DELIO CANTIMORI, CARL SCHMITT, L’OCCASIONALISMO E IL ROMANTICISMO POLITICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO _di Massimo Morigi

FLECTERE  SI  NEQUEO SUPEROS   ACHERONTA MOVEBO

 

DELIO CANTIMORI, CARL SCHMITT, L’OCCASIONALISMO E IL ROMANTICISMO POLITICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO  PER UNA LETTURA INATTUALE DELLA  LETTRE À  MONSIEUR  LE   PRÉSIDENT  E  DEL   SUO  COMMENTO    DI  GIUSEPPE    GERMINARIO

 

Di Massimo Morigi

 

Tantalus a labris sitiens fugientia captat

flumina – quid rides? mutato nomine de te

fabula narratur

Quintus Horatius Flaccus,  Sermones (Satire), I, 1, 68-70

 

         Molto opportunamente, in vera inattuale controtendenza con la narrazione virustotalitaria di questi tempi, in data 29 aprile 2021 il nostro blog “L’Italia e il Mondo” ha pubblicato all’URL http://italiaeilmondo.com/2021/04/29/lettera-al-presidente-lettre-au-president_di-e-a-cura-di-giuseppe-germinario/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20210430070632/http:/italiaeilmondo.com/2021/04/29/lettera-al-presidente-lettre-au-president_di-e-a-cura-di-giuseppe-germinario/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=4%23lcp_instance_listcategorypostswidget-3,   Lettera al Presidente, Lettre  à Monsieur Le Président.  “Per un ritorno all’onore dei nostri governanti”: 20 generali chiedono a Macron di difendere il patriottismo.  La pubblicazione della traduzione della lettera (originariamente all’URL https://www.valeursactuelles.com/politique/pour-un-retour-de-lhonneur-de-nos-gouvernants-20-generaux-appellent-macron-a-defendre-le-patriotisme/, Wayback Machine:  https://web.archive.org/web/20210430070506/https://www.valeursactuelles.com/politique/pour-un-retour-de-lhonneur-de-nos-gouvernants-20-generaux-appellent-macron-a-defendre-le-patriotisme/  o https://www.place-armes.fr/post/lettre-ouverte-a-nos-gouvernants, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20210501034121/https://www.place-armes.fr/post/lettre-ouverte-a-nos-gouvernants, dove fra l’altro con quest’ultimo congelamento Wayback Machine del 6 maggio 2021 si può constatare che la lettera ha avuto 442.132 visite e un like e/o sottoscrizione da parte di 3215 visitatori all’URL,  per la gran parte militari, come si evince, oltre che dal non commentato numero dei like riportati in calce, dalla gran messe di nominativi di militari di ogni grado riportati espressamente in  quest’ultimo congelamento, tali da configurare quasi una rivolta castrense e, comunque, un diffusissimo malcontento nell’esercito francese, di cui i generali  originari firmatari  hanno ben saputo cogliere i segni) è stata curata da Giuseppe Germinario, così come è pure sempre di Germinario il suo commento immediatamente in calce. Del quale commento diciamo subito che tutto condividiamo, e lo condividiamo particolarmente nei chiaroscuri della sua chiusa, nella quale emergono tutti i nostri dubbi e contraddizioni di un pensiero ispirato ad un rinnovato realismo politico e alternativo alla narrazione liberal-democraticistica che ancora stenta a poggiare, almeno su un piano di generale condivisione, su una solida base teorico-prassistica ed operativa: «Le implicazioni di tale rappresentazione sono molteplici: si può cadere nella tentazione velleitaria di un pedissequo ritorno al passato tipico dei reazionari, nel rifiuto della tecnologia piuttosto che nella valutazione del suo utilizzo e dei principi che ne informano gli sviluppi, fermo restando che la conoscenza e l’ambizione di controllo dei processi naturali sono parte integrante dello sviluppo scientifico quali che siano i rapporti sociali e a prescindere da come questi rapporti vi entrino; si possono proporre “sante alleanze” (ad esempio tra tutti gli stati) contro una cosiddetta cupola che è in realtà parte integrante del sistema di potere di qualcuno di essi; non si riesce a percepire l’esistenza di varie “cupole” anche finanziarie al servizio di centri e stati “amici” o ritenuti tali o esenti per natura da certi esercizi di potere.  La lettera, forse al di là della valutazione e delle stesse intenzioni dei firmatari, assume quindi una importanza politica enorme, specie in una Europa addomesticata ormai da oltre settanta anni. Vedremo verso quale versante penderà la propensione dei promotori; quel declivio ne determinerà la sorte. In Italia ci guardiamo bene dal raggiungere quel crinale che obbligherebbe senza scampo ad una scelta. Potrebbe essere ancora una volta la nostra salvezza da tragedie immani ma anche successi che invece la Francia ha conosciuto; sicuramente, nel migliore dei casi, si tratterebbe di una sopravvivenza di una classe dirigente, meno di un popolo, costantemente con il cappello in mano.», mentre sul piano strettamente personale queste parole di Germinario mi rinviano, anche se quasi subliminalmente,  ad alcune mie riflessioni, non ancora pubblicate, su Delio Cantimori, ed in particolare, all’irrisolto rapporto del più grande storico italiano del Novecento col pensiero di Carl Schmitt. E così a commento della lettera dei generali francesi a Macron, ma anche del commento di Germinario (ma anche a Verso la guerra civile. Il tramonto dell’impero USA di Gianfranco Campa – URL: http://italiaeilmondo.com/2020/05/16/verso-la-guerra-civile-il-tramonto-dellimpero-usa_2a-parte-di-gianfranco-campa/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210201075858/http:/italiaeilmondo.com/2020/05/16/verso-la-guerra-civile-il-tramonto-dellimpero-usa_2a-parte-di-gianfranco-campa/ –, al quale come già detto, mi  riservo un futuro commento) e, infine, delle generali ma anche mie contraddizioni strategiche, cito direttamente dall’ancora non pubblicato mio lavoro.

           «A parte gli studi sulle sette ereticali che porranno giustamente Delio Cantimori  (nato a Russi, provincia di Ravenna, il 30 agosto 1904, primogenito di 3 figli di Carlo Cantimori e Silvia Sintini, morto a  Firenze il 13 settembre 1966 cadendo dalla scala della sua biblioteca privata) come il più grande storico italiano del Novecento e ne definiranno non solo la sua personalità scientifica ma […] anche il suo profilo etico-politico,  il rapporto dello storico romagnolo con Carl Schmitt è senza dubbio quell’altro episodio della vita  di Cantimori che ce ne restituisce in pieno il profilo personale e culturale e che ci permette di collocarlo non solo come una delle maggiori testimonianze della crisi del fascismo regime verso quegli intellettuali di matrice democratico-rivoluzionaria che all’inizio l’avevano appoggiato con entusiasmo ma anche di indicare il percorso umano, culturale e politico di Cantimori come uno dei maggiori esempi dei problemi, a tutt’oggi ancora del tutto irrisolti, che si devono affrontare qualora si rifiuti l’affabulazione liberal-democratica ma, al tempo stesso, ci si ritragga, come in definitiva Cantimori sempre fece, di fronte alle promesse rivelatesi infine false del totalitarismo e della burocratizzazione dell’esistenza privata e della vita pubblica.

          Nel definire, comunque, la vicenda Cantimori-Schmitt è innanzitutto necessaria una premessa. Cantimori, proprio per la sua matrice mazziniana democratico-rivoluzionaria e quindi per la sua naturale e meditata avversione al liberalismo (che se vogliamo trovare una costante nel suo tormentato percorso, prima fascista e poi comunista nel PCI di Togliatti proprio questo antiliberalismo fu la sua costante stella polare alla quale rimase sempre fedelissimo) fu sempre molto attento verso la Konservative Revolution tedesca, tanto che all’epoca (giudizio che condividiamo anche noi) egli venne considerato come il maggior esperto italiano del variegato universo degli uomini e dei movimenti che componevano questa rivolta tedesca non solo contro il trattato capestro di Versailles e la democratica repubblica di Weimar che era sorta in seguito a questa capitolazione ma anche contro quella Germania guglielmina che, a giudizio della Konservative Revolution, aveva perso la guerra perché troppo borghese e democratica e quindi dimentica degli autentici valori militaristi che avevano permesso la nascita della Germania imperiale.

Gli articoli di Cantimori sulla Germania di Weimar e sulla reazione contro questa costituita dalla Konsevative Revolution scritti per le riviste “Vita nova” e “Studi germanici”, sono costantemente caratterizzati da un sentimento di comprensione-repulsione nei confronti di questo movimento. Detto in estrema sintesi. Comprensione perché da Cantimori era sommamente apprezzata l’avversione tutta romantica della Konservative Revolution verso tutto quello che sapeva di liberale, in altre parole, Cantimori condivideva in pieno la Stimmung della Konsevative Revolution contro la weberiana secolarizzazione ed atomizzazione della società che era il portato inevitabile e necessario della democrazia partitocratica  di massa della repubblica di Weimar e, in pieno accordo con la Konservative Revolution, anche Cantimori era a favore di una società organica da contrapporre sia alla società liberale sia al comunismo di marca sovietica (comunismo di marca sovietica che però, giova ripetere, il fascista di sinistra e poi corporativista Cantimori non vide mai come un nemico da distruggere ma come un avversario da superare, in quanto anch’esso alternativa ma troppo rozza ed imperfetta, della democrazia liberale).

Avversione perché le idee politiche e i miti […] che costituivano la Weltanschauung della Konservative Revolution erano il pangermanesimo (implicante quindi una visione imperialistico-conflittuale sempre rifiutata da Cantimori in quanto sì fascista ma di  matrice rivoluzionaria democratico-risorgimentale) e addirittura il razzismo antisemita, un tratto che Cantimori proprio perché. come abbiamo mostrato, costituzionalmente amico delle minoranze e fautore convintissimo della tolleranza religiosa (che anzi considerava come il lascito più importante che, attraverso l’opera delle sette ereticali, l’Umanesimo italiano aveva consegnato alla civiltà europea) non poteva che rifiutare alla radice.

         Ma anche se esplicitamente e senza appello Cantimori sempre disprezzò l’antisemitismo e sempre lo condannò pubblicamente, nel contempo lo storico romagnolo cercava pure di fornire un giudizio scientifico delle sue manifestazioni all’interno della Konservative Revolution, sostenendo che se anche in questo movimento non si poteva certo ravvisare la maturità ideologica e politica del fascismo, questo movimento, nonostante i tratti barbari dei suoi giovani esponenti –  dovuti in primo luogo alle peculiarità della cultura tedesca in cui l’Umanesimo aveva assunto da subito tratti protonazionalistici,  al contrario che in Italia dove con la critica filologica dei sacri testi di  Lorenzo Valla aveva portato all’elaborazione di quella mentalità, e pratica, tollerante che, assieme al nicodemismo, sarebbe stato il tratto caratterizzante dei gruppi eretici –, aveva avuto come  positivo risultato il rafforzamento del sentimento di appartenenza ed identità nazionali tedesche, comprese,  purtroppo, anche  le loro derive degenerative, cioè il pangermanesimo, il razzismo, fino all’antisemitismo, sentimenti causati, però, oltre che dalla storia tedesca che non aveva avuto un Umanesimo universalista e tollerante come quello italiano, soprattutto dalla   sconfitta militare che non aveva certo favorito una visione serena e distaccata della politica.

Cantimori, quindi, nel suo giudizio sulla Konservative Revolution  e sulla Germania univa, accanto a finissimi tratti di ricostruzione storico-politica, anche, visti ex post, notevoli tratti di ingenuità intrecciati ad un irrisolto ed ambiguo sentimento di attrazione-repulsione. Ora vedremo come questa ambiguità di giudizio sia stata la nota dominante nel suo rapporto con Carl Schmitt. Una ambiguità di giudizio ma anche tendente ad un sostanziale rifiuto del magistero del giuspubblicista di Plettenberg – al contrario della valutazione sulla Konservative Revolution tutta impregnata di scusanti ed attenuanti –  che però non impedì a Cantimori di essere l’intellettuale cui si deve attribuire il merito di avere messo per primo  sotto  la luce dei riflettori della provinciale cultura fascista la figura del grande giuspubblicista di Plettenberg.

Se facciamo eccezione dell’occasione mancata nel 1922 della pubblicazione in italiano di Die Diktatur di Carl Schmitt (prima edizione: Carl Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, München-Leipzig, Duncher & Humblot, 1921), occasione mancata perché, per ironia della storia, i fascisti in risposta allo “sciopero legalitario” proclamato dall’Alleanza del Lavoro, distrussero incendiandole la sede Milanese dell’ “Avanti” e la sua tipografia dove proprio si stava stampando il saggio del giuspubblicista fascista Carl Schmitt, la prima pubblicazione in italiano degli scritti di Carl Schmitt furono i Principii politici del Nazionalsocialismo (Carl Schmitt, Principii politici del Nazionalsocialismo, Scritti scelti e tradotti da Delio Cantimori,  Firenze, Sansoni, 1935), una raccolta di scritti di Schmitt, tra cui la traduzione di Der Begriff des Politischen (prima edizione: Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, in “Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, a. LVIII, n. 1, 1927, pp. 1-33) e comprendente anche una lunga nota esplicativa di Cantimori, da pagina 1 a pagina 42, le  Note sul Nazionalsocialismo. (Le Note sul Nazionalsocialismo, prima di costituire la premessa apposta da Cantimori ai Principii politici del nazionalsocialismo, furono pubblicate nell’ “Archivio di studi corporativi”, V, 1934, pp. 291-328. Oggi sono più facilmente consultabili in Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), Torino, Einuadi, 1991, pp. 163-191).

         Chi andasse a leggere la nota esplicativa di Cantimori aspettandosi un’analisi del pensiero di Carl Schmitt rimarrebbe molto deluso perché Cantimori pur traducendo in italiano tutti i saggi di Schmitt presenti nella raccolta (e, ancor più importante, pur essendo colui che più di ogni altro aveva spinto perché questa raccolta venisse alla luce e, a questo scopo, aveva anche incontrato personalmente Schmitt), non affronta il problema di un confronto diretto col pensiero di Carl Schmitt limitandosi nelle Note sul Nazionalsocialismo di fare un quadro d’insieme delle componenti politico-culturali che facevano da sfondo al nazismo, focalizzandosi in particolare sul contributo dato al movimento dai fratelli Otto e Gregor Strasser. 

È quindi evidente che per Cantimori, che pur riconosceva un grande valore al pensiero del giuspubblicista di Plettenberg, esisteva un autentico problema Schmitt, problema Schmitt che, come abbiamo visto dall’episodio “epico” della bastonatura da parte dei fascisti di un comunista e al tempo stesso con stridentissima contraddizione, dall’approvazione del comunque assai poco epico assassinio di Matteotti [per entrambe le questioni cfr. infra, N.d.A.], deriva proprio dalla mentalità di Cantimori la cui Weltanschauung era indelebilmente caratterizzata da una sintesi sempre insoddisfacente fra il romanticismo democratico di stampo risorgimentale-mazziniano e il realismo à la Machiavelli: era quindi evidente che un pensiero come quello dello Schmitt imperniato, almeno nella prima fase della produzione del giuspubblicista di Plettenberg (la fase che più attirò l’attenzione di Cantimori), sulla dualità amico-nemico, dove il nemico era colui che attraverso la distruzione dello stesso delimitava il campo del politico, dell’amico e della formazione della sua identità, e sul Dezisionismus, un decisionismo che era in grado solo in virtù del suo mero manifestarsi nel ‘politico’ di creare diritto infischiandosi della norma,  costituisse per Cantimori, assieme ad uno “scandalo” che doveva essere rifiutato (e semmai giustificato inserendo il pensiero di Schmitt nell’ambito delle componenti irrazionali che agitavano la Konservative Revolution), anche una sorta di pensiero inconscio dello stesso Cantimori, una sorta di mai compiutamente espressa  intellettualmente visione politica che giustificava anche l’assassinio politico ed il più deteriore machiavellismo  qualora la situazione politica avesse richiesto il ricorso alla modalità amico-nemico, vedi l’approvazione di Cantimori dell’uccisione di Matteotti.

Ma se i Principi del nazionalsocialismo furono una sorta di occasione totalmente perduta per Cantimori per fare i conti col pensiero di Schmitt (e probabilmente lo furono anche per ovvie ragioni diplomatiche perché Cantimori si era più volte incontrato con Schmitt per arrivare a questa pubblicazione e sarebbe stato veramente poco diplomatico, oltreché sommamente scortese, criticare aspramente un autore verso il quale tanto si era fatto per accordarsene le grazie), in Cantimori lo scandalo-rimozione di Schmitt doveva in qualche modo venire alla luce e ciò accadde nello stesso 1935 con la pubblicazione di Cantimori su “Studi germanici” del lungo articolo La politica di Carl Schmitt. Per cercare di districare questo scandalo-rimozione di Schmitt (in un’operazione che, come vedremo, è ai nostri occhi di estremo interesse non tanto per il suo successo ma proprio per il suo fallimento nel fare i conti sul serio col pensiero di Schmitt, un fallimento che nei suoi tratti cantimoriani  non solo sarà condiviso da tutta la cultura italiana del tempo prima di arrivare alla riscoperta schmittiana di Miglio ma segnerà anche, come vedremo, la successiva proiezione pubblica di Cantimori con l’adesione prima e la fuoruscita poi dal PCI togliattiano), Cantimori come prima mossa cerca quindi di inquadrare le fonti del pensiero di Carl Schmitt: «Ma se lo Schmitt con la sua cultura ha saputo costruire una tradizione, intesa come una specie di giustificazione storica, alla propria dottrina, che così si viene a inserire fra le grandi teorie “pessimistiche” della vita politica, com’egli dice, o naturalistiche, come noi secondo la cultura filosofica italiana preferiamo dire, sorte tutte, come lo Schmitt stesso acutamente osserva, in periodi di “crisi” politica (non useremmo la parola “nazionale”, troppo recente, e carica anch’essa di naturalismo, ma “ottimistico”) – quelle del Machiavelli, dello Hobbes, dello Hegel –, evidentissime sono pure nei suoi scritti le origini “presenti”, attuali, delle sue esigenze e delle sue dottrine. Cominciamo dalle dottrine: le radici del decisionismo dello Schmitt stanno soprattutto nella tesi antiromantica del “pensatore esistenziale”, del Kierkegaard, con la sua esigenza attivistica ed anarchicamente soggettiva (non intendo qui “anarchico” in senso politico, ché anzi il Kierkegaard si dimostrò politicamente conservatore e in certi momenti reazionario) la quale si esplica nel porre davanti  a una decisione risolutiva l’ “interno rapporto esistenziale del singolo di fronte a se stesso”, con una specie di puritanesimo disperato e anarchico  […] [Ma] Non staremo qui dunque a riprendere questi problemi: piuttosto rileviamo lo strano miscuglio di esperienze filosofiche e storiche che costituiscono il sostrato  culturale delle dottrine schmittiane: il legittimista  e papista ex massone De Maistre, il duro disperato teorico della dittatura reazionaria, per troppo odio ai nemici della Chiesa eretico del cattolicesimo, Donoso Cortes, il moralista sindacalista Sorel, il protestante disperato e angosciato fierissimo nemico dell’umanità e degli hegeliani Kierkegaard, lo Hegel “prussiano” e luterano, il Marx delle critiche alla società capitalistica e delle invettive al mondo borghese; e poi il Bakunin, gli anarchici, Lenin: tutta gente decisa, pronta ad affermare la propria forza con l’azione nel caso d’eccezione, o teorizzante tale decisione, pronta ad imprimere una forma con la violenza nel caos, purché una azione sia compiuta, una decisione sia presa, con recise parole, con diritta linea, con netta volontà. Si capisce, riflettendo a questa varietà di motivi, come Thomas Mann, per far parlare uno dei suoi personaggi più tetri e che meglio aiuta a renderci conto della situazione spirituale di tanti tedeschi di ieri e di oggi,  l’ebreo gesuita anarchico Nafta dello Zauberberg, abbia potuto servirsi di frasi e periodi degli scritti dello Schmitt, in specie della Politische Romantik. Certo, la personalità dello Schmitt, di schiatta campagnola della tedeschissima Westfalia, non ha niente a che fare con il sinistro personaggio dipinto, con una certa quasi morbosa compiacenza, dal Mann: ma è innegabile che spesso gli scritti dello Schmitt, prima di quello sulle Drei Arten des Rechtwissenschaftlichen Denkens, destino tale impressione di anarchica volontà di reazione contro un mondo a cui non si è in grado di credere. E sono gli scritti che, ripetiamo, hanno avuto più fortuna ed hanno avvicinato allo Schmitt alcuni circoli di giovani scrittori nazionalsocialisti.» (Delio Cantimori, La politica di Carl Schmitt, “Studi Germanici”, 1, 1935, citato da Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), cit., pp. 243-245).

          Se ci fermassimo solo alla registrazione dei nomi e delle correnti filosofiche registrate da Cantimori per ricostruire la genealogia del pensiero di Schmitt, saremmo di fronte ad un’analisi impeccabile nonché, viene da dire, assai algida. Ma è proprio su quest’ultima aggettivazione che bisogna soffermarsi per, in ultima analisi, respingerla. Sicuramente l’elenco delle fonti è completo ma di tutto si tratta fuorché di un’algida elencazione perché se la “gente decisa” che può avere ispirato Schmitt incontra l’esplicito apprezzamento di Cantimori (ed è da notare in questo senso l’inclusione fra i personaggi positivi della storia anche di Lenin, questo a dimostrare quanto fosse autentico lo spirito rivoluzionario del fascista Cantimori), d’altro canto la  “neutralizzazione” del pensiero di Schmitt attraverso la genealogia è un’operazione cui lo stesso Cantimori dimostra di non credere fino in fondo nel momento in cui afferma – e allo stesso tempo cercando di sminuire la negatività di questa osservazione – che Thomas Mann nella Montagna incantata per rappresentare la fosca figura dell’ebreo gesuita anarchico Nafta «abbia potuto servirsi di frasi e periodi degli scritti dello Schmitt, in specie della Politische Romantik.» E, a questo punto, si dimostra assai debole difesa affermare “Certo, la personalità dello Schmitt, di schiatta campagnola della tedeschissima Westfalia, non ha niente a che fare con il sinistro personaggio dipinto, con una certa quasi morbosa compiacenza, dal Mann”, una sorta di excusatio non petita accusatio manifesta, alla quale, comunque, Cantimori dimostra immediatamente di non credervi fino in fondo quando subito dopo afferma che, in pratica, sono proprio i tratti luciferini del pensiero di Schmitt che gli hanno attirato le simpatie del nazionalsocialismo (che Cantimori disprezzava perché portava all’estrema degenerazione tutti quei tratti irrazionali della Konservative Revolution che, a giudizio di Cantimori, era in sé, complessivamente,  un fenomeno positivo in quanto reazione antiliberale).

          Comunque, dopo questo (tormentato) inquadramento genealogico del pensiero di Schmitt, Cantimori passa al tentativo di un suo  inquadramento teorico  e a questo punto assistiamo ad un’autentica rimozione da parte di Cantimori del significato filosofico-politico del pensiero di Schmitt (e come vedremo contestualmente, saremo messi di fronte anche ad un’autentica  e sconcertante sorpresa): «Qual è il motivo fondamentale che conferisce unità all’eterogeneo miscuglio di argomentazioni e pensamenti che formano la sostanza della dottrina politica dello Schmitt, nel suo periodo “decisionistico”? Diciamo subito che a nostro parere non si tratta, come vuole il Fiala, di un “pensiero occasionalistico”, cioè interiormente vuoto e atto a tutti i contenuti, cioè di una apparenza di pensiero, della brillante veste di una ambizione personale: c’è sotto la risposta a una esigenza sentimentale e politica. In quanto tale, il pensiero “decisionistico” dello Schmitt non è molto saldo teoricamente, non è profondamente pensato, ma piuttosto acutamente, geistreich, elaborato e costruito: la dottrina brillantissima della politica come sede della decisione del contrasto fondamentale fra amicus e hostis rimane ferma alla constatazione e al dualismo della contrapposizione, senza pervenire ad una risoluzione: poiché lo stato di guerra permanente non è una risoluzione filosofica, ma rimane una constatazione (certo lo Schmitt rifiuterebbe come “liberale” ogni risoluzione in un terzo superiore della perenne antitesi hostis-amicus: ma questo rifiuto non elimina l’esigenza. Ma qui non si può andare oltre). Né ha poi ricevuto ulteriori svolgimenti,  appunto perché geniale come constatazione nel campo empirico, e intrinsecamente inane come teoria nel campo speculativo (nonostante lo sforzo dell’A.: ma qui non si ricercano le intenzioni, si esaminano i risultati). Dunque non dobbiamo ricercare la spiegazione e l’interpretazione delle teorie dello Schmitt in sede di pensiero filosofico e teoretico, mentre a sua volta l’origine dottrinale, che abbiamo accennata, non basta: dovremo ricercare quel motivo fondamentale nel  mondo empirico degli avvenimenti, in quello della pratica, delle volizioni, delle aspirazioni, degli affetti, dei sentimenti, degli odii e degli amori.». (Id., La politica di Carl Schmitt, “Studi Germanici”, 1, 1935, citato  da Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), cit., p. 246).

          In sede di analisi di questo passo innanzitutto una considerazione. Seppur espresso con un lessico filosofico che copre la natura meramente empirica dell’argomentazione – e che, per strana ironia, fa sì che l’accusa rivolta a Schmitt di fare confusione fra incontestabili dati di fatto, in primo luogo la contrapposizione fra amico e nemico, ed affermazioni filosofiche, possa essere rivolta anche al Cantimori stesso – Cantimori ci pone comunque di fronte a quello che potremmo definire il “paradosso Carl Schmitt”, vale a dire che se la contrapposizione schmittiana amico-nemico  è uno strumento impareggiabile per insegnarci l’anatomia del “politico” è sovente parimenti impotente per insegnarcene la dinamica (come inquadrare, cioè, la collaborazione fra “indifferenti”, cioè fra né amici  né nemici, che si associano per uno scopo comune senza per questo divenire amici; come spiegare, senza che ciò implichi particolare alleanze e/o accordi  né impliciti né espliciti, tutte quelle particolari relazioni simbiotiche che si manifestano nelle società umane, che con la stessa modalità di quelle che avvengono in natura – cioè nelle società animali o vegetali –  non presuppongono nemmeno, se non in senso molto lato, la creazione di un amico o di un nemico?).

Purtroppo il parlare in “filosofico” dove invece si sarebbe dovuto discorrere in “sociologico” e “storico”, per poi  partendo  dalla constatazione fattuale delle fonti del pensiero di Schmitt, con corretta operazione non praticata da Cantimori, ricavarne  dialetticamente euristiche considerazioni filosofico-politiche – rimanendo quindi impigliato nello stesso errore indotto dalla filosofia dei distinti di Croce dove, in ragione proprio della sua fragilità teorica, alla fine, in conseguenza della sua dialettica a “spezzatino”, falliva proprio nello distinguere fra i vari livelli del discorso –,  impedisce a Cantimori, che come molti intellettuali idealisti del tempo tentava impervie sintesi fra la filosofia dei distinti di  Benedetto Croce e l’attualismo di Giovanni Gentile,  di mettere chiaramente a fuoco il paradosso di Carl Schmitt e alla fine la critica si risolve, piuttosto che rilevare i gravi, profondi ma anche illuminanti problemi per il pensiero politico e filosofico del ragionamento di Carl Schmitt, a collocare crocianamente i ragionamenti e categorie di Carl Schmitt nel mondo degli pseudoconcetti, magari giudicandolo autore di  grande forza interpretativa riguardo al mondo empirico-politico ma non riconoscendogli alcuna  consistenza teorico-filosofica («Dunque non dobbiamo ricercare la spiegazione e l’interpretazione delle teorie dello Schmitt in sede di pensiero filosofico e teoretico, mentre a sua volta l’origine dottrinale, che abbiamo accennata, non basta: dovremo ricercare quel motivo fondamentale nel  mondo empirico degli avvenimenti, in quello della pratica, delle volizioni, delle aspirazioni, degli affetti, dei sentimenti, degli odii e degli amori.»).

          Ma è giunto il momento di evidenziare la sorpresa che nasconde questo commento cantimoriano a Schmitt. Si tratta dell’esplicito riferimento a Hugo Fiala, cioè delle durissime critiche che Karl Löwith in Politische Dezisionismus  sotto lo pseudonomo, appunto, di Hugo Fiala  aveva rivolto, riferendosi soprattutto al  Politische Romantik e al Der Begriff des Politischen,  al decisionismo di Carl Schmitt e al suo occasionalismo, accusandolo, quindi, di una totale   mancanza di  ubi consistam nel suo pensiero. (Cfr. Hugo Fiala, pseudonimo di Karl Löwith, Politische Dezisionismus, in “Internationale Zeitschrift für Theorie des Rechts”, 1935, IX, n. 2, pp. 101-123. Questo saggio di Karl Löwith fu nello stesso anno pubblicato anche in Italia col titolo Il concetto della politica di Carl Schmitt e il problema della decisione nella rivista “Nuovi Studi di diritto, economia e politica” (1935, VII, pp. 58-83). Il saggio fu nuovamente pubblicato in italiano nel 1967 in Karl Löwith, Critica dell’esistenza storica, Napoli, Morano, 1967, con il cambiamento di titolo, Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, pp. 113-161. In questa nuova versione Löwith modifica il saggio originario attribuendo il vuoto occasionalismo schmittiano anche a Martin Heidegger e al teologo Friedrich Gogarten).

          Accusa questa del Löwith estremamente imbarazzante per Carl Schmitt il quale nel Politische Romantik aveva proprio cercato di mettere alla berlina l’occasionalismo romantico. Soprattutto – ma non solo, perché in Politische Romantik la critica al romanticismo investe la totalità di questo fenomeno culturale, sempre comunque viziato dalla tara del velleitarismo occasionalista –  se applicato alla politica e alla sua interpretazione. E se come difesa d’ufficio Cantimori sembra respingere il giudizio di occasionalista affibbiato da  Löwith a Schmitt: «Diciamo subito che a nostro parere non si tratta, come vuole il Fiala, di un “pensiero occasionalistico”, cioè interiormente vuoto e atto a tutti i contenuti, cioè di una apparenza di pensiero, della brillante veste di una ambizione personale: c’è sotto la risposta a una esigenza sentimentale e politica.», immediatamente dopo arriva la palinodia: «In quanto tale, il pensiero “decisionistico” dello Schmitt non è molto saldo teoricamente, non è profondamente pensato, ma piuttosto acutamente, geistreich, elaborato e costruito: la dottrina brillantissima della politica come sede della decisione del contrasto fondamentale fra amicus e hostis rimane ferma alla constatazione e al dualismo della contrapposizione, senza pervenire ad una risoluzione: poiché lo stato di guerra permanente non è una risoluzione filosofica, ma rimane una constatazione (certo lo Schmitt rifiuterebbe come “liberale” ogni risoluzione in un terzo superiore della perenne antitesi hostis-amicus: ma questo rifiuto non elimina l’esigenza. Ma qui non si può andare oltre).», palinodia che oltre a rappresentare una perfetta sintesi del pensiero di Löwith riguardo a Schmitt è, come si evince assai chiaramente sia dalla impostazione generale dell’intero saggio di Cantimori sia per l’evidente condivisione  così come si evidenzia dalla nostra specifica citazione, anche una perfetta sintesi del pensiero di Cantimori riguardo a Schmitt.

          Ma detto questo, avendo cioè evidenziato attraverso la lettura della Politica di Carl Schmitt il totale dissenso di Cantimori da Carl Schmitt, non saremmo ancora in grado di cogliere tutta l’estrema ambiguità dell’operazione compiuta da Cantimori su Carl Schmitt e questo perché sorprendentemente – sorprendentemente, cioè, per il fatto che Cantimori si era fatto ricevere da Schmitt per curare la diffusione del suo pensiero in Italia, e Schmitt almeno all’inizio aveva addirittura rifiutato d’incontralo, convinto poi dopo dalla già acclarata  fama di studioso di Cantimori che gli aveva fatto pensare di poter trovare presso di lui una utilissima spalla per far conoscere in Italia il suo pensiero –  il traduttore in italiano del saggio di  Löwith era stato proprio Delio Cantimori.

Anche da questo non minore episodio del suo percorso umano ed intellettuale si pone allora in evidenza un atteggiamento, e cioè il nicodemismo, che non fu solo un tratto psicologico che Cantimori, assieme all’elaborazione del concetto e della pratica della tolleranza, avrebbe attribuito, in Eretici italiani del Cinquecento (Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze,  Sansoni,  1939, 1ª edizione), ai membri delle sette ereticali ma che  anche fu un atteggiamento che costantemente segnò il percorso umano ed intellettuale del Cantimori stesso. Questo nicodemismo, cioè quel comportamento che porta a nascondere  il proprio vero pensiero di fronte a maggioranze oppressive ed autoritarie, non fu per la verità un tratto solo cantimoriano: escludendo da questo novero coloro che per pura convenienza erano fascistissimi e poi, appena caduto il regime, non lo erano mai stati e poi nel secondo dopoguerra pretenderanno di incarnare nella loro persona l’archetipo dell’antifascista (e solo dopo, quando scoperti da giornalisti ficcanaso bofonchieranno scuse penose: un esempio per tutti, quell’icona del pensiero radical chic che rispondeva al nome di Norberto Bobbio), il nicodemismo, per la verità, non poteva che essere lo sbocco inevitabile e necessitato di tutto quel fascismo di sinistra di matrice risorgementale-democratica o socialista che sul fascismo aveva riposto grandi speranze di quel rinnovamento e rivoluzionamento dell’Italia che il Risorgimento non era riuscito a compiere e per riuscire a costruire quella tanto agognata “terza via” fra l’anomia del capitalismo selvaggio e senza regole e il comunismo alla sovietica che se aveva saputo mettere in  primo piano la questione sociale, era riuscito, proprio come il capitalismo, ugualmente disumanizzante (comunismo sovietico che comunque, lo ripetiamo, per Cantimori e per tutti i fascisti terziviisti di sinistra mai fu visto come un nemico ma, piuttosto, come un avversario da superare nella soluzione dei problemi del capitalismo).

          E per Cantimori, come per tutti gli altri fascisti di sinistra  motivi per essere delusi prima e poi “nicodemisti” e, alla fine, per dare uno sbocco nella resistenza e/o nei partiti di sinistra del secondo dopoguerra, il fascismo regime non aveva certo mancato di fornirne. Il Concordato fra Stato e Chiesa prima (e il fascista mazziniano-repubblicano e risorgimentale Cantimori fece sinceri e dolorosi sforzi di realismo politico – sinceri come quando giustificò l’assassinio Matteotti ma, in questo caso, assai più dolorosi – per giustificare sotto il nume tutelare della ragion di Stato il vulnus del Concordato), il mancato rivoluzionamento della struttura economico-sociale del paese che avrebbe dovuto essere messo in atto attraverso il corporativismo ma che, in realtà, vide il corporativismo ridotto ad una pura bardatura burocratica animata dal solo scopo di reprimere la conflittualità sociale ed in primis quella operaia e, infine, le leggi razziali furono tutte “occasioni non perdute” per segnare il distacco di questa componente del fascismo dal fascismo regime.

Quello che però distinguerà l’allontanamento di Cantimori dal fascismo da quello di analoghi profili politici e culturali è che, in Cantimori, il nicodemismo non fu solo un tratto necessitato dalla durezza dei tempi ma fu, anche, un tratto extrapolitico denotante la sua personalità privata ed intellettuale.  Quando Cantimori scriveva nel suo appunto del ’34 che egli ora, piuttosto che dichiararsi spavaldamente fascista e fare comunella, come nei bei tempi della prima giovinezza, con i bastonatori fascisti romagnoli, aveva trovato la sua vera dimensione nelle sale ovattate del British Museum [cfr. infra, N.d.A.]  è evidente che si è già operata in lui un’insanabile frattura ma questo sfogo –  al contrario di altri fascisti di sinistra delusi, che cercarono con tutti i mezzi consentiti dal regime di avere una reale interlocuzione con le espressioni apicali dello stesso (vedi per esempio Ugo Spirito) –, rimase totalmente privato, confinato in un appunto personale e Cantimori, nonostante che in cuor suo avesse evidentemente già abiurato il fascismo regime, non si trasformò mai, in corso il regime, in un dissidente: «Dieci anni fa mi preparavo all’esame di normalista nel giardino di casa di mio padre a Forlì. Le passioni politiche del momento non mi toccavano molto; giudicavo le cose con molta freddezza, dal punto di vista della ragion politica, mi stupivo degli scandali di mio padre per l’uccisione di un membro del Parlamento, e poi mi vergognavo di questa incomprensione. Mi pareva giusto, cioè logico, che un nemico pericoloso e acre dovesse essere eliminato… La mia “politica” consisteva  nell’applicare i metodi  del machiavellismo volgare alla realizzazione della “Politeia” platonica; residui di nazionalismo patriottico della propaganda bellica, di atteggiamenti dell’interventismo repubblicano , motivi del movimento “combattentistico”, ricordi del periodo di propagandista “fiumano” fecero sì che nell’inverno a Pisa mi dichiarassi, nelle discussioni fra normalisti, per fascista. Volevo iscrivermi nel 1924, durante l’episodio Matteotti. Vedevo nel Fascismo soprattutto e quasi esclusivamente il programma del 1919: il monarchismo fascista mi sembrava un puro espediente politico… Nonostante l’insipienza ereditata dall’ambiente politico romagnolo, sentivo insomma con la classe nella quale vivevo ed alla quale la scuola mi faceva appartenere, ed accoglievo in me, per sentimento, per impulso, con concetti vaghi e generici, i motivi del Fascismo di battaglia.». (Appunto «30 agosto 1934», in Archivio Cantimori, Scuola Normale Superiore, citato da Adriano Prosperi (a cura di), Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, Torino, Einuadi, 1992, p. XXI).

Ma se Cantimori politicamente parlando non fu mai pubblicamente un dissidente, dal punto di vista culturale, man mano che il regime assumeva tratti sempre più totalitari, costituì una sorta di mosca bianca fra tutti quegli intellettuali che erano inquadrati nelle istituzioni fasciste. Fu questo di Cantimori un atteggiamento nicodemico dettato da puro calcolo di convenienza (Cantimori pubblicò il suo saggio sugli Eretici italiani del Cinquecento nel 1939  e questo gli sarebbe stato veramente impossibile, va da sé, se Cantimori fosse stato un oppositore, seppur larvato, al fascismo e, siccome gli Eretici italiani del Cinquecento, oltre alla puntuale ricostruzione dei movimenti ereticali italiani sorti in seguito alla Riforma è anche un sentitissimo omaggio a costoro perché, secondo Cantimori, essi furono coloro che diedero vita al moderno concetto di tolleranza, concetto di tolleranza che secondo Cantimori nulla doveva al concetto liberale   di tolleranza di stampo lockiano ma era sorto, in seguito alla esegesi filologica valliana dei testi sacri, dalla consapevolezza che questi testi, oltre a dover essere interpretati nel loro contesto storico con un’interpretazione, quindi, tutta umana e soggetta per questo motivo ad errori, contenevano un solo indiscutibile messaggio, e cioè l’amore fraterno fra gli uomini che è l’esatta antitesi dell’intolleranza, e quindi si potrebbe dire che  in questo caso Cantimori per poter pubblicare il suo saggio che smentiva tutto quello che affermava il fascismo regime, abbia fatto suo il detto di Enrico IV di “Parigi val bene una messa”, e cioè che rendere onore ai tolleranti eretici italiani ben valesse il conto di non scontrarsi col fascismo regime) o fosse dettato dal fatto che per Cantimori,  al tempo della scrittura della nota privata del ’34, al fascismo fosse doveroso dare una prova d’appello, questo non lo possiamo dire.

          Possiamo certo dire che però, come, del resto, ce ne danno testimonianza l’introduzione cantimoriana di Schmitt in Italia operata attraverso il suo scritto La politica di Carl Schmitt e  la critica di Karl Löwith all’occasionalismo romantico di Carl Schmitt, sempre introdotta in Italia, come abbiamo visto, da Cantimori, lo stridore fra l’appartenenza politica di Cantimori e il suo profilo intellettuale cominciava a farsi notare in maniera eclatante e le osservazioni stupite di Croce in merito all’ambigua collocazione politico-culturale di Cantimori non fanno che darcene testimonianza. (Scrisse Croce di Cantimori  nella recensione a F. Church, I riformatori italiani, Firenze, 1935 e in “La Critica, 33, 1935, pp. 223-224: «Non so quale sia la fede politica del dr. Cantimori; ma, a stare alle sue parole, dovrebbe dirsi che egli si è lasciato accecare e trasportare fuori dei confini del vero dal suo ardente amore per la libertà, dal suo affetto per tutti i ribelli e per tutti i perseguitati  e le vittime delle tirannie sacre e profane. E starei quasi per fargli le congratulazioni di questo nobile eccesso, se non temessi di prendere abbaglio sul suo vero sentimento: tanta è la confusione e la contradizione degli atteggiamenti mentali e morali nei giorni che corrono.»).

          Insomma, alla luce della “strategia” cantimoriana verso il fascismo regime – lasciamo cadere il problema perché non abbiamo gli elementi per pronunciarci in merito, se al tempo della pubblicazione della Politica di Carl Schmitt e del saggio di Hugo Fiala Cantimori in cuor suo fosse disposto a fornire qualche chance al regime o, nel foro interiore, considerasse chiusa la partita con lo stesso –  pare di tutta evidenza che l’introduzione in Italia di Carl Smith lodandone il valore come studioso ma, palinodicamente, negandone un vero valore filosofico e scientifico rispondesse anche all’intento di  “parlare a nuora perché suocera intenda”. E che in Cantimori nel saggio sulla Politica di Carl Schmitt fosse politicamente e culturalmente animato da un nicodemico “parlare a nuora perché suocera intenda” ma che questo nicodemismo fosse anche interiore, cioè che nel foro interno di Cantimori non fossero stati fatti ancora del tutto i conti con l’origine attivistica e romantica del fascismo di Cantimori (con profonde affinità, cioè, a quei tratti romantico-occasionalisti deprecati dal Löwith e dallo stesso Cantimori a Schmitt), lo vediamo dal prosieguo dell’analisi di Cantimori intorno al mondo che giustificherebbe il pensiero di Carl Schmitt ossessivamente orientato, secondo lo storico romagnolo,  verso la dicotomia amico-nemico: «Questo mondo è caotico e convulso, violento e fremente nella Germania di questi ultimi anni. Fra i più agitati ed estremisti perché in sommovimento, radicali perché non fiduciosi nella storia, anarchici per nostalgia d’ordine assoluto, ha trovato fortuna lo Schmitt. Per tutti ricorderemo il più vigoroso e onesto fra gli scrittori che hanno rappresentato e alimentato con eloquenti parole tale stato d’animo: lo Jünger. Accanto a lui il Salomon, A. E. Günther, il Niekisch, e con lui, più vecchi, il Moeller van den Bruck, Hans Grimm, e infiniti altri: uomini ora, venuti su durante la guerra, che hanno costituito, come è stato detto, “una generazione di giovani usi all’agire e impreparati al pensare quant’altri mai nell’era moderna”: irosi, al ritorno dalla guerra o all’ascoltare i maggiori raccontare di quelle esperienze terribili che ne avevan fatto il carattere e segnato indelebilmente la mente, contro la società “borghese” nella quale tornavano: il mondo della Germania del dopo guerra, con gli inetti e timidi politici della socialdemocrazia, pavidi contro le forze della ribellione delle plebi, e perciò strumento in mano degli antichi avversari politici, con la disgregazione morale e materiale di un paese in disfatta, vivente, per quanto riguarda la vita spirituale, sugli avanzi di convinzioni   dimostrate vane dalla storia, su vaghe speranze o atroci determinazioni, caotico, in continuo sommovimento, pieno d’incertezza. In quel mondo, quegli uomini non potevano inserirsi, a meno di rinunciare a se stessi, di cedere alla sua ipocrisia, a quelle convenzioni che l’inesperienza giovanile, questa volta indurita e incapace di svolgimento per aver compiuto l’immane impresa della guerra, non era capace di accettare per superare.  Essi che cercavano certezza non potevano trovarla in quel disfacimento: e si misero ad accelerarlo con la loro opera di distruzione, nei campi opposti, ma sullo stesso piano, del comunismo estremista e del radicalismo nazionalista: nella ribellione. Che era una ribellione di disperati, di “figli della borghesia”, della borghesia prussiano-guglielmina, che a tanti prima della guerra mondiale appariva come modello  di salde virtù. Lavoro, dovere, senso dello stato, della famiglia, amore della cultura…: chi non ricorda le apologie del Treitschke per quel mondo, dal quale i giovani già negli anni precedenti alla guerra cercavano di sfuggire con il movimento così ingenuo oggi ai nostri occhi, della Jugendbewegung? Tutte quelle certezze, la sicurezza di quell’ordine costituito, che questi giovani ricercavano al ritorno della terribile esperienza, non c’erano più: scomparsi nel dissolvimento della sconfitta, nella esagitazione delle ribellioni, mentre gli occhi della mente fissi  per tanto tempo agli strumenti di guerra e alle stragi non riuscivano a scorgere sotto il tumulto degli affetti  della dolorosa pace le fila nascoste da seguire, i frammenti e le rovine su cui edificare, le luci su cui orientarsi per riconquistare una sicurezza, una certezza.». (Delio Cantimori, La politica di Carl Schmitt, “Studi Germanici”, 1, 1935, citato  da Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), cit., pp. 246-247).

          Non era la prima volta che Cantimori scriveva della Konservative Revolution e sul rossobrunisimo tedesco venendone per questo riconosciuto come il massimo esperto in Italia e di affari tedeschi contemporanei e dei movimenti che da destra come da sinistra contestavano cercando di abbattere la Repubblica di Weimar avendo come base comune un totale rifiuto del liberalismo e dell’economia capitalistica di mercato (e nel rossobrunismo si era cercato di arrivare ad una sintesi fra destra e sinistra antiliberale per abbattere questo comune nemico) e nei suoi precedenti scritti sulla Konservative Revolution e sul rossobrunismo  Cantimori, seppur tenesse a marcare chiaramente che si trattava di  fenomeni tipicamente tedeschi in cui le pulsioni irrazionali-religiose imponevano un giudizio non entusiastico su questo fenomeno, sottolineava anche   che, comunque, complessivamente il giudizio non poteva essere negativo in ragione dell’antiliberalismo di fondo di questi movimenti e dell’entusiasmo politico che sapevano suscitare fra i loro sostenitori.

Ora, invece, nella Politica di Carl Schmitt, il giudizio diviene nettamene negativo e ciò pare ancora più strano perché la descrizione del mondo culturale che fa da sfondo a Carl Schmitt viene in questo contesto fatta da Cantimori proprio per giustificare la non filosoficità e la portata pratico-mobilitativa delle idee dello Schmitt (in pratica, Cantimori fa sue le accuse romantico-occasianalistiche di Löwith a Schmitt, cercando di attenuarne la carica negativa affermando che se Schmitt scrive quello scrive ciò è dovuto all’ambiente o alla platea dei lettori presso nei quali si trova inserito Schmitt. Se poi queste negative influenze ambientali siano consapevolmente subite o inconsapevolmente assorbite, nel passaggio appena esaminato Cantimori non lo dice. Come vedremo proseguendo nell’analisi del testo cantimoriano, egli ci farà intendere che lo sono inconsapevolmente e questo rispetto al giudizio di Löwith è certamente un’attenuante, permanendo però il giudizio di occasionalismo romantico, solo che per Löwith, se ci vogliamo esprimere in termine giuridici, Schmitt è un’occasionalista doloso mentre per Cantimori mostreremo che si tratta di un “occasionalismo romantico colposo”).

          E inoltre, anche il questo passo compare, anzi diventa ancora più evidente il “parlare a nuora perché suocera intenda”, diventa cioè ancora più evidente un crescente disagio verso quell’atteggiamento attivistico che non solo  aveva connotato, ancor prima della Konservative Revolution, il fascismo ma che era stato all’inizio anche di Cantimori (quando giustificava l’assassinio Matteotti, quando pur non essendo ancora fascista, alla normale di Pisa non aveva alcuna remora a dichiararsi fascista, quando estasiato ascoltava le imprese bastonatorie dei suoi amici fascisti e vedendole, alla luce delle sue radici mazziniano-romantiche, come imprese gloriose degne di eroi omerici e in cui le vittime di questa violenza non erano nemmeno più vittime ma eroi alla stessa stregua dei bastonatori, tutti molto stranamente accomunati dal medesimo epos)  e dal quale Cantimori ora con la Politica di Carl Schmitt  vuole più o meno consapevolmente marcare sempre più le distanze. Insomma forse La politica di Carl Schmitt dovrebbe avere il titolo cambiato nella Politica di Delio Cantimori. Resta da vedere quanto di consapevole nicodemismo ci fosse in quest’atto politico e quando di inespresso anche a sé  stesso ci fosse in questo saggio su Carl Schmitt. Ma proseguiamo nella lettura della Politica di Carl Schmitt: «A tale situazione risponde la filosofia politica dell’aut-aut che ci offre lo Schmitt: decidersi, o amici, o nemici. Se si pensa alle battaglie dei Freikorps nella Germania postbellica, al polarizzarsi della lotta politica sui due estremi, alle preoccupazioni di politica estera del paese sconfitto, si capisce il pathos freddo ma intensissimo degli scritti dello Schmitt, della sua ansia di decisione, l’evidenza e la ricchezza di suggestione e di motivi che debbono sentirvi e vedervi nel suo paese le persone interessate alla politica. Non solo per i giuristi e per la scienza loro che doveva apprestarsi a servire la dittatura con tanto interesse studiata attraverso tempi e luoghi dello Schmitt, ma anche per i giovani dei circoli più estremi, ecco la parola: decisione; ecco la soluzione dei problemi sulla lotta politica: o amici, o nemici. La forza di queste risposte non sta tanto nella loro origine intellettuale, nella ricchezza dottrinale e nel rigore logico col quale sono sostenute e rafforzate: ma sta nell’intensità della domanda, nella profondità di quella incertezza, cui ora pensiero brillante e varia dottrina fornivano una esatta formulazione. Ma la domanda risorge insidiosa; decisione, decisione totale, se non deve essere semplice risolutezza attivistica, per che cosa? a che cosa? Nella seconda edizione dello scritto sulla politica l’autore ricercava ancora freddamente la elaborazione formale e dottrinale di questo principio mostrandone le applicazioni e gli esempi più vigorosi fra i contemporanei  nei comunisti russi. Nella terza i fatti avevano portato la decisione per il Nazionalsocialismo. Ma una decisione portata dai fatti, sic et simpliciter, a parte la posizione pratica verso di essi e la propria azione pel loro svolgersi, non poteva naturalmente bastare al pensatore: il quale ora sente il bisogno di evolvere il suo pensiero sulla traccia della storia.». (Id., La politica di Carl Schmitt, “Studi Germanici”, 1, 1935, citato da Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), cit., p. 249).

Quanto mostrato prima di qui della Politica di Carl Schmitt ci restituisce un saggio  che, o per le ragioni di una “politica di Delio Cantimori” verso un fascismo regime verso il quale lo storico romagnolo voleva marcare sempre più le distanze o perché mosso da pulsioni antifasciste non ancora completamente maturate, ripercorreva molto pedissequamente, magari concedendogli qualche attenuante rispetto al Löwith, quanto Löwith aveva scritto in merito all’occasionalismo romantico di Carl Schmitt. Nel passaggio appena citato, invece, comincia a farsi strada un’analisi più autonoma del pensiero di Schmitt e, accanto alla descrizione dell’ambiente irrazionalista che fa da sfondo al suo pensiero, si cominciano a sottolineare i nodi autenticamente problematici di Carl Schmitt. Innanzitutto Cantimori afferma che la polarità amico-nemico è stata suggerita a Schmitt dalla fortissima conflittualità della Germania post-bellica, suggerendo con ciò implicitamente che una situazione più pacifica non avrebbe consentito l’elaborazione di un pensiero politico così drammaticamente polarizzato. Inquadrando così la polarità amico-nemico, Cantimori ci offre al contempo una giusta chiave di lettura per comprendere Schmitt ma, purtroppo, attraverso un percorso argomentativo gravato da un banale empirismo e debolissimo dal punto di vista dell’elaborazione di una teoria post-schmittiana (che si potrebbe dire che interessa solo a noi ma non è così perché è evidente che Cantimori, come sta a dimostrare letta proprio nelle sue contraddizioni  La politica di Carl Schmitt, per uscire vincitore dallo scontro contro le mitologie e le pratiche del fascismo regime non poteva proprio ignorare la polarità amico-nemico). Come allora potremmo concludere dalle parole di Cantimori, è allora di tutta evidenza che la polarità amico-nemico è particolarmente adeguata per comprendere momenti di conflittualità violenta all’interno della società e da questo spunto non è affatto difficile arrivare al “paradosso di Carl Schmitt”, cioè al paradosso di un pensiero del tutto adeguato a renderci conto dei momenti di alta conflittualità ma anche inane a restituirci la dinamica dei momenti “pacificati” ma Cantimori non arriva a rilevare questo paradosso teorico perché, negando ogni valore teorico al pensiero di Carl Schmitt, non dice che il pensiero conflittualista dello Schmitt non riesce a dar conto dei momenti “pacificati” ma afferma che il pensiero di Carl Schmitt è suscitato direttamente da una situazione conflittuale senza che su questa abbia compiuto una adeguata riflessione.

          In altre parole Cantimori ha visto il “paradosso di Carl Schmitt” ma non lo ha riconosciuto e questo “vedere ma non riconoscere” – da vero occasionalista romantico ma con intenti legati alla tradizione rivoluzionaria moderna al contrario dell’occasionalista romantico e reazionario Schmitt – sarà negli anni futuri il problema che segnerà il percorso politico-intellettuale di Delio Cantimori. Prima con l’entrata nell’immediato secondo dopoguerra nel PCI togliattiano e, poi, nel ’54 con la fuoruscita dallo stesso. Ma non anticipiano i tempi e veniamo alla seconda criticità individuata da Cantimori nel pensiero di Carl Schmitt. Si tratta del decisionismo schmittiano che Cantimori, attraverso l’esegesi delle varie edizioni del Begriff des Politischen, molto acutamente individua inficiato da ripetute fluttuazioni occasionaliste che sfociano, nell’ultima edizione del Begriff, nella decisione, cioè nella scelta, per il nazionalsocialismo.

          E, oltre alle correnti antiliberali della repubblica di Weimar, riprendendo ed allargando in profondità il discorso sulla storia  tedesca che fa da sfondo al pensiero politico di Schmitt (e cioè il militarismo gugliermino), Cantimori, con l’esegesi oltre che del  Begriff des Politischen, dell’ Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens (cfr. Carl Schmitt,  Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, 1934), arriva così a darci la precisa segnalazione che il Dezisionismus schmittiano, andato al potere il nazismo, ha avuto la sua ultima evoluzione  nell’ Ordnungsdenken, cioè in un pensiero giuridico non più mirante a giustificare la decisione ma la costruzione, una volta andato il potere il nazismo, di un saldo ed incontestabile ordinamento giuridico dittatoriale-autoritario: «Questa evoluzione dello Schmitt è avvenuta secondo noi non attraverso scritti giuridico-teorici – benché in un’opera del genere abbia trovato per ora la sua conclusione – ma soprattutto attraverso il problema pratico del riordinamento giuridico, istituzionale, e politico della Germania unificata nazionalmente, e attraverso il problema storico della formazione dello stato guglielmino. […] La tesi dello Schmitt è in sostanza quella della estrema destra: il crollo dell’impero fu dovuto al predominio dell’elemento civile, liberale, parlamentare, dei partiti, sul militare: con la domanda  di una indennità e col conseguente riconoscimento della supremazia parlamentare dopo la vittoria del 1866, dice lo Schmitt, fu sanzionata in certo modo la scissione  fra lo stato militare prussiano e lo stato di diritto borghese, che doveva portare nel 1918 al crollo […].  Ma quel che qui ci importa è che da tali constatazioni ed osservazioni lo Schmitt trae l’ispirazione alla esaltazione dello Stato militare, in applicazione conseguente della sua teoria della politica come decisione di chi sia nemico e chi amico. La costituzione di Weimar sorta dal caos seguito a quell’inevitabile crollo portava in  sé col pluralismo ch’essa sanciva, il carattere confusionario della situazione dalla quale essa nasceva: “Stavano ora di fronte numerosi contrasti e diversità stabilmente organizzati: nazionalisti, sopranazionalisti e internazionalisti; borghesi e marxisti; cattolici, evangelici e ateisti; capitalisti e comunisti.” [citazione di p. 165 de Carl Schmitt,  Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, cit., N.d.A.]  Da questo sistema occorreva uscire attraverso la politica decisa oltre che risoluta della dittatura: ma per restaurare un ordine. Dopo la rivoluzione nazionalsocialista infatti, secondo lo Schmitt, si apriva “una via per prendere decisioni chiare nella politica interna, per liberare il popolo tedesco dalla centenaria confusione del costituzionalismo borghese, e per metter mano, invece che a facciate costituzionali normative, all’opera rivoluzionaria di un ordinamento statale tedesco”. Abbiamo sottolineato queste ultime parole perché ci pare che segnino precisamente il trapasso verso la ultima posizione dello Schmitt: per l’Ordnungsdenken, non più pel Dezisionismus.». (Id., La politica di Carl Schmitt, “Studi Germanici”, 1, 1935, citato da  Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), cit., pp. 249-250). 

    Quello che Cantimori ha molto acutamente individuato è che il decisionismo di Carl Schmitt è un decisionismo strumentale a spazzare via  lo stato di disordine che si portava con sé la repubblica di Weimar democratica e liberale, è un  concetto di decisionismo, in altre parole e seguendo l’interpretazione löwithiana, solamente occasionalistico o, come noi lo abbiamo altrove definito con una diversa sfumatura, un “decisionismo timido”. Ma proprio qui sta il punto (e non solo per quello che sarà il futuro percorso  politico-intellettuale di Cantimori ma anche per la nostra personale elaborazione denominata Repubblicanesimo Geopolitico che al pensiero di Schmitt molto deve): quello di Schmitt, al di là delle palese o più o meno conscia consapevolezza che ne poté avere Schmitt stesso, fu un decisionismo solamente occasionalistico elaborato solo per la distruzione della Repubblica di Weimar o fu, piuttosto, un timido occasionalismo, certamente frenato per paura che l’ordine autoritario tanto strenuamente perseguito fosse nuovamente messo in discussione da supreme decisioni contrarie ma che, comunque, costituisce un’acquisizione fondamentale per ogni successiva teoria politica?

         A questa domanda, terminando la sua disanima della Politica di Carl Schmitt, Delio Cantimori, pur salvando l’onestà politico-morale di Schmitt da una risposta pienamente in linea con l’interpretazione di Löwith: «Così possiamo considerare chiarito il motivo fondamentale del pensiero politico dello Schmitt, che trova la sua quiete e il contenuto della “decisione” nel più rigido e conservatore concetto dello Stato, nel più classico esempio  di Stato “autocratico” che la storia conosca: lo stato militare prussiano. Tutte le istanze “rivoluzionarie” che sembravano adombrarsi nelle critiche decisionistiche   allo stato di cose esistente prima della vittoria delle destre in Germania – vittoria già annunciantesi  con l’avvento al potere del cattolico  e conservatore cancelliere Brüning – si rivelano come pure istanze polemiche e meramente negative dal punto di vista che più comunemente si suole chiamare rivoluzionario, poiché si risolvono nell’esaltazione dell’ordine istituzionale della tradizione prussiana militare. Nelle opere di questo ingegnosissimo scrittore il processo storico e spirituale della vita tedesca postbellica appare con una chiarezza e una nettezza che non esitiamo a chiamare esemplari, tanto dal punto di vista letterario quanto dal punto di vista politico: qui non mezzi termini, non abuso di parole suggestive presso la massa, ma reale chiarezza, derivante non da rozzezza mentale, ma dalla ricca semplicità dell’uomo colto pieno di passione politica, da risolutezza e precisione di posizioni. Per questo crediamo che lo studio del pensiero dello Schmitt sia quanto mai utile alla comprensione delle lotte politiche (ideali, intendiamo, perché delle altre non tocca a noi qui di parlare) che agitano l’Europa moderna: poiché la precisione e la estrema coerenza e consequenza sono sempre utili ed ammirevoli, e contribuiscono più di ogni altra cosa, specie quando nel caso dello Schmitt consapevoli e fortificate dalla cultura, alla chiarezza del pensiero, che è in fondo ciò che più importa.» (Delio Cantimori, La politica di Carl Schmitt, “Studi Germanici”, 1, 1935, citato da Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), cit., pp. 251-252).

          Estremamente sintomatica del futuro progetto politico e percorso intellettuale di Cantimori sono le sue ultime parole per salvare almeno il profilo morale di Schmitt dopo che dal punto vista scientifico, sotto la durissima critica löwithiana dell’occasionalismo del giuspubblicista di Plettenberg, Cantimori aveva demolito Schmitt: lo studio di Schmitt è comunque utile perché «la precisione e la estrema coerenza e consequenza sono sempre utili ed ammirevoli, e contribuiscono più di ogni altra cosa, specie quando nel caso dello Schmitt consapevoli e fortificate dalla cultura, alla chiarezza del pensiero, che è in fondo ciò che più importa.», dove quello che si deve sottolineare non è il riconoscimento, come estrema e in fondo poco convinta concessione, della forza teorica dello Schmitt ma è la chiarezza con cui si esprimono i concetti, chiarezza di espressione di concetti, si capisce bene dal testo, addirittura più importante delle pubbliche prese di posizione politiche e che denotano, ancor prima e maggiormente del pubblicamente prendere parte, la dignità morale dell’uomo. In queste affermazioni finale più che Carl Schmitt, c’è Delio Cantimori, cioè c’è quel Cantimori che nicodemicamente (quanto consapevole o inconscio in questo atteggiamento è impossibile dirlo) ha posto le sue priorità: non scontro col regime ma cercare di chiarire a sé stesso e agli altri attraverso il suo futuro lavoro di intellettuale (la cui tappa fondamentale sarà il suo saggio sugli  Eretici italiani del Cinquecento, la cui tolleranza, nonché comportamento nicodemico, così come descritto da Cantimori,  fu l’esatta antitesi della Weltanschauung schmittiana) quella possibile terza via fra comunismo e capitalismo liberale selvaggio invano sperata dal fascismo  rivoluzionario di matrice risorgimental-mazziniana cui Cantimori apparteneva a pieno titolo (sul background culturale risorgimental-mazziniano di Delio Cantimori, cfr. Roberto Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo. L’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), in “Storia della storiografia”, XXXI, 1997); e, una volta crollato il regime (al cui crollo Cantimori, proprio in virtù del suo nicodemismo non aveva dato il minimo apporto: durante la Repubblica di Salò, Giovanni Gentile gli scrisse per offrirgli  l’incarico di vicedirettore della Normale ma Cantimori che pur era stato un ammiratore di Gentile ed anche un amico di famiglia rispose negativamente e si rifiutò persino di recarsi a Pisa  –  cfr. su questo episodio  Patricia Chiantera-Stutte, Delio Cantimori, Roma, Carocci, 2011, p. 76 – ma questo gesto non può essere certo definito una rivolta contro il fascismo quanto un definitivo e doloroso nicodemico allontanamento dallo stesso), allora sì rivolgersi presso quel partito che agli occhi di Cantimori poteva incarnare quella terza via invano perseguita dal fascismo di sinistra. Stiamo parlando dell’iscrizione di Cantimori al partito comunista di Palmiro Togliatti. Se si volesse essere ingenerosi (ma così dimostrando che di Cantimori non si è capito nulla) per descrivere questa decisione potremmo ancora una volta ricorrere al Croce che afferma di non sapere «quale sia la fede politica del dr. Cantimori» ma in realtà il Cantimori iscritto al PCI togliattiano è sempre il “solito” Cantimori che ha visto bruciare dal fascismo regime  tutte le speranze del fascismo di sinistra, di matrice democratico-risorgimentale, per imboccare quella agognata terza via e in questo difficile percorso è sempre il “solito” Cantimori sia, come vedremo, per quanta riguarda l’esaltazione di atteggiamenti tolleranti e da clerc che custodisce molto gelosamente il suo ruolo dalla politica contingente (e da qui fin dalla sua rottura con il PCI praticando la sua nuova militanza con un notevole dose di nicodemismo rispetto alla scelte politiche concrete del PCI, essendo il terreno privilegiato di intervento di Cantimori nel partito quello della politica culturale) sia per quanto riguarda il suo persistente ed adamantino rifiuto del liberalismo.

          Tutta una serie quindi di atteggiamenti e collocamenti all’interno del PCI che se apparentemente almeno all’inizio del rapporto di Cantimori col partito potevano consentire una militanza senza tanti problemi e proficua (proficua specialmente per il Partito comunista, perché ex post in procinto di uscire dal partito Cantimori ritenne di aver sprecato energie con questa militanza arrivando a lamentarsi di aver perso tempo prezioso traducendo in italiano il Capitale di Marx), a lungo andare non potevano non stridere nel partito della democrazia progressiva togliattiana, democrazia progressiva togliattiana che costituiva la vulgata deformata del pensiero di Gramsci e che, all’atto pratico, contemplava, in una deformata imitatatio del pensiero di Gramsci,  sì un intellettuale organico al partito che rappresentava il proletariato ma che, a differenza di Gramsci, che concepiva il rapporto intellettuali-partito come una atto dialetticamente dinamico che avrebbe portato alla costituzione di quel partito Nuovo Principe che avrebbe reso le masse nazionalpopolari, attraverso un processo educativo-politico attivato dal Nuovo Principe e avente come primi attori educatori gli intellettuali del partito stesso, protagoniste del loro destino, voleva non un machiavelliano  partito Nuovo Principe ma  un partito padre padrone che senza discussioni avrebbe imposto la giusta linea sia agli intellettuali che al popolo.

         Intendiamoci: Cantimori non è assolutamente da annoverare fra i seguaci della gramsciana filosofia della prassi (se lo fosse stato, possiamo certamente immaginare che non avrebbe fatto molto fatica a cogliere l’essenza del pensiero di Carl Schmitt, in quanto l’occasionalismo del giuspubblicista fascista rimproverato da Löwith ed assunto come metro di giudizio anche da Cantimori, può ben essere classificato come una sorta di filosofia della prassi, seppur di destra e volta alla conservazione e non, come in Gramsci, volta allo sviluppo e all’autoconsapevolezza delle masse nazional-popolari), tanto grande è in lui la consapevolezza del ruolo dell’intellettuale che deve sì consigliare il principe ma che, per mantenere la sua purezza, non deve immischiarsi nella politica contingente (mentre la gransciana filosofia della prassi proprio questo contemplava: contemplava cioè, lo ripetiamo, una rapporto dialettico  e di interscambio fra decisore politico e decisore intellettuale, rapporto rappresentato dalla figura mitologico-machiavelliana del Nuovo Principe, un interscambio e rapporto dialettico che significava che non c’era decisione politica dove l’intellettuale non dovesse essere coinvolto e decisione intellettuale dove il politico dovesse essere tenuto estraneo), ma, purtroppo per lui (ma in questo troviamo i segni della sua interiore tragica grandezza che è al tempo stesso un ammonimento ed anche un insegnamento per tutti noi) fu  se non un politico romantico, certamente un intellettuale romantico il quale assai molto occasionalisticamente riteneva che per salvarsi l’anima bastasse coltivare le giuste idee e che il momento politico, prima o poi, non avrebbe mancato di riconoscerle come corrette e da mettere in pratica. In questo romanticismo occasionalistico quindi molto simile a Schmitt (Carl Schmitt che non fu mai nazista fu, in pratica, una mosca cocchiera del nazismo) ed anche moralmente immensamente più grande di Schmitt (Cantimori a differenza di Schmitt sempre riconobbe il fallimento delle sue appartenenze politiche, prima fascista e poi comunista) e questo occasionalismo romantico è anche la chiave per comprendere il fallito matrimonio di Cantimori con il PCI.

          Appunto del 22 aprile 1954: «È proprio vero  che non c’è storia se non del passato… Chabod non è riuscito a completare questo volume [Le premesse alla storia della politica estera italiana dal 1876 al 1896] altro che mentre questo Stato si prepara alla dissoluzione nell’ “europeismo” dei suoi rappresentanti ufficiali, e sta annegando, debilitato com’è, dopo la corruzione fascista e la sconfitta, nella politica mondiale, e sta dissolvendosi per essere governato e dominato dalle forze contro le quali (contro gli egemoni delle quali) s’è formato, e che lo hanno sempre negato come Stato. Non è che, finita la classe dirigente liberale-moderata demoradicale e finendo la sua forma di Stato, si dica “è finito lo Stato”: sarebbe ingenuità. E se il socialismo avesse espresso una nuova classe dirigente, che avesse preso il potere, si sarebbe certo avuto qualcosa di nuovo… Ora lo Stato nazionale italiano è finito, essendo rimasto solo una mascheratura amministrativo-giuridica molto logora del prepotere degli anarchici industriali monopolistici e dei clericali. Dunque ora che lo Stato italiano è finito, Chabod può farne la storia nella forma più specifica e classica della storia statale: politica estera.». (Appunto di Cantimori citato da Ivi, p. 122).

     Così Cantimori in un appunto del 22 aprile del 1954, due anni prima di lasciare il PCI. Due elementi possiamo evidenziare da questo appunto. Innanzitutto la lucida visione (fra l’altro sempre più attuale, per non dire profetica) che l’europeismo italiano del secondo dopoguerra non era il frutto di una lungimirante visione democratica ma non era altro che il triste portato, sfociante nella dissoluzione dello Stato nazionale italiano, della sconfitta nel secondo conflitto mondiale. Il secondo è che, evidentemente, la sua appartenenza al PCI togliattiano stava già mostrando la corda perché, come egli ammette, la classe dirigente socialista (cioè la classe dirigente del maggiore partito di sinistra, il PCI) non si stava mostrando all’altezza per fornire un’alternativa a questo disfacimento della compagine nazionale e statale. Nell’appunto, inoltre, tenendo pur sempre conto del nicodemismo cantimoriano che ancor prima di una forma prudenziale verso l’esterno era un profondo tratto psicologico di Cantimori che valeva anche per la sua interiorità e quindi operante anche in un appunto come questo privato, non vi sono accenni alla scarsa democrazia all’interno del partito e, volendo noi arrischiare un’interpretazione dello stato d’animo di Cantimori al riguardo che ci può essere utile anche a rendere conto della sua fuoruscita dal partito due anni dopo, ci sentiamo di affermare che il vecchio fascista di sinistra Cantimori si sentisse stretto nel partito comunista non perché questo fosse poco democratico ma perché, come nel caso del fascismo regime, esso era, volente o nolente, dipendente dal quadro di riferimento valoriale liberaldemocratico (il cui nucleo era – ed è tuttora –, attraverso la cortina fumogena dell’ideologia democratica vista però in un quadro di individualismo metodologico che ripugnava al democratico mazziniano-risorgimentale Cantimori,  la difesa, come nel fascismo regime, del grande capitale) e quindi impossibilitato, de facto, a perseguire decisamente quella terza via fra comunismo collettivista e capitalismo selvaggio che era stata la stella polare del fascismo di sinistra.

         E sotto questo punto di vista, l’obiettivo della democrazia progressiva, che era poi la lectio deformata ideologicamente del pensiero gramsciano ed ad usum della classe dirigente del PCI per giustificare alle masse la sempre rinviata rivoluzione comunista, doveva mostrare a Cantimori tutti i suoi limiti, del tutto analoghi, per ironia della storia, a quelli che aveva mostrato il fascismo regime: nient’altro che una vuota declamazione retorica ma assenza di contenuti autenticamente rivoluzionari.

Per il movimento comunista internazionale il 1956 sarà un anno di svolta e anche di dolorosi allontanamenti per molti suoi militanti: dal 14 al 26 febbraio 1956 venne celebrato il XX congresso del PCUS in occasione del quale il Primo segretario del partito  Chruščëv espose la sua relazione sul culto della personalità cui era stato oggetto Stalin; il 4 novembre dello stesso anno venne repressa con i carri armati sovietici la rivoluzione ungherese. In quell’anno anche Delio Cantimori lasciò il PCI ma, allo stato attuale della documentazione, sarebbe assai azzardato affermare che queste due vicende, presse singolarmente o nel loro combinato disposto, siano state la vera causa – o perlomeno la causa principale – dell’abbandono di Cantimori del PCI. Per cercare di comprendere  i motivi che nel ’56 portarono Cantimori ad uscire del PCI esaminiamo, innanzitutto , le lettere che egli scrisse per giustificare la sua decisione. Cantimori  rende nota la sua fuoruscita dal   PCI  l’ 11 dicembre 1956 con una lettera a Luporini  esprimendosi con queste, per la verità, assai poco chiare parole che lasciano sì trasparire un grande disagio personale ma non i motivi per i quali si compie quel gesto: «Mi sono reso conto di non capire più nulla della reale vita politica contemporanea.». (Lettera di Cantimori a Luporini citata da Ivi, p. 125).

          Sempre fedele al suo atteggiamento nicodemico, Cantimori comunica la decisione a pochissimi altri. Fra questi ci sono anche alcuni amici e colleghi stranieri. Da una lettera  a Kaegi dell’8 gennaio del 1957 traiamo le seguenti affermazioni: «ho tratto la conclusione – con molto dolore e dispiacere di lasciare tanti amici e giovani di coraggio, valore e sincerità indubbia, a lottare senza la mia partecipazione – che dovevo ritirarmi dal Partito comunista italiano; il che ho fatto, dopo molto tormento interiore. L’ho fatto tacitamente senza farne clamore, perché non mi voglio prestare a nessuna speculazione politica di nessun genere […]. Non che le mie convinzioni siano cambiate, come idee generali e interpretazioni generali; ma non riesco a capire certe cose, e di conseguenza non posso militare in nessun partito, non potendo sottoscrivere quello che non capisco.». (Lettera di Cantimori a Kaegi citata da Ibidem).

Werner Kaegi era uno storico svizzero di matrice liberale, ideologicamente quindi lontano milioni di anni luce da Cantimori ma il cui interesse per Jacob Burckhardt e per l’Umanesimo ed il Rinascimento italiani avevano fatto sì che egli appartenesse alla schiera degli amici stranieri di Cantimori. Comunque al di là della colleganza ed affinità di interessi fra Cantimori e Kaegi, è veramente singolare che per giustificare la sua uscita dal PCI Cantimori scrivesse ad un liberale e per di più, con motivazioni che, se apparentemente sembrano riallacciarsi alle vicende del XX congresso del PCUS e della rivoluzione ungherese del 1956, rimangono assolutamente nel vago. Cantimori non riesce a capire «certe cose» e, purtroppo, non ci riusciamo nemmeno noi, essendo del tutto sorprendente, e pur dando per scontato il profondissimo nicodemismo cantimoriano, che Cantimori si accontenti, in sede di rapporto epistolare con un amico, di liquidare con queste sibilline parole le sconvolgenti vicende del 1956.

          Il 10 gennaio 1957 scrive a Robert Bainton, teologo e storico del protestantesimo inglese: «Lei mi domandò perché professavo certe idee. Devo dirLe che, mentre mantenevo tutte le mie convinzioni riguardo alla necessità di cambiamenti profondi nella vita del mio Paese, gli avvenimenti ultimi mi hanno così toccato, che ho creduto in coscienza di non poter dare il nome a nessuna organizzazione politica: la lezione degli anabattisti e dei mennoniti, e quella del grande storico G. Arnold sono diventate evidenti e intuitive, dopo gli avvenimenti di Ungheria anche per me.[…] Non sono, secondo me, cose che sia bello dire pubblicamente:  perché possono venire sfruttate  in cattivo senso. Così, a parte il lavoro storico sul Cinquecento e sino all’età di Mazzini, per il resto, mi ritiro nel silenzio. La mia ammirazione per l’umanità di Antonio Gramsci non è certo cambiata.». (Lettera di Cantimori a Bainton citata da Ibidem).

          Anche qui, come si vede, siamo nel vago. E se pare evidente che la repressa rivoluzione ungherese ha avuto il suo peso per l’abbandono del PCI da parte di Cantimori, non è altrettanto evidente in che modo abbia agito nella psicologia di Cantimori e a questo proposito non sarebbe assolutamente sufficiente – se non del tutto errato! – affermare che Cantimori condannava la repressione della rivoluzione ungherese in quanto antidemocratica ma, azzardiamo un’ipotesi, in quanto sia la rivoluzione ungherese ed il suo successivo spegnimento da parte dei tank sovietici erano entrambi il segno che le per le speranze di una vera rivoluzione che facesse da battistrada verso la tanta agognata terza via non c’era più alcun spazio.

«Non sono, secondo me, cose che sia bello dire pubblicamente: perché possono essere sfruttate in cattivo senso»: queste cose erano forse le solite accuse che allora vennero mosse al sistema sovietico di non essere altro che un rigurgito di autoritarismo della peggior specie e quindi di essere l’antitesi e della rivoluzione e di una autentica democrazia? Vista la biografia culturale e politica di Cantimori c’è da dubitare fortemente che le cose stessero in questi termini per lo storico romagnolo e invece, sembra più corretto affermare che il XX congresso del PCUS e i fatti di Ungheria stessero lì per segnalare agli occhi di Cantimori che il movimento comunista internazionale ed il PCI avevano definitivamente perduto la loro carica rivoluzionaria e che sulla spinta di considerazioni ideologiche in abstracto magari valide ma con ricadute pratico-politiche non condivisibili (il “Rapporto segreto” di Kruscev al XX congresso, ottimo per mettere il dito sulla piaga dell’autoritarismo staliniano ma pessimo, in prospettiva storica, per la tenuta del sistema: ultima involuzione e dissoluzione  dello stesso, il gorbaciovismo) e di mosse giustificabili alla luce di una realistica politica di potenza ma deleterie per lo sviluppo e l’immagine  dell’internazionalismo comunista (la repressione della rivoluzione ungherese), il ciclo rivoluzionario apertosi con la rivoluzione del ’17 si era definitivamente concluso (rivoluzione bolscevica che, giova ricordarlo per l’ennesima volta, il Cantimori fascista di sinistra non aveva mai considerato nemica ma solo avversaria e verso la quale il Cantimori iscritto al PCI aveva evidentemente posto tutte le sue speranze per la realizzazione di quella terza via negata dal fascismo regime).

          Queste con ogni verosimiglianza e non  le fanfaluche agli occhi di Cantimori di un regime sovietico intrinsecamente totalitario erano le cose che non potevano essere dette pubblicamente e che la sua «ammirazione per l’umanità di Antonio Gramsci» fosse rimasta inalterata, il riferimento cioè nel contesto della lettera al personaggio che con più originalità cercò di declinare la rivoluzione russa con la tradizione politico-culturale italiana, sta proprio a significare che Cantimori – pur mai sposando lo storico romagnolo  il mito del Nuovo Principe gramsciano che avrebbe condotto alla rivoluzione le masse nazionalpopolari attraverso la sintesi dialettica fra il momento analitico-intellettuale e quello decisionale-politico – è proprio sulla terza via che vuole (nicodemicamente come sempre) riferirsi volendo quindi far intendere al suo interlocutore che il ’56 era stato la tomba di questa terza via e non tanto, come invece sosteneva gran parte dei fuorusciti dal PCI e dal movimento comunista internazionale, la dimostrazione che il sistema comunista sovietico si era dimostrato antirivoluzionario perché antidemocraticamente  e con la violenza aveva spento la rivoluzione ungherese.

          Del resto che il problema di Cantimori fosse quello della ricerca di un reale percorso rivoluzionario che si lasciasse definitivamente alle spalle l’ideologia liberaldemocratica (non rinnegando il concetto di democrazia ma conferendole quello più autenticamente mazziniano di democrazia intesa come reale progresso popolare e vedendo l’individualismo metodologico liberale come il vero nemico da battere) e che questo progetto rivoluzionario di stampo democratico-mazziniano fosse l’autentico progetto cultural-politico di Cantimori che l’aveva accompagnato fin dalla sua giovinezza e che lo aveva spinto prima ad iscriversi nel partito fascista e poi nel PCI è ben  evidenziato dal seguente appunto privato di Cantimori scritto dallo storico poco tempo prima –  il 28 marzo 1956, poco dopo il XX congresso del PCUS –  di lasciare il PCI: «I miei grandi sbagli: 1) credere di capire qualcosa di politica, e farmene un dovere “mazziniano”; 2) credere quello che si dissero mio padre e l’avvocato Marassi o Magrassi ad Abbazia, che i fascisti la rivoluzione l’avrebbero fatta loro. 3) non tirarmi fuori dallo sterile moralismo rousso-mazziniano […] 4) saltare fra i comunisti. 5) iscrivermi al PCI. 6) lasciare i miei studi per tradurre Marx, ecc. […] Ritirarsi  nei propri studi, l’unico rimedio. Finire pulitamente  una vita disordinata e polverosa.». (Appunto  di Cantimori citato da Luisa Mangoni (a cura di), Delio Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), cit., p. XLI ma anche da Patricia Chiantera-Stutte, Delio Cantimori, cit., pp. 146-147).

           Assieme al  segno di una sconfitta umana, intellettuale e politica emerge qui in Cantimori anche la piena consapevolezza di una vita interamente sviluppatasi, per suprema ironia della storia, lungo quel percorso di occasionalismo romantico che Cantimori, facendo in pratica un calco dell’analisi del Löwith, aveva attribuito a Carl Schmitt, in specie nel suo saggio La politica di Carl Schmitt che possiamo considerare come la sintesi del pensiero di Delio Cantinori sul grande giuspubblicista di Plettenberg. Di qualsiasi vicenda umana è sempre arduo ricavare una moralità che possa assolvere al compito di magistra vitae, e ciò vale specialmente per una esperienza umana ed intellettuale così intensamente e contraddittoriamente vissuta come quella di Delio Cantimori. Ma, al tempo stesso, sono proprio queste vite, proprio perché è impossibile farne un’agiografia, che sono degne di riflessione e lo sono ancor più proprio per i loro sbagli e crampi del pensiero che, assieme alle insidie e trappole mortali che sono sparse lungo il percorso ci indicano, al contempo, la via stessa. 

          Un suo appunto privato scritto molti anni prima della suo abbandono del PCI ci fa intravedere un Cantimori particolare, non tanto dal punto di vista dell’elaborazione intellettuale ma sotto l’angolatura del laboratorio mentale che, più o meno consapevolmente, stava dietro l’elaborazione dei suoi pensieri: «Il mio interesse per la storia religiosa è un caso della storia della cultura: cioè come ricerca di cogliere e identificare il momento di incontro fra il razionale-pratico e l’irrazionale (sordità del pregiudizio, attivismo), fra le aspirazioni, sentimenti ecc. ecc. velleità, e le volontà razionali (politiche, etiche, morali). Da ciò il mio interesse per la propaganda e in altro campo per la psicoanalisi ecc. “Flectere si nequeo superos, acheronta movebo”…». (Appunto di Cantimori in Archivio Cantimori, Scuola Normale Superiore, datato 24 settembre 1946, citato da Adriano Prosperi (a cura di), Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, cit., p. XVIII).

«Flectere si nequeo superos, acheronta movebo», Se non posso smuovere gli dei celesti mi rivolgerò a quelli infernali. La strofa, epigrafe del Traumdeutung di Freud ma, soprattutto, tratta dall’Eneide virgiliana (Vergilius, Aeneis, VII, 312, minaccia pronunciata da Giunone che per l’ odio verso Enea discende agli Inferi per farsi aiutare per la sua vendetta contro il figlio di Anchise dalla furia Aletto, assegnandole il compito di far scoppiare la guerra fra Latini e Troiani), ci segnala un Cantimori, nonostante la sua nota di fondo occasionalistico-romantica, anche al tempo stesso contraddittoriamente integralmente realista  e assolutamente consapevole che, attraverso  le ideologie usate come copertura, nella politica possiamo distinguere due stadi idealtipici principali: da un lato i sogni e le volizioni che da inconsci cercano di emergere nella sfera pubblica e in cui la forma ideologica che assumono in questa emersione dall’inconscio alla sfera pubblica è lo strumento di battaglia (il Repubblicanesimo Geopolitico dice: di azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale) per prevalere in questo scontro; dall’altro  che questo scontro sull’arena pubblica se inizialmente (e apparentemente) si svolge lungo i canali della tradizione e del diritto, è, in ultima istanza, sempre una lotta mortale, senza esclusioni di colpi e ricorrendo anche a colpi proibiti.

          Di questa visione profondamente conflittuale Cantimori era stato sempre consapevole (vedi la sua approvazione sotto il segno della ragion di Stato dell’assassinio Matteotti) ma la mentalità romantica democratico-mazziniana (e proprio per questo, proprio perché interiormente intensamente vissuta, assolutamente proclive ad una deriva occasionalistico-romantica) di Cantimori gli oscurava il fatto che questa lotta fosse uno scontro dove al nemico non venisse riconosciuta la sua dignità di uomo e di combattente (riprendiamo, a questo proposito, l’appunto privato di Cantimori del ’34 ed in questo ricordo, in particolare,  il racconto degli squadristi di Sarsina o, meglio, vedi l’interpretazione data al racconto da Cantimori:  «Dieci anni fa mi preparavo all’esame di normalista nel giardino di casa di mio padre a Forlì. Le passioni politiche del momento non mi toccavano molto; giudicavo le cose con molta freddezza, dal punto di vista della ragion politica, mi stupivo degli scandali di mio padre per l’uccisione di un membro del Parlamento, e poi mi vergognavo di questa incomprensione. Mi pareva giusto, cioè logico, che un nemico pericoloso e acre dovesse essere eliminato… La mia “politica” consisteva  nell’applicare i metodi  del machiavellismo volgare alla realizzazione della “Politeia” platonica; residui di nazionalismo patriottico della propaganda bellica, di atteggiamenti dell’interventismo repubblicano, motivi del movimento “combattentistico”, ricordi del periodo di propagandista “fiumano” fecero sì che nell’inverno a Pisa mi dichiarassi, nelle discussioni fra normalisti, per fascista. Volevo iscrivermi nel 1924, durante l’episodio Matteotti. Vedevo nel Fascismo soprattutto e quasi esclusivamente il programma del 1919: il monarchismo fascista mi sembrava un puro espediente politico… Nonostante l’insipienza ereditata dall’ambiente politico romagnolo, sentivo insomma con la classe nella quale vivevo ed alla quale la scuola mi faceva appartenere, ed accoglievo in me, per sentimento, per impulso, con concetti vaghi e generici, i motivi del Fascismo di battaglia.  Con il mio amico squadrista discutevamo poco; preferivo ascoltare le sue diatribe e i racconti delle sue azioni, ed i suoi commenti. Mi è rimasto impresso questo commento, che mi pare caratterizzi bene quegli uomini: era andato con una compagnia di squadristi a bastonare un capo comunista d’una borgata della montagna romagnola, mi pare in quel di Sarsina. Avevano bussato, avevano chiesto alla giovine donna  con un bambino del tale, lei tergiversava, alla fine esce e si presenta lui (commento: non aveva paura, ma si lasciava bastonare. Che orgoglio questi comunisti): si fanno allontanare la madre e il bambino (“non fa bene sentir gridare e piangere quando si fa un lavoro come quello”) e si bastona l’uomo sino a farlo cadere tramortito per terra. Io allora ammiravo l’umanità di questi uomini, e qualche volta il loro spirito cavalleresco. Mi pareva che dovessero andar d’accordo, coraggiosi com’erano in tutte e due le parti; il mio realismo machiavellico era tutto teorico, nella pratica non capivo, non sentivo gli odi e gli interessi dei gruppi politici, ne vedevo solo le teorie che come si sa si possono sempre con facilità conciliare fra loro. Così quando dopo due anni nel 1926 questo mio amico, assieme ad un altro, anche lui famoso squadrista, venne dirmi d’iscrivermi nel Fascio; e alle mie resistenze – non c’ero al momento del pericolo, adesso ci entrano tutti gli arrivisti – risposero “Adesso tocca a voi uomini di studio; adesso il fascismo non si fa più con le bombe, si fa a tavolino” – io, spinto dai vecchi impulsi, dalla riflessione che  a Pisa, mio vero centro di conoscenze e di amicizie, ero ormai conosciuto senza equivoco come fascista, e soprattutto dall’argomento che trovai giusto e vero, ed anche mi lusingava – sentirmi dire così da quei giovani arditi che avevo tante volte invidiato ed ammirato per il loro coraggio, la loro forza di decisione, la loro libertà di muoversi, la loro forza – accettai di iscrivermi nel  Fascio, rifiutando però che la tessera fosse retrodatata, come mi fu offerto. La filosofia di Croce, Gentile e Saitta  doveva poi dare una apparente consistenza al mio mondo mentale, e impedirmi di vedere come tali i problemi che mi si dovevano presentare, inducendomi  a sostituir loro le soluzioni che mi si presentavano con troppa facilità belle e fatte. L’influenza della famiglia, degli impegni borghesi mi si faceva sentire anche più forte, e avrebbe continuato a lungo. Ora sono al British Museum; il continuo sfogliare delle grandi pagine dei cataloghi, col suo fruscio secco, la luce temperata, i sussurri che si sentono qualche volta fanno, insieme all’odore di acetosella del disinfettante o purificatore dell’aria, un’atmosfera che mi è diventata famigliare, e che mi piace più d’ogni altra di quelle che ho incontrato fin’ora nelle biblioteche e  nei luoghi di studio. Qui si lavora bene, qui vorrei continuare a lavorare per anni, senza disturbi e senza perdite odiose di tempo.» (Appunto «30 agosto 1934», in Archivio Cantimori, Scuola Normale Superiore, citato da Ibidem, pp. XXI-XXIII).

          Anche se di segno diametralmente opposto che in Carl Schmitt, viene  così veramente in luce un profondissimo tratto occasionalistico-romantico di Delio Cantimori e che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua vita e nelle sue peregrinazioni politiche, ed è un tratto occasionalistico-romantico che ci suggerisce che la vita politica è fatta di lotta ma che, al di là di questa lotta, c’è sempre uno stadio etico superiore in cui le inimicizie e gli odi vengono superati  con il riconoscimento dell’onore e della virtù del proprio nemico, ormai non più nemico ma solo avversario. E il luogo mitico dove sarebbe potuto avvenire questo reciproco riconoscimento fra amico e nemico era la sempre agognata terza via che avrebbe dovuto costituire il superamento in una mitica unità sociale superiore delle inimicizie e degli odi, inevitabili conseguenze sia dei regimi comunisti totalitari che delle società rette col sistema capitalistico.

          Per quanto invece riguarda Schmitt, il tratto occasionalistico-romantico si presentava con una visione antropologica completamente opposta. Schmitt con la sua individuazione del dualismo amico-nemico aveva veramente varcato la soglia delle divinità infernali della politica (e sulla critica a questo dualismo, geniale nella sua semplicità e fondante – anche se non sufficiente –  per il Repubblicanesimo Geopolitico sia della scienza politica che della filosofia politica l’accusa di occasionalismo politico ed intellettuale mossagli da  Löwith e da Cantimori rivela una notevole dose di ingenuità) ma, nonostante che il punto specifico, il dualismo amico-nemico, attraverso il quale  Löwith ed anche Cantimori mossero a Schmitt le loro accuse di occasionalismo romantico rivelasse, in realtà, tutta l’acutezza del suo pensiero, effettivamente  in Schmitt c’è un punto che mostra grandi segni di debolezza e sul quale si possono appuntare ben fondate critiche di occasionalismo politico romantico.

          Quest’altro punto debole rilevato da Cantimori è lo spostamento dal Dezisionismus all’ Ordnungsdenken, cioè il punto debole consiste nel fatto che per lo stesso Schmitt il Deziosionismus, in ultima istanza, altro non era che uno strumento per ripristinare un ordine sociale e statale messo in pericolo mortale dalla rivoluzione e che, passato il pericolo, era necessario spodestare la decisione come fonte primaria del diritto ma bisognava instaurare un ordinamento la cui funzione era proprio ricacciare negli inferi quella decisione in precedenza tanto apprezzata (e da questo si vede quanto fosse lontana  la visione  di Schmitt  da quella del

nazismo, che fu proprio il regno della decisione, anarchicamente e selvaggiamente opposta ad ogni ordine tradizionale).

         Alla stessa stregua di Cantimori, anche il Repubblicanesimo Geopolitico ha più volte messo in evidenza il decisionismo debole di Carl Schmitt ma, a differenza di Cantimori, il Repubblicanesimo Geopolitico non ha mai ritenuto che le divinità infere siano quell’elemento della politica da ricacciare in profonde ed oscure prigioni. Quando il Repubblicanesimo Geopolitico  afferma come fondante della sua teoria  che il potere non è altro che un sinonimo della libertà – anzi, ne è l’espressione allo stato puro –  e che ogni altro discorso universalistico riguardo la libertà dell’uomo altro non è che inganno ideologico impiegato dai grandi decisori strategici per truffare le masse, ci piace pensare di avere colto il meglio del pensiero, fra gli altri, di Carl Schmitt, senza per questo cadere né nel “paradosso di Carl Schmitt” (puntualmente rilevato da Cantimori e che si riassume nel fatto che se la polarità amico-nemico ci rivela ottimamente l’anatomia della conflittualità politica e sociale non è in grado di restituirne la dialettica della sua fisiologia) né nella visione atrocemente tradizionalista dello Schmitt (anzi, come altrove già detto, la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, è una teoria anti-Katechon, è una teoria cioè, attraverso il conseguimento dell’ ‘Epifania Strategica’ – Epifania Strategica, che significa, in opposizione a tutte le narrazioni universalistiche della democrazia e della libertà,  il disvelamento a livello di massa della natura olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale non solo della vita politica e sociale ma anche della realtà fisica e biologica, mondo delle relazioni storico-sociali e mondo fisico-biologico uniti dialetticamente, appunto, dal paradigma esplicativo-prassistico olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale –  per l’accelerazione della rivoluzione e non, come in Schmitt, per porvi un freno: sotto molti punti di vista, il Repubblicanesimo Geopolitico altro non è che la “messa a dialettica”  del “timido decisionismo” ed altrettanto “non compiuto conflittualismo” di Carl Schmitt ma, soprattutto,  dei radicali iperdecisionismo ed iperconflittualismo  di Walter Benjamin, rivoluzionari, antikatechontici e  liricamente mistici, ma sulle profonde affinità ed altrettanto profonde differenze del pensiero benjaminiano imperniato sullo ‘stato di  eccezione permanente’ – Ottava tesi di filosofia della Storia: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza» in cui viviamo è la regola” – ed il conflittualismo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicalesimo Geopolitico basato sull’uguaglianza potere=libertà e sul disvelamento di questa uguaglianza tramite la dialettica dell’ ‘Epifania Strategica’ abbiamo più volte detto…).

         Certamente in questo volere essere ad un tempo completamente conformi, ancor più di Schmitt, al proposito di Giunone citato da Cantimori di rivolgersi anche alle divinità infernali, ma pretendendo di essere in grado , ancor meglio di Cantimori, di domare queste divinità e di farsene alleate, non si può non vedere che almeno dal punto di vista di una moralità pubblica e privata che riesca a ricomporsi in un modello conflittualista (modello conflittualista che reca sempre con sé il rischio di privilegiare come fonte del diritto il fatto compiuto e compiuto dal più forte, ignorando quindi ogni altra dialettica sociale di tipo collaborativo-simbiotico ed espressiva di futuri e diversi rapporti olistico-dialettici-espressivi-strategici-conflittuali, vedi a questo proposito Massimo Morigi, Epigenetica e fantasmagorie transumaniste all’URL dell’ “Italia e il Mondo” http://italiaeilmondo.com/2021/03/03/epigenetica-e-fantasmagorie-transumaniste-di-massimo-morigi/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210304224738/http://italiaeilmondo.com/2021/03/03/epigenetica-e-fantasmagorie-transumaniste-di-massimo-morigi/ – espressiva, cioè, della già detta rivoluzionaria ‘Epifania Strategica’), il Repubblicanesimo Geopolitico ha grandissimi tratti in comune con il romanticismo occasionalistico politico e culturale  di Delio Cantimori piuttosto che con quelli del ‘conflittualismo incompiuto’ e del decisionismo timido, tradizionalista e katechontico di Carl Schmitt.

           E se dal punto di vista della biografia di Cantimori questo romanticismo occasionalistico si concluse con un riconosciuto pieno fallimento, dal punto di vista dell’eredità culturale e politica per il Repubblicanesimo Geopolitico  il tentativo di superare e allo stesso tempo conservare questo fallimento costituisce un imprescindibile ed irrinunciabile lascito, ancora più grande del timido – ed occasionalistico –  Dezisionismus di Carl Schmitt.».

         Flectere si nequeo superos, acheronta movebo: de te fabula narratur

 

Massimo Morigi – Ravenna, maggio 2021

Gaza-Israele, le parti in commedia_con Antonio de Martini

Dopo mesi di tensione accumulata per i tanti problemi e contenziosi irrisolti si è riacceso lo scontro aperto tra componenti della comunità israeliana e di quella palestinese. E’ stato sufficiente per riaprire il gioco delle parti nel quale tutti gli attori politici hanno trovato convenienza ad attizzare il fuoco. Ma il gioco da quelle parti è particolarmente pieno di imprevisti e può sfuggire facilmente di mano_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vh325z-gaza-israele-le-parti-in-commedia.-ne-parliamo-con-antonio-de-martini.html

 

GUERRA SENZA MILITARI, di Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA SENZA MILITARI

In un’intervista a “La verità” il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, tra molte cose condivisibili, ha introdotto un tema il quale, quasi totalmente dimenticato, è riproposto dalla crisi pandemica. Ha detto Rizzo che “è evidente che oggi conta più un ospedale di un F-35 o di una corazzata. Una nazione che salvaguarda la sanità è strategicamente più avanzata”.

In effetti è nel pensiero costituzionale e filosofico che una costituzione – e più in generale l’organizzazione politica di uno Stato – è buona quando consente di affrontare e superare le emergenze (le guerre, in primo luogo) e che sono le crisi possibili a dover forgiare l’assetto dei poteri pubblici (v. Ludendorff).

Per fare un esempio, restando all’irenico (tardo) secolo XX, De Gaulle sosteneva la necessità dell’art. 16 della Costituzione della V Repubblica (i poteri eccezionali del Presidente) con i caratteri della guerra moderna (anche atomica).

Va da se che, come sostiene l’on.le Rizzo, in una crisi sanitaria, indipendentemente dalle cause (se naturali, o frutto di imperizia umana, o anche – ma è assai improbabile – per attacco batteriologico) carri armati e cannoni sono del tutto inutili a difendersi. Ma vaccini ed ospedali, di converso, sono le casematte della difesa sanitaria.

In un libro di oltre vent’anni fa, due (allora) colonnelli cinesi descrivevano le nuove forme di guerra: commerciale, finanziaria, economica, informatica (e così via) tutte connotate da avere lo stesso scopo della guerra “classica” – e cioè quello di costringere il nemico a fare la nostra volontà (Clausewitz e Gentile), ovvero accrescere la nostra potenza, e dal non far uso della violenza, ma d’altri mezzi, denominandole così “operazioni di guerra non militari”. Per combattere le quali i mezzi militari servono a poco. Anche perché possono causare una pericolosa escalation.

Ai fini dell’influenza delle possibili crisi sulla conformazione delle istituzioni pubbliche la causa (naturale od umana) della stessa è poco o punto influente. Decisivo è che queste siano attrezzate a difendere la comunità che in esse si organizza per proteggersi.

Ed è proprio questa una ragione decisiva per mantenere, almeno in parte, lo Stato sociale del XX secolo. In questo l’Italia si è dimostrata (largamente) impreparata e quindi vulnerabile; l’Europa poco meglio. In fondo dai dati disponibili sulla pandemia, lo Stato più efficiente è stato Israele, preparatissimo a far guerra e a difendere la popolazione. Al contrario di gran parte dei governanti europei, per quelli d’Israele (compresi i governati) l’emergenza non è un oggetto riposto negli archivi della storia, ma una possibilità reale. Ossia proprio quello che popoli abituati a considerare il progresso come un dato acquisito ed immodificabile, e i quattro cavalieri dell’apocalisse dei pensionati del medesimo, non riescono più a concepire né affrontare. Tra i pochi effetti non negativi della crisi, un tuffo nella realtà non è da disprezzare.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il maglio giudiziario, di Giuseppe Germinario

Il caso Amara e il caso Palamara, nella loro rapida successione, hanno portato alla luce del sole l’evidenza di quanto sino ad ora intuito: anche la magistratura è campo di azione politico, oggetto di scontro politico per il suo esercizio; è costituita da soggetti politici partecipi non solo nel loro ambito operativo ma anche attivi nell’agone politico generale sia con strutture istituzionali ed associative formalmente riconosciute che per il tramite di gruppi informali. Sul criterio della separazione dei poteri sembra ormai prevalere quello della divisione e della compartecipazione soprattutto in questa fase di crisi e ristrutturazione degli assetti.

Prima però di dilungarsi su questo tema così delicato e su di un aspetto particolare ma cruciale di esso occorrono però alcune precisazioni necessarie a contestualizzare il merito di quanto scritto:

  • l’azione della magistratura nell’esercizio delle sue funzioni è per sua natura destabilizzante e distruttiva in quanto agisce su singoli attori o al massimo su gruppi o settori della società, segno tra l’altro che non sempre l’azione del magistrato è individuale, ma spesso e volentieri orientata e coordinata; costringe quindi gli attori politici con funzioni “costruttive” a riposizionarsi negli spazi, nei comportamenti e nei rapporti di forza diversamente disposti

  • la magistratura è organizzata secondo il criterio dell’ordinamento, in assenza quindi di una rigida struttura gerarchica. Ragion per cui il singolo magistrato, tuttalpiù le singole procure e strutture giudicanti godono almeno formalmente di “completa autonomia e indipendenza”

  • in ambito penale l’attività giudiziaria è regolata dall’obbligatorietà dell’azione; criterio che vieterebbe la selezione gerarchica, nei tempi e nei mezzi utilizzati, dei vari procedimenti

  • l’attività del magistrato, specie nella fase inquirente, è resa possibile ed è inevitabilmente condizionata dagli input forniti da soggetti politici “costruttivi” quali sono gli organi di informazione, organi di polizia, servizi di intelligence, uomini di apparato e singoli cittadini motivati in senso lato politicamente. Di solito nelle fasi di normalità o di gestione controllata delle dinamiche tale influenza si esercita con isolate eccezioni sotto traccia e discretamente; in quelle di crisi acuta o marcescenti emergono nella loro invasività e virulenza. Un esempio tra i tanti, gli evidenti e ormai conclamati legami e condizionamenti di settori dei servizi di intelligence nazionali e americani operati su alcuni magistrati propedeutici allo scoppio di Tangentopoli, alla defenestrazione di un intero ceto politico governativo e di potere, alle dismissioni e privatizzazioni gestite scelleratamente da quello surrogato in posizione servile e raffazzonata.

Gli indirizzi espressi nel secondo e terzo punto hanno lo scopo dichiarato di garantire al meglio l’imparzialità del magistrato e la parità di trattamento del cittadino; in effetti in particolari ambiti e tempi ci si è avvicinati a questo obbiettivo che più che di imparzialità si potrebbe definire di maggiore considerazione delle parti più deboli individualmente della società.

Al pari di qualsiasi sistema di relazioni e di apparati anche quello della magistratura ha conosciuto fasi ascendenti di funzionamento e fasi discendenti di decadenza e progressiva degenerazione. Le sue modalità di funzionamento ed organizzazione non possono certo impedire l’esercizio dell’impegno e del conflitto politici, proprio per la funzione di indirizzo e di collante che consustanzialmente il “politico”deve esercitare nei vari ambiti di azione umana; ne condizionano certamente però le modalità di esercizio, specie nella magistratura inquirente, sia all’interno, sia all’esterno di essa, sia ancora nelle intricate interrelazioni.

La gerarchizzazione approssimativa dell’ordinamento, la mancanza di un esplicito prevalente rapporto di indirizzo esterno dell’attività giudiziaria, in particolare di quella inquirente, ha determinato al suo interno la formazione e frammentazione di centri di potere e decisionali ostentatamente autonomi e sempre più in conflitto tra di essi, con per di più un armamentario di strumenti disponibili peculiari della categoria, ma così dirompenti nei loro effetti; ha consentito a questi nuclei di tessere, di inserirsi o di essere assorbiti più autonomamente in reti di relazioni e centri decisionali; ha creato infine le condizioni per assumere un ruolo e una capacità di influenza abnormi ormai consolidato e difficilmente scalfibile.

L’esercizio fluido del potere esige il funzionamento corretto e coordinato dei vari centri di potere, in particolare di quelli istituzionali, nella diversità delle loro funzioni; l’incisività dei vari centri strategici in conflitto e cooperazione tra di essi dipende soprattutto dalla capillarità della loro presenza in quelli istituzionali. Quando per un qualche motivo l’equilibrio dinamico viene sconvolto, mettendo per lo più in crisi il funzionamento di uno o più di questi centri di potere, in qualche modo si sopperisce alla crisi sovraccaricando altri settori con tutte le distorsioni che ne conseguono specie in caso di protrazione indefinita delle condizioni di emergenza. È quello che sta avvenendo negli Stati Uniti con l’avvento e la defenestrazione di Trump; è quello che sta avvenendo in Italia sino ad incancrenirsi da ormai circa trenta anni con la crisi focalizzata nel ceto politico governativo e progressivamente nel ceto di controllo e gestione degli apparati.

La crisi al e del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) è il portato di queste dinamiche. Sequenze dettate dagli imprevisti e dalle incognite di uno scontro politico così acceso e cadenzate da soggetti non necessariamente consapevoli viste le modalità altamente sofisticate di condizionamento e influenza delle azioni.

Ma passiamo al punto centrale di questo articolo.

Se esiste un ambito di azione dell’attività dei magistrati dove sono più evidenti queste implicazioni, questo è l’agone internazionale. Non è un caso quindi che la crisi sia deflagrata sui procedimenti giudiziari a carico di dirigenti dell’ENI impegnati nelle attività all’estero, nella fattispecie in Nigeria, risoltisi con l’assoluzione.

Certamente il punto centrale della crisi non riguarda il carattere informale dei comportamenti nel CSM al riguardo. A qualunque livello dell’attività politica, compreso gli organi della magistratura, i rapporti informali sono altrettanto se non più importanti di quelli formali nel preparare e portare avanti le decisioni, nel determinare le posizioni di potere. Né lo sono le rivalità personali legate al consolidamento o alla minaccia alle posizioni di potere stesse nelle procure e nel CSM.

Le stesse rivalità in seno alla dirigenza dell’ENI, in particolare tra gli amministratori delegati Scaroni e Descalzi, le quali avrebbero alimentato e fornito pretesti al proseguimento dell’inchiesta, sono il portato di dinamiche molto più grandi e complesse che vedono esposta una azienda a caccia sempre più in proprio di coperture internazionali data la crescente evanescenza del peso geopolitico dello Stato che dovrebbe tutelarla, coprirla ed indirizzarla.

L’attività legale, i procedimenti giudiziari, la stessa giurisdizione internazionali hanno delle implicazioni e godono di una aleatorietà tali da innescare pesanti dinamiche geopolitiche e politiche che prescindono dall’esito stesso delle sentenze. Quello geopolitico è un ambito privilegiato per cercare di individuare al meglio il ruolo della giustizia e dei magistrati; ambito che va esaminato sulla base di alcune premesse.

Parlare intanto di diritto internazionale è improprio in quanto il fondamento di queste, ad eccezione parziale dell’ambito dei diritti umani, sono i trattati e non un corpo di leggi; l’adesione a questi e agli organismi internazionali preposti alla gestione, l’applicazione e il rispetto delle norme sono continuamente oggetto di trattative, deroghe e violazioni in realtà difficilmente sanzionabili universalmente; laddove si è riusciti a istituire delle corti, come nell’ambito dei diritti umani, queste corti non hanno potestà su tutti i paesi e paradossalmente viene utilizzato il loro dispositivo da paesi, come gli Stati Uniti, che non vi aderiscono, almeno sino a quando utili al loro esercizio di potenza. L’ultimo esempio clamoroso in tal senso è stato il processo a Milosevic, conclusosi tra l’altro con qualche dubbio sulle cause di morte dell’imputato. Si tratta in realtà di una coperta corta utilizzata dagli stati egemoni al momento in auge a sanzione dei rapporti di forza e degli interventi intromissori. Una aleatorietà che lascia ampi margini di azione agli Stati e alla pletora di associazioni e ONG che fungono da complemento. Ai dispositivi giudiziari internazionali manca comunque il supporto fondamentale di una forza di polizia alle dirette dipendenze, impossibile da realizzare per l’assenza di un governo e di una organizzazione statuale mondiale, al momento scritta solo nel libro dei sogni.

Più interessante è la valutazione dell’azione dei corpi giudiziari nazionali nell’agone internazionale.

L’ambito penale e dirittoumanitarista è quello che si presta maggiormente alla manipolazione indiretta tesa a logorare e condizionare la collocazione geopolitica di un paese. Il caso Regeni è emblematico da questo punto di vista per la direzione unilaterale delle indagini, sia per la permeabilità alle manipolazioni esterne e alle campagne propagandistiche, nella fattispecie di matrice anglosassone. Azioni che tendono a pregiudicare e delimitare ulteriormente il nostro ruolo nel Mediterraneo.

Molto più diretto ed articolato è l’uso del diritto in ambito geoeconomico sino a diventare un vero e proprio sofisticato strumento di guerra economica e confronto geopolitico. Soprattutto in ambito economico l’adozione di un modello giurisprudenziale, nella fattispecie quello anglosassone, rappresenta la sanzione della superiorità egemonica di un paese e il tentativo di protrazione di questa per inerzia anche in una fase di incrinatura e di relativa decadenza della sua capacità di dominio. L’adozione di tali modelli apre la strada al radicamento di studi professionale avvezzi a quelle procedure, alla individuazione di sedi di definizione di controversie solo apparentemente neutrali, alla formazione di gruppi lobbistici sempre più influenti, alla circolazione di conoscenze, dati riservati e quant’altro le quali regolarmente affluiscono nelle case madri degli studi legali e da esse verso i centri di potere politici e politico-economici. La proliferazione di studi legali americani nel modo, specie nell’area occidentale, non è certo casuale e politicamente neutra; è sufficiente analizzare il corollario sviluppatosi attorno alle controversie di giganti come Airbus e Bayer per avere una idea delle dimensioni del fenomeno. La corruzione, la violazione delle regole della concorrenza, il mancato rispetto dei vincoli finanziari e debitori, la violazione dei brevetti sono le costanti di tali azioni.

Il principio della extraterritorialità è invece il fattore decisivo in grado di far compiere il salto di qualità alla efficacia delle azioni giudiziarie dei paesi. In senso masochistico ai paesi scarsamente in grado di applicarlo, in senso proattivo agli altri. L’Italia primeggia, manco a dirlo, tra i primi, gli Stati Uniti in assoluto, con la Cina come neofita ed aspirante, tra i secondi.

La base di questo principio viene posta dal lontano caso Lockeed che investì negli anni ‘70 numerosi paesi, tra i quali gli Stati Uniti, l’Italia, il Giappone, l’Olanda. Sull’onda di indignazione sollevata dallo scandalo, gli Stati Uniti in prima battuta, seguiti pedissequamente con grande solerzia da gran parte degli stati europei e dal Giappone, vararono leggi che penalizzavano le proprie imprese implicate in azioni di corruttela. Con il passare del tempo, ma in pochissimi anni, i centri decisionali americani si accorsero della discriminazione e del danno arrecato alle proprie aziende con un intervento in esclusiva. Estesero così progressivamente il campo sanzionatorio a tutte le imprese intrattenitrici di rapporti con paesi implicati in casi di corruzione, ma anche con quelli vittime di provvedimenti anche unilaterali di sanzioni per violazione dei diritti umani, per fomentazione del terrorismo (Iran), per minaccia alla “coesistenza pacifica” o per insolvenza debitoria (Argentina), comprese quelle straniere che in qualche maniera utilizzassero servizi e componenti produttivi americani. A cotanto zelo non hanno saputo resistere molti paesi, prima fra tutti l’Italia. Ma quello che per gli Stati Uniti è diventato via via uno strumento offensivo temibile e sempre più perfezionato nel conflitto geoeconomico e geopolitico, per l’Italia si è rivelato uno zelo autolesionistico di rara efficacia e perseveranza. Agli Stati Uniti è bastato ostacolare l’accesso ai propri servizi finanziari, al proprio bagaglio tecnologico e al proprio mercato interno per “correggere” i comportamenti riottosi e allineare le politiche governative e aziendali ai propri disegni; l’Italia non ha questa capacità geopolitica e nemmeno quella di determinare o contribuire a fissare gli standard di mercato e commerciali. La conseguenza è che gli Stati Uniti hanno concentrato in casa altrui le attenzioni e affibbiato l’80% dei provvedimenti sanzionatori ad aziende straniere riuscendo in qualche maniera a condizionare a proprio favore i comportamenti generali all’interno della propria sfera di influenza e a condizionare pesantemente quella dei competitori ed degli avversari dichiarati; l’Italia ha concentrato tutte le sue attenzioni verso le proprie aziende e a rivolgere gli strali più pesanti verso le proprie aziende pubbliche. La pletora di indagini e provvedimenti giudiziari ai danni di ENI, Leonardo e Finmeccanica per le loro attività estere, spesso conclusi con un nulla di fatto dopo anni di indagini e processi, hanno sconvolto le strategie aziendali in settori strategici, hanno minato profondamente la credibilità e l’affidabilità internazionale di queste e del paese stesso, hanno arrecato danni economici e politici enormi specie nell’area operativa mediterranea e subsahariana, hanno spinto queste aziende ad intensificare per proprio conto i legami politico-economici con paesi stranieri geopoliticamente più attivi indebolendo quelli con la casa madre. Tanto per non farci mancare niente, non è nemmeno l’unico campo dove si è entrati giudiziariamente con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli sino a scombussolare assetti e reti operative: basterebbe seguire le peregrinazioni giudiziarie di tanti vertici dei servizi di informazione in quest’ultimo trentennio. In questo quadro, azzardare l’ipotesi di una particolare permeabilità degli ambienti giudiziari a questi disegni e a queste dinamiche ed esercizi di influenza e manipolazione non è poi così peregrina, a prescindere dalla consapevolezza e dalla correttezza di comportamento dei singoli magistrati. Servirebbe anche ad inquadrare con maggior respiro conflitti istituzionali gravissimi e feroci presentati dagli organi di informazione per lo più come deplorevoli beghe di bottega dal sapore corporativo. Queste naturalmente esistono, ma assumono l’aspetto del contenzioso tra i polli di Renzo, se non peggio.

Stati Uniti! Aggrappati al potere, lontani dalla realtà_con Gianfranco Campa

La NATO ha avviato esercitazioni a ridosso della Russia coinvolgendo soprattutto i paesi dell’Europa Orientale e interessando anche l’area del Mar Nero.

Alle esercitazioni partecipano militari dell’Ucraina e della Georgia, sostenute dagli Stati Uniti ma non appartenenti alla NATO. Una vera e propria provocazione nei confronti della Russia. Un ulteriore fattore di instabilità in uno scenario che vede il proliferare incontrollato di conflitti aperti in Medio Oriente, di inediti attriti al limite dell’incidente militare tra alleati, nella fattispecie tra Turchia, Francia e Italia; un peggioramento brusco delle relazioni diplomatiche tra alleati storici (Stati Uniti e Messico). Una situazione caotica cui corrisponde una situazione interna agli Stati Uniti nella quale l’amministrazione Biden non sembra avere il controllo della situazione e nemmeno una percezione accettabile della realtà. Una condizione ben lontana dal siparietto offerto dai nostri organi di informazione. L’opposizione pare invece radicarsi sempre più nella società e in settori della pubblica amministrazione e dello Stato. Lo stesso Trump pare essere una pedina importante del movimento alternativo, continua a subire le attenzioni faziose degli avversari, ma non è più il soggetto indispensabile alla sopravvivenza del movimento_Buon ascolto, ne vale proprio la pena_ Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vgyssb-stati-uniti-aggrappati-al-potere-lontani-dalla-realt-ne-parliamo-con-gianfr.html

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO

1.0 Per interpretare la situazione politica presente è tuttora di attualità il pensiero di Carl Schmitt; a prescindere dai tanti spunti che possono trarsene, al presente sono particolarmente interessanti alcune tesi sostenute dal pensatore di Plettemberg tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’60, assai prima dell’“epoca” contemporanea, successiva al collasso del comunismo, all’ “aumento” della globalizzazione (e alla morte del giurista).

2.0 In primo luogo è opportuno – per spiegare l’incremento straordinario qualche anno dopo il collasso del comunismo dei partiti popul-sovran-identitari – ricordare quanto scrisse nel discorso Das zestalter der neutralisierung und ent politisierungen1 (del 1929).

Sostiene Schmitt in tale scritto che la vita spirituale europea si è sviluppata negli ultimi quattro secoli (cioè nella modernità) cambiando centri di riferimento (dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e infine all’economico) “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale. Così, per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche”2.

Tale centro si riferimento è decisivo e prevalente “Lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche poiché i temi polemici e decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo”3. Dopo il collasso del comunismo l’ultima scriminante del “politico” (ossia quella tra borghesia e proletariato) è venuta meno. Fukuyama scriveva che, dopo la vittoria delle liberaldemocrazie, era arrivata la fine della storia. Previsione sbagliata perché presuppone l’esaurirsi di ogni ragione di conflitto; cosa impossibile perché l’elemento del conflitto e della lotta (Machiavelli e Duverger tra i tanti) è un presupposto del politico ad esso connaturale (Freund). Pensare che l’uomo, zoon politikon, possa esistere senza una dimensione politica, presuppone cambiarne la natura, ossia quello che il giovane Marx pensava di poter fare ed è – invece – risultato impossibile.

Piuttosto alla scriminante borghese/proletario se n’è sostituita un’altra diversa. Il passaggio tra una scriminante amico/nemico e la successiva, scriveva Schmitt, ha un effetto politico decisivo: “La successione sopra descritta – dal teologico, attraverso il metafisico e il morale, fino all’economico – significa nello stesso tempo una serie di progressive neutralizzazioni degli ambiti dai quali successivamente è stato spostato il centro”. In tale processo “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro”, ma nel contempo e progressivamente “si sviluppa immediatamente con nuova intensità la contrapposizione degli uomini e degli interessi, e precisamente in modo tanto più violento quanto più si prende possesso del nuovo ambito di azione. L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali” (i corsivi sono miei).

Che appare proprio quanto successo negli ultimi trent’anni. Dopo una (breve) fase in cui si pensava la globalizzazione “post-comunista” come ad una era stabile e “pacifica”, stante l’egemonia planetaria degli USA, s’intravedevano i primi scricchiolii da distribuire equamente in due categorie: le guerre umanitarie e, ancor più, l’emergenza di antagonisti – nemici – dell’ordine globalizzato. Ambedue convergenti nel confortare la tesi che la storia – e i conflitti – fossero tutt’altro che finiti. Quanto alle guerre “umanitarie” per lo più denominate in inglese e qualificate come operazioni di polizia internazionale, a parte le definizioni rimanevano guerre comunque; e neppure granché apprezzabili secondo le intenzioni esternate, giacché già quattro secoli fa Francisco Suarez metteva in guardia da guerre del genere. In ordine al nemico dell’“ordine nuovo”, in un primo tempo il fondamentalismo islamico, il tutto provava che un ordine, per quanto auspicabile, non può prescindere dal fatto che qualche gruppo di uomini non lo apprezzi, e in misura così intensa da arrivare (sempre) a combatterlo politicamente, e nei casi estremi, con le armi.

3.0 Era così evidente che l’“ordine nuovo” stava generando dialetticamente nuove ostilità, nuovi nemici e nuovi conflitti.

Rimaneva, e in parte rimane, poco chiaro su quale centro di riferimento spirituale si fondi la contrapposizione, interna all’occidente euroatlantico, tra populisti e globalisti. Quello che invece è chiaro – e può servire ad individuare il centro di riferimento è che sovran-popul-identitari da un lato e globalisti dall’altro fanno riferimento a coppie di valori/idee contrapposti che elenchiamo (senza pretesa di essere esaurienti):

NAZIONE/UMANITÁ

ESISTENTE/NORMATIVO

COMUNITÁ/SOCIETÁ

INTERESSE NAZIONALE/INTERESSE GLOBALE

Dei quali la prima colonna si riferisce al sovran-populismo, la seconda alla globalizzazione.

È appena il caso di citare qualche esempio. Per esistente/normativo mi permetto di rinviare a quanto da me scritto sulla Costituzione ungherese4. Quanto alla contrapposizione comunità/società è meno evidente ma comincia ad emergere dalle dichiarazioni costituzionali dei paesi “sovranisti” (v. le Costituzioni polacca e ungherese).

Che il termine a quo e ad quem di questi sia la Nazione e non l’umanità è del tutto evidente e non ha necessità di spiegazioni.

Quando all’interesse nazionale, come obiettivo di governo è anch’esso evidente, a parte le recenti vicende della Diciotti e del Ministro degli interni Salvini, che l’hanno riportato al centro del dibattito politico. E si potrebbe parlare di un “rieccolo” perché è sempre stato la bussola dello Stato moderno (e delle sintesi politiche antiche).

A trovare una frase che sintetizzi in poche parole la posizione dei sovranisti non si può che risalire all’affermazione di Sieyès “La Nazione è tutto quello che può essere per il solo fatto di esistere”5. Affermazione che scandalizza sicuramente un globalista.

4.0 La seconda concezione da prendere in esame per la valutazione della situazione politica contemporanea è quella che emerge, tra gli scritti di Schmitt, da “Terra e mare”. Fondamento di tale scritto è che l’esistenza umana è determinata dallo spazio in cui vive, dalla percezione che ne ha e dalle opportunità che offre. Pertanto questo determina o co-determina i rapporti politici, economici e sociali. In particolare il diritto. Scriveva Maurice Hauriou che il diritto conosciuto, elaborato, applicato dai giuristi è quello di società sedentarie, basate sul rapporto con la terra (e così, anche con il territorio come elemento dell’istituzione politica, in particolare – ma non solo – dello Stato moderno). Mentre il giurista francese contrapponeva le società sedentarie a quelle nomadi e spiegava gran parte degli istituti delle prime col rapporto con la terra e con un’esistenza orientata alla produzione regolare, Schmitt approfondiva la diversità tra esistenza marittima ed esistenza terreste, e in particolare che “la storia universale è una storia della lotta della potenza del mare contro la potenza della terra…”.

La novità nella storia moderna, sosteneva Schmitt, è che la Gran Bretagna, nel XVI secolo, si decise per un’esistenza marittima, assai più di come avevano fatto in altre epoche potenze marittime come Atene o Venezia ed in parte, anche Cartagine. Da ciò derivò l’espansione commerciale (ed industriale) inglese6.

Questo fatto era considerato da Schmitt determinante sia per il diritto internazionale che per l’assetto politico europeo westphaliano. L’equilibrio che ne derivava, conseguiva da quello di terra e mare (potenze continentali e potenza marittima) e tra stati europei. Nessuna delle quali era in grado di egemonizzare le altre, perché non avrebbe avuto la forza di imporsi ad una loro coalizione, un po’ come Machiavelli notava per gli Stati italiani (e dell’equilibrio tra gli stessi) della sua epoca. In questo senso la sovranità degli Stati, costruita intorno alla parità giuridica degli stessi – prescindendo dalla parità di fatto, aveva un certo senso, proprio perché la parità di fatto tra gli stessi – o almeno tra i maggiori – non era tanto lontana; e, d’altra parte la disparità poteva essere compensata con un’accorta politica di alleanze (e all’inverso di neutralità).

Il tutto entrava in crisi con il XX secolo; sosteneva Schmitt che “nel diritto internazionale le idee generiche ed universalistiche sono le armi tipiche dell’interventismo”7; e che “Una concezione giuridica coordinata ad un impero sparso su tutta la terra (ossia quello britannico) tende naturalmente ad argomenti universalistici”8

Nello scritto “Grande spazio contro universalismo”9, il giurista di Plettemberg ribadisce, con riferimento alla dottrina Monroe, la contraddittorietà dell’interpretazione universalistica all’enunciazione originaria della suddetta dottrina. Scrive Schmitt “È essenziale che la dottrina Monroe resti autentica e non falsificata, fintantoché è fissa l’idea di un grande spazio concretamente determinato, nel quale le potenze estranee allo spazio non possono immischiarsi.

Il contrario di un siffatto principio fondamentale, pensato a partire dallo spazio concreto, è un principio mondiale universalistico, che abbraccia tutta la terra e l’umanità. Questo conduce naturalmente a intromissioni di tutti in tutto. Mentre l’idea dello spazio contiene un punto di vista della delimitazione e della divisione e per questo enuncia un principio giuridico ordinatore, la pretesa universalistica di intromissione mondiale distrugge ogni delimitazione e distinzione razionale10 (il corsivo è mio).

Ciò ha fatto sì che si è convertito “un principio di non ingerenza concepito spazialmente in un sistema generale di intromissione delocalizzata” e così è diventato uno strumento ideologico della democrazia e “delle concezioni con essa collegate, in particolare del “libero” commercio mondiale e del “libero” mercato mondiale, al posto dell’originario e vero principio Monroe”11. Combinando all’uopo status quo e pacta sunt servanda, “cioè un semplice positivismo contrattuale”, con i principi ideologici del liberalcapitalismo.

Il risultato complessivo è che la dottrina Monroe, come interpretata negli anni tra le due guerre mondiali da la misura “della contrapposizione fra un chiaro ordinamento spaziale che poggia sul principio fondamentale del non intervento di potenze estranee allo spazio a fronte di un’ideologia universalistica, che trasforma tutta la terra nel campo di battaglia dei suoi interventi e intralcia il passo ad ogni crescita naturale dei popoli viventi12 (il corsivo è mio).

La situazione oggi è diversa: l’evoluzione dell’ordinamento internazionale con l’ONU (e la Carta dell’ONU), il divieto dell’uso della forza (v. art. 2, 4 della Carta dell’ONU), i poteri del Consiglio di sicurezza, la dottrina della “responsabilità di protezione”, le operazioni di peacekeeping e soprattutto la “difesa dei diritti umani” (e non solo) hanno complicato la situazione.

A cosa può servire la lezione di Carl Schmitt e, in particolare, la dottrina dei “grandi spazi”?

Sembra di poter rispondere che due concezioni (esplicite ed implicite alla stessa) e comunque intersecantesi possono essere utilmente applicate.

La prima delle quali è il realismo politico in relazione al concetto di sovranità. Come scrive il giurista tedesco, il problema della sovranità, probabilmente il principale, è conciliare l’aspetto politico con quello giuridico.

Se infatti il connotato distintivo della sovranità è l’assolutezza giuridica (non essere condizionato dal diritto ma esserne “al di sopra”)13, occorre coniugarla con i limiti di fatto. Come scrive Schmitt “Nella realtà politica non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti, irresistibile e funzionante con la sicurezza della legge di naturaLa conciliazione del potere supremo di fatto e di diritto costituisce il problema di fondo del concetto di sovranità. Da qui sorgono tutte le difficoltà”14 (il corsivo è mio). Altro infatti è la sovranità degli U.S.A. o della Cina, altro quella di S. Marino o del Liechtenstein. Trasposto nella situazione contemporanea, questo significa che mentre si censurano – giustamente – le violazioni dei “diritti umani” o il genocidio (ad esempio dei curdi in Iraq) e si parte per la “guerra giusta” ai ruandesi o a Saddam, ci si guarda bene dal fare la guerra a Putin per il Dombass o la Crimea e così alla Cina per Hong-Kong. Da notare che, mentre Hong-Kong è sotto sovranità cinese – e almeno può valere il carattere classico territoriale di questa – non è così per i citati territori nell’Europa orientale, entrambi – prima di annessioni ed occupazioni – facenti parte dell’Ucraina; la quale ha così subito una violazione della (propria) sovranità – al contrario della Cina. A questo punto, dati i “due pesi, due misure” c’è da chiedersi se non valga, come criterio di comportamento e decisione concreta, quello del “grande spazio”: mentre alla Russia è stato (di fatto) riconosciuto l’intervento in una repubblica prima facente parte dell’URSS, cioè del proprio “grande spazio”, lo stesso non è stato esercitato per proteggere popolazioni, diritti umani, e nel caso dell’Ucraina, l’integrità territoriale.

Per cui il realismo intrinseco alla concezione schmittiana (registra) e regola molto più che l’idealismo di quello15.

La seconda concezione che appare alla base del concetto di “grande spazio” è quella che collega il concetto di potenza (e di potere) di Max Weber e il “diritto” inteso qui come ordine. Scrive Weber definendola, che “la potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà”16. Nell’uso corrente fino a qualche decennio orsono erano chiamati potenze gli Stati, almeno quelli capaci di esercitare il comando all’interno e così tutelare la propria indipendenza, anche senza (o con minima) egemonia politica esterna. In termini fattuali è la capacità di far valere la propria volontà che determina l’essere potenza.

La quale applicando la formula di Spinoza tantum juris quantum potentiae determina i limiti fattuali delle potenze e quindi della capacità giuridica di esercitarli. Come scriveva il filosofo olandese “Se dunque la potenza per cui le cose naturali esistono e operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. “… Per diritto naturale io intendo dunque le stesse leggi o regole della natura, secondo le quali ogni cosa accade, vale a dire, la stessa potenza della natura; perciò il diritto naturale dell’intera natura, e conseguentemente di ciascun individuo, si estende tanto quanto la sua potenza17 (i corsivi sono miei). E nell’ambito del “grande spazio” è relativamente facile per la potenza egemone esercitarla. Del pari, per lo più, ha l’interesse a farlo, per le connessioni e i rapporti che la congiungono ai propri vicini o satelliti. Rispettare i quali è la condizione perché si consegua facilmente uno stato di pace. Assai più che cercare di imporre un’unità del mondo, senza che tale unità si possa conseguire in pace con l’unico modo storicamente possibile: mantenendo il pluriverso, conforme all’assetto d’interessi, potenze e rayas.

Cioè limitandolo e determinandolo con criteri oggettivi e facilmente percepibili ed applicabili. Perché come scriveva Schmitt, l’unità del mondo non è l’unità dell’ecumene, ma “della organizzazione unitaria del potere umano, il cui scopo sarebbe pianificare, dirigere e dominare la terra e l’intera umanità. È il grande problema se l’umanità è già matura per sopportare un solo centro del potere politico”.

Che vi sia una religione, una teologia di sostegno a un tale ipotetico centro, la quale abbia capacità di resistenza ad obiezioni e critiche elementari, Schmitt non lo crede. Non l’ideologia del progresso, dato che progresso tecnico e morale “non camminano insieme” (né tra i governanti, né tra i governati). Né può confortare il razionalismo, non foss’altro – aggiungo – perché vale sempre il giudizio di De Maistre che l’uomo “per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (onde la ragione non basta); oltretutto il progresso tecnico ha l’inconveniente di accrescere il potere del governo. Come scriveva Goethe “è pericoloso per l’uomo ciò che, senza farlo migliore, lo rende più potente”18. E non la si vede neppure oggi che in quel (tentativo/progetto) di unità del mondo stiamo ancora, anche se ormai pare volgere al tramonto. Dietro l’unità di un mondo dominato dalla potenza vittoriosa nella contrapposizione borghese/proletaria, occorre riconoscere che il pensatore di Plettemberg aveva visto bene il futuro politico: una nuova contrapposizione amico-nemico, una costante dicotomia terra/mare, una pace attraverso l’equilibrio di (e tra) grandi spazi. Cioè tutto il contrario di quanto diffuso dalla propaganda mainstream.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Trad. it. ne le Categorie del politico Bologna 1972 p. 167 ss.

2 Op. cit. p. 172

3 E prosegue “Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico. Quando il dato teologico-religioso cessò di essere il centro di riferimento, anche questa massima perdette il suo interesse pratico. Nel frattempo esso si è mutato, passando attraverso la fase della nazione e del principio di nazionalità (cujus regio ejus natio) , nella dimensione economica e ora dice: nel medesimo Stato non possono esistere due sistemi economici contraddittori; l’ordinamento economico capitalistico e quello comunistico si escludono a vicenda” op. cit. p. 172.

4 v. Attacco alla Costituzione ungherese in Nova Historica n. 67, anno 17, pp. 153-168, in particolare p. 164-165.

5 e continuando le citazioni dell’abate, tra le molte “Le nazioni della terra vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”

6 Anche Hegel sottolinea determinati diversi tipi di attività, e legando al mare lo sviluppo dell’industria e del commercio v. Lineamenti di filosofia del diritto, §247.

7 V. Il concetto di impero nel diritto internazionale, p. 27.

8 E prosegue “Una tale concezione non concerne uno spazio determinato ed unito né il suo ordinamento interno, ma in prima linea la sicurezza delle comunicazioni fra le sparse frazioni dell’impero”.

9 Trad it. Di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Giuffré, Milano 2007, pp. 491-503.

10 E prosegue “In effetto l’originaria dottrina Monroe americana non ha niente a che fare con i principi fondamentali ed i metodi del moderno imperialismo liberalcapitalistico. Come vera e propria dottrina dello spazio si trova anzi in pronunciata contrapposizione ad una trasformazione della terra in un astratto mercato mondiale del capitale senza tener in alcun conto lo spazio… Che una siffatta falsificazione della dottrina Monroe in un principio imperialistico del commercio mondiale fosse possibile, resterà per tutti i tempi un esempio impressionante dell’influenza inebriante di vuote parole d’ordine” Con l’interpretazione che ne dava W. Wilson “non intendeva all’incirca un trafserimento conforme del pensiero spaziale, non interventistico, contenuto nella vera dottrina Monroe, agli altri spazi, ma al contrario un’estensione spaziale ed illimitata dei principi liberaldemocratici alla terra intera ed a tutta l’umanità. In questo modo egli cercava una giustificazione per la sua inaudita ingerenza nello spazio extraeuropeo”, op. ult. Cit. pp. 493-494 (il corsivo è mio).

11 E continua che i due Roosevelt e Wilson avevano fatto “di un pensiero spaziale specificamente americano un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli, essi hanno tentato di utilizzare la dottrina Monroe come uno strumento del dominio del capitale anglosassone sul mercato mondiale”

12 Op. ult. cit., p. 503.

13 Con la nota problematica su quanto l’assolutezza si applichi all’interno e quanto lo possa essere all’esterno, ossia nei riguardi dei soggetti di diritto internazionale (Stati e “ordinamento in fieri” già distinte da Bodin.

14 v. Der Begriff des Politischen, trad it. Di P. Schiera ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 44.

15 Idealismo, che in concreto, è spesso la fusione di interessi e paternostri.

16 Economia e società, trad. it. di T. Bagiotti, MIlano 1980, p. 51. Poco dopo scrive “ Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (p. 52).

17 Trattato politico, trad. it. di A. Droetto , Torino 1958, p. 161.

18 I passi ultimi citati sono tratti dal volume L’unità del mondo ed altri saggi, curato da A. Campi, A. Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303 ss. Schmitt scrive, proseguendo “L’unità mondiale di una umanità organizzata solo tecnicamente fu anche per Dostoievski un tremendo incubo. Questo incubo si aggrava via via che la tecnica cresce. E che rimedio è ancora possibile oggi, date le enormi possibilità tecniche e la crescente intensità del potere politico?” .

DDL Zan, ANALISI TECNICO GIURIDICA DEL TESTO di Andrea Venanzoni, giurista, a cura di Elio Paoloni

DDL Zan, ANALISI TECNICO GIURIDICA DEL TESTO
di Andrea Venanzoni, giurista
La polarizzazione del dibattito sul ddl Zan sembra aver eradicato qualunque ipotesi di analisi seria, e tecnica, sul testo: è scomparsa – sommersa da accuse di omofobia, da un lato, e di distruzione della famiglia, dall’altro, di razzismo e odio elevato a sistema versus limitazione della libertà di espressione – la possibilità di riflettere sine ira et studio sugli eventuali problemi che quel testo di legge potrebbe ingenerare laddove approvato.
Si sono costituiti due fronti, contrapposti, irriducibili alla discussione tra loro.
E se un dibattito viene ridotto ai minimi, e farseschi, termini di un kitsch mediatico di starlette che si pittano il palmo delle mani, in una consistenza mantrica da stakanovismo post-sovietico virato alle cause di cui nulla si sa e di cui nulla si è letto, e dall’altro lato la difesa della libertà di espressione, quella vera, quella autentica, profonda, sostanziale, viene sub-appaltata all’oltranzismo cattolico, cessa di essere dibattito, e diventa solo teatrino, scaramuccia rusticana al coltello per accontentare le rispettive claque.
Il ddl Zan, diciamolo subito, è un testo di legge pericoloso. Sì, pericoloso: ha una impostazione generale regressiva e panpenalistica, culturalmente orientata a rispondere a un problema, reale o potenziale che davvero sia, mediante la criminalizzazione generalizzata.
Arriviamo da decenni di retorica sulla necessità di fuggire dalla pena, di de-criminalizzare la società, di superare la sfera punitiva, e poi quello stesso mondo “culturale” che si atteggia a progressista sforna provvedimenti meramente segnaletici, simbolici, sloganistici, più tesi, si direbbe, ad una captatio benevolentiae nei confronti di un certo mondo elettorale piuttosto che mirante al contrasto reale di un fenomeno grave ma dai contorni, in chiave di definizione giuridica, liminali e confusi.
È noto come l’attuale disegno di legge origini dall’intreccio e dall’incrocio di cinque precedenti testi, ciascuno dei quali con differenti sensibilità concettuali sottese e con una serie di presupposti non del tutto omogenei gli uni con gli altri, finendo per integrare una mera, incoerente, sommatoria tra i vari, piuttosto che una razionale sintesi. Un testo unico complessivo, ma frammentario e oleografico del contrasto alla violenza di genere.
E d’altronde, già leggendo la serie di definizioni contenute in apertura del ddl appaiono concetti che esulano del tutto dall’orizzonte del diritto innervandosi invece nelle prospettive della psicologia, della antropologia, della sessuologia, concetti accademici su cui ferve dibattito e scarseggia univocità definitoria.
Primo grave problema, visto che il ddl Zan prevede sanzioni di natura penale e il diritto penale è governato da una serie di principii garantistici tra cui figura la determinatezza della fattispecie e della norma incriminatrice: in questa prospettiva la evanescenza delle definizioni, dei beni giuridici sottesi e protetti è maglia larga che finisce per irradiare la sfera di punizione al di là della mera attitudine criminale materiale, l’atto di violenza, per involgere, al contrario, anche espressioni concettuali ed opinioni vertenti su aspetti non univoci.
Cosa è mai, infatti, l’identità di genere se non un concetto su cui ferve un acceso dibattito in sede accademica? Davvero si può trasformare in presupposto concettuale di una sanzione penale un elemento su cui manca sostanziale concordia e univocità tra gli esperti e gli studiosi e su cui la Corte costituzionale, pur richiamata da Zan, non ha preso posizione strutturata?
Si tratta di una potenziale deriva molto grave perché si rimetterebbe poi la specificazione concreta all’aula del tribunale, trasformando il giudice in una sorta di demiurgo capace di infliggerci una pena, grave, sulla base di idee personali prive di una rispondenza organicamente e coerentemente giuridica.
D’altronde, leggendo in maniera spassionata e priva di pregiudizi la lettera d) dell’articolo 1 si sperimenta un fremito di paura nell’apprendere che una persona potrebbe essere chiamata a rispondere di un reato in riferimento a “percezione” e “manifestazione di sé” della “vittima”: discriminare non in senso fattuale e sulla base di presupposti acclarabili, anche in termini di evidenze probatorie, bensì sulla base di elementi da foro interiore, psichici, soggettivi, inconoscibili dal lato del presunto “aggressore”.
Che cosa potrà mai significare in termini di punizione penale e di integrazione della fattispecie di reato discriminare sulla base della percezione che l’altro ha di sé stesso in riferimento al genere?
Se un uomo, in maniera apparentemente convincente, dichiara di identificarsi con una donna, senza alcuna apparenza biologica o transizione e io nego questo aspetto, magari perché gestisco una palestra solo femminile e non posso farlo accedere, potrei finire sotto la scure della inquisizione penale perché, magari, la persona per altri motivi suoi depressivi finisce per uccidersi? Sarei io l’istigatore di quel suicidio?
Oppure, senza dover arrivare a questa tragedia, se dovesse lamentare semplici disturbi dettati dalla mia “negazione” del suo percepirsi una donna, essendo ai miei occhi un maschio biologico e non potendo sapere io in maniera reale se lui davvero si percepisce come una donna, ne potrei comunque dover rispondere?
O ancora, per quanto paradossale possa apparire, sostenere il fondamento naturale della famiglia, come in fondo stabilisce anche l’articolo 29 della Costituzione, potrebbe arrivare ad integrare, nella confusione redazionale della norma incriminatrice, presupposto per farmi finire a doverne rispondere davanti gli inquirenti?
La Relazione che accompagna il ddl e che dovrebbe, condizionale davvero d’obbligo, spiegare la matrice e le scelte anche semantiche e concettuali adottate nella formulazione lessicale del testo non solo non aiuta a dipanare le nebbie ermeneutiche ma addirittura le aumenta e le complica: alla lettura infatti sembra di trovarsi al cospetto di uno di quei saggi post-strutturalisti da università californiana dentro cui si pasturano critical legal theories e costrutti che non sarebbero dispiaciuti a Deleuze e Derrida, e mi viene da chiedere come potrebbe tradursi in prassi giuridica e sanzionatoria, rispettosa dell’ordito costituzionale e della libertà, un concetto come “dimensione multipla o intersezionale della discriminazione”.
In fondo, l’articolo 4 del ddl, sotto l’apparente e suadente tutela del pluralismo delle opinioni spara ad alzo zero contro le opinioni sgradite, mediante una clausola introdotta dal “purché” a mente della quale viene punita l’espressione di frasi, concetti, scritti che potrebbero istigare o portare empiricamente ad atti discriminatori.
Siamo nel campo indefinito, ombroso, evanescente delle fattispecie istigatorie, concettuali: e come si sa, è un terreno molto sdrucciolevole visto che la tenuta processuale e penale del discrimine che separa libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente tutelata, da effettiva istigazione o discriminazione è più che labile.
L’odio stesso è una emozione, un sentimento, la sua giuridificazione un abominio. Noi possiamo punire la estrinsecazione materiale dell’odio quando esso si manifesta nella violenza concreta, empirica, misurabile e valutabile per tale, non se rimane una espressione concettuale e filosofica controversa. Diceva Karl Kraus che l’odio deve rendere produttivi, altrimenti è meglio amare: forse oggi rischierebbe pure lui l’incriminazione.
In questo senso, sembra riecheggiare un triste passato in cui romanzi, poesie, canzoni venivano portati in giudizio in quanto ritenuti ispiratori di fatti delittuosi.
Gli anni grigi e preoccupanti di Tipper Gore, della PMRC, degli adesivi ‘explicit lyrics’ appuntati sulle copertine degli album musicali, il processo contro gli AC/DC ritenuti, con la loro canzone Night Prowler, istigatori dei terribili delitti del serial killer The Night Stalker, al secolo Richard Ramirez. Un pernicioso puritanesimo di Stato pronto a far soccombere sotto il suo maglio qualunque, per quanto spigolosa, complessità.
Gran parte di quelli che oggi garruli, giulivi e festanti si dipingono ‘ddl Zan’ sulla mano, possono avere in cantina e nel repertorio qualche canzone o qualche scritto che potrebbe fungere da detonatore istigatorio di atti di violenza o di discriminazione. La fattispecie penale non è retroattiva, certo, ma loro quelle canzoni continueranno a proporle nei concerti, e comunque, è accaduto negli Stati Uniti, anche il mero album, il mero romanzo, pur riferiti al passato, potrebbero essere ritenuti istigatori e propulsivi dell’atto delittuoso nel contingente.
Immaginiamo una violenta aggressione e che l’arrestato dichiari in maniera reiterata di essere stato ispirato da una certa canzone, è possibile che l’artista si vedrebbe entrare nel cuore del processo per approfondimenti sul nesso di effettiva sussistenza della condotta istigatoria.
Intere discografie hip hop, hardcore e metal finirebbero al macero, può ben immaginarsi. Ma anche romanzi e saggi. Molti scritti proprio da omosessuali.
Certe scene di “Querelle de Brest”, di Fassbinder, o di “Tenderness of the Wolves”, di Lommel, potrebbero essere ritenute ispiratrici di delitti o di feroci discriminazioni, per non parlare poi di certi passaggi delle opere di un Jean Genet o di William Burroughs, questo ultimo addirittura ‘reo’ di aver scritto un romanzo “Queer” che rappresenta, con gli occhialini del politicamente corretto psicotico dell’oggi, una sorta di summa discriminatoria per il linguaggio scelto, essendo invece chiaramente e ovviamente l’esatto contrario di quanto verrebbe considerato oggi.
Fassbinder, Genet, Lommel e Burroughs per loro fortuna sono morti prima di assistere a questo surreale scempio, ma immaginiamo un autore vivente che potrebbe essere chiamato a rispondere penalmente di qualche sua pagina particolarmente controversa e indigesta per le vestali del politicamente corretto, a seguito della commissione di un fatto violento ‘omofobo’ ispirato a parole proprio da quelle pagine.
La patina dolciastra e semplificatrice del mondo immaginato da questo disegno di legge finirebbe per problematizzare e far finire sotto il metaforico tappeto gente come Cèline, Bukowski, Bunker, il Friedkin di “Cruising”, eradicando la bellezza cruenta dell’arte, la quale per essere davvero arte deve far male e far pensare, non essere accomodante.
Che vi piaccia ammetterlo o no, c’è arte eruttata dal ventre squarciato della storia proprio grazie all’odio, alla ferocia, al voler mancare di qualunque prospettiva compromissoria.
Al contrario, il grigio spirito di normalizzazione porterebbe molti ad auto-censurarsi per non incorrere in problemi di ordine legale, perché non si sa mai, ‘quel verso’ potrebbe aver ispirato l’aggressione omofoba commessa da un tale che non abbiamo mai visto né incontrato.
Vero è che il ddl Zan riproduce tutti gli schemi fallaci e altamente problematici che hanno ispirato altre norme sloganistiche, come ad esempio il pessimo ddl Gambaro in tema di contrasto alle fake news: alla fin della fiera, con quel disegno di legge si sarebbe istituita una autentica verità di Stato, come non si mancò di rilevare assai criticamente in dottrina, punendo qualunque forma espressiva dissonante rispetto ad una narrazione istituzionale approvata, come avviene nelle dittature, dal potere pubblico.
Insegnava Marc Bloch, il celebre storico francese fucilato dai nazisti e che alla propaganda di guerra e alle false notizie ha dedicato un bellissimo libro, “La Guerra e le false notizie”, come la vera resistenza al falso, anche crudele, sia la conoscenza, il dibattito vero e informato. Perché se concediamo allo Stato la comoda giustificazione del proteggerci, sarà poi assai plausibile ritenere che lo Stato stesso inizierà a imporre una sorta di racket delle idee, tollerandone alcune per mera convenienza (magari elettorale o di consolidamento del proprio status) e mettendone al bando altre.
In questo senso, ‘magistrale’, in negativo, la connessione che il ddl Zan opera con la legge Mancino, la legge recante la normativa contro l’istigazione all’odio razziale e già sottoposta anche questa a forte vaglio critico all’epoca per motivazioni similari a quelle espresse sino ad ora: lo schema concettuale è assai simile, si assommano e si fondono tra loro tutti gli elementi inaccettabili, e indifendibili, quali omofobia, neonazismo, odio razziale, per lasciar intendere che quelle norme non colpirebbero la libertà ma soltanto chi la libertà minaccia.
Criticate la legge Mancino e vi troverete additati quali nostalgici del Terzo Reich, nella stessa misura, è questo il giochino, analizzate in maniera critica e puntuale il ddl Zan e verrete descritti come feroci omofobi.
D’altronde, non sentiamo già ripetere “non vengono punite le opinioni ma solo l’omofobia”, o peggio ancora “solo gli omofobi devono averne timore”, uno stanco mantra privo però di sostanza e verità per tutte le motivazioni che abbiamo visto sopra?
Ma possibile, dico io, che a nessuno sia venuto in mente che il problema non è di politica criminale, bensì di politica culturale? Atteggiamenti retrivi e ignoranza non possono avere come sbocco fisiologico la galera. Bruciamo ogni scuola, ogni accademia, allora, perché ogni problema potrà essere affrontato (risolto non credo) dalle manette, da un processo e da qualche anno passato a rieducarsi dietro le sbarre.
Avete davvero innalzato metaforiche barricate per espungere dal nostro ordinamento l’osceno reato di plagio, in forza del quale venne condannato il filosofo Aldo Braibanti sulla base di asserzioni lombrosiane che colpivano appunto il pensiero, i comportamenti, le scelte e non i fatti, per poi riprodurne integralmente lo schema, solo rovesciato nel segno?
La mancanza di rispetto e di tolleranza, le idee ritenute a torto o a ragione ‘oscene’, non si combattono con la polizia e con la magistratura, ma col dibattito, civilizzando la stessa politica che da un lato predica continenza espressiva, rispetto, tolleranza e poi dall’altro si accapiglia in guerriglia verbale da lotta nel fango: date il buon esempio, invece di sbatterci in un inferno di repressione.
E datelo anche voi sostenitori del ddl Zan il buon esempio, incapaci di accettare che qualcuno la possa pensare in maniera diversa da voi, senza per questo dover essere dipinto come un disgustoso intollerante, e coperto di insulti, minacce, ingiurie in ogni profilo di social network.
Chi oggi usa violenza, la vera, reale, crudele violenza, lo sapete benissimo anche voi, è già punito dal nostro ordinamento. Quella che voi chiedete è una battaglia di cultura, educazione e di rispetto che però non si può portare avanti con il bastone della legge e il gelo di un carcere.
Dato che vi piace tanto parlare di ‘modelli tossici’, ecco, prendiamo la tossicodipendenza: il carcere ha migliorato davvero la situazione?
Non mi sembra. Proibizionismo, repressione, anzi, hanno notevolmente aggravato la situazione, ed è paradossale che le medesime forze politiche che a parole si sono proposte di superare la criminalizzazione della anomia sociale e di riportarla nell’alveo di una società inclusiva, adesso vogliano replicare quel modello repressivo, profondamente, intimamente sbagliato, contro chi viene frettolosamente rubricato come “omofobo”.
E questo, chiaramente, vale anche, a contrario, per chi oggi difende la libertà di parola assoluta e poi magari invoca la galera per il tossicodipendente o per chi detiene ridicole quantità di cannabis. Dimostrate coerenza, se vi riesce. Tutti.
Si dirà: esagerazioni. Se uno esprime una mera opinione, non andrà incontro a nulla e il ddl Zan mira a punire solo la vera, reale violenza. No, è una posizione sbagliata, superficiale o peggio puramente strumentale. Perché una volta approvato, divenuto legge, modificato il codice penale, una denuncia darà avvio ad un procedimento penale avente ad oggetto la vostra opinione, la vostra frase, il vostro saggio o romanzo, e il nesso diretto che potrebbe aver innescato un effettivo atto violento omofobo magari commesso da un altro soggetto, questo sì davvero violento.
E chiunque abbia una minima familiarità con le indagini penali sa benissimo che esse stesse sono una pena, una condanna prima ancora del rinvio a giudizio.
Sottoposti a gogna mediatica, a stress emotivo, a spese economiche, potrete anche finire archiviati ma intanto sarete passati per mesi nel tritacarne: e poi, un giudice per le indagini preliminari potrebbe ritenere che la genericità di quei concetti espressi nella legge meriti approfondimento dibattimentale, laddove magari possa darsi un confronto tra tecnici, esperti, accademici per capire se l’identità di genere, una volta definita in chiave processuale, sia stata violata davvero dalla vostra opinione, e in che modo.
È il trionfo della stabilizzazione dell’emergenza: si legifera sulla spinta incalzante della emotività, senza davvero ragionare in termini penalistici e gius-filosofici, senza valutare concretamente l’impatto che una data norma finirà per produrre nel cuore della nostra società.
Ogni singola legge approvata in questo Paese nel nome di una emergenza vera o presunta ha ingenerato esiziali fenomeni libertidici, asimmetrie e distorsioni di vario ordine e grado che ci hanno portato, passo dopo passo, a rinunciare a frammenti sempre più consistenti della nostra libertà. Una deriva inaccettabile e che nessuno dovrebbe passivamente subire, perché come ha scritto Baudelaire “è degno della libertà soltanto chi sa conquistarla”.
di Andrea Venanzoni, in Politica, Quotidiano, del 4 Mag 2021

RIPENSAMENTI

LA VERA RIVOLUZIONARIA È LEI, MIA MADRE: “HO AVUTO UN SOLO UOMO, TUO PADRE” ❤
OLIVIERO TOSCANI:
«Ieri mia madre mi ha detto: “Ho avuto un solo uomo, tuo padre”. All’improvviso si sono sgretolati anni e anni di liberazione sessuale, di convincimenti libertari, di mentalità radicale. Tutto quel che avevo creduto una conquista civile si è ridimensionato di fronte a quella semplice affermazione: “Ho avuto un solo uomo, tuo padre”. Sono stato messo di fronte alla debolezza di ciò che credevo essere la modernità, con la forza di chi afferma un principio antico, senza la consapevolezza di essere, lei sì, la vera rivoluzionaria. Mi sono domandato: sono più avanti io che ho vissuto e teorizzato il rifiuto del matrimonio, l’amore libero e i rapporti aperti o lei che per una vita intera è rimasta fedele ad un solo uomo? Senza essere Gesù Cristo mi sono sentito il figlio di Dio e mia madre mi è apparsa come la Madonna: in modo naturale, come se fosse la più ovvia delle cose, lei ha impostato tutta la sua vita su concetti che oggi ci appaiono sorpassati, ridicoli: la felicità, l’onestà, il rispetto, l’amore. Mentre penso che non c’è mai stata in lei ombra di rivendicazioni nei confronti del potere maschile mi rendo conto che non esiste nessuno più autonomo di lei. Nessun senso di inferiorità l’ha mai sfiorata, perché le fondamenta della sua indipendenza erano state scavate nei terreni profondi della dirittura morale, della lealtà, della giustizia, dell’onore e non sulla superficie di ciò che si è abituati a considerare politicamente corretto. Il rispetto e la timidezza con cui guardava mio padre e l’educazione che mi ha dato a rispettarlo non avevano niente a che vedere con le rivendicazioni dei piatti da lavare.
Mia madre non si è mai sentita inferiore perché ci serviva in tavola un piatto cucinato per il piacere di accontentarci e di farci piacere; o perché lavava e stirava per farci uscire “sempre in ordine”. Sono consapevole che sto esaltando il silenzio e quella che le femministe hanno drasticamente definito sottomissione. Ma non posso fare a meno di interrogarmi sui veri e falsi traguardi dell’emancipazione, su ciò che appartiene ai convincimenti profondi e su ciò che non è altro che sterile battibecco. Nella ricerca dei valori che dovrebbero educarci a un’etica meno degradata di quella improntata al principio del così fan tutti, mia madre è un esempio di anticonformismo e di liberazione: lei è davvero affrancata dagli stereotipi e dai bisogni indotti della società massificata. Per conquistare obiettivi importanti e sicuramente oggi irrinunciabili siamo stati costretti ad abdicare alla nostra integrità. Noi abbiamo perso la “verginità”, non lei.»
(Non sono obiettivo, Feltrinelli 2001)

 

Il vento di Bibbiano_ne parliamo con Francesco Cattani e Paolo Roat

Per anni la gestione degli affidamenti dei minori ha potuto procedere sotto traccia, come un fiume carsico. Troppi anni che hanno permesso il consolidarsi di una fitta rete ispirata da linee di condotta intrise di atmosfere orwelliane. Una rete che si è nutrita di tragedie, forzature, connivenze a volte consapevoli a volte no, comunque giustificate da una vera e propria interpretazione patologizzante di un numero abnorme di comportamenti oggetto di terapie traumatiche e destabilizzanti, piuttosto che di protocolli educativi calibrati con la necessaria cautela. Una rete ben allignata in settori delicati dello Stato e della società. Il caso di Bibbiano si è librato come un vento in grado di sollevare la troppa polvere che ha coperto sinora pratiche che, coperte dall’aura di una nobile missione, definire scandalose è riduttivo per la loro dimensione e per la tragica “normalità” nel tempo durante il quale continuano a perpetuarsi sino ad alimentare una vera e propria “filiera psichiatrica” 

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vgrt3x-il-vento-di-bibbiano-italiaeilmondo.com-ne-discute-con-francesco-cattani-e-.html

Covid 19_Lettera al Presidente, del dr Giuseppe Imbalzano

Il male non è soltanto di chi lo fa, è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce.
Tucidide
Ill.mo Sig. Presidente.
Mi rivolgo a Lei perché molto di quanto debba essere fatto per mitigare la diffusione di questa epidemia non viene messo in atto.
Sono stato direttore sanitario di più aziende sanitarie in Lombardia, tra cui Lodi e Bergamo. Ho predisposto più piani di emergenza e il piano pandemico della influenza H1N1, attuandolo poi nello sviluppo degli interventi di mitigazione e gestione dei servizi sanitari specifici.
Sarò molto semplice nelle considerazioni. Posso fornire la documentazione relativa per dare atto di quanto scrivo in questa breve presentazione. Se mi verrà fornito un indirizzo mail invierò il libro “Il Covid 19-I costi del non fare o del non fare bene” e alcuni articoli in cui ho cercato di identificare tutti gli errori e gli elementi critici che hanno determinato questo disastro epocale che, purtroppo, non è ancora concluso. E che non si concluderà con la vaccinazione se non della intera popolazione.
La mancata capacità di gestione e di governo di questa infezione, che è comunque gestibile (come dimostrato da più nazioni dove l’epidemia è ben controllata), è correlata ad errori gravi che sono stati perpetuati nel corso di questi 15 mesi di disastro sanitario, economico e sociale.
La carenza di esperti di governo delle attività sanitarie territoriali e ospedaliere, della organizzazione e gestione delle criticità relative alle esigenze assistenziali, crea certamente un difetto nella riorganizzazione degli interventi e nella risposta coerente a tutte le esigenze che si manifestano e alle risposte che devono essere garantite per ridurre la diffusione epidemica.
È stato dimostrato che oltre il 50% dei nuovi casi (in Cina era superiore all’80%) avviene in famiglia, non durante gli incontri familiari sporadici, ma per la presenza di un singolo malato che poi diffonde la malattia agli altri componenti della famiglia. L’errore, gravissimo, è stato quello di utilizzare lo stesso modello, l’isolamento fiduciario domiciliare (l’assistenza del malato in isolamento fiduciario è la norma per i malati infettivi delle infezioni endemiche per le quali gran parte della popolazione è protetta, vaccinata o ha avuto le infezioni, come esempio le infezioni infantili), per una infezione che interessa una popolazione vergine con la relativa immediata diffusione (l’indagine Istat pubblicata in agosto indica le principali linee di trasmissione infettiva e individua nel 60% la trasmissione intrafamiliare).
Non voglio parlare di aperture o chiusure dell’Italia, ma di cosa debba essere riorganizzato nella gestione della epidemia, che è stata, ed è, la maggiore causa di questa condizione di tragedia che si sta protraendo ormai da oltre 15 mesi.
La riapertura delle attività in Italia pone gravi rischi, ed è la situazione economica a governare tale scelta, con molte distorsioni rispetto a quanto sia necessario fare.
Ma molte azioni sono mancate e mancano.
Le enumero e sono a disposizione per illustrare e approfondire
• La comunicazione è stata ed è del tutto inadeguata, il “dirigismo” non educa e crea reazioni incontrollate e prive di razionalità
• I Cittadini ancora non hanno compreso cosa sia questa infezione e come si diffonda e come evitare di diffonderla e di ammalarsi
• Mancano i piani operativi corretti locali e regionali per la gestione di questa epidemia
• Non riusciamo a prevenire i contagi
• Non siamo arrivati a tracciare e a interrompere la catena di trasmissione del virus
• Non riusciamo a testare i sintomatici e rintracciare i loro contatti in modo completo
• Non riusciamo ad assistere in modo adeguato i malati non ricoverati in ospedale, separandoli dai sani, e garantendo un rientro in famiglia solo quando il paziente è completamente guarito e non infettivo
• Non riusciamo ad individuare ambienti in cui assistere i possibili contatti da mantenere in quarantena e ad avere sufficienti luoghi di ricovero extraospedaliero per non creare cluster familiari, che, come abbiamo visto, hanno determinato quasi il 60% dei nuovi casi
• L’attivazione di USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), mediche ed infermieristiche ambulatoriali e domiciliari, in sostituzione della medicina generale classica per pazienti affetti da patologie infettive trasmissibili, non è stata completa e ben distribuita su tutto il territorio regionale e nazionale.
• Non abbiamo la garanzia che il 100% dei pazienti sia assistito adeguatamente in ambienti protetti per evitare ulteriori infezioni senza la creazione di cluster familiari o locali
• Sono stati distinti gli ospedali e le strutture sanitarie indirizzate unicamente ad attività di ricovero per malati infettivi senza creare, in alcun modo, ospedali misti?
• Il personale sanitario è garantito nella propria attività quotidiana, evitando ambienti sociali in cui è possibile la diffusione infettiva?
• Le informazioni e l’educazione dei Cittadini è adeguata e possiamo essere certi che i messaggi di protezione individuale e di prevenzione della infezione siano stati compresi e applicati? Ancora oggi le persone non sanno portare la mascherina in modo adeguato
• Il materiale di protezione è disponibile e garantito e ha un costo accettabile?
• È stato distribuito a tutti i cittadini non in condizione di acquistarlo (vediamo molti Cittadini con le stesse mascherine che usano ormai da mesi)?
• Le regole che sono state indicate sono sufficienti e sono state esposte in modo adeguato a chi dovrebbe seguirle?
• Viene garantito il controllo delle regole?
• Qual è il modello di gestione della comunità in attesa che sia dispensato a tutta la popolazione il vaccino e siano disponibili terapie adeguate, considerato che è indispensabile, durante e dopo la vaccinazione, mantenere un comportamento rigoroso per evitare nuovi cluster infettivi?
• La popolazione a rischio, anziani, malati cronici, immunodepressi, soggetti fragili, etc. è sufficientemente protetta e garantita?
• È garantita particolare attenzione alle esigenze sociali e cliniche dei pazienti fragili, non Covid, a domicilio per permettere di svolgere una assistenza che non conduca alla necessità di ricoveri ospedalieri?
• Considerato che dobbiamo attenderci nuove recrudescenze del virus, come dobbiamo operare per garantire l’intera popolazione e quella più suscettibile a subire i danni più gravi determinati dal virus?
• È stato attivato un servizio di sorveglianza e follow up dei malati che sono stati affetti da Covid?
Il nuovo modello di gestione “a colori”, in vigore da novembre, ha ridotto e controllato effettivamente il numero di casi o ha indotto comportamenti opportunistici che hanno consentito alle Regioni di ridimensionare la casistica effettiva delle infezioni e ottenere un riconoscimento “sbiadito” della colorazione delle proprie Regioni?
Valutazioni internazionali indicano come in Italia i casi effettivamente individuati sono circa il 50% di quelli effettivamente presenti (IHME Italy covid-19 results briefing April 15, 2021).
Dalla mia analisi personale alcune Regioni hanno percentuali di ricoverati pari al 2% mentre altre superano il 15% dei malati, condizione del tutto irrealistica e non coerente con questa infezione. Alcune Regioni hanno un comportamento di estremo rigore mentre altre tendono ad “alleviare” quantitativamente le proprie situazioni epidemiche. La tensione alla riapertura dei bar supera la responsabilità ad evitare nuove infezioni e nuovi decessi e sono del tutto inaccettabili. Solo l’eliminazione del virus potrà consentire un ritorno alla normale vita per tutti noi
L’indice individuato (250 casi per 100 mila abitanti a settimana, corrispondono a circa 7 milioni di casi all’anno, con un denominatore che resta sempre di 60 milioni mentre tra popolazione vaccinata e che ha avuto il covid (in totale oltre il 20% della popolazione) dovrebbe portare ad un denominatore di 45- 48 milioni di Cittadini. Questo limite porta ad una proiezione di mortalità di oltre 140 mila persone, come limite per la sospensione delle attività. Non è certo coerente con una garanzia di sicurezza e rappresenta un elemento di elevata criticità per i Cittadini. In Germania il limite è di cento (100) casi per centomila abitanti, solo per fare un confronto
Le vaccinazioni sono diventate un elemento non sempre gestito adeguatamente. Il mancato coinvolgimento, costi quel che costi, dei medici di famiglia, coadiuvati da volontari per l’organizzazione, oltre a rendere disponibili oltre 50 mila operatori, la selezione dei vaccinandi e la risposta positiva della popolazione sarebbe stata ben più elevata, non creando molte delle criticità che sono in atto e non dimenticando soggetti “fragili” come neoplastici, diabetici etc. anche di giovane età. E invenzioni organizzative non sempre condivisibili.
Questi sono molti degli errori e delle criticità che sono in atto e che vanno modificati per poter ridurre da subito i casi di infezione e garantire un ritorno alla normalità che tutti ci attendiamo. E poi un consolidamento della riduzione dei casi sino all’eradicamento di questa infezione.
Ci sono anche altri problemi, che sarebbe bene approfondire e modificare per ovviare a quanto sta accadendo e alla confusione attuale, senza prospettive di risultato, che abbiamo in atto in questo periodo.
Se potrò trasmettere qualche altro documento saranno chiare anche le modalità operative per gestire diversamente quanto sta accadendo (e perché non si risolve) la situazione epidemica in atto.
Sono a Sua disposizione per ogni eventuale chiarimento e approfondimento. Sottolineo che i nostri organismi scientifici mancano di figure operative e che conoscano il sistema e la gestione territoriale, con le conseguenze che la lettura che viene messa in atto non sempre corrisponde alla realtà presente.
Con il massimo ossequio
Giuseppe Imbalzano

Storielle che fanno la Storia, di Pierluigi Fagan

Un po’ troppo semplice, ma efficace_Giuseppe Germinario
RACCONTANDO STORIE … duemilacinquecento anni fa, un manipolo di sacerdoti in esilio, butta giù un testo scritto che raccoglie una serie di leggende a cui altre vengono aggiunte pescando nel milieu narrativo babilonese. Raccontano che esiste un popolo, un popolo di pastori seminomadi che finalmente avevano fatto un piccolo regno stanziale, poi fallito, e che quel popolo è il prescelto da un tizio che in una settimana ha creato il mondo, anzi sei giorni più uno di riposo. Questi pastori mediamente ignoranti ci credono e nella misura in cui tutti loro credono alla stessa storia, ecco che davvero si forma un popolo. Un popolo che, unico caso nella storia umana, non ha una terra e pure persiste nella sua auto-convinzione di identità, forse superiorità, razziale, per duemilacinquecento anni. Solo perché tutti credono alla stessa, per quanto incredibile, storia.
Raccontando storie, altri sacerdoti che pescano in un canone dall’incerta formazione, convincono i poveri di mezzo Mediterraneo, che “popolo” va inteso in senso largo, non razziale o etnico. Basta credere tutti di essere popolo di Dio e siamo tutti popolo di Dio! La cosa frutta una certa mal precisata forma di vita eterna, promessona, voliamo alto, altro che. La cosa funziona, ci credono in molti, tanto che ad un certo punto le élite romane del tempo, debbono a loro volta far finta di credere alla storia perché avranno anche armi e soldi quindi potere, ma se ciò che è nella testa del popolo è diverso da quello che dicono loro, non potranno a lungo rimanere la loro élite, armi e soldi poco fanno col potere della credenza condivisa.
Più tardi, un mercante forse affetto da crisi epilettiche, nota di appartenere ad un gruppo etnico che non si pensa come popolo, proprio com’erano gli ebrei dell’origine. Va spesso a Damasco, nota che ci sono i cristiani su fino all’Anatolia, ci sono i Persiani ai tempi sasanidi. Gli uni e gli altri spadroneggiano su quelli del suo gruppo che però non si pensa ancora come gruppo, e non si pensa come gruppo perché non ha una storia condivisa nelle molte menti. Così gliela dà ed inventa gli arabi e poi i sottomessi a Dio (muslim). Oggi sono 1.600.000.000 quelli che credono a quella storia e crescono incessantemente. Funziona alla grande.
A parte i primi, gli altri due passeranno molto tempo a litigare al loro interno su chi è più conforme alle definizioni fondative e chi meno, ma passeranno anche più tempo a convincere altri che è bello appartenere al loro stesso modo di pensare, più siamo meglio è per tutti! Sebbene predichino la fratellanza universale, uccidono, massacrano, violentano, muovono possenti eserciti, incoronano re e califfi, supportano vari tipi di poteri gerarchici locali, mille ed un modo per sottomettere i Molti ai Pochi di cui loro curano la narrazione. Nella misura in cui molti credono a quelle storie, nella misura in cui condividono quello che hanno in testa, agiscono come un sol uomo, ordinati, corali, coordinati, asserviti anzi auto-asserviti.
I primi, invece, se la passarono così, così. Non tanto con gli islamici la cui storia è molto copia-incolla con quella vetero-testamentaria e con cui il mercante ha convissuto molti anni a Medina prima di fargli guerra rompendo la fratellanza (cuginanza, forse) originaria, quanto con i cristiani che pensano di seguire una versione di Dio detta Cristo mentre gli altri due inorridiscono a questo cripto-politeismo fatto di ipostasi, santi, trinità e pasticci narrativi figli di commistioni neo-platonizzanti di ambienta caucasico-siriano-caldeo forse pure con spruzzi di ermetismo egizio. Da quella parti la storia è un racconto incredibilmente complicato e pure bellissimo. Ostracizzati in mezza Europa si rifugiano dagli arabi, alcuni però resistono fino a quando tornano in auge perché gli inglesi del Seicento vengono colti dall’illuminazione e cominciano a raccontarsi tra loro la storia che sono proprio loro, gli inglesi, il nuovo popolo eletto. Poiché gli altri erano anche banchieri e la cosa interessa molto il popolo dei mercanti inglesi, li invitano a migrare da loro. Successivamente, anche gli inglesi oltreoceano, cominciano ad un certo punto a sentirsi “popolo eletto” e ricevano con piacere questo antico popolo che nel frattempo, oltre che nella gestione dei denari, s’è sempre più specializzato nel raccontare storie. Un popolo figlio di un racconto che dice del tizio che in pieno delirio creativo creava tutto ed il suo contrario solo nominandolo per cui “In principio era il Verbo”, va da sé che si convince dell’importanza della parola, della frase, del racconto, della storia narrata più che di quella vissuta davvero. Diventano allora professori, giornalisti, scrittori, molti sceneggiatori, psicoanalisti, prendono una specie di monopolio del narrativo.
Raccontando storie una intera civiltà s’è convinta di esser il vertice del progresso umano, anche se ancora settanta anni fa s’è ammazzata in mille ed un modo al suo interno facendo un centinaio di milioni di morti ammazzati. Gente che, come per altro è successo per secoli e secoli, s’è convinta del principio anti-biologista per cui è bene morire per qualcosa, esser un eroe, salvare la Patria, difendere la credenza condivisa, uccidere chiunque sia Altro solo perché Altro. Con i sacerdoti che benedivano le armi, i morti, giustificavano i massacri anche solo col silenzio poiché in contesti in cui vigono le storie, anche i silenzi raccontano e dicono.
Dentro questa “civiltà”, alcuni si sono innamorati della storia che la società tutta funziona meglio perché il lattaio ed il macellaio sono egoisti e perseguendo il loro avido egoismo ci portano carne e latte tutte le mattine sotto casa evitandoci la mucca in cucina che a parte casa Bersani, è un po’ un ingombro.
Altri si son dati un gran da fare a convincere tutti gli altri che vivono in società dalla convenzione politica di tipo “democratico” e via Pericle, Partenone, Platone (pensa te che confusione, uno dei massimi e più sofisticati teorici antidemocratici), non ci possiamo certo lamentare perché è auto-evidente che viviamo nel migliore dei mondi possibili ed anzi, dovremo darci da fare a liberare il mondo intero, uccidendo, torturando e violentando per portare a tutti la democrazia. Mica siamo egoisti no? Noi siamo “universali”. Chiamano democrazia una evidente oligarchia ma chi se ne frega, mica è venuto fuori un manipolo di filosofi politici a dirgli “oh ragazzi, ferma un attimo, qui parola va da una parte e cosa dall’altra, fate casino così”. No, i filosofi politici erano appresso ad altre storie, come tutte le élite si interessano poco di come evitare che nelle società si formino élite. A parte uno svizzero, ma si sa gli svizzeri sono una cosa a parte. C’è conflitto di interessi anche nei filosofi, peccato dovevano esser i guardiani della riflessione ma si vede che non hanno ben chiaro il concetto. Capita.
Uno di loro ha l’intuizione di dire che tutte queste storie sono storie, sono false, riflettono solo interessi di potere, il che è per lo più vero anche se la faccenda non è del tutto così semplice. A sua volta racconta una storia, ma il pregiudizio verso le storie in generale (il tizio era di origine ebraica tra l’altro e non c’è nulla di peggio di ebrei che odiamo l’ebreitudine) gli fa azzeccare alcune cose ed altre molto meno. I suoi seguaci continueranno a svalutare ogni tipo di storia perché il mondo non va avanti per ciò che la gente ha in testa, no. Infatti tutti i potenti del mondo e della storia stessa sono un branco di imbecilli poiché per secoli e secoli, la loro prima preoccupazione è stata controllare le storie. Dalla biblioteca di Alessandria, allo sterminio dei dotti confuciani con rogo di ogni copia dei Lun Yu, le storie che non si potevano controllare andavano fisicamente distrutte. I linguaggi esoterici, il possesso esclusivo della scrittura, il possesso degli archivi, il diritto a pensare, a narrare, a salire sul pulpito o alla radio o alla televisione, oggi Internet, forgiare interpretazioni, far scomparire fatti solo perché non li si nominano e quindi non esistono, dare i nomi, stabilire i concetti, dettare le agende, forgiare i modi pensare, le logiche, le conoscenze. Chissà perché?
Non importa se dal Chiapas o dalle comunità andine, alle donne del Kerala che con un indice di istruzione del 99% sono l’unico posto in cui gli indiani hanno messo sotto controllo l’eccessiva esuberanza riproduttiva, dalle teorizzazioni sull’istruzione popolare di base di Condorcet all’”Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” di Gramsci, ogni volta emancipazione fa rima con istruzione. No, non importa, le storie non sono cose serie, la pressa con l’olio che gronda e l’altoforno sono cose serie.
Le società sono fatte di individui, gli individui agiscono mediando intenzioni e reazioni con ciò che hanno in testa. Lì c’è il giusto e lo sbagliato, il vero ed il falso, il ciò che si può pensare e dire e ciò che non va pensato e detto. Ed è in base al funzionamento di questo labirinto di sensi unici e vietati che si giunge all’azione. Controlli il labirinto, ci metti dentro il Minotauro, è fatta, controlli il mondo.
Abbiamo bisogno di nuove storie. Segnalo questo libricino solo per chiudere il post di oggi, ha le sue ingenuità e superficialità, non lo segnalo perché folgorante. Però ha il merito di porsi questo problema, il problema delle storie che ci raccontano ed a cui crediamo anche quando sono pazzescamente false, più di quanto possiate immaginare. Ed anche il problema di quali storie invece ci converrebbe darci per sfuggire al dominio coatto di quelli che infilandosi tra le tue sinapsi, dominano il tuo stesso essere nel mondo insegnandoti pure a dire che è giusto così perché così è sempre stato e sempre così sarà.
Giorno di liberazione, mi sembra tema appropriato. Auguri.
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