Qui sotto un saggio di Teodoro Klitsche de la Grange pubblicato nel 1990 dal periodico Behemoth http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01
Considerazioni sul pensiero di Hauriou, Schmitt e Romano
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, Schmitt. – 3. Linee di elaborazione successiva. – 4. Il carattere fondamentale del l’organizzazione nel pensiero istituzionista. – 5. Conclusione.
- – All’influenza di Santi Romano dob biamo che, per i giuristi italiani non orientati verso il normativismo, è quasi un luogo comune affermare che è l’ordinamento a produrre il diritto, o meglio il diritto è tale, in quanto è ordinamento. E, per definire l’ordinamento, si è per lo più ricorsi al concetto di organizzazione (1), impie gato dal giurista siciliano per dare l’idea di che cosa, in primo luogo, fosse l’ordinamento giuridico. Da questa consapevolezza si è fatta derivare la necessità di studiare, per capire il fenomeno giuridico, le organizzazioni; e, del pari, che queste sono fonte non solo di rapporti giuridici, ma di norme, e, in genere, di diritto oggettivo.
Se però andiamo a vedere cosa s’intende per organizzazione (lasciando momentaneamente da parte l’ordinamento) si scopre una genericità definitoria, e spesso, un’assenza totale di definizione. Così tale concetto, indicato talvolta come la nuova frontiera del diritto (pubblico), assume le sembianze dell’araba fenice, di cui secondo un noto detto, tutti giuravano dell’esistenza, ma senza sapere, non avendola vista, come fosse. Soluzione che appartiene al genere delle scorciatoie scientifiche, restie alla precisione concettuale, quanto prodighe nell’impiego di termini, che, indefiniti, proprio perciò sono assai comodi. Ciascuno infatti può connotarli come vuole, e trovarsi tuttavia d’accordo, come i teologi ricordati nelle “Lettres Provinciales” con chi, pur servendosene, ne ha un concetto opposto.
Accanto a chi si contenta di questo approccio pirandelliano, vi sono altri che, volenterosamente, hanno voluto dare una fisionomia all’araba fenice. E così si è sostenuto che perché un gruppo umano possa avere un’organizzazione occorre: a) una distinzione di compiti – questa ritenuta essenziale -; b) per il raggiungimento di un fine : non sem pre ritenuto essenziale né necessario.
A ben vedere non ci si può ritenere appagati da tale connotazione tributaria più all’analisi semantica del termine che alla sua effettiva corrispondenza alla realtà.
Invero, se la si volesse seriamente applicare nel mondo giuridico, non si potrebbe fare a meno di considerare organizzazioni -e per tale via, almeno in parte e/o in nuce – ordinamenti, anche gruppi umani a carattere effimero ed occasionale. I turisti di un viaggio “organizzato” o i bambini che giocano ai quattro cantoni sarebbero così la morula delle grandi organizzazioni sociali (2). Identiche nei connotati essenziali – come l’individuo sviluppato rispetto all’embrione – e diverse solo quantitativamente, perché, come l’individuo, enormemente più ricche di cellule e assai più differenziate.
In effetti al di là delle considerazioni che possono farsi su tali concezioni, appare chiaro che sono assai lontane (e non hanno colto i caratteri più pregnanti) del concetto (di ordinamento e) di organizzazione, formulato dai giuristi – comunemente “classificati” come istituzionisti -come Santi Romano, Maurice Hauriou ed, in certa misura, il “secondo” Carl Schmitt (3). A questi, in effetti non sarebbe capitato di formulare un concetto così poco adattabile al fenomeno primario dell’esperienza giuridica da essi considerato, e cioè lo Stato.
Nel loro pensiero è l’analisi dell’istituzione-Stato a costituire la base per la costruzione dei concetti su ricordati, di cui rappresenta la forma-concreta-più complessa ed avanzata. E, dello Stato, l’essenziale è costituito dalla stabilità e dall’effettività; pertanto tutti, in misura maggiore o minore, sottolineano tali caratteri, che un gruppo umano deve avere per costituire un ordinamento. Stabilità i cui connotati sono variamente individuati: da quello puramente temporale (la durata) alla certezza dei rapporti, al progetto politico (all”‘idea” e forse anche alla “formula politica” di Gaetano Mosca) e soprattutto al concreto rapporto di comando – obbedienza che deve sussistere in ogni organizzazione sociale che non sia effimera od occasionale. Su quest’ultimo aspetto (che ha carattere determinante rispetto agli altri, perché è il sussistere di rapporti di comando ed obbedienza che conferisce durata, certezza e concretezza all’istituzione) è d’uopo soffermarsi.
- Il pensiero istituzionista di Hauriou, Romano, – In effetti nel pensiero degli autori citati, tranne che per Schmitt, l’essenzialità del rapporto comando-obbe dienza per l’esistenza di un’organizzazione sociale non è stata posta in rilievo maggiore di altri caratteri; ciò spiega in parte perché sia stata successivamente quasi totalmente dimenticata a beneficio d’interpretazioni riduttive del pen siero dei due giuristi, ma, soprattutto, della teoria istituzionista. Hauriou, com’è noto, pone in rilievo, nel costruire il proprio concetto d’istituzione, quelli di “potere” “ordine” e “libertà”. Non è inesatto affermare che dei tre concetti è stato il secondo ad aver più successo. Primo e terzo sono stati assai meno considerati. Ma non è inutile notare come è il”potere” a costituire la base del pensiero di Hauriou, nel quale tutti e tre confluiscono e caratterizzano il concetto di istituzione.
È questa a ricondurre ad unità la dialettica fra questi elementi. Ma non può dimenticarsi che nel concetto di potere il giurista francese concentrava gli aspetti volontaristici e soggettivistici della propria concezione del diritto; secondo Hauriou “Il potere è una libera energia della volontà che assume il compito del governo di un gruppo umano mediante la creazione dell’ordine e del diritto” (4). Essenziale a questo compito creativo è il comando, per cui, qual che pagina dopo, nel delineare i caratteri dell’organizzazione sociale, specifica: “Il y a d’abord une erreur à éviter (dans laquelle, bien entendu, des quantités de gens se sont précipités): c’est l’explication de l’organisation sociale par la divisione du travail ou par la différenciation des fonctions entendue au sens économique de la loi du moindre effort. Il y a une trentaine d’années, on a cru à cette explication par les organismes vivants; je pense qu’on en est revenu. En tout cas, en matiére d’organisation sociale, la differéncia tion des organes et des fonctions, au sense économique, est un phénomène tardif, et non point primaire. Les phénomèns primaires sont d’ordre politique, c’est l’apparition d’un centre directeur ou fondateur, celle d’organes de gouvernement, celle d’equilibres gouvernamentaux et, enfin, des consentements” (5); onde conclude che “l’apparizione del Centro fondatore e degli organi di governo costituisce, se si vuole, una differenziazione tra governcmti e governati, ma questa è di natura politica e non ha alcun rapporto con la divisione del lavoro” (6). L’organizzazione sociale lungi dallo spiegarsi con il meccanico svolgersi di leggi naturali, sorge da una “libera energia della volontà”, questa energia crea “l’ordine ed il diritto”; l’ordinamento (e l’organizzazione) nasce con la differenziazione tra governanti e governati, distinzione che non ha nulla d’economico.
Per Santi Romano, “ogni forza che sia effettivamente sociale e venga quindi organizzata si trasforma perciò stesso in diritto… Viceversa non è diritto… soltanto ciò che non ha organizzazione sociale” (7). E che cos’è un’organizzazione sociale? Santi Romano aveva una giusta diffidenza verso il concetto: ma quando giunge a dare una rappresentazione delle istituzioni (in rapporto al concetto d’organizzazione), scrive che: “…Tali enti vengono a stabilire quella sintesi, quel sincretismo in cui l’individuo rimane chiuso; è regolata non soltanto la sua attività, ma la sua stessa posizione, ora sopraordinata ora subordinata a quella di altri, cose ed energie sono adibite a fini permanenti e generali, e ciò con un insieme di garanzie, di poteri, di assoggettamenti, di libertà, di freni, che riduce a sistema e unifica una serie di elementi in sé e per sé distinti. Ciò significa che l’istituzione, nel senso da noi profilato, è la prima, originaria ed essenziale manifestazione del diritto. Questo non può estrinsecarsi se non in un’istituzione, e l’istituzione intanto esiste e può dirsi tale in quanto è creata e mantenuta in vita dal diritto” (8).
Anche nel trattare della giuridicità degli ordinamenti considerati “antigiuridici” sostiene che è “un’ordinamento giuridico…; in quanto irreggimenta e disciplina i propri ele menti” (9). È significativo che Romano dia quasi per nulla peso alla differenziazione delle funzioni, e ne attribuisca tanto ai concetti di “unità” e “chiusura” per definire l’istitu zione: ma, in relazione a ciò, giova sottolineare che è difficile, se non impossibile, concepire un ordinamento “unito”, se non attraverso il potere di comando di un individuo (o di un organo) su altri individui (od organi) e il correlativo crearsi di posizioni (status) di sovra e sottoordinazione.
C’è poi un passo dell’ Ordinamento giuridico in cui ilgiu rista chiarisce in modo decisivo tale carattere essenziale dell’ordinamento: ed è quando ricorda “che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice … Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti” (10). Anche in questo passo Santi Romano individua nel potere (di comando) la condizione necessaria perché sussista un ordinamento (e con ciò l’organizzazione del gruppo sociale). D’altra parte in ciò è coerente col pensiero espresso in altri saggi. In uno dei più interessanti, !”‘Instaurazione di fatto di un ordinamento giuridico” , il rapporto forza-diritto-legittimità è analizzato in modo che risulterebbe incomprensibile, a non tener presente il concetto di istituzione, proficuamente caratterizzato dal rapporto comando-obbedienza. Analogamente nel descrivere l’organizzazione unitaria di un movimento rivoluzionario (che è un ordinamento giuridico, “sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”), Romano ricorda “ci saranno dirigenti … norme di vario genere che regolano le attività rivoluzionarie, persone ed enti che obbediscono a tali norme, sanzioni…” (11).
Sembra superfluo sottolineare che il concetto d’ordinamento giuridico da Schmitt tratteggiato negli anni ’30 presuppone, anzi è costruito, intorno al rapporto comando obbedienza. Non solo Schmitt parla ripetutamente, nel riferirsi all’ordinamento concreto ed all’istituzione, di gerarchia e di disciplina, proprio negli scritti in cui sarebbe avvenuta la svolta del grande giurista verso l’istituzionismo; ma anche negli scritti precedenti, specialmente nella Politi sche Theologie I e nella Verfassungslehre è manifesto che l’esistenza di un’ordinamento (anche se Schmitt si riferisce quasi sempre ad un ordinamento politico) è determinato dal fatto che alcuni uomini hanno il (diritto di) comando su altri uomini.
Una comunità e un ordinamento sono tali in quanto sussi stono rapporti di sovra e sotto ordinazione tra le persone che vi partecipano (12). La stessa polemica che Schmitt svolge contro il concetto di ordinamento – come inteso dai giuristi normativisti – (13) rivela, accanto alla contrapposizione principale (tra diritto come ordinamento e diritto come norma) una, secondaria ma rivelatrice, tra concezione d’ordine” elaborato sui concreti rapporti tra componenti l’istituzione e quella fondata su regole meramente tecniche o comunque applicabili solo in una società dove vigono norme basate sullo “scambio” (cioè in definitiva, costituita di rapporti tendenzialmente e prevalentemente economici). Il carattere di categoria generale ,che ha un ordine del primo tipo e quello -limitato, se non eccezionale
– del secondo non hanno bisogno di essere sottolineati.
Schmitt non sottovaluta gli elementi dell’istituzione non totalmente riducibili al rapporto comando-obbedienza: nel suo pensiero la legittimità è (in parte) il corrispondente dell’idea di Hauriou. Tuttavia l’ispirazione continua che trae dai pensatori controrivoluzionari, (il cui pensiero giuridico
– in termini necessariamente generici – potrebbe definirsi un misto di istituzionismo e decisionismo) gli evita di cadere nel soggettivismo esasperato, che è la principale strada che si apre ad un decisionista conseguente. La polemica anti romantica, contro un “Io” politico svincolato da ogni riferimento alla concreta situazione storica e politica; il suo stesso definirsi, negli anni ’30 “organo del pensiero giuri dico del popolo tedesco”, ancorava il suo decisionismo all”‘ubi consistam” della situazione storica, determinata da tutte le “costanti” di cui l’uomo di governo (e lo scienziato politico) deve tener conto.
Resta il fatto, di per sé incontrovertibile, che tutti e tre i grandi giuristi delineavano il concetto di organizzazione in termini che hanno poco a che vedere con la divisione dei compiti tra più soggetti: questa appare loro secondaria, e, tutto sommato, derivata da quell’altra, essenziale, divi sione dei compiti, che vuole il gruppo sociale costituito quando qualcuno comanda e gli altri obbediscono. Del pari la stessa attività “regolativa” o di normazione, appare secondaria e derivata rispetto all’essenzialità di quel rapporto, come giustamente rilevava Santi Romano, coll’esempio – dinnanzi ricordato – di una comunità il cui tessuto connettivo era costituito dalle decisioni dei giudici (14).
- Linee di elaborazione – Nella successiva elaborazione del concetto anche da parte dei giuristi più vicini all’ipotesi istituzionista, questa costante dell’idea di ordinamento (ed organizzazione) è andata – in parte – smarrita. C’è, quindi, chi ha identificato gli elementi neces sari dell'”ordinamento giuridico”, nella plurisoggettività, nella normazione, e nell’organizzazione. E quest’ultima, come accennato sopra, è caratterizzata esclusivamente dalla divisione dei compiti, con relativa istituzione di “uffici”. Talaltro ha voluto ricavare il concetto d’organizzazione basandosi su quello di “potere” (giuridico), ritenuto un prius rispetto a quello di diritto, e in grado di spiegare, in tali termini, i rapporti tra organi della stessa organizzazione, che è poi uno dei punti dolenti delle tematiche degli ordinamenti. Con ciò indubbiamente ci si avvicina di più alle concezioni dei tre giuristi ricordati, non foss’altro perché, nell’analisi semantica del termine “potere” è implicito, in una certa misura, minima se si vuole, il concetto di dominio, di signoria e quindi di comando. Ma le potenzialità positive di tale concezione non sono state spesso conseguentemente sviluppate e portate alle logiche conclusioni.
Il potere diventa così, più che altro, il contenuto (e il limite) della competenza dell’organo, anfibiologicamente (e, talvolta, ambiguamente) definibile sia in termini di divisione dei compiti (o del lavoro) sia in relazione ai rapporti di sovra e sottoordinazione. In questo si può notare la dimenticanza di un dato giuridico essenziale, costante preoccupazione dei teorici dell’istituzione, espressa in particolare da Schmitt e da Romano: quello dell’unità dell’ordinamento. A tale proposito è appena il caso di rilevare, prescindendo, al momento, da considerazioni di teoria generale e di sociologia del diritto, che qualsiasi organizzazione sociale può agire per il diritto, in quanto “unità”. Il diritto positivo non prende in considerazione, come soggetti di diritto, se non persone, fisiche o giuridiche che siano. Perché un gruppo possa essere centro d’imputazione di rapporti, occorre che i componenti raggiungano un’unità (di volizione e/o di azione). È solo questa che consente al gruppo d’agire e di avere rilievo giuridico.
A ·trasporre questo dato in termini di teoria generale (cioè in quelli in cui lo formulavano Schmitt, Hauriou e Romano) ciò significa che un gruppo sociale può avere consistenza d’ordinamento, quando (attraverso la sua organizzazione) opera la reductio ad unitatem delle volontà dei membri; al minimo, attraverso un differente potenziale di potere tra i componenti, che assicuri in ogni caso una decisione valevole per tutti. Se questa unità non c’è, non c’è neppure ordinamento, né organizzazione. Di guisa che il problema di quale ne sia l’elemento essenziale e basilare consiste nell’identificare quello che consente di unificare le varie componenti, e renderle così capaci di agire unitariamente. Questo è, indubbiamente, l’organizzazione “gerarchica” (intendendo tale termine in senso ampio) del gruppo (15), per cui ogni organizzazione ha un centro di riferimento dominante e decisivo rispetto agli altri. È significativo del disinteresse verso tale approccio, che sia stato poco considerato come il diritto positivo, laddove, in un’ente, non si riesca a raggiungere questa unità (e conseguentemente capacità d’agire), provveda con meccanismi “di supplenza”, tipici gli organi straordinari commissari o i provvedimenti “sostitutivi”, nominati o deliberati da uffici ed organi di Enti sovraordinati. La scarna riflessione su questi istituti è in puntuale corrispondenza con la sottovalutazione dell’elemento “autoritario” e del carattere unitario dell’istituzione, che da quello è assicurato.
D’altra parte, l’acuta sensibilità di Schmitt e Romano ai problemi del diritto “statu nascenti” ed alla concretezza storico-politica faceva dell’idea di unità il dato (e l’esigenza) necessaria e centrale. Lo studio, acuto anche se non approfondito, dell’organizzazione rivoluzionaria che fa il giurista siciliano, lo rende palese. Tutti, d’altra parte, possono immaginare che fine avrebbe fatto la Rivoluzione d’ottobre, se, dopo la votazione del comitato centrale nella notte del 23 ottobre 1917, maggioranza e minoranza bolscevica fossero andate ciascuna per la propria strada, e, ancor di più se i militanti non avessero eseguito (o eseguito solo in parte) le decisioni del Comitato centrale.
L’idea di unità è d’altronde implicita nel concetto di “pouvoir” che tanta importanza ha nel pensiero di Hauriou. È importante notare come allo stesso appariva del tutto naturale che nell’idea di “pouvoir de droit” confluiscano i due aspetti della competenza (intesa in senso lato) e del dominio (che per Hauriou, dato il carattere burocratico dell’istituzione-Stato consiste soprattutto nel potere di controllo).
Dato che, come abbiamo visto, il concetto d’organizzazione accolto da alcuni giuristi successivi non è, se non in modesta misura, riferibile al pensiero di Romano, Schmitt ed Hauriou occorre ricavare quali referenti culturali abbia la concezione criticata.
È condivisibile che una teoria istituzionista del diritto, è, come sostiene Schmitt con espressione sintetica, una teoria caratterizzata dal carattere di sovrapersonalità, cui si contrappongono la personalità del decisionismo e l’impersonalità dell’impostazione normativistica (16). Tale scriminante, in sé riferibile più che al pensiero concretamente espresso, a tipi ideali, è un punto di partenza per comprendere i presupposti di una teoria istituzionale “debole”.
È indubbio che dopo il soggettivismo ed il razionalismo della seconda metà del XVIII secolo, fondamenti ideali della rivoluzione borghese, col XIX si apriva un periodo di prevalenza degli aspetti oggettivistici, considerati le “determinanti” del diritto. Non era solo la Scuola storica del diritto, né la filosofia hegeliana o i suoi epigoni (tra cui Marx): era la maior pars del pensiero politico-giuridico a reagire al soggettivismo razionalistico della Rivoluzione Francese. In linea generale ciò appare evidente: è più interessante però notarne le conseguenze sulla teoria generale del diritto.
A tale proposito, la prevalenza, nella seconda metà del XIX secolo, del positivismo giuridico, ha costituito un freno al formarsi di concezioni giuridiche che tenessero in gran conto gli aspetti sociologico-fattuali non solo come condi zionanti (in modo decisivo) il diritto, ma come costitutivi dello stesso, attraverso concetti come !'”istituzione” o simili ( ciò con l’eccezione, notata abitualmente, di Otto Gierke).
In questo senso, il positivismo giuridico della seconda metà dell’800 ha impedito che le concezioni maturate in altri ambiti scientifici potessero avere compiuta rispondenza in quello giuridico. Questo è vero in particolare per la teoria dell’istituzione. È certo, a tale riguardo, che tra il pensiero istituzionista e le (prevalenti) concezioni politico istituzionali del periodo della Restaurazione c’è un nesso evidente; del pari molti giuristi hanno sottolineato il carattere “sociologico” della concezione istituzionista, creando un nesso (che c’è, ma probabilmente più tenue di quanto si creda) tra sociologia e teoria istituzionale.
Senonché la sociologia, come qualunque scienza naturale, va alla ricerca delle determinanti e delle costanti dell’agire sociale; una spiegazione del diritto in termini puramente (meglio sarebbe dire piattamente) sociologici porta a sottovalutare e ad espungere dal mondo giuridico l’azione della libera volontà umana (Hauriou) e l’orgoglio della decisione fondamentale (Schmitt). E, quel che è più gra vido di conseguenze negative, la sociologia studia il diritto come fatto, mentre la scienza del diritto ha – ovviamente – una visione più ampia, comprensiva e diversa del fenomeno giuridico.
Ad applicare (con una certa ingenuità) il metodo delle ricerche sociologiche, è chiaro che costituiscono fatti l’esistenza di un gruppo sociale, la normazione che questi si da e l’organizzazione in cui si articola. Mentre sono spiegazioni di tali fatti, che l’organizzazione sia tale anche perché c’è una distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra ciò che è comune e ciò che è individuale, o per la funzione che ha l’istituzione.
La spiegazione di un fatto però si presta, agli occhi di metodologi incantati dalla “oggettività” e dalla “misurabilità” del dato empirico, ad essere tacciata di non scientificità, se non di pregiudiziali ideologiche. A poco vale che, in uno specifico campo d’indagine, il dato empirico spieghi assai meno di una valutazione e definizione degli elementi in gio-
co, o meglio che quello sia solo (e in parte) la base su cui lavorare per arrivare a conclusioni di reale interesse.
Quando poi l’empirismo sociologico si coniuga con il determinismo economico, la distorsione del dato reale è assicurata. Da un simile mélange , tutti i concetti giuridici
vengono piegati ai presupposti elementari di un sistema di pensiero economico. La distinzione dei compiti nell’apparato di “governo” del gruppo diventa così una sottospecie della divisione del lavoro: come questa è determinata dalla razionalità funzionalistica di una migliore utilizzazione delle attitudini di ciascuno, ai fini di una maggiore produttività sociale; la stessa distinzione tra chi comanda e chi obbedisce (che è la base, sia pure funzionale, dell’ineguaglianza tra governanti e governati) diventa irrilevante, ma più ancora incompatibile, con un sistema di pensiero dominato dai postulati dell’eguaglianza tra homines aeconomici e della loro libertà di scegliere, acquistare e vendere, a pari condizioni, dei beni.
Al termine di questa strada, non si riesce più a comprendere in cosa una società cooperativa differisca dallo Stato, o, all’altro estremo sociologico, da un gruppo sociale occasionale. Che proprio teorici come Schmitt ed Hauriou aves sero messo in guardia contro queste interpretazioni economicistiche del diritto e del concetto d’istituzione è cosa che potrebbe, al limite, interessare poco, se non si volesse poi, attribuire alla teoria istituzionale implicazioni espressamente rifiutate dai “soci fondatori”. Come del pari, è evi dente che, come sopra cennato, lungi dal ricondursi ad una qualche forma di determinismo sociale, il pensiero di Hauriou appare ispirato al bergsoniano èlan vita!, all’istituzione come impresa della volontà umana libera e creatrice; e quello di Schmitt alla decisione sovrana, condizionata sì dalla situazione storica, ma, quanto meno nel caso d’eccezione, libera nei mezzi e, in certa misura, negli stessi fini.
Sotto un diverso aspetto, la teoria dell’istituzione è stata percepita (e recepita) come reazione avverso la “statalità” del diritto e come negazione del “monopolio” statale alla sua produzione, cui contrappone la pluralità degli ordina- menti giuridici.
Le valenze pluralistiche della teoria sono state tra le meglio accette, specie quando si coniugavano con precise (ancorché differenti) posizioni ideologiche. È stato quindi una conseguenza logica che dalla constatazione della pluralità degli ordinamenti si passasse al pluralismo, dal relativismo vitalistico e realistico all’ideologia del neo-corporativismo, se non del neo-feudalesimo (17). Questa è stata grandemente facilitata dall’immissione di robuste dosi di normativismo nella teoria dell’istituzione: il pluralismo così inteso consente infatti di coniugare il diritto “originario” all’esistenza ed all’autonomia dei più svariati gruppi (ed istituzioni) con le garanzie che solo uno Stato legislativo parlamentare, con le sue norme “misurabili”, promulgate con leggi (costituzionali ed ordinarie) non facilmente modificabili, può offrire congruamente.
Applicando ai tipi di pensiero giuridico le correlazioni che Schmitt stabilisce tra “tipi” di Stato (giurisdizionale, legislativo-parlamentare, governativo-amministrativo) e scelte politiche (conservatorismo, evoluzionismo progressista, radicalismo di destra o di sinistra), si può affermare che un tipo istituzionale “puro”, si coniuga col conservatorismo; quello normativista col progressismo moderato ed evoluzionista; il decisionismo col radicalismo. Con tutte le approssimazioni e i distinguo che il tema ed il carattere di queste classificazioni impone, il massimo della chiarezza nei risvolti politici di tali concezioni può però ancor meglio ritrovarsi nelle forme “miste” che nei tipi “puri” di pensiero. Sotto tale profilo, nella realtà storica la miscela più con servatrice è indubbiamente quella tra istituzionismo e normativismo. (nel senso precisato). In effetti una teoria istituzionale “pura” è una teoria del “movimento” (evolutivo) del diritto prodotto dalle varie articolazioni dell’istituzione (Hauriou); mentre una regolamentazione legislativa rigida dell’attività sociale tende ad imbalsamarla in forme e rap porti la cui evoluzione viene resa più difficile.
A ben vedere questa particolare “garanzia” della stabilità, tipica della vulgata pluralista, non la si trova nel concetto d’istituzione (o di ordinamento) di nessuno dei tre grandi giuristi: il paragone della scacchiera di Santi Romano, con l’organizzazione come prius e “ragione sufficiente” rispetto alla produzione normativa, con la stessa coesione dell’ordinamento ritenuta indipendente dalle “norme”, ma assicurata dal comando, rende bene il senso del concetto, in cui è il reale che precede e prevale, in ogni caso, sul normativo.
Come lo rende la contrapposizione di Schmitt tra la necessaria indeterminatezza di certi concetti, peculiari di un ordinamento concreto, perciò stesso applicabili solo in un determinato contesto di rapporti sociali, ed il concetto di “norma” della dottrina normativista (18).
Ciò perché, a differenza di alcune impostazioni “pluralistiche”, la teoria dell’istituzione non prescinde mai dai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, né dalla concreta situazione che in quelli trova una costante. La pluralità di ordinamenti e la loro compresenza nella realtà sociale non ne significa l’eguaglianza, né tanto meno il diritto all’esistenza. Un pluralismo, gravido di implicazioni giusnaturalistiche, concepisce invece l’esistenza di una pluralità di ordinamenti come diritto all’esistenza medesima. Sostituendo così l’indi viduo ed i diritti dell’uomo, punto di partenza del liberali smo politico, con i gruppi ed i loro diritti “naturali” o “storici”, senza che con ciò, mutino presupposti e risultati; né si attingano le valenze realistiche della teoria dell’istituzione.
Partendo da un simile pluralismo non si riesce a comprendere neppure il reale significato di quello che è il punto d’Archimede della teoria istituzionale: e cioè l’esistenza di ordinamenti illeciti accanto (e/o all”‘interno” di) quelli leciti. L’apparente antinomia si risolve, per Santi Romano, nell’effettività (e quindi nella “validità”) di entrambi, assicurata dal rapporto comando-obbedienza all’interno di ciascuno di essi; per un pluralista coerente il problema è – a ben vedere -irrisolvibile: o la liceità reciproca è frutto di un impossibile “riconoscimento”, o l’asserita illiceità dell’uno
è frutto di un errore evidente se non di un inammissibile sopruso.
La caratteristica saliente, e il risultato, cui porta la conce zione criticata è la spoliticizzazione di ogni istituzione e di ogni teoria del diritto pubblico che si basi – anche se non totalmente – su categorie “politiche”. Organizzazione senza gerarchia e parità tra ordinamenti significa null’altro che la realizzazione del sogno sansimoniano di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose (19).
Un’organizzazione caratterizzata dalla mera ripartizione di competenza e lavoro tra più uffici, a cui è estraneo ogni rapporto di subordinazione, non ha, invero, altro senso. Politica è invece, in primo luogo, comando e subordinazio ne: anche se tale requisito non basta a qualificare il “politico”, è indubbio che la sua eliminazione dal mondo significherebbe rendere impossibile l’attività politica, che, per definizione, è attività di gruppi umani fortemente coesi.
Del pari la rivendicazione della “parità” tra ordinamenti (o del diritto all’esistenza) si muove sullo stesso percorso. Parità tra ordinamenti vuol dire parità ed eguaglianza tra uomini che ne fanno parte, e, più ancora, tra coloro che li guidano. Il “diritto” all’esistenza di più ordinamenti, del pari, significa negazione dell’assolutezza della volontà che ne tiene unito almeno uno. Infatti ad una volontà che si assume assoluta non può contrapporsi alcun ostacolo giuridico. Entrambe le affermazioni sono quindi contrarie all’essenza del politico, che postula la subordinazione dell’uomo all’uomo e un comando privo di limiti, perché sussista una comunità politica (20). In questo contesto l’interpretazione pluralista della teoria dell’istituzione è l’esito, compiuto e coerente, della tendenza alla spoliticizzazione, tipica di un certo pensiero moderno.
- Il carattere fondamentale dell’organizzazione nel pensiero – È stato asserito che la teoria istituzionale (specie nella formulazione di Hauriou) peccherebbe di “sociologismo”. L’errore (o meglio l’insufficienza) sarebbe quella di costruire il diritto sul “gruppo sociale”, mentre, perché un gruppo sociale sia coeso, occorre che i rapporti si organizzino nel (e con il) diritto. Questo sarebbe così l’elemento determinante nel dare consistenza giuridica al gruppo. Il fatto che questo esista viene così svalutato essendo, nella ipotesi più favorevole, una condizione, necessaria ma non sufficiente, perché si possa parlare di diritto.
In effetti la concezione criticata prende le mosse dalla necessità di differenziare, nei gruppi sociali, quelli che costituiscono istituzioni da quelli occasionali, ed effimeri: e sarebbe il diritto a distinguere gli uni dagli altri. Inoltre è stato sostenuto, specie per Hauriou, che la sua impostazione non tiene conto della possibile genesi “contrattuale” delle istituzioni, che farebbe così venir men il presupposto “autoritario” della volontà del fondatore. Tale critica non pare cogliere nel segno: è infatti viziata, in primo luogo, dalla mancata individuazione dell’elemento essenziale dell’istituzione, che imprime giuridicità (ed assieme lo rende tale) al gruppo sociale: la presenza dei rapporti di sovra e sotto ordinazione. Infatti, anche se da taluno è stato notato l’elemento “autoritario” che segna l’istituzione, è chiaro che tale critica presuppone di non tener conto (o non tenere nel dovuto rilievo), il rapporto comando-obbedienza. Invero ciò che differenzia un gruppo occasionale da un'”istituzione” non è il carattere giuridico (che è posterius), ma, come già scritto, tale rapporto, che ne assicura l’unità e la stabilità, e con ciò la giuridicità. Non è in altri termini il diritto ad autocrearsi, ma è sempre un elemento pre-giuridico a generare i rapporti giuridici.
Inoltre non è stato notato come sostenere che vi è un ordinamento “giuridico” quando è organizzato dal (o mediante il) diritto vuol dire esprimersi per tautologie,
come il malato immaginario di Molière durante l’esame di dottorato (21). Resta così da tale impostazione inspiegato il principale carattere innovativo della teoria dell’istituzione; quello di ridurre a questa il diritto, stabilendone l’identità. In realtà come scrive Schmitt, ciò che differenzia un giurista “istituzionista” da un “decisionista” o da un “normativista”, non è il negare che il diritto consista, oltre che di istituzioni, di norme e decisioni (e viceversa, per gli altri “tipi” di pensiero giuridico), ma a quale di questi tre concetti, possa ridursi, in ultima analisi, il diritto. Affermare che un ordinamento è giuridico in quanto “organizzato” dal diritto, significa sottrarre dalla connotazione del concetto il termine diritto, dando per scontato che debba aggiungersi dal l’esterno, e, nel contempo, negando l’identità tra diritto ed istituzione, su cui si regge la teoria istituzionista (22).
D’altra parte l’elemento normativo (inteso nel senso di comando, e non di regola) è per il diritto necessario ed insostituibile: è strano che questo, ritenuto generalmente essenziale per il “giuridico”, sia stato trascurato nello studio della teoria istituzionale. Specie se si tien conto che l’accentuato che la definizione dell’istituzione formulata da Hauriou non ne esclude affatto la fondazione “pattizia” (23), v’è da dire che gli istituzionisti pensavano principalmente alle istitu zioni – comunità (e non alle istituzioni – società) (24), non solo perché quella più complessa ed interessante per il giurista, ovvero lo Stato, è un’istituzione – comunità (25); ma perché queste non consentono di spiegare il diritto in base a termini giuridici, spiegazione che può essere avanzata per le altre. Sono, in parole diverse, gli ordinamenti comunitari a costituire il caso-limite (il quale, proprio per questo, è più interessante in sede scientifica), che permette d’individuare, nella purezza concettuale, gli elementi essenziali del diritto. La comunità prescinde dal consenso individuale, dal patto tra volontà libere ed eguali: l’elemento sociale e il carattere necessario (se non “naturale”) dell’ordinamento ne vengono così esaltati; la comunità è, per definizione, intessuta di rapporti di sovra e sotto-ordinazione, sin dal momento “costitutivo” (quasi sempre non individuabile); non è fondata sullo “scambio”. L’istituzione-società può prescindere da gran parte di questi elementi: solo da uno (forse da due) non può sfuggire: dalla presenza, una volta costituita, di una (o più) volontà “prevalenti”, decisive per l’agire comune. Così lo stesso carattere “pattizio” della costituzione di un associazione non toglie che, perché que sta possa esistere, vi debba essere un centro direttivo, che esercita dei poteri sociali, quanto meno quelli che consentono all’istituzione di agire unitariamente (26).
- – Secondo la nota tesi, esposta da Schmitt nella Politische Theologie e in Politische Romantik, De Bonald, de Maistre e Donoso Cortès sono pensatori emblematici del decisionismo politico. In effetti Schmitt ne espone il pensiero contrapponendolo sia al liberalismo della restaurazione che al romanticismo politico. Di fronte a posizioni ispirate al soggettivismo, al razionalismo, all’occasionalismo e alla sostanziale negazione della sovranità, il pensiero dei controrivoluzionari, dominato dall’oggettività della concreta situazione storica e dalla costante affermazione dell’insostituibilità di decisione e sovranità, ha il pregio della chiarezza e della coerenza, che solo una radicale opposizione, intessuta (e derivata) di esperienze di vita oltre che di convinzioni e di cognizioni teoriche può dare. Ciò non toglie che il giurista tedesco sia troppo avvertito per sottovalutare i tratti del pensiero dei controrivoluzionari riconducibili al “tipo ideale” del pensiero istituzionista: solo che non li sviluppa, probabilmente perché non interessanti i temi affrontati nella Politische Theologie (alcuni cen ni, anche se non riçollegati alla teoria istituzionale, vi sono invece in “Politische Romantik” ). Nella realtà la concezione dei controrivoluzionari può essere ricondotta ad un mélange di istituzionismo e decisionismo, o meglio dei “tipi ideali” dell’uno e dell’altro. Del primo i controrivoluzionari hanno il senso del condizionamento storico-sociale delle istituzioni, l’infuenza su queste del sentire comune; un certo (limitato) determinismo storico; e la coscienza che ciò che è esistente, duraturo e proprio perciò vitale è, di per sé, produttivo di diritto. Del secondo la consapevolezza che comunque la comunità è tale (e può esistere) in quanto vi è un autorità assoluta, capace di prendere decisioni inappellabili; e che il potere consiste nel decidere per (e al di sopra degli altri). La formula paolina “om nis auctoritas a Dea”, (che si converte in quella maistriana che ogni potere è buono quando è costituito), non è interpretata dai controrivoluzionari nel senso, fatalista e determinista, dell”‘impersonalità” del potere, determinato da scelte imperscrutabili della Provvidenza (e/o della Storia), ma, in quello della necessità dell’autorità (cioè nel senso della “costante” storico·-politica di un potere sovrano), e nel contempo della personalità della stessa, libera nel prendere le decisioni fondamentali (27).È capitato così che i controrivoluzionari sono stati i primi ed energici assertori, in epoca contemporanea, di quelle tesi ricordate, fondamentali nel pensiero istituzionista. La consapevolezza di ciò non è stata, in genere avvertita; e, conseguentemente si è studiato poco o punto il rapporto tra questi e quelli.Ma, indubbiamente, il limite più grave che ne è derivato, è non aver compreso appieno il pensiero dei teorici dell’istituzione, non avendo tenuto conto, nella giusta misura, del carattere decisivo che gli stessi attribuivano ai rapporti di sovra e sotto-ordinazione, ed all’importanza dell’organizzazione “gerarchica” dell’istituzione. Ne è conseguita l’accentuazione del carattere sovra-personale (e, a tratti, impersonale) del pensiero istituzionale. Del determinismo sociale rispetto all’azione e alla volontà umana. Dell’istituzione come “cosa” (se non “macchina”), rispetto all’istituzione come insieme organizzato di rapporti tra uomini. Da ciò a passare ad una concezione tendenzialmente sansimoniana ed “oggettivistica” dell’istituzione il passo è stato breve
- Nella realtà, questo può compiersi solo a costo di fermarsi all’aspetto superficiale ed esteriore dell’istituzione, dimenticandone la funzione e, soprattutto, omettendo di approfondire i risvolti più interessanti.
Nel pensiero dei tre grandi giuristi, come dei loro precursori contro-rivoluzionari, l’istituzione è strettamente legata alla decisione ed alla struttura “gerarchica”; l’oggettività dell’organizzazione non prescinde, anzi è fondata sulla soggettività del comando. Elementi oggettivi e soggettivi stanno in equilibrio. Anche perciò può parlarsi di una concezione che è un misto dei tipi ideali dell’istituzionismo e del decisionismo. L’impostazione vitalistica e l’approccio realistico con cui si accostano ai problemi del diritto li colloca, anche se in misura diversa, vicini ai più noti scienziati politici italiani del primo novecento, loro contemporanei, in cui la sensibilità sociologica si coniugava col realismo con cui indagavano sui rapporti politici.
La teoria della classe politica e delle élites, la legge ferrea delle oligarchie, la funzione ordinatrice dei principi di legittimità, sono acquisizioni che appaiono – in larga parte – comuni ai “machiavellici” ed ai giuristi ricordati (28). La relazione tra il pensiero degli uni e quello degli altri, come
- per i controrivoluzionari, è ancora poco approfondita, probabilmente in omaggio a specializzazioni scientifiche che sovente riescono, così, ad occultare le relazioni più interessanti ed a precludersi una comprensione esauriente. Ma è sicuramente vero, come scrive Schmitt, che chi disturba questa divisione del lavoro nell’ingranaggio scientifico, diventa un guastafeste. E il guastafeste è, com’è noto, “sempre l’aggressore”.
Teodoro Klitsche de la Grange
( 1) Il concetto (o meglio il termine) di organizzazione è stato impiegato per connotare sia il concetto di ordinamento che come “nuova frontiera” della dottrina del diritto pubblico. In ambo i casi la letteratura non manca, per cui ci limitiamo a citare i contributi più caratterizzanti, rimandando per il resto alla dottrina citata da F. MODUGNO voce “Ordinamento giuridico dottrina” in Enciclopedia del diritto, p. 678 n. Quanto al primo problema si veda M.S. GIANNINI. Glielementi degli ordinamenti giuridici, in Rivista tri mestrale di diritto pubblico, 1958, p. 219; quanto al secondo i contributi sono assai più numerosi. A prescindere dalla nota impostazione di DE VALLES. Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931 e 1936; v .. da ultimo, G. BERTI Il principio organizzativo del diritto pubblico, Padova 1986 (con ampia trattazione del concetto di organizzazione); per contributi meno recenti v. S. FODERAR O La personalità interorganica, II ed, Padova 1957; il volume collettaneo L’organizzazione amministrativa. Atti del IV Convegno di scienza dell’amministrazione, Milano 1959.
(2)È rilievo simile a quello formulato da M.S. GIA NNINI. Gli elementi,
cit.. che ne rileva la inconsistenza per la ricostruzione dei fenomeni giuridici.
(3)Per SANTI ROMANO v. L’Ordinamento giuridico, 1918 v. anche voce Organi in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1983; Prin cipi di diritto costituzionale generale Milano 1947; per HAURIOU Préçis de droit constitutionel (1929), risi. 1965; IDEM. Theorie de l’institution et de la fondation ora in traduzione italiana ne la Teoria giuridica de/l’istituzione e della fonda_zione, Milano 1967; per C. SCHMITT v. Legalitiit und legimitiit; Uber die drei Arten des Rechtwissenschaftlichen Denkens, ora entrambi tra dotti in italiano (anche se non totalmente) ed inseriti nella raccolta di saggi “Le categorie del politico” Bologna 1972.
(4)Préçis de droit constitutionel, , p. 15. D’altra parte tenuto conto del l’influenza che il pensiero di Bergson ha esercitato sul giurista francese, è proprio il “potere” col suo carattere dinamico e creativo a dover costituire l’elemento primario di un pensiero giuridico influenzato da una filosofia vita listica.
(5) cit., 72, si noti che Hauriou cita la tesi di Prévost-Paradol per cui
”l’obéissence est le lien des Societès”.
(6)loc. cii.
(7)L’ordinamento giuridico, Firenze 1967, pp. 43-44
(8)ult. cii., p. 43.
(9)Op. ult. cii., p. 44.
( IO) Op. ult. cit.. p. 21.
(11) Rivoluzione e diritto in Frammenti di un dizionario giuridico Milano 1983 p. 224.
(12) in C. SCHMI1T Politische Theologie I, trad. it. in “Le categorie del politico” pp. 57-58. Schmitt, esponendo il pensiero di Hobbes rivela il carattere personale e concreto di ogni forma di subordinazione. “Se un potere dev’essere sottoposto ad un altro, ciò significa soltanto che colui che ha il primo potere dev’essere sottoposto a colui che ha l’altro potere”.
(13) Nel saggio “Uber die drei Arten”, in particolare pp. 251-255 trad. cit.
(14) È interessante notare che nel concetto d’istituzione formulato da Max Weber il rapporto di comando è Infatti l’istituzione è defi- nita “gruppo sociale”, i cui ordinamenti statuiti vengono imposti (con rela- tivo successo), entro un dato campo di azione, ad ogni agire che rivesta deter- minate caratteristiche (Wirtschaft und Gese//schaft, trad. it., p. 51).
Inoltre Weber richiama continuamente, quando scrive di “ordinamenti” dei gruppi sociali, l’elemento autoritario: così “per costituzione di un gruppo si deve intedere la possibilità effettiva di disposizione ad obbedire … nei con fronti della forza di imposizione della autorità di governo sussistente” (op. cit., p. 48).
Peraltro secondo Max Weber si ha un “gruppo sociale” quando l’osser vanza dell’ordinamento di questo “è garantita dall’atteggiamento di determi nati uomini, propriamente disposti a realizzarlo, cioè di un capo e, eventual mente, di un apparato amministrativo” ( op. cit., p. 46); al riguardo perché si abbia un gruppo, non ha importanza la distinzione tra comunità ed “associa zione”. L’essenziale è che vi sia la presenza di un “capo capo di famiglia, comitato di un unione, direttore di un impero, principe, presidente della repubblica, capo della Chiesa, il cui agire sia disposto a realizzare l’ordina mento del gruppo”; agire “non soltanto orientato in vista dell’ordinamento ma diretto alla sua imposizione coercitiva”
Imposizione che diventa connotato essenziale del concetto di “gruppo sociale”. Infatti – prosegue Weber “non ogni comunità od associazione costituisce un gruppo sociale- ad esempio non lo costituisce né una relazione erotica né un gruppo parentale privo di “capo”. Onde !'”esistenza del gruppo sociale è interamente legata alla presenza di un capo”.
Interessante è anche la distinzione che Weber fa tra “ordinamento ammi nistrativo” (che regola l’agire del gruppo) ed “ordinamento regolativo” che regola “un agire sociale di altro genere”, che, secondo lo stesso, coincide in generale – con quello tra diritto pubblico e diritto privato (p. 50).
Resta il fatto che, nella sociologia weberiana i concetti di “gruppo sociale”, “ordinamento” ed istituzione sono strettamente collegati alle relazioni sociali di comando e potere. Rilievo minore ha, invece, l’esistenza e la pro duzione di “regole” o “norme” relative all’azione dei consociati.
Anche secondo altri sociologi, ilconcetto d’organizzazione è strettamente legato alla struttura gerarchica. Gli apparati organizzati sono “comporta menti collettivi che sono ordinati, gerarchizzati, centralizzati.” (v. Gurvitch Trattato di Sociologia, Milano 1967, p. 229 v. anche p. 295).
(15) È chiaro che nel testo il termine “gerarchia” non è inteso nel senso
“tecnico” e riduttivo con cui lo impiegano (correttamente nel loro campo d’indagine) gli studiosi del diritto amministrativo, dove tale termine significa un certo tipo di rapporto tra uffici amministrativi (ed anche Enti), che viene, con ciò, contrapposto, ad altri modelli d’organizzazione.
(16) il saggio Uber die drei Arten. cit., trad. it. cit.. p. 252.
(17)L’uso di termini come “neo-corporativismo” e “neo-feudalesimo” richiama istituzioni medievali, contrapposte allo Stato moderno e che riaffio rano nell’età contemporanea, che si pensa caratterizzata dalla crisi della forma -Stato. Con ciò si vuole denotare sia un processo di “patrimonializza zione” e di “appropriazione” collettiva (od individuale) dei poteri pubblici, accanto (o in luogo) dell’unità e della “sovranità” dello Stato. Senonché la differenza (se ne possono indicare tante) che pare opportuno sottolineare tra il pluralismo corporativo feudale medievale e quello sindacai-partitico moderno è che, mentre in quello si concepiva l’ecumene o l’unità politica (per debole e frammentaria che fosse) come una comunità di comunità; nel
secondo la si concepisce come una società di società. Con conseguenze assai rilevanti, sul carattere dell’autorità, sull’appartenenza individuale, sui legami sociali e sulla stessa “governabilità” dei gruppi sociali (istituzioni) intermedi, che è interessante approfondire.
(18) Uber die drei Arten …, trad. it. cit., in particolare pp. 258-260
(19) Per la verità la frase di Saint-Simon (ripetuta poi da Engels), spesso interpretata nel senso utopistico cennato nel testo, aveva una valenza tecno cratica più che libertaria (o anti-autoritaria).
Come notava Michels “la scuola di Saint-Simon non immaginava affatto un avvenire senza classi …”. Essa anelava al contrario alla creazione di una nuova gerarchia, senza privilegi di nascita, ma con forti privilegi acquisiti, “deshommes /es plus aimant, /es plus intelligens et lesplus forts”; e proseguiva “uno dei più fervidi, sansimonisti … indotto a difendersi dal rimprovero di agevolare, mediante la sua dottrina, la via al despotismo, arrivò perfino al punto di sostenere che la maggioranza degli uomini deve ubbidienza all’auto rità emanata dalla capacità …” ( Studi sulla democrazia e l’autorità, Firenze 1933 pp. 4-5). Col tempo, in taluni, il carattere politico e (relativamente) “autoritario” del pensiero dei sansimoniani si è smarrito. Ne è rimasto quello utopistico, il più adatto a mascherare realtà, di fatto, totalmente opposte.
(20) L’una e l’altra possono ricondursi al pensiero di Schmitt, in partico lare alla Politische Theologie, ed al Begriff des Politischen, trad. it. ne “Le categorie del politico”, cit., p. 89-208.
(21)In effetti le definizioni di Santi Romano (come quella di Maurice
48 Hauriou) non cadono nell’ingenuità scientifica di spiegare un.termine con un sinonimo, come fanno certi giuristi, col risultato di trovarsi così sempre al
punto di partenza. Ma quel che più interessa è che la definizione di Santi Romano del diritto non contiene, nel “definiens” nessun termine (o elemen to) specificamente giuridico (v. L’ordinamento giuridico, cap. 10, p. 25, 28). Società, ordine sociale, organizzazione sono tutti termini che possono essere impiegati indifferentemente nella scienza giuridica ed in altre scienze sociali, e, quel che più conta, denotano enti e rapporti concreti e “fattuali”. La circo stanza che. in sede di definizione non abbia impiegato alcun termine giuridi co, dimostra non solo il carattere euristico del processo logico seguito, ma più ancora che Romano riduceva il diritto al fatto dell’esistenza, in un grup po, degli elementi indicati come qualificanti.
(22) Nella realtà l’interpretazione del pensiero di Santi Romano è stata spesso viziata da una serie di equivalenze e di presunte antinomie in cui il pensiero del giurista siciliano andava, in buona parte, perso. In effetti 9ndo Santi Romano, il rapporto tra i termini “diritto” “ordinamento giu ridfco” e “istituzione” sono perfettamente equivalenti , secondo il seguente schema logico: diritto=ordinamento giuridico=istituzione (anche se Santi Romano distingue due modi di intendere il termine diritto, v. “L’ordina mento giuridico”, p. 27).
Invece secondo la tesi criticata la sequenza è totalmente diversa, ed è gra ficamente esprimibile così: ordinamento+diritto=istituzione. In cui, in effetti il concetto d’istituzione non coincide con nessuno degli altri due. Ma tale impostazione è stata fuorviata da un altra equivalenza, più o meno espressa, per cui non tutti gli ordinamenti sociali, pur essendo gruppi (e, in certa misura, organizzati) sono ordinamenti giuridici
Nel pensiero dei tre giuristi considerati invece un gruppo sociale ordinato
è perciò stesso, un ordinamento sociale e, conseguentemente, giuridico (e l’equivalenza è chiarissima soprattutto in Schmitt. come rilevato da P.P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Milano 1982, p. 98- 99); mentre un gruppo sociale “non ordinato”, perciò stesso non è un ordina mento giuridico. È il concetto d’ordine (di “chiusura”, di “orientamento” unitario e relativamente uniforme – dell’agire sociale attraverso una volontà prevalente) a costituire il discrimine tra gruppi sociali che sono ordi namenti (e quindi sono ordinamenti giuridici) e quelli che non Io sono. È a questo, ed ai connotati che esso ha necessariamente, che va ridotto il diritto. E concetti come ordine, comando, ed effettività del comando stesso, sono, occorre ripeterlo, “fattuali” prima che “giuridici”.
(23)la definizione in Préçis de droit constitutionel, cit. p. 73 (per la forma dell’istituzione).
(24) Hauriou (op. cit, 76), riferendosi allo Stato (come istituzione) scrive che ha una “structure formelle parfait” (rispetto alle “institutiones similaires” ); esso è “/’organitation parfait de ce mouvement” (che è il “movimen to” intrinseco al concetto che dell'”ordre” ha Hauriou); mentre a pag. 1 ricorda che Io Stato è una forma perfezionata dell’ ordre.
La nozione di potere, ordine, Stato di Hauriou, con l’importanza che danno ai concetti di consenso “coutumier”; con il continuo richiamo alla communautè per la formazione dell’istituzione – Stato (ed anche per le altre istituzioni), mostrano come pensava, in primo luogo alle istituzioni “communitaires”.
(25) Ci scusino i lettori esperti della metodologia weberiana l’impiego dei “tipi ideali” comunità e società per classificare situazioni Chi scrive pensa, che è nel giusto Cari Schmitt a sostenere che, al fondo, anche lo Stato (o l’unità politica) più impregnato dell’idealtipo “società” a fondo, o nelle situazioni d’emergenza, si rivela più vicino al tipo ideale “comunità”. In tal senso è da prendere l’affermazione del testo: non cioè che nello Stato moderno manchino gli elementi riconducibili al tipo “società”; ma solo che, in definitiva, sono (o diventano) prevalenti quelli accostabili al tipo “comuni tà”. In effetti talvolta tali concetti vengono impiegati non come “tipi ideali”, ma come denotanti realtà sociali concrete, riconducibili in tutto e per tutto agli stessi (come le classificazioni zoologiche e botaniche). Èsignificativo tal volta leggere scritti di giuristi tutti convinti che, come “esistono” in concreto contratti e provvedimenti, così dovrebbero esistere “comunità”, “società”, “patrimonialismo” e, quel che più conta, persuasi di aver compreso, così facendo il senso dell’opera e del metodo di Max Weber (in particolare per chiarire il reale pensiero di quest’ultimo v. la raccolta di saggi pubblicati in traduzione italiana col titolo “limetodo delle scienze storico-socia/i”, Torino 195).
(26) Ci riferiamo, per la contrapposizione e la definizione tra comunità e società (e quindi tra le istituzioni – comunità e le istituzioni – società) alla (classica) ripartizione di Ferdinand TONNIES (v. Gemeinschaft und Gesell schaft, it. Milano 1979, in particolare p. 45-47); non si comprende a tale proposito come taluno abbia potuto affermare (v. M.S. GIANNINI, Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 31) che TONNIES “di stinse due sorta di gruppi: quelli diffusi non organizzati, che sono la società e quelli, diffusi o concentrati o organizzati, che sono le comunità”. Mentre è noto che per TONNIES il fundamentum distinctionis tra le une e le altre non era, come pensa GIANNINI, di avere o meno un’organizzazione, ma quello di basarsi su rapporti di tipo “meccanico” o, invece su rapporti “organici”. Per TONNIES (com’è intuibile nell’osservazione della realtà sociale e giuri dica) la Fiat è una società, mentre la setta valdese è una comunità. Ciò non toglie che entrambe siano ed abbiano delle organizzazioni.
Invero secondo TONNIES comunità significa un certo modo di atteggiarsi di relazioni sociali per cui “la comunità debba essere intesa come un organi smo vivente, e la Società, invece come un aggregato e prodotto meccanico” ( op. cit., p. 47). La prima è concepita come “vita sociale ed organica”; la seconda è una “formazione ideale e meccanica” (op. cit., p. 45).
Com’è noto che TONNIES, sviluppando questa intuizione basilare, rap portava ad uno dei grandi gruppi (o meglio ai tipi ideali) di associazioni sociali una serie di concetti, anche giuridici, derivanti dallo schema comu nità/società, come: volontà essenziale/volontà arbitraria; io/persona; pos sesso/patrimonio; suolo/denaro; diritto familiare/diritto delle obbligazioni; status/contratto (op. cit., p. 229). In questo, com’è chiaro. non c’è nulla che lasci presagire un fundamentum distinctionis come quello che attribuisce GIANNINI al sociologo tedesco, tenuto conto anche del fatto sopra cenna to, che sia le “società” che le “comunità” hanno un’organizzazione.
Il pensiero di TONNIES è stato peraltro costantemente interpretato nel senso esposto: basti citare all’uopo Max Weber, il quale pur innovando -in parte – alla distinzione di TONNIES, definisce “comunità” la relazione sociale in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una “comune appar tenenza oggettivamente sentita”; “associazione” se poggia “su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente”. (Wirtschaft und Gesellschaft, trad. it. Milano 1980, p. 38).
(27) Il discorso sulla connessione tra istituzionismo e decisionismo nel pensiero dei controrivoluzionari potrebbe apparire impreciso, atteso l’im piego di termini e formule che, nate nella dottrina del diritto, possono tra sporsi con una certa difficoltà a problematiche non del tutto coincidenti
In effetti, come spesso notato, la dottrina dello Stato di Bonald, Maistre e Donoso Cortés (ma anche – in parte – quella di Haller) è incentrata sul rap porto tra metafisica (e visione del mondo) e società politica. L’uno determi nante l’altra; è il reale, che si tratti di leggi naturali o credenze, a determinare il normativo. In questo contesto il ruolo autonomo della decisione è quello (insopprimibile) della scelta -in un contesto dato-tra male e bene; è il libero arbitrio applicato alla politica. La libertà di scelta tra più situazioni determi nate. Il cattolicesimo di Bonald, Maistre e Donoso Cortés impediva loro di cadere sia in un determinismo storico-sociale assoluto, sia nell’altrettanto assoluto soggettivismo. L’espressione forse più chiara di questo rapporto la si trova formulata da Maistre all’inizio delle “Considerations sur la France”; “siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci. L’azione degli esseri liberi sotto la mano divina è quanto di più ammirevole esista nell’ordine universale delle cose. Libera mente schiavi, essi operano secondo volontà e necessità insieme: fanno real mente quel che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali. Ognuno di questi esseri occupa il centro di una sfera di attività, il cui diametro varia a piacere del geometra eterno, che sa estendere, restringere, arrestare o diri gere la volontà, senza alterare la sua natura. Nelle opere dell’uomo, tutto è misero come l’autore: le vedute sono ristrette, i mezzi rigidi, le molle infles sibili, i movimenti penosi, e monotoni i risultati. Nelle opere della divinità, le ricchezze dell’infinito si mostrano allo scoperto fin nel minimo dettaglio: la sua potenza agisce come per gioco; nelle sue mani tutto è docile, nulla le resiste; per essa tutto è mezzo, perfino l’ostacolo: e le irregolarità prodotte dall’operare dei liberi agenti trovano il loro posto nell’ordine generale.
Se si immagina un orologio di cui tutte le molle variassero continuamente di forza, di peso, di dimensione, di forma e di posizione, e che indicasse tut tavia l’ora invariabilmente, ci si farà un’idea dell’azione degli esseri liberi in relazione ai piani del Creatore. Nel mondo politico e morale, come nel mondo fisico, esiste un ordine comune, ed esistono eccezioni a questo ordine. Comunemente vediamo una serie di effetti prodotti dalle stesse cause; ma in alcune epoche vediamo azioni sospese, cause paralizzate ed effetti nuovi.”
(v. trad. it., Roma 1985, p. 3). Dalle due impostazioni, soggettivismo ed oggettivismo, il primo negherebbe l’uomo, nella sua natura problematica e nel suo essere libero e perciò nelle sue possibilità di salvezza, ilsecondo Dio e la Sua trascendenza. Nella realtà i riferimenti di Bonald, Maistre e Cortès (nonché di Haller) ad una concezione “istituzionale” (ante litteram) dello Stato (e – in minor misura – del diritto) sono così frequenti e ripetuti che larga parte delle tesi di Hauriou, Schmitt e Santi Romano ne sembrano la diretta derivazione, se non un’aggiornata ripetizione. Data l’influenza delle concezioni aristotelico-tomistiche sui controrivoluzionari non c’è neppure da stupirsi che la loro visione dello Stato non sia diversa. All’uopo è sufficiente ricordare l’affermazione di Bonald che: “la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza” (v. Observations sur l’ouvrage de M.me la Barone de Stael, trad. it. La costituzione come esistenza, Roma, 1985 p. 35); e che ciò che fa uno Stato sono “monarchia, religione e giustizia” (op. cit., p. 36); ovvero l’importanza che tutti i controrivoluzionari danno all’idea (e cioè alla visione del mondo) come determinante le istituzioni, come nello stesso senso alle cause storiche e naturali; o anche l’affermazione di De Maistre che “la costituzione è un’opera divina” e che “le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta “(Essai sur !es constitutions politiques I e IX); ovvero quella di Donoso Cortès che considera “le leggi fatte per la società e non viceversa ” ( Discurso sobre la dictatura, trad. it., Brescia 1964). Tutte affermazioni (e tante altre se ne potrebbero ricordare, a voler esaspe rare la pazienza del lettore) che confermano il carattere “istituzionalista” della loro visione della società politica.
(28) I rapporti tra le teorie di PARETO, MOSCA, MICHELS, FERRERO, e quella dei tre giuristi considerati, sono, ancor più di quelle tra questi e controrivoluzionari, largamente (se non totalmente) da Secondo PARETO le società umane non possono sussistere senza una gerarchia ( Oeuvres, voi. VII, p. 422 v. anche J. FREUND, Pareto, trad. it. Bari 1976
- 146), e che comunque ogni società è divisa in due strati “uno strato superiore, in cui stanno di solito i governanti, ed uno strato inferiore, dove stanno i governati”. ( Oeuvres voi. XII p. 1301). La “costante” della divisione in classi (governante e governata) nelle società umane è confermata da Mosca: “Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politi ci, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta; in tutte le società … esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati” ( La classe politica, rist. Bari 1966 p. 61). Il termine “organizzazione” viene talvolta da Mosca riferito alla classe dirigente, tal’altra all’intera società. Ma, in ambedue i casi, Mosca chiaramente riferisce il concetto al rapporto comando -obbedienza, sia in funzione del dominio stesso (la classe politica si organizza per esercitare il comando o, il che è lo stesso, per imporre la volontà dei propri componenti alla maggioranza), sia in funzione dell’esistenza della comunità globalmente intesa (v. op. cit., p. 177). Ancor più chiaro è il collegamento tra dominio delle élites ed organizzazione in MICHELS. Secondo questi “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia. L’organizzazione ha nella sua fisionomia spiccati lineamenti aristocratici… Essa inverte il rapporto tra il condottiero e i condotti …; il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza inevitabile dell’estendersi dell’organizzazione induce necessariamente i soci… a conferire ogni potere effettivo, come cosa che esige specifiche qualità e competenze, ai soli capi. .. L’organizzazione quindi scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che è governata” ( Studi sulla democrazia e l’autorità; Firenze 1933 p. 32-33).