INTERVISTA AD ORLANDO (VITTORIO EMANUELE), di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA AD ORLANDO (VITTORIO EMANUELE)

Nubi minacciose si addensano sulla legge Severino: lega e radicali la vogliono – dice la stampa- abrogare per referendum. Un’invadenza inammissibile e sguaiata della volontà popolare in una materia (e vicenda) riservata alle élite. Allo scopo di farcela chiarire, abbiamo chiesto un’intervista ad Orlando, cioè a Vittorio Emanuele (e non al ministro PD) autorevolissimo statista e giurista. Ci è parso il più titolato a discuterne. E gentilmente ce l’ha concessa.

Caro Presidente che ne pensa della giurisdizione “politica” (e ordinaria) nei confronti delle massime autorità dello Stato?

Che ho scritto proprio della massima, cioè, ai miei tempi, quella del Re. Questi è inviolabile e ciò “significa che la persona del monarca non è soggetta ad alcuna giurisdizione; o, in altri termini, non esiste nello Stato alcuna autorità o potere capace di esercitare un’azione coercitiva sulla persona del Re. Il che importa, pure, che Egli non può sottostare al comando di alcuna autorità, non potendosi dare, nel campo del diritto, un comando che non sia assicurato da sanzioni coattive”. Se c’è un potere che “comanda” al Re o a similari “organi sovrani” significa il sovrano è colui che giudica e non chi è giudicato.

Ma così si crea un potere irresponsabile.

Ed è inevitabile: “un aspetto della nozione di inviolabilità dà luogo al concetto di irresponsabilità politica…Quanto poi a tutta la giurisdizione penale, poiché essa dà sempre luogo, in atto o in potenza, ad una coazione fisica, esercitata sulla persona, la norma dell’inviolabilità importa che il Re non può mai esservi sottoposto. Il che significa che, astrattamente, il Re potrebbe commettere un reato e restare impunito… ” per cui il principio onde il Re è sottratto ad ogni giurisdizione è imposto da una assoluta necessità; “poiché ognun vede come quell’autorità (per es., un giudice istruttore), che potesse disporre con un suo ordine della libertà e della persona del Capo dello Stato, avrebbe virtualmente un potere superiore; non sarebbe possibile distinguere l’arresto del Re dalla destituzione di esso. Il che importerebbe una contraddizione anarchica, poiché il Re non sarebbe più un Organo Supremo, ed anzi il Capo dello Stato il quale, per ciò stesso, non può nello Stato ammettere alcun superiore”.

Potrebbe spiegarcela più in dettaglio?

Certo. L’irresponsabilità può “considerarsi innanzi tutto da un punto di vista di ordine politico e poi da un punto di vista giuridico. Politicamente pare che abbia un’elevata ragione e risponda ad un interesse pubblico gravissimo il sottrarre la persona” del “sovrano” sia a censura diretta che ad “attriti pericolosi fra i più elevati poteri pubblici, che potrebbero poi degenerare in un dissidio irreparabile, col danno o della libertà dei cittadini o della forza dello Stato”. E poi vi sono altre forme di responsabilità che già Benjamin Constant considerava più consone alla natura del rapporto e della funzione.

Ma oltre che al Re, come Lei ha scritto, si applica anche agli “organi sovrani” dello Stato, al Parlamento per primo.

Come ho sostenuto questa è una specie particolare della “questione generale della natura dell’immunità parlamentare in relazione con la teoria degli organi sovrani”.

Ma così la giustizia non è più uguale per tutti…

Dicono nei talk-show. Ma se lo fosse non esisterebbe più lo Stato, come pensava un mio collega francese. La realtà è che ogni istituzione politica si fonda sul presupposto del comando/obbedienza, che ovviamente è un rapporto tra disuguali.

Perciò ritengo che è normale che in ogni regime politico vi sia un tale tipo di diseguaglianza. Questa è la regola e non l’eccezione e cioè “che le immunità parlamentari sono da considerarsi non come diritto di eccezione ma facciano parte, invece, del diritto comune e quindi si pongano in via di regole generali ed anzi come capisaldi di tutto l’ordinamento giuridico, dato, si intende, lo Stato rappresentativo”. Ossia quello che voi chiamate “democratico-liberale”.

E la storia dimostra che, pur contestato e anche se lesivo del principio di eguaglianza, in regimi democratici, il principio dell’immunità degli “organi sovrani” è stato sempre vigente “Questa forza di resistenza del principio… basterebbe da sola ad attestare la necessità del suo riconoscimento; possiamo aggiungere ora che vale a dimostrare che quel principio si pone come una condizione dell’istituto parlamentare, ed ha quindi in ciò il titolo di un vero e proprio diritto comune per quegli Stati il cui ordinamento su quell’istituto si fonda” come la vostra Repubblica.

E la ragione, ancor più per un regime democratico, è duplice: se non fosse la volontà popolare a decidere chi comanda, ma un ufficio giudiziario, sarebbe anche leso il principio che, in democrazia, è il popolo a eleggere (e non confermare) da chi vuol essere governato.

Per cui?

Meglio che sia il popolo e non altri a deciderlo. Come scriveva Machiavelli “i pochi sempre fanno a modo de pochi”. Per cui è meglio che lo facciano tutti.

Teodoro Klitsche de la Grange

La vena malinconica del varietà, di Roberto Buffagni

Qualche buontempone ha fondato la Federazione Italiana Grigliate all’Aperto.
Come sempre quando le cose vanno molto male, l’Italia si rifugia nel comico.
Com’ è triste, il comico italiano!
Da trentacinque anni faccio regolari immersioni nel mondo sommerso del Varietà e dell’Avanspettacolo, frequentandone piani nobili e chambres de bonne ormai eguagliati dalla morte, “ ‘a livella”, nella formula dell’ultimo Imperatore di questa Atlantide italiana, principe Antonio de Curtis. E’ solenne e ammonitorio, un quasi mezzo secolo: vediamo di ricavarne qualcosa…non so, un giudizio, una conclusione, una morale…
Ed eccola qua la morale: com’è bello e com’è triste, il comico italiano!
Che sia bello, non ci vogliono trentacinque anni per arrivarci. Guardatevi qualche vecchio spezzone di varietà in televisione, e ci arrivate in cinque minuti. La tristezza, invece, sta più in profondo, e per arrivarci ci vuole lo scafandro di un po’ di pazienza e di pensiero.
Le prime bucce di questa cipolla di tristezza sono quelle universalmente note dei lustrini che si sfaldano come forfora dall’abito di luce delle soubrette, del lusso in scena con fame nel backstage, dei denti del capocomico che in scena lampeggiano di sorrisi e in camerino addentano le ballerinette, del pubblico che in teatro sogna i grandi amori e all’uscita degli artisti allunga le mani e sbava, etc., etc.
Per esser triste è triste, ma qui restiamo nell’ Allgemeine Menschliche: lo scettico cafard apres la fête, il dialettico nesso maschera/volto, il melodrammatico cuore che sanguina mentre il carnevale impazza (“Ridi, pagliaccio!”), e volendo, anche lo scolastico sabato del villaggio. Insomma, restiamo sul generico, e non c’era bisogno di quasi mezzo secolo di pensierini della sera per arrivarci.
C’è invece un nocciolo di tristezza, nel Varietà e nell’Avanspettacolo italiani (e appena avvertibile col senno di poi nella grande forma drammatica da cui discendono entrambi, la Commedia dell’Arte) che è loro proprio: un nocciolo di tristezza italiana. Non faccio il misterioso e ve lo dico subito.
Il Varietà italiano è triste perché è solo: ed è solo, solo come un cane in chiesa, solo come un uomo in punto di morte, solo come un orfano, perché gli manca la tragedia.
Il posto del comico (come genere drammatico e come attore) è il posto del servo. “Tieni fame? Tieni freddo? Tieni paura? Allora puoi fare il comico.” sentenziava Totò, ed è così dai tempi di Aristofane e di Plauto. Il cibo, il calore e il coraggio li ha il signore: e infatti, è a lui che spetta il tragico.
Avendo il cibo assicurato, il calore di una casa avita e il coraggio ereditario, al signore, al tragico signore spetta un altro monopolio, che sul piano drammatico conta ancor di più: il monopolio del senso, della creazione di una storia con un principio, un mezzo e una fine; insomma, la sovranità sull’ordine.
Al servo, al comico servo cosa resta? Gli avanzi. Gli avanzi del cibo, del calore, del coraggio, e dell’ordine: la fame, il freddo, la paura; e la sovranità sul disordine, il frammento, il carnevale: insomma, la fantasia comica. Il Varietà si chiama così perché è composto da una varietà, una molteplicità slegata di frammenti drammatici, con giudiziosa modestia chiamati “scenette”.
E’ una distribuzione di ruoli classica, che in conformità all’atteggiamento classico “preferisce l’ingiustizia al disordine” (Goethe). Il comico servo potrà raggirare e imbrogliare il tragico signore, e anche deriderlo quando non è all’ altezza del suo ruolo; ma sarà sempre il signore a decidere l’ordine della storia e della vicenda drammatica.
Ma – e qui veniamo al dunque, al dunque italiano – se il signore non c’è? Se non c’è il tragico, il comico che fa? Come va a finire?
In Italia, infatti, e basta consultare le storie della letteratura e del teatro, il tragico non si può fare. Quando lo si fa, come lo si è fatto per esempio nel Seicento, è una esercitazione letteraria di corte, e non ci crede sul serio nessuno, né chi lo fa né chi vi assiste; e Alfieri è un grande uomo che parla da solo, dialogando con le ombre dei morti eroi: meglio delle figurine Panini, ma purtroppo i morti eroi riprendono vita sulla scena solo quando il pubblico sente l’impellente bisogno di avere degli eroi vivi.
Non è che qui manchino le capacità letterarie: a scrivere tragedie ci ha provato anche Manzoni, non proprio l’ultimo venuto, e ha saputo fare solo la tragedia della rinuncia all’ azione (l’Adelchi). E’, molto semplicemente, che per fare tragedia bisogna rappresentare credibilmente la sovrana libertà del signore alle prese con decisioni di vita e di morte che riguardino lui, e con lui tutta la comunità; per farla corta e semplificare, le decisioni politiche prese in stato d’emergenza, le decisioni che fondano la legge quando la legge scritta non c’è o non parla più.
Prova a contrario uno: l’unico genere drammatico che si avvicini alla tragedia, in Italia, sono le storie di mafia et similia. Dove l’eroe, in effetti, prende sovrane decisioni di vita e di morte che riguardano lui e tutta la sua comunità; peccato che la sua comunità di masnadieri non possa proporsi come comunità di tutto il popolo. Prova a contrario due: ne “Il mestiere delle armi”, un film di grande accuratezza scenografica sulla morte di Giovanni dalle Bande Nere, un regista niente affatto spregevole o bugiardo come Ermanno Olmi miracolosamente non si accorge di quanto tutti i contemporanei alla vicenda capirono e scrissero a chiare lettere: che la morte di Giovanni era una tragedia politica, la morte delle ultime speranze d’indipendenza italiana.
E dunque, se il tragico e il signore non ci sono, il comico e il servo restano soli. Restano soli e sono tristi, perché si sentono pesare addosso l’ ingiusta responsabilità di creare un ordine, una storia, un senso, e non lo possono né lo vogliono fare.
E però bisogna pur vivere, e the show must go on. Il servo comico si carica anche il peso del signore assente, e stronfiando e bestemmiando tira la sua e nostra carretta. La “commedia all’italiana” cinematografica, ultimo atto della tradizione che nasce con la Commedia dell’Arte e ultimo genere drammatico autenticamente nazionale, questo lo ha capito molto bene. Guardate Vittorio Gassman, fastidioso trombone finché si limitò a fare l’attore tragico, profondo interprete da quando lasciò che due metà, la comica e la tragica, gli combattessero dentro: forse non sarà ricordato per i suoi Amleti, Gassman, ma per il suo Brancaleone certo sì.
C’è stato un momento, nella storia recente d’Italia, che il servo comico ha creduto di non essere più solo, e allora ha dato il meglio di sé. Piaccia o non piaccia, quel momento è stato il fascismo: gli anni del fascismo sono anche l’ Età dell’Oro del Varietà italiano. Il segreto di Pulcinella dell’amore che un comico eccelso come Ettore Petrolini portava al fascismo e a Mussolini sta tutto qui, nella gratitudine per il signore che mettendogli la mano sulla spalla, lo rimetteva al suo posto (per essere felici gli uomini in generale, dice Aristotele, ma in particolare gli artisti, aggiungo io, hanno bisogno soprattutto di questo: di trovare il loro posto).
Poi è andata come è andata, cioè male, e non tanto perché l’Italia fascista ha perso, ma perché l’Italia postfascista ha fatto finta. Fatto finta di non essere stata fascista ma antifascista in pectore; di non essere stata occupata ma liberata; di non avere perso ma vinto la guerra.
Ora, al servo, che per definizione vive in stato di necessità, è lecito fare finta, imbrogliare le carte e mentire: su che altro se non su questi raggiri si basano i meccanismi comici, da Plauto ad Arlecchino a Paolo Villaggio? Al signore, al tragico signore con la sua sovrana libertà, no: a lui non è lecito, far finta. Senza verità la tragedia è, nel migliore dei casi, melodramma.
Un signore che ne trasse le tutte le debite conseguenze fu, per esempio, Raimondo Vianello, il nobilnato Raimondo Vianello: suo padre era Ammiraglio di Squadra della Regia Marina, suo zio, ammiraglio anche lui, precettore del Duca di Spoleto. Raimondo, che non aveva gradito l’8 settembre dei Savoia, da signore si fece comico, e dunque servo (Aneddoto: in tournée a Bologna col varietà insieme a Galeazzo Benti[voglio], altro nobilnato transfuga, Vianello e Benti vanno a far visita di dovere all’anziana contessa Bentivoglio, zia di Benti. Si presentano al portone di Palazzo Bentivoglio in abito blu e mazzi di fiori, suonano. Il maggiordomo apre, si presentano, il maggiordomo va a sentire se la contessa è in casa. Torna e dice: “La signora contessa informa i signori che per loro non sarà mai in casa.”)
Insomma, dal dopoguerra il servo comico ha dovuto di nuovo caricarsi sulle spalle il peso dell’assenza del signore, il peso di rappresentare da solo la comunità nazionale. Da allora, fa quel che può. Ci fa ridere fino alle lacrime, degli altri e soprattutto di noi stessi. Ci rappresenta peggiori di quel che siamo, e così ci strizza l’occhio, ci rassicura e ci consola; vero, Silvio B.?
Ma a pensarci bene, com’è triste, com’è solitaria questa allegria! Che voglia di piangere lacrime di sconforto, di rabbia, di umiliazione, dopo queste risate!
Dibattito

Elio Paoloni

Guardate Vittorio Gassman, fastidioso trombone finché si limitò a fare l’attore tragico, profondo interprete da quando lasciò che due metà, la comica e la tragica, gli combattessero dentro: forse non sarà ricordato per i suoi Amleti, Gassman, ma per il suo Brancaleone certo sì. L’ho sempre detto

Roberto Buffagni

Elio Paoloni E’ curioso e significativo che alcuni tra i maggiori comici italiani dello scorso secolo siano stati fascisti impenitenti: Walter Chiari, Raimondo Vianello, Aldo Fabrizi…
Bella riflessione.
Ma il mondo non si divide solo in comico e tragico.
E forse la tragedia dell’Italia non è quella di non avere la tragedia (la più grande opera letteraria di un nostro artista, in fondo, è una Commedia).
Grandi assenti in questa riflessione (e in Italia sono state spesso consapevolmente dimenticate) sono l’epica e, soprattutto, la fiaba.
Un paese tragico è un paese di conquistatori a cui onestamente invidierei poco (vedi l’Inghilterra).
Una cultura che dimentica grandi imprese ed eroi, per quanto lontani nel tempo e, soprattutto, perde lo sguardo verso l’alto e l’invisibile, è votata alla dannazione, che è peggio della morte.

Roberto Buffagni

Dario Biagiotti La tragedia è una delle dimensioni della vita, e una delle possibilità dell’arte. Non c’è solo quella, neanche nelle letterature che hanno prodotto tragedie eccelse. In Italia la fiaba c’è eccome (la fiaba popolare, e la fiaba colta, Collodi per tutti). L’epica c’è molto poco, spesso in forme comico-picaresche, molto interessanti però, pensa a Merlin Cocai (Teofilo Folengo), o, in altro modo, diciamo più civile, a Ippolito Nievo e a G.C. Abba, a Riccardo Bacchelli

Roberto Buffagni

Dario Biagiotti Aggiungo poi che le tragedie storiche inglesi, anzitutto shakespeariane, sono tragedie della guerra civile (Due Rose). Il punto che volevo sottolineare è che la tragedia è la forma drammatica che più si adatta e conforma alla dimensione del Politico con la maiuscola. Vedi la tragedia greca, che aveva una diretta funzione politica (mostrare il momento della decisione tragica, formarvi il pubblico) in una polis ove la scelta politica era questione di vita e di morte per tutti gli spettatori/cittadini.

Dario Biagiotti

Roberto Buffagni infatti ho detto che in Italia la fiaba è stata dimenticata (colpa soprattutto della borghesia intellettuale post marxista che ha eletto a grande letteratura solo ciò che avesse un riflesso immediatamente politico, con la minuscola – vedi l’insopportabile verismo e la sua propaggine recente, cinematografica, del neorealismo).
Poi, secondo me il Politico, anche con la maiuscola, è il grado più basso delle dimensioni umane. E la vocazione principale dell’arte dovrebbe rimanere la tensione dello spirito al trascendente attraverso il fatto estetico. La fiaba, che io intenderei come genere d’elezione del meraviglioso (nel senso che gli dà Todorov), è stata dimenticata nell’Italia di oggi e di ieri, sostituita dall’illusione stupidamente materialista della pseudo-cronaca. Facendo nostra la reazione di Ippolito d’Este all’Orlando furioso, ed eleggendola a criterio d’elezione di interpretazione del reale e dell’invisibile, abbiamo perso davvero l’anima.

Gennaro Scala

Molto interessante. Non so se aggiunge qualcosa il fatto Dante volga in conclusione la “tragedia di Ulisse” in comicità. Virgilio che congeda bruscamente Ulisse in mantovano, dopo avergli parlato in greco (Tasso sosteneva che Virgilio finge di essere Omero). Ed uno dei pochi passi in cui Dante effettivamente risulta comico. Secondo Julia Bolton Holloway “Dante writes his Commedia, turning the tragedy of exile into the comedy of pilgrimage”.

Roberto Buffagni

Gennaro Scala Dante non vuole far tragedia, perché la tragedia cristiana non esiste e non può esistere. Vuole fare un’altra cosa e la fa, direi, molto bene

Gennaro Scala

Roberto Buffagni sì, lo fa molto bene. Auerbach: “L’immagine dell’uomo si pone davanti all’immagine di Dio. L’opera di Dante ha realizzato l’essenza figurale-cristiana dell’uomo e nel realizzarla l’ha distrutta.”

Roberto Buffagni

Gennaro Scala Certo. Auerbach interprete all’altezza del suo oggetto.

Gennaro Scala

Cmq, anche in termini formali quella di Ulisse è una tragedia, l’eroe che va incontro al suo inevitabile destino. Ma è la tragedia di Dante stesso, perché Ulisse è Dante, come già da detto e suggerito da vari commentatori, a cominciare da Boccaccio e Petrarca

Luciano Prando

caro buffagni e tutti gli altri, complimenti ho letto il suo pezzo e mi ha affascinato, ma ci terrei a chiarire che dramma e tragedia non sono la stessa cosa: la tragedia è irreparabile, sei andato a letto con tua madre e hai ucciso tuo padre, la tragedia racconta le conseguenze di un atto irreparabile…..il dramma invece racconta come si sviluppano fatti dalle conseguenze drammatiche: t’innamori di tua sorella, le uccidi il marito. la violenti, lei si uccide per la vergogna, tu diventi pazzo, la vecchia madre rimane sola e piange……la commedia è il racconto di fatti e sentimenti normali…….la farsa o la comicità è lo svelamento di fatti tragici, drammatici o normali in forma paradossale, il buffone di corte…..la suddivisione non è accademica ma corrisponde alla vita reale, a tutti capita di vivere situazioni tragiche, drammatiche, da commedia o comiche, paradossali…….detto questo è vero gli italiani mancano del senso del tragico e rifiutano il dramma, girano tutto in commedia, infatti non abbiamo mai avuto veri comici ma commedianti border line con la comicità, vero è che perdono una guerra disastrosa, viene distrutto un sistema sociale cui la larga maggioranza aveva aderito vengono occupati da truppe straniere e fingono di averla vinta la guerra, di entrare a milano quando non c’era più nessuno ad opporsi e le truppe alleate erano ad un tiro di schioppo…..forse gli unici veri comici di quelli citati sono stati walter chiari e bramieri che facevano ridere senza essere personaggi in commedia

Roberto Buffagni

Luciano Prando Grazie. Non concordo con la sua definizione di tragedia. Ci sono diverse tragedie che finiscono con l’happy end. Ciò che definisce la tragedia, per farla molto breve, è questo: che il protagonista deve prendere una decisione senza che la legge, il costume, la religione gli forniscano una soluzione prefabbricata. C’è il mondo che è grande, il cielo che è lontano, tu che sei solo: incipit tragoedia. Per questo è il genere drammatico più conforme al Politico, perché la situazione del protagonista corrisponde alla situazione del decisore sovrano nello stato d’eccezione. Ecco perché la tragedia, nell’Atene del IV secolo a.c., era finanziata dalla polis, e la partecipazione del pubblico gratuita: perché costituiva il principale strumento di formazione ed educazione politica di cittadini che in assemblea avrebbero dovuto prendere decisioni di vita e di morte per tutta la città.

Luciano Prando

caro buffagni, la definizione di tragedia come conseguenze di un evento irreparabile è propria del teatro greco, quello cui lei si riferisce è il dramma, infatti lei è costretto a dire “il genere drammatico”………il resto del ragionamento fila: puoi essere attratto da tua sorella ma devi decidere da solo se soddisfare il tuo desiderio in qualsiasi modo o soffrire senza soddisfarlo…..ripeto le definizioni non sono accademia ma specchio della vita reale

Roberto Buffagni

Luciano Prando Ho capito quel che lei intende dire, che è più che sensato. Non intendo farne una discussione tecnica, ma giusto per non fraintenderci le dico che “generi drammatici” sono tutti i generi di rappresentazione teatrale: tragedia, commedia, dramma (con le loro specificazioni). “Dramma” significa “azione”, e “sviluppo drammatico” hanno tutti i generi teatrali, il tragico come il comico, perché vi si dipanano delle azioni. La “irreparabilità” dell’evento tragico è senz’altro una caratteristica del genere tragico, che si svolge al cospetto della morte, nel senso che le azioni che vediamo sulla scena sono presentate nel peso specifico e nel valore che esse assumono soltanto quando abbiamo ben presente la morte, che rende irrevocabili gli atti. La stessa vicenda può essere raccontata in forma di commedia o di tragedia, appunto se la narriamo al cospetto della morte (tragedia) o no (commedia). Questo avviene anche nella nostra vita. Noi sappiamo di dover morire, e che dunque ogni nostro atto, anche il minimo, è irrevocabile e dunque “irreparabile”. Semplicemente, per la maggior parte del tempo non ci pensiamo, e agiamo, viviamo, pensiamo e sentiamo come se potessimo vivere in eterno e rendere revocabili e rimediabili tutte le nostre azioni.

Luciano Prando

caro buffagni, lei si scontra con uno che il teatro lo conosce bene…..la tragedia è la tragedia, il dramma è il dramma, la commedia la commedia, la farsa o il comico la farsa e il comico, altrimenti nel linguaggio gli eventi non verrebbero aggettivati come tragici, drammatici, da commedia, farseschi, altrimenti si fa solo confusione dialettica, altrimenti detta polverone…….si consoli, le cito un evento passato: quando strehler mise in scena la trilogia della villeggiatura nessun professore si accorse che aveva tagliato tutti gli a parte trasformando il teatro frontale di goldoni in intimismo realista
NB_tratto da facebook

Mario Draghi e le congiunzioni astrali favorevoli_con il professor Augusto Sinagra

Sin dal suo annuncio, l’avvento di Mario Draghi sembra godere del favore di particolari congiunzioni astrali. Nell’immediato sembra proporre qualche prospettiva positiva credibile per il paese. Ma in cambio di cosa dal punto di vista del posizionamento strategico? Sino a quando potrà glissare su alcune questioni che potrebbero lacerare rapidamente la coalizione? Non dovremo attendere molto per avere le prime risposte. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vhwnwt-mario-draghi-e-le-congiunzioni-astrali-favorevoli-ne-parliamo-con-il-profes.html

Carl Schmitt, Romanticismo politico, a cura di Carlo Galli_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carl Schmitt, Romanticismo politico, a cura di Carlo Galli, il Mulino, Bologna 2021, pp. 248, 23 euro.

La grande attenzione con cui il pensiero di Carl Schmitt è stato considerato in Italia a far tempo dalla pubblicazione delle “Categorie del politico” ha (indotto e) prodotto anche una serie di ri-edizioni delle opere del giurista. A partire proprio dalle “Categorie del politico” (ora riedite da Il Mulino), dalla “Dittatura” e (a parte altro), fino ad adesso con “Romanticismo politico”. Questo viene pubblicato dal Mulino, curato come la precedente edizione (Giuffré 1981) da Carlo Galli, che vi ha premesso una nuova presentazione.

Prima di considerare quest’ultima, è bene sintetizzare quanto scriveva Schmitt sul romanticismo. Sostiene che “Il romanticismo è occasionalismo soggettivizzato: gli è infatti essenziale il rapporto occasionale col mondo, ma, al posto di Dio, è il soggetto romantico a occupare la posizione centrale. Partendo da questa, poi, trasforma il mondo, con tutto ciò che vi accade, in mero pretesto. Proprio questo spostamento dell’istanza suprema da Dio al soggetto geniale muta l’intera prospettiva, e porta alla luce l’occasionalismo nella sua purezza. Nei vecchi filosofi dell’occasionalismo, come Malebranche, era sì presente il concetto dissolvitore di occasio, ma la legge e l’ordine venivano ritrovati in Dio, l’Assoluto oggettivo”. Diversamente che nei filosofi dell’occasionalismo. “Ben diversamente avviene quando a realizzare la sua attitudine occasionalistica è l’individuo isolato ed emancipato”.

L’individuo così finisce per vagare nell’illimitato e nell’inafferrabile “L’occasione appare allora davvero come relazione con l’immaginario, e – secondo le diverse individualità dei romantici – con l’ebbrezza o il sogno, con l’avventura, la fiaba o rappresentazione magica. Da occasioni sempre nuove nascono mondi sempre nuovi, sempre occasionali, mondi senza sostanza, senza relazioni funzionali, senza sicura direzione, mondi privi di conclusione, di definizione, di decisione”.

E quando tale attitudine passa dall’estetica alla politica, ha un effetto disgregatore. Derivato dalla perdita di contatto – e quindi di “presa” sull’oggetto. Proprio da ciò consegue che il romanticismo “è al servizio di altre energie non romantiche, e la sua sublime superiorità rispetto alle definizioni e alle decisioni si rovescia in un accompagnamento servile di forze e decisioni romantiche”. Ma il tutto ha influenzato l’epoca moderna e post-romantica “Soltanto in una società minata dall’individualismo la produttività estetica del soggetto poteva porsi a sé stessa come centro spirituale della realtà”.

Scrive Galli nella presentazione che a giudizio di Schmitt “La mancanza di un rapporto causale o normativo fra soggetto e oggetto, fra romantico e mondo, dà luogo nel romanticismo a una produttività che consiste nel costruire un mondo soggettivo e fluttuante, esclusivamente estetico, elaborato con materiali presi a prestito da ogni ambito della realtà effettuale”.

Il romanticismo è “un rischio immanente alla modernità, una malattia esplosa in una fase storica determinata, ma in agguato, latente, nelle strutture profonde del pensiero moderno… Il soggettivismo moderno e la sua dialettica, la sua presunzione e la sua nemesi; il logos che è chiacchiera: tutto ciò è la posta in palio, in Romanticismo politico”.

Il pensiero borghese ne condivide i limiti “all’interno della radicata sfiducia schmittiana nel dispositivo razionale moderno che dà al soggetto il potere di disporre  dell’oggetto, di concettualizzarlo pienamente, borghese è chi crede che con la libertà soggettiva si possa costituire la politica, che invece passa attraverso il conflitto e la forma”. E ancora esistono altri romanticismi, quelli contemporanei dell’uomo post-moderno nel mondo della realtà virtuale “con il suo preteso protagonismo e con la sua reale subalternità”. “C’è da chiedersi insomma se, dal tempo del romanticismo ottocentesco attraverso il tempo dell’irrazionalismo avanguardistico primo-novecentesco fino all’epoca post-moderna, il rapporto fra oggettività, ma più in generale fra razionalità e non-razionalità, ruoti su sé stesso presentando sempre, in facce diverse, la medesima indeterminatezza”.

Due considerazioni, partendo da quella di Galli sui romanticismi contemporanei, che contribuiscono a rendere di interesse anche attuale questo saggio di Schmitt, risalente a circa un secolo fa. L’attitudine romantica (ma non solo) a soggettivizzare e esteticizzare (e così de-politicizzare) l’oggetto, soprattutto politico, è evidente nella c.d. “antipolitica”, almeno in gran parte di essa. La politica ha a che fare con oggetti concreti e rapporti reali: potere e libertà, amico e nemico. Ma se un’azione, un uomo o un comportamento viene giudicato non sulle capacità di attingere alla funzione della politica, ma sull’apprezzabilità estetica (o altro), il risultato è una (cattiva) propaganda. Che Achille fosse bello e valoroso non significava che non fosse pericoloso, almeno per i troiani, né che occorre giudicare politicamente la caduta di Troia dalla poesia dell’Iliade. Cosa che nella comunicazione contemporanea è praticata in continuazione non solo confondendo la politica con l’estetica, ma anche con altre “essenze” (Freund).

La seconda: non solo la politica, ma anche il diritto si regge sul rapporto equilibrato tra soggetto ed oggetto. Anzi il problema (principale) dell’applicazione del diritto è che la decisione dell’applicatore sia conforme al rapporto giuridico ed alla normativa ad esso applicabile.

Se non vi siano istituti e norme ad assicurare tale ragionevole corrispondenza, il soggettivismo del funzionario straripa in arbitrio illimitato. Magari dal “sistema” giustificato moralmente più che esteticamente. Tuttavia è proprio il pensiero borghese ad aver creato le più raffinate forme ed istituti per garantire – per quanto possibile – la corrispondenza tra diritto e decisione concreta (come, ad esempio la distinzione dei poteri – o i controlli di legittimità). Quindi il romanticismo politico, sotto tale aspetto, appare come una degenerazione (anche) rispetto al costituzionalismo liberale, la cui diffidenza verso la soggettività di governanti (e funzionari) emerge prepotente.

Teodoro Klitsche de la Grange

Libia, la realtà tribale_di Bernard Lugan

L’intervento franco-NATO del 2011, che si è svolto nella completa ignoranza delle sottigliezze politiche locali hanno sconvolto l’intarsio tribale libico, che ora impedisce qualsiasi pacificazione duratura

Nel lungo periodo, dal periodo greco-romano fino ad oggi, la grande costante
socio-politica della Libia è la debolezza del potere in relazione alle tribù.
Ce ne sono diverse dozzine se tuttavia contiamo solo le principali, ma diverse centinaia se teniamo conto di tutte le loro suddivisioni.

Le tribù libiche sono raggruppate in tre grandi alleanze regionali (coffs): la
Confederazione Sa’adi in Cirenaica, la confederazione Saff al-Bahar nel nord della Tripolitania e la Confederazione di Awlad Sulayman che occupa la Tripolitania orientale e interna così come il Fezzan.
All’interno di queste alleanze, le tribù più forti controllavano gli immensi corridoi di nomadizzazione sull’asse Mediterraneo-Ciad. Le tribù più deboli hanno praticato un semi
nomadismo regionale.
Proveniente dalla tribù Qadhadfa, (Confederazione Awlad Sulayman di Tripolitania), Muammar Gheddafi basava il suo potere su queste realtà tribali. Così, grazie al suo matrimonio con un Firkeche, un clan della tribù reale Barasa della Cirenaica, integrò nel suo sistema di alleanze le tribù della Confederazione Sa’adi di questa stessa Cirenaica.
A seconda degli eventi, ha favorito tale o tal altri componenti di queste confederazioni dimostrando un’intima conoscenza dei meccanismi tribali.
Siamo infatti in presenza di una società tribale, quindi comunitaria, in cui la vita politica non è organizzata intorno a partiti politici in stile europeo, ma dalle tribù.
Se le loro basi demografiche sono scivolate verso le città, i legami tra i loro membri non si sono per questo allentati finora.
Il colonnello Gheddafi aveva basato il suo potere sull’equilibrio tra i tre grandi sodalizi libici; è dal momento in cui queste alleanze tribali sono state distrutte che la situazione libica è caotica.
La priorità non è quindi proporre una soluzione democratica “in stile europeo”, ma lasciare che le tre confederazioni tribali ricostruiscano i collegamenti tra loro. Tuttavia, questa realtà tribale è stata ignorata o trascurata dalla diplomazia internazionale la quale si è ostinatamente rifiutata di lasciare che le tribù lo facessero come all’indomani della seconda guerra mondiale; vale a dire, discutere tra di loro per creare un nuovo patto sociale.
Invece, il processo di uscita dal conflitto è stata fondato sul dispositivo elettorale. Tre elezioni si sono poi tenute[1] le quali non solo non solo non sono servite a nulla poiché non hanno portato la pace, ma che, per di più, hanno accentuato ulteriormente la divisione Cirenaica-Tripolitania e provocato una implosione all’interno di queste due regioni.
L’altro errore è stato ignorare il caso Seif al-Islam, figlio del colonnello Gheddafi. Tuttavia, il 14 Settembre 2015, il Consiglio Supremo delle Tribù della Libia lo aveva nominato suo rappresentante legale, quindi come unica persona legittimata a parlare in nome
della vera linfa vitale della Libia. Inoltre, Seif alIslam è l’unico in grado di ricostituire l’alchimia tribale polverizzata dall’intervento militare di2011; lui che è legato ad entrambi gli Awlad Sulayman per parte di padre e ai Sa’adi da parte di madre. Attraverso la sua persona, potrebbe quindi essere ricostituito l’ordine istituzionale libico smantellato dal
guerra franco-NATO.

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NORD STREAM 2/ Una lezione per la futura Forza Nuova su come sostenere l’Eni, di Piergiorgio Rosso

NORD STREAM 2/ Una lezione per la futura Forza Nuova su come sostenere l’Eni

Ripubblichiamo il commento di Paolo Annoni della rivista online Il Sussidiario che ci sembra cogliere alcuni punti decisivi degli ultimi sviluppi della questione Nord Stream 2 che questo blog ha seguito fin dalle origini e poi continuativamente qui, qui e qui sulla base della teoria del Conflitto Strategico promossa da Gianfranco La Grassa.

Il primo punto da considerare è il riconoscimento della necessità del gas russo a basso costo per la Germania. I rigassificatori del GNL americano si faranno ma non possono avere la rilevanza strategica del gas russo da pipeline.

Questo vincolo interno ha comportato sia la forte determinazione della classe dirigente tedesca sia la presa d’atto degli USA di non poter proseguire oltre sulla linea delle sanzioni, pena la rottura dei rapporti con la Germania. Rottura strategicamente intollerabile per gli USA, considerato l’imperativo geopolitico di evitare la saldatura della penisola europea con la Russia.

La lezione da portare a casa per noi è che fare di necessità, virtù … paga anche se si hanno le forze armate americane in casa (dedicato agli alternativi critici-critici tutto no-gas/no-NATO) .

Il secondo punto è la consapevolezza che le politiche europee denominate Green Deal sono ad esito del tutto incerte, perché basate su tecnologie inaffidabili, costose o ancora da sviluppare (vedi in particolare alla voce Idrogeno Verde). Seppure la Germania può permettersi qualche lusso in proposito, ma con un sicuro ed affidabile back-up costituito da carbone e nucleare previsti durare ancora decenni, per l’Italia l’alternativa non esiste: “ … Il Nord Stream 2 italiano, la garanzia di poter far sopravvivere il nostro sistema economico e industriale mentre si vive il sogno, o l’utopia, delle rinnovabili tutte e subito si chiama Eni che non a caso è stata la protagonista dell’industrializzazione italiana..”. Tesi più volte sostenuta in questo blog e riconfermata nel recente libro “Per una Forza Nuova” di G.La Grassa/G. Petrosillo, da cui estraggo questo passaggio assai pertinente alla vicenda trattata in questo articolo: “… E’ indispensabile che sul piano geopolitico globale, si partecipi alla lotta tra “predoni” nell’attuale multipolarismo e si dovrebbero prendere la misure adatte a sviluppare la propria potenza. In ogni caso anche se non sarà gran cosa per un lungo periodo di tempo, in Italia andrebbero difese quelle poche grandi imprese che agiscono in settori di punta, tecnologici ed energetici…”

Buona lettura

22.05.2021 – Paolo Annoni

Gli Stati Uniti hanno dovuto accettare il fatto che la Germania completi il Nord Stream 2. Una lezione per l’Italia sulla difesa di Eni

L’Amministrazione Biden ha deciso che non applicherà le sanzioni contro la società che sta costruendo il Nord Stream 2 e il suo amministratore delegato. Il portavoce del Segretario di Stato Blinken ha dichiarato che la decisione riflette l’impegno del Presidente americano per “ricostruire le relazioni con i nostri alleati e partner europei” anche se ha ribadito che “l’opposizione al progetto rimane risoluta”. 

Gli Stati Uniti ritengono che il gasdotto sarebbe decisivo per ampliare l’influenza russa in Europa, ma evidentemente i rapporti con Berlino sono stati ritenuti prioritari. La Germania, infatti, si è dimostrata determinata a completare il progetto nonostante le minacce e le pressioni dell’alleato americano. 

A questo punto della vicenda e a pochi mesi dal completamento del gasdotto bisogna interrogarsi su quello che sembra essere l’epilogo di una vicenda che ha messo i due partner su lati opposti per anni. L’epilogo oltretutto arriva in una fase in cui i rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia sono ai minimi termini con il Presidente americano che dà in pubblico dell’assassino a Putin e gli ambasciatori rientrati in patria. L’unica spiegazione possibile alla svolta americana e alla determinazione tedesca è che sia la Germania ad aver bisogno della Russia e del suo gas e non viceversa. La necessità di avere gas a buon prezzo e per molti anni evidentemente deve essere così importante che anche l’alleato americano alla fine ha dovuto “mollare”. La Russia potrebbe vendere il suo gas altrove tanto più in una fase in cui si minaccia il blocco dell’esplorazione in idrocarburi che gli Stati in via di sviluppo non saranno mai in grado di sostituire con fonti rinnovabili. La Germania invece non ha alternative.

Il costo energetico tedesco è già alto e riflette anni di investimenti in rinnovabili. Lo sforzo europeo sulle emissioni rischia di minare l’industria tedesca e di metterla fuori gioco nella competizione globale oltre che abbassare irrimediabilmente gli standard di vita dei suoi cittadini; la Germania ha quindi più che mai bisogno di un complemento affidabile ed economico ed eventualmente di un ripiego nel caso in cui la transizione verde si dovesse rilevare impraticabile e incompatibile con le esigenze di un Paese sviluppato. I Paesi sviluppati, infatti, si basano su un’enorme premessa: la disponibilità di energia a basso costo e affidabile. Tolto questo elemento che oggi si dà per scontato salta tutto. 

Le rinnovabili oggi hanno enormi problemi di costi e di affidabilità. Non sono in grado di sostituire gli idrocarburi in un’ottica di 10/20 anni se non a patto di gravare imprese e cittadini di rincari molto consistenti e magari di esporli al rischio di blackout periodici. Tralasciamo poi i lati sporchi delle rinnovabili a partire dall’auto elettrica che richiede l’estrazione di materie prime che pongono tanti problemi ambientali e sociali nei Paesi produttori; il fatto che l’Occidente non li veda e per questo si senta la coscienza ambientale pulita è un fattore non secondario.

La Germania, quindi, è perfettamente consapevole di non poter garantire un futuro al suo sistema economico e industriale senza il gas russo. Gli Stati Uniti sanno perfettamente che in un contesto di investimenti green miliardari in tecnologie acerbe privare la Germania del gas russo rischia di far saltare l’alleato europeo. Questo è il quadro.

A questo punto si impone una riflessione sull’alleato italiano che ha perso la partita sul South Stream. Oggi si invoca in Italia una transizione decisa verso il green che non si guardi indietro e bruci i ponti. È una posizione da incoscienti alla luce non di qualche oscura contro teoria ma proprio di quello che è successo questa settimana tra Stati Uniti e Germania. Il Nord Stream 2 italiano, la garanzia di poter far sopravvivere il nostro sistema economico e industriale mentre si vive il sogno, o l’utopia, delle rinnovabili tutte e subito si chiama Eni che non a caso è stata la protagonista dell’industrializzazione italiana. Chi oggi cerca di impedire a Eni di fare il suo mestiere è nella stessa posizione di chi voleva impedire all’industria tedesca di completare il Nord Stream 2. La Germania ha percepito immediatamente la minaccia mortale e per questo ha sfidato ogni sorta di pregiudizio. C’è solo da imparare.

NB_Già apparso su http://www.conflittiestrategie.it/nord-stream-2-una-lezione-per-la-futura-forza-nuova-su-come-sostenere-leni

Stati Uniti! Il gran cavaliere, il Grande Idaho, il caro estinto_con Gianfranco Campa

Non poteva mancare il suggello della diplomazia italiana al trionfo personale di una eminenza dello Stati Uniti, Anthony Fauci. Dalla provincia, però, i riconoscimenti devono pagare il pegno della distanza; rischiano di giungere in ritardo, se non fuori tempo massimo. Fauci ha ricevuto il titolo di Cavaliere di Gran Croce al crepuscolo, appena prima del pensionamento e della sua probabile caduta in disgrazia. E’ servito a puntellare le trame ordite ai danni di Trump, ha raccolto gli onori del suo fedele servizio, è caduto vittima della propria hybris. Sarà il comodo capro espiatorio dello scontro tra filo ed anticinesi nella compagine presidenziale americana. Nel frattempo lo scontro politico negli USA inizia ad assumere i connotati di identità territoriale; il Great Idhao è qualcosa in più di una fantasia di una cerchia ristretta di gruppi politici. Un ulteriore colpo alla coesione di una nazione quando i redivivi del vecchio establishment credono ancora di poter risolvere il contenzioso politico eliminando per via giudiziaria Trump, la loro ossessione dietro la quale non vogliono vedere la foresta di un movimento ormai svincolato dai destini di una persona. Il tutto condito da giochi proibiti condotti nel privato di personaggi riconosciuti per la loro filantropia, ma esposti alle manovre più oscure. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vhr6kd-stati-uniti-il-gran-cavaliere-il-grande-idaho.html

 

Libia, la situazione attuale_di Bernard Lugan

I Governi italiani, in particolare i Governi “Giuseppi”, con il noto “Giggino” esperto in affari internazionali, hanno assecondato con la loro inettitudine questa dinamica, consentendo l’ingresso anche della Turchia nello scenario libico, non ostante le reticenze iniziali all’intervento. Porte aperte a un nuovo interlocutore, tra i tanti (troppi), in grado di giocare nell’affollato crocevia energetico del Mediterraneo e di manipolare l’attività delle gang mafiose dedite al traffico migratorio, ma senza avere le risorse politiche e finanziarie della Germania necessarie a rabbonire le inquietudini_Giuseppe Germinario

Il 29 maggio 2018, su iniziativa del presidente Macron, e nel tentativo di riparare le terribili conseguenze della guerra geopoliticamente ingiustificabile che il presidente Sarkozy ha dichiarato al Colonnello Gheddafi, si è tenuto a Parigi un vertice sulla Libia. Questa iniziativa fallì perché, partendo ancora una volta dalla realtà, questo vertice è persistito nei due principali errori del passato:

1) Le tribù, le uniche vere forze politiche del paesi, sono state escluse.
2) L’unica soluzione proposta era ancora una volta un’agenda elettorale. Come dire parole al vento in quanto nuove elezioni non regolerebbero la questione libica rispetto a quelle del 7 luglio 2012 e del 20 febbraio 2014. Semplicemente perché la soluzione sta nella ricostituzione delle alleanze tribali dislocate dalla guerra intrapresa contro il colonnello
Gheddafi e non dalle elezioni.
Da qui l’impasse politica. Nel 2016, Vladimir Putin aveva imposto un nuovo paradigma basato sul vero equilibrio di potere. Ha aperto un nuovo scenario diplomatico con, in conclusione, il viaggio del generale Haftar [1] fatto a Mosca il 27-28 novembre 2016 e in occasione del quale il presidente Putin gli ha concesso ufficialmente il sostegno russo. L’uomo con il quale la diplomazia dell’UE si era rifiutata di parlare direttamente, diventato poi dall’oggi al domani essenziale …
Tuttavia, il generale Haftar era il maestro del Cirenaica e Tobruk, l’unico porto in acque profonde tra Alessandria e Mers-el-Kebir. Aveva l’unica forza militare del paese. Stava controllando l’85% delle riserve petrolifere della Libia, il 70% del gas, 5 dei suoi 6 terminali petroliferi e 4 delle sue 5 raffinerie. Tutto il crocevia petrolifero attraverso il quale viene esportato il 60% del petrolio libico era in suo potere.
Inoltre, aveva il sostegno della confederazione tribale di Cirenaica e delle tribù di Gheddafi di Tripolitania[2].

Con il supporto russo, tre possibilità gli si offrivano:
1) Il tentativo di conquistare tutta la Libia e l’eliminazione delle molteplici milizie gangsterislamiche che affliggono il paese.
2) Un santuario della sola Cirenaica, preludio di una partizione di fatto tra Tripolitania e
Cirenaica.
3) La costituzione di un governo nazionale in cui sarebbe stato l’uomo forte.
Ha scelto la prima opzione, ma non è riuscito a prendere Tripoli avendo il “governo di unità nazionale ”(GUN) presieduto dal signor Fayez el-Sarraj, insediato dall’Occidente, ma privo di una forza militare autonoma, fatto appello alla Turchia.
Se il maresciallo Haftar non è riuscito a prendere Tripoli, nonostante i massicci aiuti ricevuti da Egitto ed Emirati Arabi Uniti, è perché non disponeva di fanteria contro le forze speciali Turche. Inoltre, le milizie di Zintan, delle quali contava il sostegno, si sono radunate a favore dei turco-tripoliti.
La Russia, che non ha mai impegnato il suo esercito al fianco del generale Haftar probabilmente per non aprire un nuovo fronte con la Turchia, ha però tracciato una linea rossa a quest’ultima santuarizzando il fronte ad ovest di Sirte.
La domanda quindi sorge semplicemente:
– Essendo la Turchia militarmente impegnata a fianco del GNA, il generale Haftar non prenderà Tripoli.
– La Russia santuarizza la Cirenaica, quindi il GNA non prevarrà a Bengasi.

Conclusione: le trattative possono quindi riprendere. Ma su basi diverse da quelle irrealistiche, perché solo elettorali, della “comunità internazionale”.
In questo modo, in un certo senso, ci muoveremmo verso un ampio federalismo. Resta da risolvere il problema della condivisione degli idrocarburi che, vista la posizione geografica dei giacimenti, consentirebbe di trovare facilmente un equilibrio territoriale.

[1] Il generale Khalifa Haftar della tribù Ferjany la cui roccaforte è la città di Sirte, luogo di nascita del colonnello Gheddafi, fu, con quest’ultimo, uno degli autori del colpo di stato militare che rovesciò re Idriss nel 1969. Se in seguito litigava con il colonnello, d’altra parte non recise mai i legami con la sua tribù; fattore che lo colloca al centro di una strategica alchimia tribale situata all’incrocio della Cirenaica e della Tripolitania.
[2] Per tutto ciò che riguarda le tribù della Libia e le loro alleanze, vedi il mio libro Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri.

Grazie ai buoni rapporti che il colonnello Gheddafi intratteneva con il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, erano stati presi accordi molto concreti e la Libia ne controllava le coste.
Il dramma di Lampedusa e del Mezzogiorno si spiega con il fatto che la Libia è in piena anarchia, con il paese imploso che in feudi tribali e con milizie i cui leader hanno preso il controllo del traffico della rotta trans-sahariana, compresa quella dei migranti. L’imbuto libico che è quindi il culmine delle principali rotte africane di immigrazione clandestina dall’Africa sud-sahariana, dal Corno e dalle regioni del Vicino Oriente, si è riversata nell’Italia meridionale a partire dalla guerra che ha rovesciato il colonnello Gheddafi.
Qui siamo direttamente immersi nel Camp des Saints di Jean Raspail. Questo libro profetico che risale al 1973, descrive il crollo delle società occidentali sotto lo sbarco di migliaia di immigrati clandestini arrivati ​​su navi spazzatura. Clandestino davanti al quale tutte le istituzioni crollarono a causa dell’etno-masochismo delle “élite” europee piene di sentimentalismo, sentimento che ha avuto la precedenza sulla ragione e persino sugli istinti vitali.

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Semiconduttori: la ricerca della sovranità (3/5)

I semiconduttori rappresentano la principale sfida tecnologica per gli anni a venire. Sono essenziali per lo sviluppo della tecnologia e dell’industria digitali, e quindi dell’economia. La Cina è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Taiwan. La conquista del mercato dei semiconduttori è quindi una sfida importante per la sovranità dei paesi. 

 

Conflits nella traduzione di un articolo di Dan Wang originariamente pubblicato sul sito di Gavekal

 

3. Successi e insuccessi

 

La grande domanda, ovviamente, è quali saranno i risultati di questo gigantesco sforzo di politica industriale. Una conseguenza evidente è la massiccia espansione della capacità di produzione di chip, che è triplicata tra il 2012 e il 2020. Secondo varie stime, la quota della Cina della capacità di produzione globale di semiconduttori è compresa tra il 15% e il 22%. (La stima più alta include la capacità di chip di fascia molto bassa prodotti da wafer di otto pollici o meno, che la Cina ha in grandi quantità. Le fabbriche moderne lavorano tipicamente con wafer di 300 mm). Le società nazionali controllano più della metà di questa capacità.

 

Il modo in cui questo si traduce in termini di vendite (in volume o in valore) è molto meno chiaro, poiché i produttori di chip tradizionali cinesi sono presenti principalmente nei segmenti di fascia bassa e nuovi entranti stanno appena iniziando ad emergere. Secondo la società di ricerche di mercato IC Insights, le società di circuiti integrati con sede in Cina hanno registrato vendite per 8,3 miliardi di dollari nel 2020, pari al 6% del mercato interno e meno del 2% del mercato globale. Nella maggior parte delle categorie, l’autonomia rimane un sogno lontano e le società tecnologiche cinesi sono ancora vulnerabili alle restrizioni tecnologiche statunitensi.

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A livello di segmento, ci sono alcuni punti positivi. A parte un’abilità ormai consolidata nel segmento ATP di basso valore, l’industria cinese della progettazione di chip è dinamica. I brief – l’obiettivo principale degli investimenti del National IC Fund – hanno appena iniziato a prendere slancio e almeno due società cinesi potrebbero entrare a far parte dei ranghi dei produttori di livello mondiale nei prossimi anni. Le fonderie logiche (anche beneficiarie della generosità del Fondo IC) sono più difficili. Non ci sono prove che la Cina possa colmare il divario tecnologico tra essa ei leader del settore, e il campione nazionale del salario minimo è ora ostacolato dalle sanzioni del governo degli Stati Uniti.

 

Design

 

Dopo un avvio secco meno di vent’anni fa, le società cinesi di progettazione di chip hanno compiuto progressi impressionanti. Rappresentano circa il 15% del mercato globale per le società di progettazione di circuiti integrati (senza fabbrica). Nell’intero universo di progettazione di chip, che include anche produttori integrati come Intel che progettano e producono chip, nonché società di prodotti finali che hanno team di progettazione interni, la Cina ha una quota di circa il 5%.

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Le società di design cinesi lavorano principalmente nelle aree delle comunicazioni mobili, dell’elettronica di consumo e dell’inferenza AI. Le aziende favolose, tra cui Cambricon e Horizon Robotics, si sono ritagliate una nicchia per i chip ottimizzati per le applicazioni di intelligenza artificiale. Come negli Stati Uniti, gran parte dell’azione è nelle aziende industriali o di consumo che hanno iniziato a progettare chip per i propri prodotti. Alibaba, il produttore di veicoli elettrici BYD e la società di elettrodomestici Gree sono tutti entrati in questo gioco.

 

Il gigante del design cinese è HiSilicon, una sussidiaria di Huawei che progetta chip per telefoni cellulari e server, nello stesso modo in cui Apple progetta processori per i propri telefoni. HiSilicon è l’unica azienda cinese che è riuscita a entrare nelle prime 10 società di semiconduttori per fatturato, ma solo per pochi mesi nel 2020, quando le vendite di telefoni Huawei hanno raggiunto il picco.

 

La progettazione di circuiti integrati è sicuramente un’area in crescita, ma le aziende cinesi partono da una base debole. Si basano principalmente sulla proprietà intellettuale di base di ARM, una società britannica e giapponese. E si concentrano principalmente su nicchie che le grandi aziende come Intel, AMD e Nvidia hanno ignorato. Quando si tratta di chip di fascia alta che alimentano la maggior parte dei computer e dei sistemi elettronici avanzati, le aziende cinesi si trovano in una posizione trascurabile.

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Produzione: memoria

 

L’industria cinese dei chip di memoria sta iniziando a decollare, in gran parte grazie al massiccio sostegno del governo per la costruzione di fabbriche. I due tipi principali di memoria sono la memoria volatile DRAM, per l’elaborazione dei dati in tempo reale, e la memoria non volatile NAND, per l’archiviazione a lungo termine. La DRAM è fortemente consolidata, con solo tre attori principali: Samsung, SK Hynix e Micron. Il mercato NAND è più frammentato. È più facile entrare nel settore della memoria rispetto al settore dei chip logici o della fonderia: le barriere all’ingresso sono più basse e la necessità di volumi elevati e cicli di produzione veloci favorisce i cinesi.

 

Il leader del mercato NAND cinese è Yangtze Memory Technologies Co., fondata a Wuhan nel 2016 con 24 miliardi di dollari di finanziamenti dal National Integrated Circuit Fund, dal governo provinciale di Hubei e dalla holding Tsinghua Unigroup, che ha agito come una sorta di agente principale per il politica industriale del governo sui circuiti integrati. YMTC produce piccoli volumi di chip NAND da tre anni. Afferma di avere prodotti che sono quasi competitivi con quelli di Samsung e, sebbene l’industria sia scettica al riguardo, c’è un ampio consenso sul fatto che YMTC sia un attore credibile.

 

Il campione cinese di DRAM è Changxin Memory Technologies,con sede a Hefei, di cui si sa meno. È stata fondata nel 2016 come uno dei tre produttori di DRAM sostenuti dallo stato, uno dei quali (Fujian Jinhua) è già stato disattivato dalle sanzioni statunitensi. CXMT ha acquisito la sua tecnologia concedendo in licenza i brevetti a Qimonda, un produttore tedesco di DRAM in bancarotta. Secondo la società di ricerche di mercato TrendForce, CXMT e YMTC avevano entrambe una quota di mercato di circa il 3% nei loro segmenti nel quarto trimestre del 2020. Le due società hanno assunto un gran numero di ingegneri coreani, che costituiscono il principale talento globale nel campo di chip di memoria. La maggior parte degli operatori del settore oggi si aspetta che YMTC diventi uno dei principali attori globali entro tre o cinque anni. CXMT potrebbe anche avere successo, ma come giovane azienda,

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Produzione: fonderie

 

La posizione della Cina nelle fonderie è più debole. Il leader è SMIC, con sede a Shanghai, seguito da Hua Hong Semiconductor, un’altra società di Shanghai. SMIC può produrre chip in un nodo di processo a 14 nanometri. (Il nodo di processo è un indice del livello tecnologico: più piccolo è il numero, più avanzato è il processo. Questi nodi non si riferiscono più alla dimensione dei circuiti, sono definiti in modo un po ‘soggettivo e servono principalmente come regole di marketing.) . SMIC è quindi in ritardo di circa cinque anni rispetto al leader di mercato, TSMC, che ha prodotto in modalità 14 nm nel 2016.

 

Essere indietro di cinque anni potrebbe non sembrare così male, ma SMIC è rimasta indietro di cinque anni rispetto a TSMC dalla sua fondazione, vent’anni fa, e ha costantemente registrato ricavi pari a circa un decimo di quelli di TSMC. È essenzialmente un’impresa statale mal gestita, con problemi di tecnologia e risorse umane persistenti, ma è riuscita a mantenere una nicchia stabile. Con un fatturato di 3,9 miliardi di dollari, si colloca al quinto posto dietro TSMC (46 miliardi di dollari), UMC, Samsung e GlobalFoundries; Samsung è cresciuta molto più velocemente negli ultimi cinque anni. SMIC non è in grado di gestire i chip più sofisticati progettati da aziende cinesi come HiSilicon e, dal 2010,

 

Attrezzature e materiali

 

Per avvicinarsi all’autonomia dei semiconduttori, la Cina dovrà trovare un modo per produrre le apparecchiature e i materiali necessari per realizzare i chip. Questo cestino include il software EDA necessario per progettare i chip, l’attrezzatura specializzata che esegue le fasi di deposizione, litografia, incisione, impianto ionico e controllo del processo che trasformano un wafer di silicio in chip utilizzabili, oltre a prodotti chimici speciali, gas e altri materiali utilizzato in diverse fasi del processo.

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Le barriere all’ingresso in tutti questi segmenti sono elevate e la concentrazione del mercato è estrema. L’EDA è completamente controllata da tre società americane: questo software deve essere perfetto simulatore della fisica dei semiconduttori, altrimenti il ​​prodotto fabbricato non assomiglierà ai progetti. I beni capitali che consentono di incidere i chip sui wafer sono appannaggio di poche aziende, le più importanti delle quali sono Lam Research, Applied Materials e KLA-Tencor negli Stati Uniti, ASML nei Paesi Bassi e Tokyo Electron negli Stati Uniti Giappone. La macchina più avanzata di ASML è uno strumento di litografia ultravioletta estrema da $ 200 milioni, che proietta i laser su goccioline di stagno fuso per creare un plasma che rilascia luce di lunghezza d’onda straordinariamente corta, l’intero processo è controllato da un software personalizzato. I prodotti chimici e i materiali sono prodotti da un piccolo gruppo di aziende altamente specializzate, molte delle quali in Giappone. Le aziende cinesi occupano minuscole nicchie nel software, nelle apparecchiature e nei materiali, rappresentando l’1-5% del mercato globale, ma sono quasi esclusivamente nella fascia bassa e non vi sono ancora indicazioni di un serio sforzo per recuperare. molti di loro in Giappone. Le aziende cinesi occupano minuscole nicchie nel software, nelle apparecchiature e nei materiali, rappresentando l’1-5% del mercato globale, ma sono quasi esclusivamente nella fascia bassa e non vi sono ancora indicazioni di un serio sforzo per recuperare. molti di loro in Giappone. Le aziende cinesi occupano minuscole nicchie nel software, nell’hardware e nei materiali, rappresentando l’1-5% del mercato globale, ma sono quasi esclusivamente nella fascia bassa e non vi sono ancora indicazioni di un serio sforzo per recuperare.

 

Lezioni di scacchi

 

Finora la campagna cinese sui semiconduttori ha prodotto grandi successi (in particolare HiSilicon) e fallimenti più interessanti. Le battute d’arresto sono un utile promemoria che anche in Cina l’ambizione tecnologica alimentata da grandi somme di denaro non garantisce risultati.

 

Il fallimento più spettacolare è quello della Wuhan Hongxin Semiconductor Manufacturing Co., che era essenzialmente una frode sostenuta da sussidi. Nonostante la sua mancanza di esperienza nel settore, il fondatore ha attirato quasi $ 20 miliardi di investimenti ed è riuscito ad assumere un ex dirigente senior di TSMC, che si è dimesso nel giugno 2020 dopo aver denunciato il tempo che era passato come un “incubo”. Un altro spettacolare fallimento è stato quello di Fujian Jinhua, un corteggiatore DRAM che è stato oggetto di un procedimento penale statunitense dopo aver presumibilmente dirottato segreti commerciali dalla società statunitense Micron. Gli Stati Uniti hanno imposto controlli sulle esportazioni che hanno privato l’azienda di strumenti di produzione da fornitori americani e ASML, e Fujian Jinhua hanno sospeso le operazioni nel 2018. Le joint venture lanciate da TowerJazz, GlobalFoundries e Qualcomm a Nanchino, Chengdu e Guizhou hanno tutte dichiarato bancarotta. Tsinghua Unigroup, una holding sostenuta dallo stato che ha partecipazioni in YMTC e altre importanti società di chip, è inadempiente su alcune delle sue obbligazioni, sebbene le operazioni delle sue sussidiarie non sembrino essere influenzate.

 

Questi fallimenti illustrano diversi ostacoli alle ambizioni dei semiconduttori della Cina. Il crollo di Hongxin mostra il rischio di programmi di sovvenzione pesantemente finanziati ma scarsamente regolamentati. Dopo la debacle, la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma ha annunciato che avrebbe rafforzato la supervisione e un portavoce dell’NDRC ha detto che troppi progetti sono stati avviati da “intrusi non qualificati”. Il caso Fujian Jinhua rivela la difficoltà di ottenere o sviluppare proprietà intellettuale competitiva su scala globale, nonché la vulnerabilità delle aziende cinesi alle sanzioni statunitensi.

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I fallimenti che non implicano la criminalità mettono in luce problemi strutturali più prosaici. Innanzitutto, la fabbricazione dei trucioli è complessa. La creazione di un circuito integrato richiede circa 700 passaggi. Se la percentuale di successo è del 99,9% in ogni passaggio, sarà utilizzabile solo la metà del prodotto finale. In secondo luogo, la Cina è in ritardo: ha iniziato a interessarsi seriamente ai semiconduttori solo alla fine degli anni ’90, quando potenti operatori storici erano già presenti in molti segmenti. Le aziende cinesi devono affrontare una sfida enorme per raggiungere la frontiera tecnologica, per non parlare di portarla avanti. E la natura frammentata del sostegno statale crea una struttura industriale inefficiente. In altri paesi, le industrie nascenti nel settore della tecnologia dell’informazione sono state avviate in cluster ristretti come la Silicon Valley o il parco scientifico Hsinchu di Taiwan. In Cina le start-up sono sparse in tutto il Paese grazie agli incentivi dei governi locali. Infine, per decenni, gli Stati Uniti hanno mantenuto una politica di controllo delle esportazioni informale (e non sempre coerente) al fine di mantenere le aziende cinesi indietro di due generazioni sulle tecnologie avanzate.

 

I principali problemi della Cina sono le spese e il personale. Per quanto enorme possa sembrare il sostegno finanziario della Cina per la sua industria dei circuiti integrati, potrebbe non essere sufficiente. Costruire fabbriche è una cosa, spendere soldi anno dopo anno in ricerca e sviluppo, miglioramento dei processi e nuove attrezzature necessarie per aumentare la produttività e le prestazioni e ridurre il costo dei chip finiti è un’altra. Ogni anno, le aziende cinesi di semiconduttori vengono brutalmente superate dai leader del settore. Le società cinesi produttrici di chip rappresentano meno del 5% della R&S del settore privato globale in questo settore. Il totale dei fondi raccolti dal National IC Fund in cinque anni equivale a un anno del budget di investimento combinato di Samsung e TSMC. TSMC prevede ora di spendere 100 miliardi di dollari nei prossimi tre anni per espandere la propria posizione dominante nel settore manifatturiero e il nuovo CEO di Intel ha annunciato investimenti per 20 miliardi di dollari in nuovi stabilimenti. A causa dei costi, è difficile per la Cina raggiungere la frontiera tecnologica, per non parlare di portarla avanti.

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Anche con finanziamenti abbondanti, le aziende cinesi produttrici di chip sarebbero ancora a corto di talenti. A causa della loro inesperienza nella produzione, i loro ingegneri non hanno la stessa conoscenza dei processi delle loro controparti estere. Gran parte della conoscenza richiesta per creare elenchi puntati non è incorporata negli strumenti e non può essere acquisita in istruzioni esplicite. Il Ministero dell’Industria e dell’Information Technology stima che l’industria cinese dei chip stia affrontando una carenza di 320.000 ingegneri e che le università cinesi formino solo circa 30.000 ingegneri qualificati all’anno. La carenza di dirigenti senior che sanno come gestire aziende di chip di successo è ancora più acuta. Una delle soluzioni è cacciare ingegneri e dirigenti di aziende leader di Taiwan e della Corea del Sud, attirandoli con enormi stipendi e grandi prospettive di crescita. Ci sono stati acquirenti, ma secondo una società di reclutamento di Taipei, solo un migliaio di ingegneri senior taiwanesi hanno lasciato la terraferma dal 2014 e molti sono tornati a Taiwan dopo un breve periodo. Il processo di formazione di un pool di talenti nazionale sarà lungo. e molti sono tornati a Taiwan dopo poco tempo. Il processo di formazione di un pool di talenti nazionale sarà lungo. e molti sono tornati a Taiwan dopo poco tempo. Il processo di formazione di un pool di talenti nazionale sarà lungo.

Riusciranno le ONG e il Parlamento europeo a provocare la guerra civile in Ciad?_di Bernard Lugan

Intanto che, per “miracolo”, il Ciad non è (ancora?) deflagrato dopo la morte di Idriss Déby  solo perché un forte potere ha riempito il vuoto politico causato dalla sua scomparsa, il Parlamento europeo giunge a convocare il CMT (Transitional Military Council ), per avviare “urgentemente un processo democratico pluralista” chiedendo un ritorno surrealista all ‘”ordine costituzionale e al rispetto dei valori democratici”, cedendo il potere agli “attori della società civile”, al fine di “garantire la transizione pacifica attraverso elezioni democratiche ”.
Totalmente ignaro  delle faglie nella tettonica etnica ciadiana e della storia caotica del paese dagli anni ’60, accecato dall’ideologia democratica, la “cosa” di Bruxelles non poteva fare di meglio per creare le condizioni per il caos. Questa posizione fuori dal mondo non dovrebbe sorprendere perché, in verità, questa cecità  è la conseguenza del “lobbismo” praticato da ONG irresponsabili che tessono il web  ideologico in cui imprigionano il parlamento di Bruxelles. Dietro questa posizione troviamo, tra gli altri, il marchio  di “Bread for the World”, l’organizzazione delle chiese protestanti ed evangeliche tedesche, quella di “CCFD Terre solidaire”, quella di “Agire insieme per i diritti umani, quella di“ Misereor ”l’organizzazione dei vescovi cattolici tedeschi” e quella di Acat (Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura). E l’elenco potrebbe proseguire …
Così, in nome delle “virtù cristiane destinate all’impazzimento”, queste ONG, in gran parte confessionali, si sono impegnate coscienziosamente a preparare la strada alla dislocazione del Ciad, una serratura essenziale della stabilità regionale. Infatti, se il CMT avviasse un processo democratico, l’etno-matematica elettorale ciadiana darebbe potere ai più numerosi, cioè ai meridionali. Tuttavia, dall’indipendenza, la vita politica in Ciad ha invece ruotato attorno ai principali gruppi etnici del nord, ovvero gli Zaghawa, i Toubou di Tibesti (i Teda), i Toubou di Ennedi-Oum Chalouba (i Daza-Gorane) e gli arabi di Ouadaï che ammontano a meno del 25% della popolazione del paese (si veda su questo argomento il mio libro: Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri ) . Tuttavia, le ONG e gli eurodeputati rifiutano di vedere che è intorno alle loro relazioni interne a lungo termine, alle loro alleanze, alle loro rotture e alle loro riconciliazioni più o meno effimere che da allora è stata scritta la storia del paese. È intorno a loro che si sono combattute tutte le guerre in Ciad dal 1963. È dalle loro relazioni che dipende il futuro del paese, essendo la maggioranza della popolazione solo spettatrice-vittima dei loro crepacuori e delle loro ambizioni. Eccoci qua, la legge della “democrazia parlamentare …”
Se gli attuali leader ciadiani cedessero al diktat europeo ispirato dalle ONG, il Ciad cadrebbe in guerra come il Mali, con le minoranze settentrionali che rifiutano il totalitarismo democratico meridionale basato sulla sola legge dei numeri.
Il Ciad deve quindi rifiutare il ricatto democratico e il suo complice, l’odioso e ipocrita neocolonialismo della  pietà ed emotivo. Ne va della pace civile. Non perdiamo di vista il fatto che è stato il diktat democratico imposto dalla Francia socialista al generale Habyarimana che ha risvegliato e poi esacerbato le fratture della società ruandese, che hanno portato al genocidio (si veda su questo argomento il mio libro Rwanda: un genocide en questions ) .
Più in generale, e a meno di rimanere per l’eternità  colonizzati, gli africani devono cacciare gli sciami di ONG che si abbattono su di loro. Cosa possono fare queste organizzazioni costituite da persone escluse, lasciate o pensionati dai paesi del Nord, le cui motivazioni altruistiche mascherano il fatto che troppo spesso sono loro stesse alla ricerca di soluzioni ai loro  problemi esistenziali o materiali? Salvo rare eccezioni in campo medico o come nel caso di alcune ammirevoli organizzazioni come l’Ordine di Malta, questi “piccoli bianchi” soffocano letteralmente l’Africa sotto il peso delle loro lamentele umanitarie, sotto i loro “piccoli” progetti dalle “piccole” capacità, mosse da “piccole” ambizioni, tutte supportate da “piccole” risorse e soprattutto con una totale mancanza di prospettiva e coordinamento.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .
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