plan entro fine aprile stante che poi sarebbero passati altri due mesi per la discussione con la Commissione ed un altro con il Consiglio per poi organizzare la macchina di spesa in azioni concrete, alcune condizionate dall’Europa. Più tardi si fosse presentato il Piano, più tardi sarebbero arrivati i soldi. Nel frattempo, oltre le questioni sanitarie, si sarebbe dovuto anche affrontare il disagio sociale ed economico tra cui decidere cosa fare alla scadenza del blocco dei licenziamenti a fine marzo. Chi avrebbe dovuto e potuto fare tutto ciò senza mandato politico? Con quale credibilità nell’interlocuzione con l’Europa, gravida di qualche opportunità e molti probabili problemi? Secondo quale strategia di prospettiva visto che il Recovery Fund è un investimento di prospettiva? Infine, l’Italia martoriata dalla pandemia, avrebbe comunque vissuto una aspra stagione di conflitto politico elettorale con anche problemi evidenti di normale agibilità politica viste le difficoltà a riunirsi, fare assemblee, comizi etc. .
Mattarella non l’ha pubblicamente ricordato ma quest’anno, l’Italia ha la presidenza di turno del G20 che avrà assise finale di chiusura a Roma a fine ottobre. Sono 8 incontri tematici già svolti sotto la direzione del precedente Governo, più di 70 incontri che avrebbe dovuto gestire in qualche modo un governo pro-tempore seguendo quali fini non è chiaro, per poi arrivare ad altri poco meno di 50 per arrivare alla fine gestiti dal nuovo governo probabilmente in opposizione a quanto sino ad allora detto e fatto con evidente sconcerto degli altri 19 partners. Problema che si sarebbe riflesso anche col Recovery in quanto il nuovo governo avrebbe poi dovuto gestire piani fatti da altri e -come detto- secondo quale logica politica non si sa.
Al di là di tutte le dietrologie possibili, vi sarebbe sembrata quella delle elezioni una strada percorribile? Onestamente penso proprio di no. Ma arrivati qui vanno aggiunte due altre necessità non dichiarate. La prima è che il RF non è stato un progetto privo di attriti in Europa ed indubbiamente, l’Italia ne fa parte da leone. Un fallimento dell’Italia nella gestione dei fondi rappresenterebbe in Europa, una sconfitta per quanti hanno appoggiato l’iniziativa e la ripartizione ed alimenterebbe una nuova stagione di instabilità interna ai processi di unificazione europea. La seconda è l’allineamento con gli USA che nel frattempo sono passati da Trump a Biden con questo ultimo che ha idee ben chiare e precise sul come gestire la partita geopolitica dei prossimi tempi, un Occidente (allargato nel concetto di liberal-democrazie) con a capo gli americani vs sfidanti multipolari, un o di qua o di là preciso e di altrettante precise conseguenze su cui va presa posizione.
La virtù (dal punto di vista di Mattarella) passa attraverso l’idea di fare un governo di doppio livello. Un livello politico “all in” in modo sia di congelare la rissosità politica, sia di fornire una base di necessitato consenso all’azione del livello tecnico del governo stesso. Il livello tecnico avrebbe solo supervisionato le politiche sanitarie già impostate, magari migliorandole ma costringendo anche opposte fazioni a collaborare poiché ognuna a governo di un segmento specifico di un processo continuato. Questa rimaneva una gestione del tutto politica ma sottraendola alla dialettica governo-opposizione diventava quasi tecnica. Lo stesso livello politico, non solo entrando a più o meno parità nel Governo, ma anche come quasi totalità parlamentare, avrebbe sancito la legittimità democratica sia del Governo, sia della sua azione riformatrice. Seguono considerazioni politiche quali gli effetti di tutto ciò sulle derive populiste e sovraniste ora ostracizzate in via definitiva o quasi, almeno negli intenti.
E veniamo così al primo livello, il vero e più importante livello, il livello tecnico-politico. Draghi agisce verso l’esterno come garante, garante della buona attuazione del piano di ripresa sdoganato in Europa non senza difficoltà e limitazioni (il piano è comunque insufficiente), garante dell’allineamento atlantico, garante verso i mercati. Attenzione perché il nostro spread ha raggiunto il minimo da dieci anni ed a queste condizioni nuovo debito anche fuori dal RP si rende possibile, “debito buono” ovvero debito connesso a spesa che crei condizioni di possibilità per la crescita. E’ dal 1995 che il Pil italiano cresce ogni anno meno della media Europa.
Nel suo vasto curriculum, Draghi ha anche un dottorato al MIT (primo italiano) con Modigliani e Solow. Solow (Nobel ’87) è l’economista forse più noto nell’ambito della teoria della crescita che lega soprattutto al progresso tecnologico che incide sulla produttività, ritenuta la chiave della lievitazione. Ma successivi sviluppi teorici hanno aggiunto note sul capitale umano, sulle infrastrutture, sui quadri giuridici in cui opera la macchina economica.
Per sapere come Draghi pensava di applicare le sue convinzioni teorico economiche al caso Italia, basta leggersi le Considerazioni finali del Governatore di Banca d’Italia del 2011 quando lasciò l’istituto di palazzo Koch per andare a Francoforte. Da pagina 11 alla 16 è riassunta la diagnosi Draghi, quindi la prognosi. Si tenga conto che dieci anni al Tesoro (governi tanto di centrodestra che di centro sinistra) e cinque a Bankitalia, fanno di Draghi il miglior conoscitore possibile delle strutture dell’economia italiana sotto i profili fiscali, imprenditoriali, legislativi, strutturali, sociali e conoscere è la precondizione per cambiare tramite interventi coordinati. Draghi cioè è tra i pochissimi (forse l’unico) che conosce a fondo l’intero sistema anche perché la sua stessa definizione funzionale più precisa è -a mio avviso- proprio quella di funzionario di sistema. Un funzionario di solito al servizio di poteri vari che affollano il vertice del potere sistemico, oggi incaricato da Mattarella di esprimere per la prima volta in vita sua la sua visione in forma esecutiva, salvo via libera politico.
In breve, la diagnosi di sistema fatta a suo tempo da Draghi, era: 1) ottimizzazione della spesa pubblica esaminando problemi ed opportunità di bilancio “voce per voce” impiegando eventuali risparmi in investimenti strutturali; 2) riduzione tasse se c’è recupero di evasione fiscale; 3) se non c’è recupero di produttività i salari ristagnano e ne risente la crescita; 4) la produttività italiana ristagna perché il nostro sistema non si è ancora adattato all’evoluzione tecnologica ed alla globalizzazione; 5) non funziona la giustizia civile e questa mancanza di quadro normativo porta a perdere anche un punto di Pil oltreché sconsigliare investimenti esteri; 6) fino ad un altro punto percentuale di mancata crescita lo si deve al sistema educativo e formativo, soprattutto universitario e di livelli medi di scolarità tra i più bassi tra i paesi OCSE; 7) c’è poca concorrenza di mercato; 8) abbiamo una prolungata carenza di spesa ed efficienza di spesa nelle infrastrutture; 8) non sappiamo neanche impiegare a fondo e gestire bene i fondi europei; 9) si è scaricata tutta la flessibilità necessaria nel mercato del lavoro in entrata (contratti); 10) le sole contrattazioni nazionali sono tropo rigide ed impediscono patti aziendali locali tra lavoratori ed imprese; 11) scarsi supporti nei servizi sociali e non solo, deprimono la partecipazione femminile al mercato del lavoro creando un ulteriore freno allo sviluppo sistemico; 12) il sistema di protezione sociale deve esser in grado di sostenere chi perde un lavoro e ne cerca un altro aiutando così la vivibilità di un sistema in perenne trasformazione adattiva; 13) le imprese italiane sono piccole, famigliari, sottocapitalizzate, strutturalmente inabili al mercato globale.
Come in parte si vede nella recente composizione del governo, i ministeri – Tesoro, Giustizia, Infrastrutture, Istruzione – sono le chiavi necessarie per la trasformazione strutturale auspicata e quindi avocati a sé o a sue dirette emanazioni, quelli del Digitale e della Transizione ecologica sono più legati alla gestione dei fondi di ripresa europei, ma il primo è anch’esso infrastrutturale. Così per la delega per i rapporti con l’UE ed in fondo anche l’asse strategico degli Affari esteri.
Draghi ha poco tempo forse poco più di un anno. Ma l’obiettivo non è risolvere tutti gli italici problemi in un tempo impossibile, è impostare la struttura. Dopodiché come Presidente della Repubblica ha almeno altri sette anni per supervisionare lo sviluppo di quella struttura. Il PdR controfirma ogni anno la finanziaria e non sarà una passeggiata per i governi dei prossimi anni, far firmare paginette con tutto ed il suo contrario recapitate al Quirinale mezzora prima della scadenza. Draghi diventerà un vincolo interno più che il pareggio di bilancio in Costituzione. Draghi diventerà il garante del rischio o opportunità Italia almeno fino al 2030. Il mandante di Draghi è Mattarella, ovvero l’ultimo rappresentante in vita della sinistra democristiana (si rivedano le dichiarazioni di Tabacci dopo il recente incontro delle delegazioni dei partiti stante che Tabacci era di un tipo di sinistra democristiana -Mantova, Marcora- e Mattarella di un’altra -Sicilia/Aldo Moro), un ottantenne che dà mandato ad un settantaquattrenne interpretando a modo suo l’interesse generale visto che dal basso non s’è riusciti a convenire su uno diverso.
L’operazione Draghi si potrebbe infatti intendere come titolo, contenuto e garanzia, di un piano “Italia 2030”, piani di pianificazione e prospettiva che ormai fanno quasi tutti in ambito internazionale. Se l’Italia mostra di poter tornare in trend di crescita almeno pari o qualche volta superiore alla media UE, non importa l’entità del suo debito, l’Europa è salva (almeno su questo aspetto), l’euro è salvo. Altrimenti potrebbe venir giù tutto, incluso il tetto della casa in cui abitiamo noi stessi.
Poiché siamo già lunghi, mi risparmio ogni più dettagliata analisi e soprattutto il giudizio, anche perché il giudizio lo darà chi legge e soprattutto lo dovrà dare a fronte dei fatti che dettaglieranno questo lungo elenco di intenzioni. Mi limiterò ad un punto.
Draghi è chiamato a proseguire il ruolo che ebbe Ciampi con cui ha molti punti contatto. Ciampi era di area catto-liberal-socialista, banchiere centrale, economista, politico, scuola elementare dai gesuiti, cattolico, germanofono, austero e riservato, Presidente del Consiglio prima e della Repubblica poi nonché a capo di una squadra di economisti-funzionari detti “Ciampi boys” capitanati da Mario Draghi che proprio lui aveva spinto al Tesoro. Nonché patriota. Draghi non è qui per gestire la pandemia o solo per il Recovery plan-fund o per l’Europa o per gli USA, è qui per fare una profonda riforma strutturale dell’Italia.
La missione di Draghi è normalizzare l’Italia, allineare l’Italia allo standard occidentale. L’Italia è un paese capitalista dove il capitalismo funziona male. Non è né un modello alternativo, né una versione declinata del modello standard ed è in queste condizioni dai primi anni Novanta. Coi tempi che vengono incontro, l’interesse generale dovrebbe esser quello di definirsi o in un senso o in un altro. Draghi viene a definirci in un senso, chi propugna un senso alternativo dovrebbe esser a livello della sfida, se ne è capace. Tutto il resto sono epidemie narrative (citazione cara a Draghi e riferita ad un concetto formulato da un altro Nobel per l’economia, R.J.Schiller, 2013). E’ qui perché nel nostro Paese sembrano non esistere forze sociali ed intellettuali in grado di proporre un proprio piano Italia 2030 egemonico. Sarà quindi il caso di farsene una idea in fretta se non si vuol subire quello che ha in mente Draghi o se s’intende anche solo migliorare il suo piano, perché sempre più nei prossimi tempi, quando un uomo con una strategia incontra un uomo con la tattica, l’uomo della tattica è un uomo morto.
LA MANO DI DRAGHI.
Avrete letto su i quotidiani che all’indomani dell’incarico conferito da Mattarella a che Draghi, la chiave di ricerca “Draghi è di destra o di sinistra?” su Google è esplosa. Tra i tanti e divertenti meme che sono girati negli ultimi giorni ce n’era uno con la foto del nostro con la sua mano in primo piano accompagnato dalla scritta ironica “Questa mano po’ esse Friedman o po’ esse Keynes”. Il post tenta di farsi largo e delucidare questo guazzabuglio categoriale.
Prima però va fatta una nota, anzi una doppia nota. La prima è che noi interpretiamo la realtà cercando di infilare questa nei nostri schemi categoriali a mo’ dell’antico mito greco del Letto di Procuste. Questi era un brigante posto su un passo di montagna che schiaffava i viandanti su un letto di pietra. Laddove questi risultavano più piccoli li “stirava”, laddove fossero stati più grandi li amputava. Così noi spesso teniamo fisse le nostre categorie e stiriamo o amputiamo i fatti per farli corrispondere alle nostre categorie apriori. La seconda è Draghi ha una mentalità complessiva che ovviamente fa perno sull’economia, impostazione otto-novecentesca per altro condivisa da un vasto arco intellettuale che va dai marxisti al liberali.
In questi giorni, c’è chi ha rimarcato nel curriculum del nostro Federico Caffè, stante che il più accreditato allievo organico del professore fu invero Bruno Amoroso che poca simpatia aveva per Draghi, la sua formazione al MIT presso cui risulta esser il primo italiano ad essersi specializzato, la lunga carriera di “public servant” stante che i public servant sognano di esser un giorno non più “servant”, l’incarico in Goldman Sachs per altro breve e forse meno significativo del ritenuto, la lunga presenza nei centri internazionali del sistema (WB, BIS, AsDB, Gruppo dei Trenta etc.), fino al mitico bluff del Whatever it takes alla BCE. Segnalo che alla fine del suo mandato pare gli sia stato offerto di sostituire Lagarde all’IMF, ma il nostro ha declinato l’invito, evidentemente aveva altri piani e che Draghi faccia piani è caratteristica primaria del personaggio. Zamagni pochi giorni fa, diceva fosse allineato (con spostamento un po’ più a destra) alla visione economica di papa Francesco. Brancaccio e Realfonzo invece, l’hanno inquadrato come liberal-schumpeteriano. Dacché i lettori, col loro Letto di Procuste mentale, avranno tratto l’impressione sia in fondo un ambiguo poiché poco definibile rispetto alle misure del letto di pietra che hanno in testa.
Com’è Draghi al netto del Letto con cui vorremmo misurarlo? In realtà, anche Draghi che più di altri forse pensa che l’economia ordini tutto il resto, parte da una preferenza ideologica prettamente politica. Questa è un “ircocervo” direbbero i procustiani un “né-né” o un “e-e” ovvero la categoria a cui lui stesso, in una rara intervista, si è definito: liberalsocialista. Cos’è un liberalsocialista?
I liberalsocialisti innanzitutto sono pochi, da sempre, una sparuta pattuglia di gente che non s’è iscritta alle due partizioni dominanti liberale e socialista, trovandovi pragmaticamente del buono tanto nell’uno che nell’altro. Ora farò un elenco di liberalsocialisti che ai lettori più giovani dirà meno che un elenco dei componenti della nazionale di hockey canadese, ma che ai lettori più anziani dirà invece qualcosa di più. Si tratta di un ampio fronte (sì, sono storicamente pochi, ma molto vari) che include: Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Gobetti, per un po’ anche Benedetto Croce, Guido Calogero, Guido De Ruggiero, Aldo Capitini, Piero Calamandrei, Leone Ginzburg, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Leo Valiani, Norberto Bobbio (Ralf Dahrendorf), Silvio Trentin, Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, il padre di Berlinguer Mario, con una area intorno in cui piazzare Vittorio Foa, Adriano Olivetti, Giorgio Bocca, Federico Chabod, Enrico Cuccia, Ugo la Malfa, Carlo Bo, Bruno Zevi ed altri. Così per Carlo Azeglio Ciampi da cui discende in linea diretta Mario Draghi. Ma Draghi, a mio avviso, ha una sensibilità politica meno pronunciata di quella economica versione tendenzialmente tecnica. Si noti, del gruppo fanno parte per lo più teorici politici ed intellettuali, non economisti.
Se l’ispirazione ideale pregressa dei liberalsocialisti o socialisti-liberali è quella di Giuseppe Mazzini, nei fatti la gran parte dei nomi citati ha fatto parte del movimento Giustizia e Libertà ma di più Partito d’Azione che ne fu l’espressione più organica, fino al socialismo democratico. Dopoguerra, li troviamo solo per caso e per poco tempo nel PLI, soprattutto nel PRI, nel PSDI, nella galassia socialista dal PSI al PSIUP, nel Partito Radicale originario. L’affiliazione rara e poco organica alla Democrazia Cristiana per taluni (coloro nella cui mentalità cui fa perno la “fede”), deriva dalla coincidenza nella visione teorica della c.d “economia mista” per certi versi, nell’ordoliberalismo tedesco inziale (quello di W.Eucken e W.Ropke) ovvero l’economia sociale di mercato o più sfumatamente nella altrettanto variegata “sinistra DC” di cui Mattarella è erede come i “margherita” Letta-Franceschini. Ma per altre linee, si potrebbe aver riferimento nella terza via di Blair, Obama, fino a Renzi. Certo, tra Renzi, Foa, Parri, La Malfa e Olivetti passano fiumi, ma tant’è, l’area è piccola ma molto variegata. La sindrome pulviscolare o delle cinquanta sfumature non è esclusiva dei marxisti e dei liberali quindi lo sarà anche di questi un po’ dell’uno ed un po’ dell’altro che quindi non sono né l’uno, né l’altro
Di tutto ciò, Mario Draghi è solo una espressione tipicamente economica, molto più contemporanea del vecchio azionismo del ’45, quindi alle prese con evoluzioni dei significati di liberalismo, socialdemocrazia, mercato, società degli ultimi decenni, oltre ovviamente al potente cambiamento di scenario ormai non più nazionale, ma europeo (Draghi è idealmente un federalista europeo) e soprattutto mondiale o globale. Inoltre, più che ampiamente “economista”, Draghi ha una specializzazione monetaria e di bilancio, forse lo si potrebbe inquadrare come “keynesiano idraulico” secondo la sprezzante definizione data da A. Coddington, ma i teorici del keynesismo potranno esser più precisi nel rilascio della patente.
In breve del breve, questa area di pensiero è fortemente democratica anche se per composizione ed intensità intellettuale prende poi pose liberal-elitiste e crede che il modo economico migliore sia di tipo (capitalista) di mercato che però è solo un modo migliore relativo, il mercato spesso fallisce e non è detto che il suo bene si traferisca di per sé alla società. Va quindi guidato, corretto, assistito ma con discrezione, senza distorcene i delicati equilibri dinamici. In pratica sarebbero gli alfieri di una politica economica programmata che li differenzia dai fondamentalisti di mercato, tanto quanto dai pianificatori economici totali. Una mano visibile che aiuta la mano invisibile. Anzi due mani visibili, la mano destra e la mano sinistra.
C.Tito oggi, su Repubblica, sostiene come per altro indicavamo nel nostro precedente post, che l’azione di governo centrale ovvero con accanto problemi sanitari e problemi del Recovery, che Draghi indicherà nel discorso per la fiducia al Senato, sarà basata su tre punti: fisco, giustizia civile e pubblica amministrazione. Secondo ma ha sottovalutato infrastrutture (Giovannini) ed istruzione (Bianchi) ma insomma, l’anima strutturale di questa azione di riforma molto potente ed ambiziosa appare chiara. Il tutto basandosi sulla concordia e coesione sociale necessaria: “”Dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani se vogliamo sopravvivere come comunità” secondo quanto espresse al commiato di fine mandato alla BCE, valeva per l’Europa come per ogni singolo Stato componente l’Unione.
Rispetto quindi alle premesse, Draghi è un po’ tutte le cose che sono state dette dai principali commentatori, ma nessuna di queste singolarmente presa. Infine, da notare che nessuno in Italia ha delegato direttamente Draghi ad una simile riforma fondamentale (se non Mattarella che però democraticamente è solo uno che vale uno), ma non ha neanche delegato i partiti che lo appoggeranno. I partiti sono lì su altri mandati. Nessuno ha discusso ampiamente in Italia di questi temi di ambiziosa riforma in questi anni, per lo meno in maniera seria ed organica. Ne consegue che un uomo solo ha idee molto chiare ovvero Draghi, controllato e supportato da molti uomini che hanno tante idee ma altrettanto poco chiare e comunque mai sistemiche e sistematizzate ovvero i partiti non meno dei sindacati e le parziali associazioni di categoria, politici mandati lì da un popolo che di idee ne ha poche ma molto confuse.
Chiudo quindi con una citazione a me cara di Gunther Anders: “«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche ďinterpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi».
Si pone quindi sempre lo stesso storico problema: a quale mentalità condivisa è attaccata la mano che agisce? Cosa scegliere quando la realtà chiama l’intervento della mano ma questa non ha una mentalità condivisa che la ordina? Non fare nulla perché non siamo democraticamente pronti e pagare i prezzi salati dell’inazione? Delegare a chi sembra di sapere sebbene chissà poi cosa sa, se sa? O renderci conto che siamo sempre in ritardo e pensare a come cercar di evitare in futuro di esser sempre così distratti, trafelati e senza una meta decisa in autonomia dalla massa critica della nostra comunità?
Alcuni link utili per approfondire:
NB_Tratto da Facebook

Caso Regeni. JOHN NEGROPONTE E JOHN MC COLL, di Antonio de Martini

Sospetti sempre più fondati. A quando la dolorosa illuminazione dei genitori di Regeni da una rimozione della realtà sempre più incomprensibile?_Giuseppe Germinario
JOHN NEGROPONTE E JOHN MC COLL
sono i nomi dei datori di lavoro del ” ricercatore e attivista” Regeni.
Sono due cariatidi dell’intelligence , rispettivamente americana e britannica, utilizzate da specchietto delle allodole da DAVID YOUNG, responsabile alla Casa Bianca di Nixon dei dilettanti che scassinarono il Watergate, provocando le dimissioni dell’uomo più potente del mondo.
Nessuna meraviglia che Regeni sia stato male addestrato, a meno che non sia stato mandato appositamente per buttare un cadavere tra Italia e Egitto che pensavano ad una azione congiunta in Libia ad esclusione di altri occidentali compromessi.
Poiché di tratta di una agenzia di intelligence privata, siamo in attesa di conoscere i nomi dei committenti.
Notevole la faccia da culo del professore di Cambridge che dice che “per nulla al mondo darebbero alla intelligence britannica gli elaborati degli studenti.”
Infatti, se li vendevano ai privati, tanto stupidi da pagare per leggere scemenze redatte da gattini ciechi ribattezzati
” ricercatori” .
Forse è il caso di rimettere in voga il termine ” trovatori”
Vediamo adesso se si troverà un magistrato che vada in trasferta a Londra, Oxford e dintorni a vederci chiaro e se il ministero degli esteri farà la voce grossa con Cameron come col Cairo.

Negli States il diavolo e la pentola!…..ma il coperchio?_ con Gianfranco Campa

Negli States la preda pare sempre sul punto di rimanere intrappolata, ma ancora una volta riesce a farsi beffe dei cacciatori. Questo perchè i cacciatori sembrano prescindere dal contesto politico-economico nel quale si muove Trump; forse mancano ancora degli strumenti e delle capacità necessarie ad elaborare e costruire un progetto politico che riesca in primo luogo a legittimarli e renderli credibili. Proseguono a tentoni, ma così possono sperare solo in qualche colpo fortunato. Sembra una storia senza fine, ma solo fino a quando il movimento avverso non riuscirà ad esprimere una nuova e più solida leadership. E’ probabilmente il vero obbiettivo che sta attualmente perseguendo Trump. Sarà quello l’inizio vero della fine di questa farsa sempre più grottesca. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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