Intervista con il professor David Arase dell’Università di Hong Kong e dell’Hopkins-Nanjing Center Di SCOTT FOSTER

Belt & Road Phase 2 va oltre l’infrastruttura
Intervista con il professor David Arase dell’Università di Hong Kong e dell’Hopkins-Nanjing Center
Di SCOTT FOSTER
29 DICEMBRE 2021
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Il corridoio economico Cina-Pakistan da 60 miliardi di dollari è una parte importante della Belt and Road Initiative cinese. Immagine: CPEC/Facebook
Tieni d’occhio la Belt & Road Initiative della Cina nel nuovo anno. Sta succedendo più di quanto generalmente si creda.

Belt & Road non è solo la costruzione di “corridoi” di trasporto terrestre e marittimo attraverso e intorno all’Asia verso l’Africa, l’Europa e oltre per facilitare il commercio; non solo porti e porti costruiti dai cinesi lungo le coste dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che potrebbero essere trasformati in basi navali; non solo una “diplomazia della trappola del debito” volta a trascinare le nazioni in via di sviluppo in un ordine internazionale cinese emergente.

David Arase, professore onorario presso l’Asia Global Institute presso l’Università di Hong Kong e professore residente di politica internazionale presso l’Hopkins-Nanjing Center della Johns Hopkins University School of Advanced International Studies, affronta questi punti in modo molto dettagliato.

Dettagli più che sufficienti per smentirci dall’idea che – i suoi metodi e i suoi scopi essendo stati chiamati in causa dalla rumorosa diplomazia americana – Belt & Road sia in svantaggio.

In un saggio pubblicato , Arase scrive che i cinesi sono da tempo consapevoli delle carenze dell’originale Belt & Road Initiative (BRI) incentrata sulle infrastrutture fisiche – compreso il rischio di credito, ambientale e reputazionale – e se ne stanno occupando in modo completo , modo lungimirante:

Con il secondo Belt and Road Forum (BRF) nel 2019, la Cina aveva reagito alle prospettive di rischio-rendimento negative della fase iniziale di cooperazione annunciando una nuova era “verde e sostenibile” per la Belt and Road…

Meno notato, ma forse più significativo, è stato il nuovo focus sull’armonizzazione di diversi regimi legali, politici e di standard tecnici tra i paesi BRI collegati. Nel suo discorso al BRF del 2019, [il presidente cinese] Xi ha sottolineato che “dobbiamo promuovere la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti, dire no al protezionismo e rendere la globalizzazione economica più aperta, inclusiva, equilibrata e vantaggiosa per tutti”. In termini concreti, ciò significava promuovere standard uniformi per le zone di libero scambio, la protezione della proprietà intellettuale, le regole sul trasferimento di tecnologia, la riduzione delle tariffe, la stabilizzazione del tasso di cambio, l’applicazione dei trattati commerciali e la risoluzione delle controversie commerciali e di investimento…

Mentre sarebbe ancora necessaria la cooperazione in progetti di infrastrutture pesanti per aggiornare la connettività dei corridoi, la cooperazione BRI si è espansa nella tecnologia: tecnologie digitali ad alta intensità di conoscenza (la “via della seta digitale”), industrie legate alla salute (la “via della seta della salute”) e complesse Progetti di Internet of Things (IoT) basati sul 5G come le città intelligenti (“cooperazione per l’innovazione”).

Con questo come sfondo – e non potendo incontrarmi a causa del virus – ho intervistato via e-mail il professore di Tokyo. Ecco la prima parte dell’intervista modificata in due parti:

D: Hai parlato prima del fatto che la Belt & Road cinese non è solo una questione di promozione del commercio attraverso le infrastrutture, ma una geostrategia completa con una componente militare. Potresti approfondire?

I progetti infrastrutturali Belt & Road creano una testa di ponte per il commercio, gli investimenti, la finanza, la tecnologia e la logistica cinesi per entrare nelle economie dei paesi in via di sviluppo molto più piccoli e per modernizzare e dominare i settori in cui possono operare con profitto.

Se l’economia modernizzata di un paese raggiunge un punto in cui non può essere mantenuta senza le imprese cinesi e l’accesso alla finanza, al commercio e alla tecnologia cinesi, i governi messi in questa situazione sarebbero soddisfatti, corrotti o costretti a seguire le richieste e le preferenze cinesi per garantire le proprie interesse per la stabilità economica e politica.

Potrebbero persino essere persuasi a richiedere la cooperazione con l’Esercito di liberazione popolare e i ministeri della sicurezza civile cinese per proteggere e difendere i loro investimenti congiunti in infrastrutture e connettività Belt & Road con la Cina.

Se questo tipo di situazione si diffondesse in tutta l’impronta della Belt & Road, con le loro future prospettive economiche e politiche in gioco, i governi di tutta l’Eurasia non avranno altra scelta che cooperare con le agende di governance economica, politica e di sicurezza della Cina, anche se queste minano e sostituiscono quelle degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

La BRI promuove questo tipo di strategia geo-economica fornendo “hardware” o impianti fisici, attrezzature, trasporti, energia e infrastrutture digitali finanziate da banche statali e costruite e gestite da imprese statali cinesi.

Queste entità di punta dello stato di partito portano un intero ecosistema di esportatori cinesi, subappaltatori, fornitori di servizi di lavoro, imprese private e piccoli imprenditori ovunque siano costruiti i progetti Belt & Road.

D: Ma questo processo non crea sempre più risorse all’estero che la Cina deve proteggere?

Esattamente. Quando uno stato accumula interessi acquisiti all’estero, deve provvedere alla loro protezione. L’ordine [internazionale] basato su regole ha stabilito norme concordate a livello multilaterale e giuridicamente vincolanti che disciplinano l’acquisizione e la protezione degli interessi esteri.

Ma affinché il sistema funzioni in assenza di un governo mondiale, tutte le parti contraenti devono rispettare le norme che si sono impegnate a sostenere.

Secondo l’ordine attuale, ci sono due ragioni diverse per sviluppare capacità armate e reclutare alleati per difendere i tuoi interessi all’estero. Uno è quello di difendere i tuoi diritti legittimi secondo l’ordine basato sulle regole. L’altro è rivendicare con forza nuovi diritti e imporre nuove norme di governance per migliorare i propri interessi a spese delle norme esistenti e dei diritti di altri attori.

L’accumulo di interessi all’estero è ciò che la Belt & Road Initiative fa in grande stile attraverso e intorno all’Eurasia. Mentre la Cina costruisce porti, piantagioni, miniere, ferrovie, parchi industriali e zone commerciali, nuovi mercati, nuove rotte di trasporto e comunità di cittadini d’oltremare, non può essere criticata per aver cercato modi per proteggerli.

D: Significa che ciò che è iniziato come attività economica è ora collegato alla difesa nazionale della Cina?

Al contrario, lo è stato fin dall’inizio.

La Belt & Road Initiative è stata lanciata nell’autunno 2013 insieme a iniziative diplomatiche, politiche e istituzionali complementari per costruire un nuovo tipo di ordine internazionale incentrato sulla Cina. Queste iniziative dei partner includevano la “diplomazia della periferia”, la costruzione di una “comunità di destino comune” e l’Asian Infrastructure Investment Bank.

L’infrastruttura Belt & Road deve essere costruita in conformità con i mandati legali e politici formali della Cina che implementano l’integrazione o la fusione militare-civile. La legge sulla mobilitazione della difesa nazionale del 2010 stabilisce che i progetti di infrastrutture civili “strettamente correlati alla difesa nazionale devono soddisfare i requisiti di difesa nazionale e possedere funzioni di difesa nazionale” e devono essere consegnati per uso militare quando necessario.

Le guardie di sicurezza camminano davanti a un cartellone per il Belt and Road Forum per la cooperazione internazionale a Pechino il 13 maggio 2017. Foto: AFP / Wang Zhao
Il 13 ° Piano quinquennale (2017-21) prevede progetti integrati di sviluppo civile-militare nelle regioni marittime d’oltremare. Il libro bianco sulla difesa del 2015 richiede uno sviluppo di infrastrutture che tenga conto sia dell’uso civile che militare che sia “compatibile, complementare e reciprocamente accessibile”.

E la legge nazionale sui trasporti del 2017 richiede “pianificazione, costruzione, gestione e utilizzo delle risorse nei settori dei trasporti come ferrovie, strade, corsi d’acqua, aviazione, condutture e porti allo scopo di soddisfare i requisiti della difesa nazionale”.

Le imprese statali cinesi che progettano e costruiscono infrastrutture BRI devono agire in conformità con queste leggi.

D: E questo, presumo, porta inevitabilmente all’espansione delle attività cinesi legate alla sicurezza all’estero?

Sì. La Cina non riconosce alcuna connessione formale tra Belt & Road e l’Esercito di Liberazione Popolare. Ma in realtà, l’estensione degli interessi di investimento all’estero tramite Belt & Road richiede che i ruoli e le missioni di protezione all’estero dell’esercito stiano al passo.

Secondo i pianificatori strategici dell’esercito, “dove gli interessi nazionali si espandono, deve seguire il supporto della forza militare”. Pertanto, l’influenza geopolitica della Cina avanza con l’Iniziativa Belt & Road all’avanguardia e con l’Esercito di Liberazione Popolare che fa da retroguardia per proteggere gli investimenti Belt & Road e le rotte commerciali da potenziali minacce.

Nello svolgere le sue missioni di protezione all’estero di Belt & Road, l’Esercito di Liberazione del Popolo dovrebbe trovare governi partner di Belt & Road disposti ad accettare istruzione, addestramento e attrezzature militari che migliorano la propria sicurezza nazionale e la sicurezza degli investimenti cinesi.

L’Esercito di Liberazione del Popolo dovrebbe anche trovare il porto di Belt & Road e le infrastrutture di trasporto accessibili, familiari e facili da usare in caso di emergenza, se necessario.

Con l’avvio della Belt & Road Initiative dal 2013, non è casuale che la legge antiterrorismo del 2015 abbia autorizzato la polizia armata popolare a svolgere missioni antiterrorismo all’estero e che il white paper della difesa del 2015 abbia aggiunto la salvaguardia della sicurezza degli interessi cinesi all’estero. e mantenere la pace regionale e mondiale per le missioni strategiche dell’Esercito di Liberazione Popolare.

Il white paper della difesa del 2019 descrive “interessi all’estero” come operazioni e supporto militari all’estero migliorati, strutture logistiche all’estero, operazioni di protezione delle navi, sicurezza strategica delle rotte marittime e operazioni di evacuazione all’estero e di protezione dei diritti marittimi.

Nel 2020, la legge sulla difesa nazionale è stata rivista per aggiungere “salvaguardia degli interessi cinesi all’estero” e ha autorizzato l’Esercito di liberazione popolare a “mobilitare le sue forze” per “difendere i suoi interessi nazionali e interessi di sviluppo e risolvere le differenze con l’uso della forza” come aggiunte. alle “missioni e compiti” dell’esercito.

Le attività della Belt & Road e gli investimenti commerciali e gli interessi commerciali successivi costituiscono ovviamente interessi di sviluppo all’estero, quindi ora l’Esercito di Liberazione Popolare, aiutato dalla diplomazia cinese, deve sviluppare cooperazione e capacità per difendere questi interessi se ordinato dal Partito Comunista Cinese. .

Non è che l’esercito cinese si sia fatto cogliere impreparato. La marina cinese completerà una terza portaerei (e nuovo modello) entro l’estate 2021 e ha iniziato a costruirne una quarta. Ha anche sviluppato una forza antiterrorismo in grado di dispiegarsi all’estero, un corpo di marina di spedizione e un corpo di paracadutisti con grandi nuovi tipi di navi da trasporto marittimo e aereo per dispiegare queste forze.

Con una sola base d’oltremare ufficialmente riconosciuta a Gibuti, la protezione all’estero degli interessi di sviluppo di Belt & Road richiederà la negoziazione di accordi con i paesi ospitanti per la transizione di porti, aeroporti e zone di sviluppo che fino ad ora erano esclusivamente civili in strutture a uso doppio o parallelo disponibili per supportare un livello rafforzato di presenza strategica dell’Esercito di Liberazione del Popolo per garantire gli interessi di sviluppo dei paesi partner cinesi e Belt & Road.

D: In che modo questo cambia il calcolo della geostrategia Belt & Road?

Oltre ad assicurare il sostegno alle operazioni dell’Esercito di Liberazione Popolare, i dividendi includono la definizione dell’agenda nei forum di governance regionale; la conquista dei mercati e l’approvvigionamento di risorse critiche; Belt & Road cooperazione con i partner militari e di polizia dello stato del partito per garantire interessi e aumentare l’influenza con i partner; e l’influenza politica attraverso l’istruzione e la formazione di politici, funzionari governativi, soldati e poliziotti e giovani nei paesi partner. Per un partito-stato dedito all’agenda del sogno cinese, tali guadagni politici e strategici potrebbero superare di gran lunga il costo finanziario delle cancellazioni del prestito del progetto Belt & Road.

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Scott Foster, laureato alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies di Washington, DC, è un analista presso LightStream Research a Tokyo. Seguilo su Twitter: @ScottFo83517667

FASCISMI VECCHI E NUOVI, di Antonio de Martini

FASCISMI VECCHI E NUOVI
Talleyrand, commentando la fucilazione del duca d’Enghien, spiegò che era più grave di un delitto: era un errore.
Sono d’accordo e invece di soffermarmi sui delitti del fascismo ( lo fanno ormai anche i fascisti), mi soffermerò sul suo errore: il disprezzo del consenso.
Non parlo, ovviamente, della ricerca del consenso a tutti i costi, sport favorito delle mezze tacche, ma del consenzo che nasce dal confronto che forma la volontà generale.
Il fascismo trasformò i comizi in riti, i giornali di opposizione, chiusero, fu creata l’EIAR, la radio che diffondeva il pensiero unico del capo e l’Agenzia Stefani che “notiziava” il popolo d’Italia.
Tutti presidiati da fidi omuncoli con l’obbiettivo di rendere impossibile qualsiasi alternativa.
La logica conseguenza fu la creazione disorganica e spontanea di una cultura divergente che guardava al passato ( la monarchia) o al futuro ( un nebbioso utopico socialismo).
Questa considerazione affiora alla mente, vedendo più che ascoltando, la diffusione televisiva del trentottesimo “discorso di addio” di Sergio Mattarella mentre la popolazione era ancora scioccata dai catastrofici aumenti delle utenze più indispensabili al vivere.
Il disprezzo degli italiani che costui millanta di aver servito, traspare dall’aver parlato solo bene di sè, col pretesto di fare l’identikit del prossimo presidente; con platee plaudenti a successi economici, salutistici e morali che abbiamo visto…
Ha portato avanti unicamente l’argomento della sua successione usando disinvoltamente persino la citazione di un pensionato deceduto – suprema gaffe- a causa di un esplosivo difetto nella fornitura di gas aumentato del 55% mentre la sua pensione – se fosse vissuto – avrebbe avuto un incremento dell’1,5%.
Cambiamenti dai tempi di “ Duce dacci la luce” ne abbiamo avuti e non solo nelle insegne dei tabaccai come insinuò quel disfattista di Salvemini.
L’EIAR ora ha invertito l’acronimo e si chiama RAI; la STEFANI si chiama ANSA, i giornali invece di assaltarli vengono riempiti di denari dalla presidenza del Consiglio di cui dovrebbero essere i controllori.
Questa riciclata fabbrica del consenso annidata al Quirinale promette “l’immancabile vittoria finale” fidando nel “ potente alleato” mentre gli italiani, specie i giovani guardano al passato ( il fascismo) che, per fortuna non hanno conosciuto, e al futuro ( un nebbioso cosmopolitismo).
Siamo di fronte a nullità che ci ripropongono il nulla parlando del nulla con una opposizione che vale ancor meno arrocata nei suoi neo acquisiti attici.
Pensare solo a sè non è un delitto .
È il solito errore.
Ci hanno negato il diritto di comunicare con la pubblica opinione.
Errore pagato dai vecchi fascisti.
Non saranno questi nuovi melliflui fascistelli a fare eccezione.

Crisi ambientale, catastrofismo climatico e avventurismo energetico_di Giuseppe Germinario

Il 29 dicembre scorso abbiamo pubblicato un breve articolo di Piergiorgio Rosso, apparso su www.conflittiestrategie.it, riguardante lo stato dell’arte, in casa ENI, sulle prospettive di ricerca del processo di fusione nucleare e un lungo articolo, dal carattere prevalentemente agiografico ma comunque interessante, del sito IndustriaItaliana, sulla partecipazione della piccola e media industria italiana allo sviluppo delle moderne tecnologie nucleari. http://italiaeilmondo.com/2021/12/29/fusione-nucleare-e-eni-perche-conta-di-piergiorgio-rosso/ Un testo, il primo, sintetico e incisivo, tipico dell’approccio di un tecnico professionista, che offre numerosi spunti di riflessione, in particolare, nell’economia di questo commento, nei punti 1° e 3°.Riguardo al 1° vale la pena sottolineare la costante irrilevanza del tema della sovranità ed autonomia nazionali, sia in forma individuale che condivisa con altri stati affini specie in un contesto multipolare come l’attuale e la sudditanza remissiva ed irriflessiva del sistema mediatico alle campagne allarmistiche e modaiole lanciate di volta in volta dai veri facitori di opinione pubblica più o meno discreti.

il 3° punto è in realtà propedeutico al 1° e per rendere evidente tale caratteristica occorre riprendere il principio informatore del recente articolo di Roberto Buffagni sulla gestione della pandemia http://italiaeilmondo.com/2021/12/19/sulle-strategie-di-approccio-alla-pandemia-da-coronavirus-tiriamo-le-fila_di-roberto-buffagni/ : la gestione positiva di una crisi sistemica complessa ed imprevista non può essere affidata ad un’unica soluzione salvifica, in pratica ad una scommessa. Un approccio unidimensionale all’apparenza occasionale, ma che viene riproposto pedissequamente, in realtà, in analoghe situazioni di reale o presunta crisi sistemica. Il segno a questo punto dei limiti di visione e di realistica ambizione di classi dirigenti ottuse e decadenti, prive di autonomia strategica; la causa prima dei comportamenti paradossali e incoerenti, dozzinalmente manipolatori di queste man mano che devono sbattere con l’evidenza della realtà. Lo abbiamo già visto nella crisi pandemica in corso; cominciamo ad intravederlo negli altri tre ambiti segnalati da questo articolo. Le questioni ambientale e climatica da una parte ed energetica dall’altra sono, quindi, tre delle vittime più illustri di questo approccio.

La questione ambientale/climatica si è trasformata rapidamente nella sua forma dogmatica e moralisticheggiante di ambientalismo catastrofico nel momento in cui ha attribuito all’UOMO, alla sua avidità e al suo delirio di potenza, la responsabilità prima e determinante dei cambiamenti climatici. Un assioma ancora tutto da dimostrare al quale seguono altre certezze più simili a dogmi indiscutibili che ad argomentazioni inoppugnabili, quali l’origine e la responsabilità antropica del cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse della terra.

Assiomi i quali, per essere inquadrati criticamente, necessitano intanto di due precisazioni preliminari:

  • la questione ambientale andrebbe prima separata nettamente da quella climatica per poi procedere all’individuazione delle correlazioni tra di esse;
  • la tematica ambientale/climatica non è un mero movimento culturale pregno di motivazioni idealistiche solo in un versante, ma un tema politico sostenuto in entrambi i versanti da lobby, dinamiche geopolitiche e gruppi di interessi, uno dei quali, in quanto allo stato nascente e intrinsecamente più limitato, dal carattere maggiormente assistito e parassitario e con alcuni attori di prima grandezza impegnati contemporaneamente nei due fronti. Uno per tutti il solito Soros, impegnato a finanziare i vari “gretini” per il mondo e nella partecipazione azionaria di CFS, impegnata nella ricerca applicata sulla fusione nucleare.

 

Il cambiamento climatico, per meglio dire i cambiamenti climatici, quando rilevati lungo tempi ragionevoli ed appropriati, hanno effetti opposti e non necessariamente negativi secondo la latitudine, il carattere e la morfologia dei terreni, la cura del territorio, il livello di antropizzazione incontrollata e squilibrata, sia in condizione di spopolamento che di inurbamento caotico ed incontrollato.

Ammessa e non concessa la determinante responsabilità antropica nei cambiamenti climatici, più che di “UOMO” si dovrebbe parlare di uomini nelle loro diverse aggregazioni sociali, nei loro vari gruppi di interesse e di visione delle cose, nelle loro diverse dinamiche legate al soddisfacimento delle necessità.

Conseguenze e problemi diversi in diversi contesti, ma anche e quindi approccio multidimensionale nella individuazione e circoscrizione dei problemi ed adozione di provvedimenti ed indirizzi secondo il criterio cautelativo del multirischio (AHP), tipico di azioni in contesti complessi e non sufficientemente controllabili.

Se, a titolo di esempio, i cambiamenti climatici possono innescare processi di desertificazione, l’intervento dell’uomo può contribuire a rendere irreversibile, contenere o a far regredire il fenomeno: lo sono, però, in un senso e nell’altro, tanto l’introduzione dell’allevamento estensivo, specie di ovini, come nel Sahel, quanto l’uso indiscriminato di fertilizzanti e anticrittogamici nelle coltivazioni intensive e specializzate; tanto la sovrappopolazione rispetto alla capacità dei bacini idrografici e alle tecnologie ivi disponibili di uso razionale delle risorse idriche, quanto l’abbandono e lo spopolamento di territori bonificati e trasformati dal paziente, millenario intervento dell’uomo; tanto i repentini processi di industrializzazione e sfruttamento dei terreni, come avvenuto nell’Asia sovietica, quanto la loro repentina interruzione. Per non parlare del problema delle risorse idriche e dei contenziosi geopolitici ad esse legate ( http://italiaeilmondo.com/2018/03/16/geopolitica-dellacqua-verita-controcorrente-di-aymeric-chauprade-traduzione-di-roberto-buffagni/ ). Si potrebbe continuare all’infinito. Come si potrebbe sindacare sugli sconvolgimenti ambientali ed economici provocati dall’interruzione repentina e senza alternative dell’uso di sostanze chimiche, ma rimossi da quegli ambientalisti così altrimenti sensibili ai mutamenti.

Ad un tale livello di complessità ed articolazione delle problematiche intrinseche ai sistemi ecologici si deve aggiungere l’ulteriore complicatezza di quelle estrinseche in azione in questo ambito, a cominciare dalle dinamiche geopolitiche, dalle esigenze di coesione e dinamicità delle formazioni sociali, dalla costante pressione esercitata dall’accumulazione capitalistica, dal modello di sviluppo e di progresso che informa le diverse strategie politiche delle classi dirigenti.

Da qui il carattere irrealistico delle ipotesi di governo mondiale di questi fenomeni, tanto più in una fase multipolare delle dinamiche geopolitiche. Si potrebbe pervenire tutt’al più alla definizione di indirizzi e di qualche strumento finanziario e di incentivazione a patto che si passi dalla velleità del contrasto all’obbiettivo più praticabile dell’adattamento, principio accettato in coabitazione solo dopo quattro decenni di proclami apocalittici quanto sterili.

Troppo poco rispetto all’annuncio drammatico della imminente catastrofe; sufficiente, però, a spingere alla soluzione salvifica e al discrimine moralistico rispetto al posizionamento dei vari attori; esattamente come è successo per la crisi pandemica, per il discrimine umanitario dei regimi e via dicendo.

Non poteva non cadere nel mirino il principale bersaglio predestinato: la produzione ed il consumo dell’energia fossile; non potevano non essere il principale soggetto promotore e la vittima suicida di queste scelte i paesi europei e la loro sintesi politica di impotenza e subordinazione, l’Unione Europea. Nel nostro piccolo, gli artefici ed apologeti del PNRR.

L’obbiettivo di conversione integrale e subitanea alle fonti di energia rinnovabile è di per sé irrealizzabile per i limiti fisici di trasformazione delle fonti originarie e di estensione territoriale degli impianti necessari. Imposta come soluzione salvifica e redentiva induce a sottovalutare i problemi di inquinamento e di dipendenza geopolitica derivati dall’estrazione e dalla lavorazione delle materie prime, del tutto analoghi a quelli delle fonti fossili; spinge a rimuovere il problema dell’intermittenza della produzione e dell’accumulazione e trasporto di questi prodotti; sopprime di fatto ogni obbiettivo di ricerca delle fonti fossili, di miglioramento delle loro rese proprio nella fase più delicata di questo processo, quella della transizione; impedisce una realistica politica integrata e diversificata delle fonti e delle modalità di produzione ed espone, con la fretta nell’adozione ed i ritardi nella capacità di produzione, alla dipendenza tecnologica. Il mix perfetto per perpetuare la propria dipendenza geoeconomica e geopolitica e per esporsi pericolosamente a crisi drammatiche quanto prevedibili ampiamente preannunciate e già in corso. Crisi non cagionate dal fato, ma da precise responsabilità e ottusità politiche, aggravate per di più da scelte economiche come quella di affidarsi, in tempi così incerti, alle contrattazioni hot spot nel mercato delle fonti fossili e dalla subordinazione geopolitica come accade sulle vicende south-stream, north-stream 2, della gestione schizofrenica dei giacimenti nell’Mediterraneo Orientale, del mancato sfruttamento delle risorse proprie per ragioni avulse da quelle del mantenimento di riserve strategiche proprie.

Un mix esplosivo e inconfessabile in grado di mettere assieme sodalizi improbabili ed apparentemente inconciliabili, laddove il dogmatismo di gran parte dei movimenti ambientalisti, la subordinazione e passività politica e geopolitica delle classi dirigenti europeiste e dei paesi europei, la natura speculativa di quegli ambienti finanziari adusi a trarre profitto dalle situazioni di crisi e di transizioni sgovernate, l’indole assistenziale e parassitaria di quelli capaci di fondare il proprio successo su incentivi massicci e procrastinati indefinitamente, incapaci di gestire i tempi necessari alla sperimentazione e alla applicazione industriale delle scoperte scientifiche trovano un humus comune nel quale coltivare utopia millenaria ed interessi prosaici.

Non è solo, purtroppo, un problema di buon senso, ma quello di un continuo tentativo di procrastinare situazioni più o meno reali di emergenza tali da giustificare l’esistenza e la legittimità di classi dirigenti altrimenti improbabili e da rendere schizofrenici i necessari bagni nella realtà ai quali si è costretti a cedere, come nel caso del riconoscimento dell’energia nucleare come fonte indispensabile alla transizione, quando in realtà necessaria strategicamente e in più campi.

La notizia evidenziata da Piergiorgio Rosso, nel nostro testo del 29 dicembre scorso, rappresenta un barlume positivo, ma ancora tutto da interpretare nella sua consistenza; il successivo articolo di Industria Italiana, nello stesso testo, valorizza la capacità manifatturiera della piccola e media industria nel settore nucleare, ma glissa elegantemente sul carattere complementare dell’industria italiana nella catena del valore. Non a caso è totalmente assente, nell’articolo, un qualche accenno sul ruolo, pur esistente e resistente, della residua grande industria strategica italiana.

Un provincialismo ed economicismo consapevole perfettamente in linea con la vacuità e la passività della nostra classe dirigente ma del tutto inadeguati l’uno e l’altra ai frangenti che dovremo affrontare.

Il PNRR, del quale si celebrano quotidianamente i fasti, rappresenta la summa di queste modalità operative ed opacità, ad essere generosi, degli obbiettivi. Un argomento che sarà necessario approfondire proprio per trovare conferme in sede di bilancio, dovesse essercene l’opportunità.

Buon Anno a modo nostro dalla redazione e da TKG

Anche il 2021 è andato. Auguriamo un 2022 migliore del precedente. Sarà un anno intrigante e inquietante nel mondo; dal destino segnato, ahimé, per il nostro paese. Sappiamo però che i destini privati non coincidono necessariamente con quelli di una comunità. E’, comunque, nostro dovere e nel nostro piccolo far emergere le risorse vitali che pur esistono nel nostro paese. Come con gli auguri natalizi intendiamo affermare lo spirito che alimenta l’impegno nel nostro sito con la pubblicazione di un contributo di una figura esterna, ma ormai affezionatissima_Giuseppe Germinario

PANDEMIA DOCET, di Teodoro Klitsche de la Grange

A detta di tanti, la pandemia – ormai biennale – ha insegnato molte cose, e altrettante ne cambierà. Perciò m’intruppo anch’io in questa (folta) compagnia, onde esporre quale ammaestramento – a mio avviso – se ne può trovare.

Il pensiero prevalente a livello di comunicazione mainstream prima della pandemia trovava il proprio nocciolo duro nelle credenze che: a) il mondo viaggiasse sul binario di un progresso lineare ed irreversibile dal più povero al più ricco, dal più violento al meno violento, dal più malato al più sano (e così via) b) all’orizzonte, ma già in larga misura in atto, c’era un ordinamento sociale privo d’eccezioni e quindi puramente normativo ed essenzialmente statico.

Nell’utopismo marxista (finito) era la società senza classi; nel successivo pensiero unico (e anche debole) ha assunto forme e nomi (parzialmente) diversi, dalla “fine della storia” alla “governance globale”. Tutte accumunate dal fatto che le emergenze, in tutte le loro manifestazioni, erano sostanzialmente finite, quali stroncate (il più delle volte) dal progresso, e ridotte in altre – più limitate (dal terremoto all’incidente aereo)- dalla capacità di contenerne e ridimensionarne gli effetti negativi.

La pandemia ha mostrato il carattere illusorio, anzi affabulatorio di certe credenze: è stata l’irruzione della realtà in un mondo di favole.

Il fatto che ci sia già costata oltre cinque milioni di morti e danni enormi (economici e sociali); e perfino che abbia limitato al minimo i consumi voluttuari (con scorno delle élite), rende impossibile ricondurla alla prima o alla seconda categoria: quanto alla seconda, per le dimensioni (non è un terremoto appenninico); quanto alla prima perché è evidente che il progresso non ci protegge da certi eventi. Anzi, una verosimile spiegazione della nascita e diffusione del Covid lo ascrive ad un errore nel laboratorio di Wu-Han, costruito – si dice – per lo studio delle malattie virali. Un classico caso di eterogenesi dei fini, scriverebbe Max Weber (a non fare ipotesi più maligne).

Resta il fatto che il progresso non produce solo il bene, ma anche il male: e in ogni caso, ci aiuta, ma non elimina i rovesci della fortuna.

Uso il termine impiegato da Machiavelli nel XXV capitolo del Principe, perché il genio fiorentino contrappone alla fortuna la virtù (dei governanti). La fortuna assomiglia a un fiume che allaga e distrugge edifici e colture; ciononostante gli uomini possono limitarlo con argini e ripari “Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta a sua impeti, dove ella sa che non sono fatti gli argini né ripari a tenerla”. In Italia trova una campagna senza argini, ossia manca virtù nei governanti. Cosa che non succede nella “Magna, la Spagna e la Francia”.

Ad applicarla alla situazione italiana nelle crisi di questo secolo (quella finanziaria del 2008 e la pandemica), abbiamo la conferma di quanto sosteneva il segretario fiorentino: le due crisi sono state affrontate da governanti carenti di virtù. Tant’è che la prima si è trascinata in Italia per oltre un decennio, e in Europa (in Magna….) è durata assai di meno e provocato danni inferiori.

Quanto alla seconda, per trovare una risposta organizzativa non scadente in misure da “parata” (primule, banchi a rotelle, ecc. ecc.) abbiamo dovuto cambiare governo. Non so se questo basterà. Ma qualche miglioramento sicuramente l’abbiamo visto. Resta il fatto che la pandemia ci ha insegnato che i paternostri dispensati a piene mani dalla classe dirigente erano inutili; che tale inutilità era data essenzialmente dal non comprendere che la virtù consiste nella capacità di dare una risposta efficace a situazioni improvvise; che norme e progresso servono a poco se non adatte ad affrontare l’emergenza. E che la vita non è un viaggio in treno dove comunque, senza fatica, si arriva a destinazione. Ma soprattutto che per affrontare le crisi occorre la virtù, ossia la capacità prima di prevederle e prepararsi, poi di gestirle. Cioè tutto il contrario di quanto ci hanno propinato da decenni. Non so se l’anno prossimo vedremo il capitolo XXVI del Principe, ossia il riscatto generato proprio dall’aggravarsi della crisi. Non si vede il Principe adatto, né moderno né antico; d’altra parte la stessa sorte toccò a Machiavelli e all’Italia del XVI secolo, che trovò il proprio Principe solo nel XIX.

Teodoro Klitsche de la Grange

Stati Uniti, il ritorno dei naufraghi_con Gianfranco Campa

Negli Stati Uniti stiamo assistendo ai primi segnali di un ribaltamento della narrazione che ha giustificato sino ad ora la gestione della pandemia da parte dell’establishment dominante. Di fronte alla evidenza stridente della realtà, alle nubi che si affacciano all’orizzonte circa il dissesto economico provocato e le probabili implicazioni di lunga durata delle scelte farmacologiche adottate in grande fretta diventa sempre più arduo proseguire sulla stessa strada non ostante il sostegno monolitico della gran cassa mediatica. Rappresenta il tentativo, probabilmente estremo, di consentire ai naufraghi dell’attuale panorama politico non solo di riemergere dalla crisi di consenso, di autorità e di autorevolezza in cui sono sprofondati, ma di riprendere saldamente in mano il controllo della situazione, riuscendo nel capolavoro di coinvolgere pesantemente nella responsabilità di una gestione fallimentare e cinica Donald Trump. E’, infatti, il primo reale momento di rottura, probabilmente non ancora irreparabile, del profondo legame dell’ex presidente con lo zoccolo duro del suo elettorato, grazie anche ad una clamorosa ingenuità. Non sappiamo se fatale. Siamo ancora agli inizi e il finale dello spartito non è ancora stato scritto. Richiederà il sacrificio di alcuni capri espiatori in campo democratico e neocon. Le incognite però sono ancora troppe: il caso Epstein, di fatto oscurato, ma non ancora chiuso; il dilemma dei rapporti con la Cina e soprattutto con la Russia non più eludibile, grazie ai passi intrapresi da Putin e Lavrov; l’immigrazione sempre più incontrollata e la situazione economica a dir poco incerta; gli stati federati che sempre più intraprendono iniziative contrastanti con gli indirizzi del governo centrale; la polarizzazione drammatica all’interno del Partito Democratico; le possibili alternative che stanno emergendo nella leadership trumpiana. Tutti fattori che rischiano di risucchiare la ciurma dei naufraghi proprio nel momento in cui riescono ad aggrapparsi a qualche relitto per rimanere a galla, rendendo improcrastinabile l’avvento di nuovi timonieri. Sempre che ci siano. In Italia i sintomi di una crisi quantomeno di autorevolezza non mancano; come al solito la classe dirigente tarderà a cambiare lo spartito, scritto da altri e riprodotto malamente dai nostri epigoni. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vrowfd-usa-e-i-naufraghi-di-ritorno-con-g-campa.html

 

Fusione nucleare e ENI: perché conta, di Piergiorgio Rosso

Qui sotto un breve articolo di Piergiorgio Rosso, apparso su www.conflittiestrategie.it, riguardante lo stato dell’arte, in casa ENI, sulle prospettive di ricerca del processo di fusione nucleare e un lungo articolo, dal carattere prevalentemente agiografico ma comunque interessante, del sito IndustriaItaliana, sulla partecipazione della piccola e media industria italiana allo sviluppo delle moderne tecnologie nucleari. Seguirà all’indomani un lungo commento ai due testi. _Giuseppe Germinario

Il quotidiano La Verità del giorno 22 dicembre u.s. dedicava l’intera pagina 19 ad un articolo molto informato sulle prospettive della ricerca sulla fusione nucleare soffermandosi in particolare sul ruolo dell’ENI.

 Le osservazioni in proposito sono diverse e tutte rilevanti. La prima è che ci sono voluti 100 giorni dal comunicato ANSA, perché della questione se ne parlasse diffusamente su un quotidiano quindi destinato al grande pubblico non specializzato. I cosiddetti “giornaloni si sono limitati a riportare delle sintesi dell’agenzia ANSA in merito, relegate per lo più nelle pagine di economia/mercato.

 La seconda è che l’ENI, una delle poche grandi aziende italiane sopravvissute con difficoltà allo smantellamento/spezzettamento sistematico subito dall’industria pubblica italiana negli ultimi trent’anni, sta giocando un ruolo da protagonista in un campo di ricerca di punta, ad altissima tecnologia, con ampie ricadute in tutti i settori industriali. Svolgendo puntualmente il ruolo che lo Stato le ha affidato in particolare nel campo energetico. La scelta di allearsi con gli americani del MIT assumendo la maggioranza azionaria in CFS – la società che ha realizzato il test positivo di un magnete superconduttore per il confinamento del plasma – sembra suggerire che il gruppo dirigente ENI abbia scelto un approccio insieme realistico ed autonomo. Occorre infatti sottolineare come la ricerca in questo campo coinvolge tutte le nazioni ad alto sviluppo scientifico e la competizione per arrivare “primi” a produrre energia da questa fonte, è fortissima.

 La terza è che la notizia del test positivo superato da CFS è arrivata proprio nel momento in cui è diventato evidente e di dominio pubblico (…finalmente! è il caso di dire …) che la sostituzione dei combustibili fossili con eolico e solare è una chimera – per l’intermittenza di vento e sole – oltretutto poco sostenibile socialmente ed economicamente. Il significativo disinvestimento nell’esplorazione e sfruttamento delle riserve di fonti fossili, stimolato in questi ultimi anni dalle politiche energetiche definite “alternative/ecologiche”, ha comportato una penuria delle stesse fonti che ha messo in crisi settori fondamentali (come l’industria dei fertilizzanti) e ne ha fatto schizzare i prezzi. Tutto questo ha rilanciato il dibattito sulle fonti energetiche nucleari da fissione (una realtà consolidata) e da fusione. Per quanto riguarda la prima, l’Unione Europea si è convinta a definirla “sostenibile”, garantendole i necessari investimenti (gode la Francia, nicchia la Germania). Per quanto riguarda la seconda, è uscita opportunamente dai laboratori ed è stata presentata sulla scena pubblica come uno dei protagonisti dei prossimi decenni.

 Che su questa scena sia apparsa l’ENI da protagonista non può che essere motivo di soddisfazione. Non sfugge d’altra parte che il comunicato ENI del 21 settembre scorso, ripreso e rilanciato dall’ANSA, potrebbe riflettere anche una reazione difensiva da parte ENI, da tempo attaccata su vari fronti e da diverse direzioni, nazionali ed internazionali.

Se poi consideriamo la scarsa attenzione che la grande stampa nazionale ha rivolto a quel comunicato, capiamo come sia ancora lunga la strada da percorrere per ribaltare la narrazione ambientalista relativa alla “nocività-della-CO2-di-origine-antropica-per-il-pianeta” e difficile, ancorché necessario, su questa stessa strada difendere e rilanciare la nostra grande industria energetica nazionale.

Da qui la nostra enfatizzazione di questo importante evento scientifico/tecnologico che nella nostra lettura permette tra l’altro di rilanciare la significatività e fertilità – anche interpretativa dei fatti – del concetto lagrassiano di conflitto strategico per la supremazia, agente in tutte le sfere sociali. In questo specifico caso nell’industria/finanza, nella comunicazione/controllo dei media, nella politica.

http://www.conflittiestrategie.it/fusione-nucleare-e-eni-perche-conta-di-piergiorgio-rosso

Eni e CFS: raggiunto un traguardo fondamentale nella ricerca sulla fusione a confinamento magnetico

08 SETTEMBRE 2021 – 1:15 PM CEST
Una fonte di energia sicura, sostenibile e inesauribile che riprodurrà i principi alla base della generazione dell’energia solare

 

San Donato Milanese, 8 settembre 2021 – Eni annuncia che CFS (Commonwealth Fusion Systems), società spin-out del Massachusetts Institute of Technology di cui Eni è il maggiore azionista, ha condotto con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva HTS (HighTemperature Superconductors) che assicurerà   il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica.

La fusione a confinamento magnetico, tecnologia mai sperimentata e applicata a livello industriale finora, è una fonte energetica sicura, sostenibile e inesauribile che riproduce i princìpi tramite i quali il Sole genera la propria energia, garantendone una enorme quantità a zero emissioni e rappresentando una svolta nel percorso di decarbonizzazione.

La tecnologia oggetto del test è di particolare rilevanza nel quadro della ricerca sulla fusione a confinamento magnetico poiché rappresenta un passo importante per creare le condizioni di fusione controllata, e questo rende possibile il suo impiego in futuri impianti dimostrativi. Studiare, progettare e realizzare macchine in grado di gestire reazioni fisiche simili a quelle che avvengono nel cuore delle stelle è il traguardo tecnologico a cui tendono le più grandi eccellenze mondiali nella ricerca in ambito energetico.

L’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha commentato: “Lo sviluppo di tecnologie innovative è uno dei pilastri su cui poggia la strategia di Eni volta al completo abbattimento delle emissioni di processi industriali e prodotti, nonché la chiave per una transizione energetica equa e di successo. Per Eni, la fusione a confinamento magnetico occupa un ruolo centrale nella ricerca tecnologica finalizzata al percorso di decarbonizzazione, in quanto potrà consentire all’umanità di disporre di grandi quantità di energia prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile e senza alcuna emissione di gas serra, cambiando per sempre il paradigma della generazione di energia e contribuendo a una svolta epocale nella direzione del progresso umano e della qualità della vita. Il risultato straordinario ottenuto durante il test dimostra ancora una volta l’importanza strategica delle nostre partnership di ricerca nel settore energetico e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer”.

Eni è impegnata da tempo in questo ambito di ricerca e nel 2018 ha acquisito una quota del capitale di CFS per sviluppare il primo impianto che produrrà energia grazie alla fusione. Contestualmente, l’azienda ha sottoscritto un accordo con il Plasma Science and Fusion Center del Massachusetts Institute of Technology (MIT), per svolgere congiuntamente programmi di ricerca sulla fisica del plasma, sulle tecnologie dei reattori a fusione, e sulle tecnologie degli elettromagneti di nuova generazione.

Il test ha riguardato proprio l’utilizzo di tali elettromagneti di nuova generazione per gestire e confinare il plasma, ovvero la miscela di deuterio e trizio portata a temperature altissime da fasci di onde elettromagnetiche, e ha dimostrato la possibilità di assicurare l’innesco e il controllo del processo di fusione, dimostrando l’elevata stabilità di tutti i parametri fondamentali. La tecnologia oggetto del test potrebbe contribuire significativamente alla realizzazione di impianti molto più compatti, semplici ed efficienti. Ciò contribuirà a una forte riduzione dei costi di impianto, dell’energia di innesco e mantenimento del processo di fusione e della complessità generale dei sistemi, avvicinando in tal modo la data alla quale sarà possibile costruire un impianto dimostrativo che produca più energia di quella necessaria ad innescare il processo di fusione stesso (impianto a produzione netta di energia) e consentendo, successivamente, la realizzazione di centrali che possano più facilmente essere distribuite sul territorio e connesse alla rete elettrica senza dover realizzare infrastrutture di generazione e trasporto dedicate.

Sulla base dei risultati del test, CFS conferma la propria “roadmap”, che prevede la costruzione entro il 2025 del primo impianto sperimentale a produzione netta di energia denominato SPARC e successivamente quella del primo impianto dimostrativo, ARC, il primo impianto capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica che, secondo la tabella di marcia, sarà disponibile nel prossimo decennio.

SPARC sarà realizzato assemblando in configurazione toroidale (una ciambella detta “tokamak”) un totale di 18 magneti dello stesso tipo di quello oggetto del test. In tal modo sarà possibile generare un campo magnetico di intensità e stabilità necessarie a contenere un plasma di isotopi di idrogeno a temperature dell’ordine di 100 milioni di gradi, condizioni necessarie per ottenere la fusione dei nuclei atomici con il conseguente rilascio di un’elevatissima quantità di energia.

https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2021/09/cs-eni-cfs-raggiunto-fusione-confinamento-magnetico.html

Nucleare: il tassello perfetto per raggiungere il net zero. E un’industria che ci piace moltissimo!

di Filippo Astone e Laura Magna ♦︎ È un settore che vedrà la rivoluzione della fusione e tecnologie di avanguardia nella fissione: i mini reattori modulari. In Italia, una filiera di aziende fornitrici di significativo impatto economico: Ansaldo Nucleare, Fincantieri, Asg, Cestaro Rossi, Simic. I progetti Iter e Dtt per reattori di quarta generazione

Tokamak

Il net zero? Impossibile senza Nucleare, soprattutto quello in parte avveniristico della Fusione, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori.  Una verità che emerge con forza in questi giorni, dopo che la Commissione europea ha deciso che il nucleare rientrerà nella tassonomia delle attività economiche sostenibili. Una mossa rivoluzionaria che segue la presa di posizione del ministro italiano per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, secondo cui non solo l’accelerazione data dalle rinnovabili è insufficiente per la transizione ma «non ha senso pensare che dietro l’aggettivo nucleare si celino solo ed esclusivamente tecnologie pericolose, poco efficaci e costose». Anche perché il nucleare sta cambiando profondamente – non è più quello della vecchia fissione rigettato da due referendum anche nel nostro Paese.

Ma è un settore caratterizzato da tecnologie di avanguardia nella fissione stessa (come i mini reattori modulari) ma che soprattutto mirano a creare energia dalla fusione tra atomi, replicando lo stesso processo che avviene nelle stelle. Last but not least, come raccontiamo nell’articolo qui nel nostro Paese è presente una filiera di aziende fornitrici di tecnologie ad altissimo valore aggiunto e di significativo impatto economico. Filiera preziosa e strategica, da difendere e da far crescere il più possibile. Per tutti questi motivi, Industria Italiana è fortemente a favore del nucleare: la fusione in primo luogo, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori puliti. Riteniamo che l’avversione pre-giudiziale e irrazionale verso il Nucleare sia l’ennesima manifestazione dell’autolesionismo italico e di quella mentalità anti-impresa che ha già fatto troppi danni. (Filippo Astone)

I protagonisti della filiera italiana del Nucleare, che sta cambiando

Iter è un reattore deuterio-trizio in cui il confinamento del plasma è ottenuto in un campo magnetico all’interno di una macchina denominata Tokamak. La costruzione è in corso a Cadarache

Un settore che vede tra i suoi protagonisti, in Italia, aziende di grandi dimensioni come Ansaldo Nucleare e Fincantieri, ma anche e soprattutto pmi attive nella componentistica a elevato contenuto di innovazione: la Asg della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi; Cestaro Rossi, meccanica pugliese che ha diversificato nella costruzione e nel montaggio di impianti nucleari; Simic che partendo dall’oil&gas si è poi specializzata nei Tf coils, tubi che contengono i magneti superconduttivi.

E un settore che sta cambiando grazie in particolare a due progetti, quello globale – ma con un cuore tutto italiano – Iter e quello domestico Dtt. Sono progetti che valgono, solo per la filiera italiana oltre due miliardi (1,6 il primo e 600 milioni il secondo). E sono i progetti che abiliteranno i reattori di quarta generazione, capaci di garantire la produzione di energia dalla fusione nucleare. La parte manifatturiera di Iter – al cui centro c’è la realizzazione del reattore sperimentale Tokamak, che si basa sull’approccio del confinamento magnetico – è all’80%. Lo afferma Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation. Per Dtt invece, secondo il presidente Francesco Romanelli, è stato impegnato il 30% del budget: la tecnologia italiana sarà usata per risolvere il problema dello smaltimento del calore che si genera nella fusione e che arriva intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremmo se fossimo seduti sul sole. Quando i progetti vedranno la luce i primi impianti di generazione commerciale, nel 2035, secondo le stime più accreditate. Le informazioni e gli interventi che i lettori troveranno in questo articolo sono tratte da un recente convegno che Confindustria ha organizzato a Roma. La parte informativa è frutto di nostre rielaborazioni. Le parole virgolettate sono state pronunciate in quella sede.

L’energia da fusione? È necessaria (e va messa sullo stesso piano delle rinnovabili)

Oggi in Europa i reattori operativi sono 292, in cui viene prodotta il 20% dell’elettricità e il 43% della generazione a basse emissioni. Tuttavia, le fonti fossili dominano ancora, anche perché negli ultimi 20 anni oltre 70 reattori sono stati scollegati dalla rete e nella metà dei casi rimpiazzati da fonti fossili. Sono dati contenuti in un rapporto rilasciato dalla United Nations Economic Commission for Europe (Unece).

L’energia nucleare è una fonte di energia a basse emissioni di carbonio che ha svolto un ruolo importante nell’evitare le emissioni di CO2. Negli ultimi 50 anni, l’uso del nucleare ha ridotto la CO2 globale emissioni di circa 74 Gt, ovvero quasi due anni del totale emissioni globali legate all’energia. Solo l’energia idroelettrica ha svolto un ruolo maggiore nella riduzione storica emissioni

Secondo il rapporto, le centrali nucleari hanno un elevato potenziale di riduzione delle emissioni perché possono produrre in modo continuato sia elettricità sia calore utile a diversi processi, dal riscaldamento residenziale agli usi industriali. A favore del nucleare ci sono anche ragioni legate al costo (già con una penetrazione pari al 50%, le rinnovabili intermittenti renderebbero l’elettricità più costosa del nucleare). Senza considerare che sta aumentando vertiginosamente il prezzo del gas naturale, che è il migliore sostituto del nucleare per fornire backup alle rinnovabili intermittenti. Ma se il suo costo aumenta viene meno il vantaggio marginale.

 

L’LCOE confronta tutti i costi a livello di impianto, ma non lo fa non tener conto del valore o dei costi indiretti per il sistema complessivo ed è scarso per confrontare le tecnologie che operano in modo diverso (es. rinnovabili variabili e tecnologie dispacciabili). Mentre i costi della variabile le fonti di energia rinnovabile (VRE) stanno rapidamente diminuendo, queste tecnologie impongono anche costi di sistema aggiuntivi che iniziano ad aumentare significativamente a penetrazioni più elevate. Questi costi di sistema aggiuntivi aumentano il totale costo dell’energia elettrica

E anche sul fronte dell’impatto ambientale e sanitario il nucleare è vincente. L’impatto (sul ciclo di vita) è molto ridotto, più esiguo del solare e secondo solo all’eolico per quanto riguarda i potenziali danni agli ecosistemi. Tuttavia i progetti scontano le difficoltà insite nell’elevato costo capitale iniziale e nella durata di lungo termine che li rende soggetti al mutare delle agende politiche e dell’opinione pubblica. Ecco perché è prioritario che si instaurino politiche di supporto che consentano al nucleare di competere alla pari con le altre fonti a basse emissioni. E lo si fa, secondo Unece, perseguendo due strade: creando un clima a lungo termine favorevole agli investimenti, a cominciare dal suo inserimento nel novero degli investimenti sostenibili – punto che è stato almeno in parte soddisfatto grazie alla nuova tassonomia. E accelerando lo sviluppo delle tecnologie nucleari avanzate per favorirne l’ingresso sul mercato.

Anche le centrali nucleari richiedono acqua per il raffreddamento e questo deve essere gestito per prevenire impatti sul locale ecosistemi acquatici. Ciò richiede un’attenta ubicazione e valutazione di impatto ambientale. L’analisi comparativa del fabbisogno di spazio delle diverse fonti di energia è presentato nel grafico

 

La roadmap di Iter e il ruolo della filiera della fusione nucleare italiana

Su questo secondo punto sono proprio Iter e Dtt a poter fare la differenza. Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor) è in costruzione a Cadarache, nel Sud della Francia, per iniziativa di un consorzio internazionale che vede partecipare Europa, Russia, Cina, Giappone, Usa, India, Corea del Sud. Per la sua realizzazione saranno investiti 21 miliardi di euro. Si tratta del progetto più importante in assoluto a livello globale, avviato nel 2006: ne deriverà la prima centrale termonucleare al mondo. Al centro il già citato Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.

Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter. Come cinque settori del Vacuum Vessel, la camera di vuoto del reattore, come pure i grossi magneti capaci di assicurare il confinamento magnetico del plasma nella camera stessa sono in produzione da parte di aziende italiane.

Circa il 60% dei contratti industriali per la costruzione di Iter sono stati aggiudicati da aziende italiane

Orlandi (Iter): «I lavori sono all’80%»

Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.
Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter

Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025. Dello stato di avanzamento dei lavori parla Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation: «I lavori sono all’80% – dice Orlandi – Le imprese italiane hanno commesse per 1,5 miliardi di 7 miliardi di investimenti complessivi. Nato nel 2007 per accordi internazionali, il progetto prevede la costruzione di un sito grande almeno 4 volte un impianto medio nucleare a fissione, complesso, sulla frontiera delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e l’integrazione tra attori diversi che hanno cooperato in tempi difficili. Il sito comprenderà la parte elettrica con 400 kw volt, trasformatori di impianto, convertitore di potenza e impianto criogenico; pozzi freddi ad acqua e edifici ad alta frequenza».  Per quanto riguarda Tokamak, l’edificio reattore con una massa di 400mila tonnellate, con una platea (fondazione) di un metro e mezzo, numeri che già di per sé rappresentano un record, «tutto quello che ruota intorno a questa opera è completato, siamo al commissioning – dice Orlando –Il caricamento del combustibile nucleare è previsto a dicembre 2035». Ma l’impianto, spiega il responsabile, viene costruito per fasi successive, allo scopo di testare la macchina i progress: «il primo stadio è fissato a dicembre 2025 in cui facciamo la reazione di fusione pulita, studiamo il plasma e cerchiamo di mettere in commissionig tutti i sistemi; poi la fase due prevede il caricamento del criostato; e infine il test dei sistemi in modo integrato per avere certezza del buon funzionamento».

L’industria nostrana sta offrendo il suo altissimo contributo nelle attività di montaggio e di avviamento dell’impianto, qualificandosi per la capacità di assicurare la qualità del prodotto. I principali player sono Ansaldo Nucleare nell’assemblaggio e Fincantieri nei montaggi d’impianto. Ma anche nella costruzione: ancora Ansaldo è coinvolta nell’ideazione dei componenti chiave come il divertore o la camera di vuoto; il design della zona di raffreddamento delle acque; la produzione dei settori della Vacuum Vessel; la produzione dei prototipi dei divertori. Poi c’è il contributo di Asg, l’azienda della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi e che ha un giro d’affari intorno ai 40 milioni, specializzata nella produzione di magneti superconduttivi: per Iter ha prodotto bobine poloidali in sito e bobine toroidali per le quali è stato necessario allestire una fabbrica ad hoc al porto di La Spezia in modo da poterle trasportare poi a Cadarache. E il lavoro delle Università di Pisa, Padova, Torino e Roma. Insomma un progetto che ha un cuore italiano.

Romanelli (Dtt): «Attività al picco nel prossimo biennio. Facciamo palestra per le necessarie partnership pubblico-private che dovranno seguire»

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Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025

Strettamente collegato alla realizzazione del reattore Tokamak di Iter è la Dtt (Divertor Test Tokamak), progetto questo tutto italiano avviato nel sito Enea di Frascati, con capofila Ansaldo Energia ed Enea. La roadmap di Dtt prevede la costruzione di un reattore dimostrativo nel 2050, la chiave è il successo di Iter e in cui il know how italiano ha avuto modo di farsi valere. «Ci siamo focalizzati sulla sfida principale che è lo smaltimento del calore che si genera nella fusione – dice il presidente Francesco Romanelli – Il calore fluisce verso il bordo del plasma e poi viene trasferito nel divertore (in una nicchia intorno ai bordi). Localmente i carichi termici arrivano intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremo se fossimo seduti sul sole. Dobbiamo fare componenti in grado di sopravvivere sulla superficie del sole. Enea e Ansaldo Nucleare lavorano a questo».

Quanto allo stato di avanzamento, Dtt è già in costruzione, «abbiamo impegnato circa il 30% del budget, firmato contratti con Asg per la fornitura delle bobine superconduttrici, per i cavi e per le casse dei magneti stiamo per firmare, abbiamo una serie di attività che raggiungeranno il picco nel 2022-23 con gare per edifici e componenti della macchina». Un progetto che è un elemento fondamentale nella roadmap europea: una sfida e una grossa opportunità. «Prevede un salto tecnologico a livello di dimensioni e tipologie – continua Romanelli – Nelle tecnologie dei magneti superconduttori, nei sistemi di riscaldamento avanzati, nelle diagnostiche innovative: questo richiede una organizzazione del progetto adeguata che metta assieme tutte le competenze che servono». Ma non è solo sul fronte della tecnologia che Dtt rappresenta un balzo senza precedenti. «Si tratta – prosegue Romanelli – di un laboratorio interessante anche per lo studio di partnership pubblico-private: abbiamo di fronte una sfida per il sistema energetico che deve assicurare sostenibilità, sicurezza di approvvigionamento e competitività economica. La soluzione verrà da un portafoglio di fonti che includono fer, fissione, soluzioni di cattura di co2 ma la fusione ha interesse particolare per i vantaggi che offre. È una sorgente diffusa e infinita. Deuterio e litio nell’acqua durano 30 milioni di anni, non producono gas serra ed è una fonte intrinsecamente sicura. Quanto ai materiali radioattivi, riguardano sono la camera di fusione e sono a rapido decadimento, dopo 100 anni possiamo riciclare tutto in un nuovo reattore e non abbiamo bisogno di depositi geologici».

 

Minopoli (Ain): «Ecco perché la fusione nucleare, e le prossime frontiere della fissione – come i minireattori modulari, sono un’occasione che l’Italia non può perdere»

Realizzazione del reattore sperimentale Iter

Nel prossimo futuro oltre alla fusione, hanno prospettive interessanti sono i mini reattori modulari, basati sulla fissione e sotto i 300 megawatt di potenza (rispetto ai 1600 megawatt di una centrale tradizionale): cilindri di metallo grandi come un paio di container che contengono il nocciolo con il combustibile e il generatore di vapore: il calore del nocciolo trasforma l’acqua in vapore e aziona un alternatore che produce energia (senza l’intervento di pompe). Con tre vantaggi: possono essere montati in fabbrica e trasportati ovunque, occupano il 10% dello spazio di una centrale tradizionale e producono meno scorie perché il rifornimento può essere fatto ogni 3-7 anni con combustibili non convenzionali, contro gli 1-2 anni. «Rischiamo di perdere il treno perché ci sono cose che vanno fatte subito – spiega il presidente dell’associazione italiana del nucleare Umberto Minopoli – Nel mondo il nucleare esiste ed è un mercato competitivo, perché per i piccoli reattori sono per esempio già 70 i modelli in pipeline, pronti a essere lanciati sul mercato; così i dimostratori della fusione nucleare. Cose per cui in Italia si fa ancora fatica a capire di cosa parliamo. Ci sono dietro impegni degli Stati e aziende privati del settore che hanno investito e si apprestano a sfidarsi sul mercato. Perché alle aziende italiane e ai centri di ricerca deve essere precluso partecipare a questa iniziativa competitiva? Al di là che poi impianteremo o no le centrali. Lo fa la Francia ma anche la Uk. Noi oggi siamo fuori da tutte le leggi di ricerca e sostegno e innovazione. Fa specie quando si parla del nucleare come qualcosa rispetto a cui aspettare cosa succede in Europa».

Per questo la decisione dell’Europa sulla tassonomia è importante: «La tassonomia non è qualcosa di astratto di cui si discute tra paesi pro e contro. La Commissione aveva proposto un anno fa che il nucleare debba far parte delle tecnologie della transizione energetica perché ci siamo dati un target sulla decarbonizzazione che con la sola tecnologia no carbon non riusciremo neanche ad approcciare. Il “tutto rinnovabili” potrebbe essere uno slogan ma ci poniamo l’obiettivo di realizzare i target bisogna essere onesti riconoscere che solo con le rinnovabili non si riesce». Inserire il nucleare nella tassonomia, ovvero nelle politiche finanziarie che servono a incentivare gli investimenti nelle tecnologie no carb, è una presa di posizione precisa. E rappresenta il superamento delle resistenze ideologiche. «Anche il Gse si è espresso sulla pericolosità delle tecnologie nucleari, con riferimento ai temi della sicurezza e della riduzione delle scorie. Il Gse ha prodotto un poderoso documento concludendo che il problema non esiste: il nucleare è no harm per tutti gli obiettivi della transizione e risponde pienamente alle esigenze della transizione».

Marchesini (Confindustria): «Bisogna affrontare il nucleare senza barriere ideologiche»

il Vice Presidente di Confindustria per le Filiere e Medie Imprese Maurizio Marchesini, ceo dell’omonima azienda bolognese di macchine industriali

Proprio l’urgenza di abilitare la sostenibilità rende necessario lavorare sulle tecnologie nucleari. Ne è convinto Maurizio Marchesini (Vicepresidente Confindustria), secondo cui «non si può trascurare il nucleare con barriere ideologiche ma la questione deve essere affrontata con il giusto peso. Altro aspetto che va tenuto in considerazione: la lotta ai cambiamenti climatici richiederà investimenti in tecnologia per 650 miliardi in dieci anni solo per l’Italia e bisogna partire adesso. L’Europa è responsabile dell’8% delle emissioni di CO2, dunque se la strada non è fatta in sintonia globale assisteremo a ondate di delocalizzazione e a un impoverimento del nostro tessuto industriale. Le filiere sono il modo in cui l’Italia sviluppa nuovi settori e tecnologie per cui sono richieste competenze. Non conta la dimensione ma la capacità di innovare».

Se la filiera è il modo di produrre italiano, dobbiamo trovare le policy giuste per trasformare il rapporto da commerciale «a relazione di scambio di tecnologie e affidamento tra aziende di tutte le dimensioni, con un ruolo cruciale svolto dai capofiliera. Che hanno bisogno di far crescere la filiera su digitalizzazione, green, crescita culturale dei collaboratori anche sulla base di un ragionamento collettivo. O cresciamo tutti o non riusciamo a competere. Molti capofiliera organizzano la crescita della filiera, Ansaldo è una di queste, ma anche Leonardo. E lo fanno per “puro egoismo industriale”: o crescono gli elementi della filiera o non ce la facciamo

https://www.industriaitaliana.it/nucleare-fusione-energia-iter-ansaldo-fincantieri-asg/?utm_source=sendinblue&utm_campaign=NEWSLETTER%20INDUSTRIA%20ITALIANA%2028%20dicembre%202021&utm_medium=email

Politica estera americana e John Wayne, di Giuseppe Gagliano

Politica estera americana e John Wayne

Sconsigliamo in primo luogo vivamente la lettura di questo articolo ai lettori filoamericani e filo atlantici che abbondano nel nostro paese a sovranità limitata ( o nulla).

In seconda battuta-non senza una certa provocatorietà-non possiamo fare a meno di osservare come il tanto sbandierato multilateralismo del presidente Biden e del segretario di Stato Blinken si sia rivelato-come era d’altra parte prevedibile-un bluff di carattere diplomatico: il multilateralismo inteso dagli Stati Uniti significa stringere alleanze sempre più strette di carattere economico e militare con i propri alleati per perseguire meglio gli obiettivi egemonici americani a livello globale.Ma certo non significa contrattare -su un piano di parità in ambito politico e diplomatico -con la Cina e con la Russia.Questo pseudo- multilateralismo sta gettando le premesse per un conflitto per la questione ucraina tra Russia e USA. Conflitto questo che coinvolgerebbe direttamente l’Europa e che avrebbe conseguenze incalcolabili, imprevedibili ma certamente gravissime ed insieme drammatiche. Un conflitto questo che deve essere assolutamente scongiurato.A tutti i costi .

Al di là della irrilevanza-consueta quanto prevedibile-sia dell’Unione Europea che dell’ONU ciò che Putin ha sostanzialmente chiesto agli Stati Uniti e alla Nato è di fermare l’allargamento dell’Alleanza ai paesi dell’est e soprattutto di smettere di continuare ad armare l’Ucraina in funzione antirussa.Si tratta di rispettare la sovranità territoriale della Russia.Ma si tratta anche di abbandonare la consueta politica unilaterale americana secondo la quale sarebbero Stati Uniti-come nei film western americani- gli unici sceriffi che possono legiferare sul mondo decidendo cosa è giusto e cosa non lo è. La politica estera americana è stata troppo spesso ispirata al modus operandi dei film interpretati dall’attore John Wayne. Non sei d’accordo con me? Ti sparo addosso!

Ci domandiamo con quale credibilità gli Stati Uniti possono pretendere di affrontare un conflitto con la Russia dopo il fallimento sia in relazione alla situazione della Crimea sia in relazione all’Afghanistan. Ancora una volta le lezioni del passato non hanno insegnato nulla agli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Ucraina l’attuale presidente invece di continuare ad acquistare armi dagli Stati Uniti farebbe bene a cercare di risolvere la gravissima situazione nella quale versa il suo paese: la situazione economica infatti è catastrofica nonostante sia stato dato un prestito di 5 miliardi di dollari dal FMI nel 2000 a cui poi se ne è aggiunto un secondo 750 milioni di dollari per evitare che l’Ucraina vada in default .Inoltre il calo di popolarità del presidente americano potrebbe portarlo a fare scelte molto pericolose per non apparire debole agli occhi degli elettori e dei repubblicani .Se Putin dovesse spuntarla questo certamente equivarrebbe alla fine ingloriosa della politica neo conservatrice e delle sue nefaste conseguenze a livello di equilibrio internazionale.

https://centrostudistrategicicarlodecristoforis.wordpress.com/2021/12/25/politica-estera-americana-e-john-wayne/?fbclid=IwAR2U_maLWgIq1J9YZyCODnooOT-mYfJ2ipXhYp-VDpkwyEoeSa0v6YKCb9I

Le cause del fallimento politico della Francia nel Sahel, di Bernard Lugan

Interessante, anche se l’autore sembra dimenticare che l’approccio dogmatico ed astratto all’avventura militare nel Sahel è il corollario di una politica egemonica imperialistica, per quanto in declino; vittima non solo dei rivolgimenti interni a quei paesi ma anche dell’arrivo e del ritorno di nuovi attori esterni_Giuseppe Germinario

Nel Sahel, a dieci anni dalla trionfale accoglienza riservata alle forze francesi, e dopo che 52 dei migliori figli di Francia sono caduti per difendere i maliani che preferiscono emigrare in Francia piuttosto che combattere per il proprio paese, si susseguono manifestazioni antifrancesi . Convogli militari ora circolano sotto insulti, sputi e sassi. Sulla strada dalla Costa d’Avorio, la situazione diventa così difficile che inizia a sorgere la questione dell’approvvigionamento di Barkhane. A fine novembre 2021, in Niger, dopo la morte di diversi manifestanti che avevano bloccato un convoglio militare francese, il governo nigeriano ha incriminato Barkhane… La strategia francese di ridispiegare in Niger le forze precedentemente di stanza in Mali passerà quindi sotto la responsabilità di ‘atto di bilanciamento…

La situazione regionale è così degradata che, per paura di manifestazioni, il presidente Macron ha appena rinunciato ad andarci per incontrare i funzionari regionali. Forse andrà in una base militare solo per festeggiare il Natale con un’unità francese.

Perché un tale disastro politico? Dopo esserci cacciati dalla Repubblica Centrafricana accumulando i nostri errori, sperimenteremo un nuovo e umiliante fallimento, ma questa volta nella BSS?

Come continuo a dire e scrivere da anni, e come dimostro nel mio libro Le guerre del Sahel dall’inizio ai giorni nostri , i decisori francesi fin dall’inizio hanno fatto una falsa analisi vedendo il conflitto regionale attraverso il prisma dell’islamismo. La realtà, però, è diversa perché l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie che nessun intervento militare riesce a chiudere.

Al nord, è il risorgere di una frattura inscritta nella notte dei tempi, di una guerra etno-storica-economica-politica condotta dal 1963 dai Tuareg. Qui la soluzione del problema è tenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Dal 2012 ho continuato a dire che dovevamo trovare un’intesa con questo leader Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è prima di tutto per l’identità. Tuttavia, per ideologia, rifiutandosi di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che definiscono la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Il presidente Macron ha persino ordinato più volte alle forze di Barkhane di eliminarlo e che , fino a poco tempo fa, quando le autorità di Bamako stavano negoziando una pace regionale direttamente con lui… Già, il 10 novembre 2020, Bag Ag Moussa, il suo luogotenente, era stato ucciso da un attacco aereo.

Il conflitto nel sud (Macina, Liptako, regione conosciuta come i “Tre Confini” a nord e ad est del Burkina Faso), ha anche radici etno-storiche derivanti dal secolare scontro tra i Peul e varie popolazioni sedentarie. A differenza del nord, qui si svolgono due guerre molto diverse. Uno è l’emanazione di grandi fazioni Fulani raggruppate sotto la bandiera di AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ). L’altro infatti è prima di tutto religioso ed è guidato dallo Stato Islamico l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ). L’EIGS mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Al contrario, i leader regionali di AQIM, che sono etno-islamisti, hanno obiettivi principalmente locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.

Con un minimo di intelligenza tattica, giocando sugli equilibri di potere regionali ed etnici, si poteva rapidamente risolvere la questione del nord del Mali, che avrebbe consentito un rapido disimpegno consentendo di operare la concentrazione delle nostre risorse sulla regione di” 3 frontiere”, quindi contro l’EIGS [1] . Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dai capi militari di Barkhane, Parigi ha persistito in una strategia “americana”, “colpisce” indiscriminatamente i GAT (Gruppi armati terroristici) e rifiutando qualsiasi approccio “buono” … “À la Française” … come i nostri anziani avevano fatto così bene in Indocina e Algeria. La linea di fondo è che, per i leader francesi, la questione etnica è secondaria o addirittura artificiale, quando non è, secondo loro, romanticismo coloniale…

L’ultimo e caricaturale esempio di cecità ideologica è stata la reazione di Parigi al colpo di Stato del colonnello Assimi Goïta, avvenuto in Mali nell’agosto 2020. In nome della democrazia, del buon governo e dello stato di diritto, nozioni che qui rientrano nel surrealismo politico, La Francia ha tagliato i legami con l’ex comandante delle forze speciali maliane, la cui acquisizione è stata comunque un’opportunità per la pace. Avendo per le sue funzioni un giusto apprezzamento delle realtà sul terreno, questo Minianka, ramo minoritario del grande ensemble Senufo, non ebbe infatti alcun contenzioso storico-etnico, né con i Tuareg, né con i Peul, i due popoli in origine. i due conflitti in Mali. Ha quindi aperto trattative con Iyad Ag Ghali, che hanno ulcerato i decisori parigini. Bloccati nel loro a priori ideologico, questi ultimi non hanno preso la misura del cambiamento di contesto appena avvenuto, e hanno continuato a parlare di rifiuto di “trattare con il terrorismo”. Prendendo come pretesto questo colpo di stato, Emmanuel Macron ha deciso di ritirare Barkhane, che è stato inteso come un abbandono. E, per completare il tutto, avendo Bamako chiesto l’aiuto della Russia, la Francia ha minacciato, che è stata denunciata come neocolonialismo….

Sulla base di un ostinato rifiuto di prendere in considerazione le realtà sul campo, questo accumulo di errori ha quindi portato a un vicolo cieco. La domanda ora è come uscirne senza mettere in pericolo le nostre forze. E senza che la nostra partenza aprisse la porta a un genocidio di cui saremmo accusati. Come ricordo, in Ruanda, è stato perché l’esercito francese si era ritirato che c’è stato un genocidio, perché, se le forze del generale Kagame non avessero chiesto la loro partenza, questo genocidio di fatto non si sarebbe verificato.

Quattro lezioni principali devono essere tratte da questo nuovo e amaro fallimento politico africano:

1) L’urgente priorità è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e in caso affermativo, a che livello, e senza perdere la faccia.

2) In futuro, non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a vantaggio degli eserciti locali che abbiamo instancabilmente e senza successo addestrato dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente. E se lo sono, è per un semplice motivo che è che gli Stati, essendo artificiali, non esiste un vero sentimento patriottico.

3) Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e puntuali da parte delle navi, che eliminerebbero il disagio dei passaggi a terra percepiti localmente come un’insopportabile presenza neocoloniale. Sarebbe quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza delle nostre risorse marittime proiettabili.

4) Infine e prima, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che i vecchi governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o tributari ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, eppure questa è la realtà africana.

Per più di mezzo secolo in Africa, l’ossessione occidentale per i diritti umani ha portato a massacri, l’imperativo democratico ha provocato la guerra e le elezioni hanno portato al caos.

Più che mai è quindi importante riflettere su questa profonda riflessione che fece nel 1953 il Governatore Generale dell’AOF: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno ciò che cercano”… In una parola, il ritorno alla realtà e alla rinuncia alle nuvole.

[1] A tal proposito si rimanda al mio comunicato stampa del 24 ottobre 2020 dal titolo “Mali: fondamentale il cambio di paradigma”.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

Un ultimatum russo a sorpresa: nuove bozze di trattati per il rollback della NATO, di gilbertdoctorow

Continuiamo ad offrire alcuni punti di vista sulla questione cruciale che regolerà in qualche maniera le dinamiche geopolitiche e la vita quotidiana interna ai paesi. E’ la volta di una puntuale sintesi dell’approccio russo alle relazioni estere, in particolare con gli Stati Uniti, edita da uno dei maggiori esperti americani in materia. Cerchiamo di sopperire alla vacua superficialità con la quale si affronta, con rare eccezioni, la tematica. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Un ultimatum russo a sorpresa: nuove bozze di trattati per il rollback della NATO

La pubblicazione di un paio di giorni fa sul sito web del Ministero degli Affari Esteri RF delle sue bozze di trattato per la revisione totale dell’architettura di sicurezza europea¹ è stata ripresa dai nostri principali media mainstream. Il New York Times non ha perso tempo a pubblicare un articolo dei suoi giornalisti più esperti sulla Russia, Andrew Kramer e Steven Erlanger: “La Russia presenta le richieste per un nuovo accordo di sicurezza con la NATO”. Da parte sua, il Financial Times ha riunito i suoi principali esperti Max Seddon a Mosca, Henry Foy a Bruxelles e Aime Williams a Washington per inventare “la Russia pubblica le richieste di sicurezza della ‘linea rossa’ per la Nato e gli Stati Uniti”.

Entrambe le ammiraglie della carta stampata in lingua inglese hanno identificato correttamente la principale novità dell’iniziativa russa, racchiusa nella parola “richieste”. Tuttavia, non hanno esplorato la domanda “e se”, come e perché queste “richieste” vengono presentate di fatto, se non di nome, come un “ultimatum”, come le considero.

Gli stessi articoli di giornale sono tè debole. Riassumono i punti esposti nei progetti di trattati russi. Ma non sono in grado di fornire un’interpretazione di ciò che l’iniziativa russa significa per l’immediato futuro di tutti noi.

Normalmente sarebbero stati alimentati manualmente da tali analisi dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e dal Pentagono. Tuttavia, questa volta Washington ha rifiutato di commentare, dicendo che ora sta studiando i trattati russi e avrà la sua risposta tra una settimana circa. Nel frattempo, l’affidabile cagnolino americano Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, non ha ritenuto necessario riflettere e ha respinto categoricamente le richieste russe in quanto inaccettabili. Anche gli stati membri della NATO “in prima linea” nei paesi baltici hanno posto il veto di riflesso a qualsiasi colloquio con i russi su queste questioni.

Tuttavia, anche il FT e il NYT capiscono quanto valga l’opinione del signor Stoltenberg o l’opinione dell’Estonia e si sono trattenuti a dare il proprio pollice in su o in giù. Entrambi analizzano le bozze di trattati principalmente in relazione all’attuale ammassamento di truppe russe al confine con l’Ucraina. Presumono che se i russi non riceveranno alcuna soddisfazione per le loro richieste, lo useranno per giustificare un’invasione. Ci viene detto che in un’eventualità del genere scoppierà una nuova Guerra Fredda nel Vecchio Continente, come se quella fosse la fine di tutto il clamore.

In parte, il problema con questi media è che i loro giornalisti e le loro redazioni sono stonate per quanto riguarda le cose russe. Sono insensibili alle sfumature e incapaci di vedere cosa c’è di nuovo qui nel contenuto e ancor più nella presentazione dei testi russi. La debolezza è in parte imputabile al problema comune dei giornalisti: il loro orizzonte temporale risale a quanto accaduto la scorsa settimana. Mancano di prospettiva.

In quello che presenterò di seguito, cercherò di affrontare queste carenze. Non invocherò il tempo storico, che potrebbe riportarci indietro di settant’anni all’inizio della prima guerra fredda o addirittura di trent’anni alla fine di quella guerra fredda, ma limiterò il mio commento al tempo che circonda l’ultimo tale appello russo per trattati per regolare l’ambiente di sicurezza nel continente europeo, 2008 – 2009 sotto l’allora presidente Dmitry Medvedev. Questo rientra nell’orizzonte temporale della scienza politica.

Presterò particolare attenzione al tono di questa iniziativa russa e cercherò di spiegare perché i russi hanno tracciato le loro “linee rosse” sulla sabbia proprio adesso. Tutto ciò porterà alla conclusione che non è solo il presidente Volodymyr Zelensky a Kiev che dovrebbe preoccuparsi delle condizioni dei rifugi antiaerei locali, ma anche tutti noi a Bruxelles, Varsavia, Bucarest, ecc., da questa parte dell’Atlantico, e a Washington, DC, New York e in altri importanti centri del continente americano. Stiamo osservando quello che potrebbe essere chiamato Cuban Missile Crisis Redux.

* * * *

Ognuno di noi commentatori ha le proprie date di inizio per le narrazioni che offriamo al pubblico dei lettori. Nel mio caso, scelgo di iniziare con il discorso del presidente Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel febbraio 2007. Quel discorso in sé era molto insolito, come ha spiegato Putin dai suoi primi momenti al leggio:

“La struttura di questa conferenza mi permette di evitare un’eccessiva cortesia e la necessità di parlare in termini diplomatici tondi, piacevoli ma vuoti. Il formato di questa conferenza mi permetterà di dire cosa penso veramente dei problemi di sicurezza internazionale. E se i miei commenti sembrano eccessivamente polemici, pungenti o inesatti ai nostri colleghi, allora ti chiederei di non arrabbiarti con me. Dopotutto, questa è solo una conferenza. E spero che dopo i primi due o tre minuti del mio discorso [l’ospite della conferenza] non accenda la luce rossa laggiù”.

Ciò lo ha portato a fornire la seguente affermazione audace:

“Sono convinto che siamo arrivati ​​a quel momento decisivo in cui dobbiamo pensare seriamente all’architettura della sicurezza globale. E dobbiamo procedere cercando un ragionevole equilibrio tra gli interessi di tutti i partecipanti al dialogo internazionale».

In una parola, le preoccupazioni e il processo di soluzione proposto attraverso il rinnovamento dell’architettura della sicurezza che vediamo oggi nelle ultime bozze di trattati della Russia risalgono al 2007, quando Vladimir Putin si è espresso pubblicamente sull’argomento in quello che potrebbe essere descritto come il covo dell’establishment della sicurezza mondiale.

Con il senatore John McCain e altri campioni dell’egemonia globale americana che lo fissavano increduli dalle prime file, in quel discorso Vladimir Putin ha esposto in dettaglio il rifiuto della Russia del mondo unipolare guidato dagli Stati Uniti come fonte di tensioni internazionali, il ricorso a soluzioni militari, una corsa agli armamenti e la proliferazione nucleare. L’egemonia statunitense era antidemocratica e impraticabile, ha affermato.

Il discorso è stato anche degno di nota per la menzione di Putin del meschino trattamento che il suo paese ha ricevuto da parte degli americani in seguito alla disgregazione dell’URSS negli anni ’90 fino al nuovo millennio. La questione chiave è stata l’espansione della NATO verso est, includendo i paesi dell’ex Patto di Varsavia e, infine, le ex repubbliche dell’URSS, gli Stati baltici.

Quoto:

“Si scopre che la NATO ha messo le sue forze in prima linea sui nostri confini e continuiamo a rispettare rigorosamente gli obblighi del trattato e non reagiamo affatto a queste azioni. Penso sia ovvio che l’espansione della NATO non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la garanzia della sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E abbiamo il diritto di chiederci: contro chi è destinata questa espansione? E che fine hanno fatto le assicurazioni fatte dai nostri partner occidentali dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia? Dove sono queste dichiarazioni oggi? Nessuno li ricorda nemmeno».

Il discorso di Putin del 2007 è stato espresso come una denuncia. Veniva da un paese che si era ancora solo parzialmente ripreso dalla devastazione economica che aveva subito negli anni ’90 durante una transizione mal gestita dall’economia di comando sovietica a un’economia di mercato. Più precisamente, il suo era un paese con capacità militari notevolmente diminuite rispetto alla superpotenza sovietica da cui è emerso indipendente. In una certa misura, l’incredulità tra il contingente americano e alleato a Monaco di Baviera è nata proprio dall’audacia della Russia ancora gracile di sfidare i poteri costituiti.

Nelle settimane e nei mesi successivi al discorso di Putin a Monaco, gli Stati Uniti si sono ripresi dallo shock per la sua denuncia pubblica e sono passati rapidamente al contrattacco, lanciando una guerra dell’informazione sulla Russia che è con noi oggi. Dai giorni conclusivi dell’amministrazione Bush, attraverso l’intera amministrazione Obama, tranne quando il nuovo accordo sul controllo degli armamenti START veniva negoziato e firmato entro il breve periodo chiamato “ripristino”, gli Stati Uniti hanno usato ogni mezzo giusto e cattivo per screditare la Russia prima la comunità globale nella speranza di isolare il Paese e relegarlo allo status di paria. Le sanzioni commerciali contro la Russia sono state imposte per la prima volta dagli Stati Uniti nel 2012 con il Magnitsky Act. Gli Stati Uniti hanno notevolmente ampliato la loro politica di sanzioni contro la Russia in seguito all’annessione della Crimea nel marzo 2014.Grazie alla catastrofe aerea dell’MH17 di quell’estate, un evento ‘false flag’ di prima grandezza, tutta l’Europa è stata portata a bordo. La politica delle sanzioni è stata rinnovata ancora una volta dall’UE proprio venerdì scorso.

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Guardando indietro al 2008, quando Vladimir Putin ha passato la presidenza al suo sostituto, Dmitry Medvedev, vediamo che la revisione dell’architettura di sicurezza europea era uno degli obiettivi politici chiave della presidenza Medvedev. Ne ha parlato in un discorso pronunciato a Berlino nel giugno 2008. La cancelliera tedesca Angela Merkel è stata tra le prime a respingere la proposta, affermando che gli accordi di sicurezza dell’Europa avevano già preso forma concreta.

Nel novembre 2009 ha finalmente pubblicato sul suo sito web una bozza di trattato sulla sicurezza europea. Contestualmente, il ministro degli Esteri Lavrov ha presentato ufficialmente il documento al Consiglio dei ministri dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) allora riunitosi ad Atene.

Il mio libro di saggi intitolato Stepping Out of Line , pubblicato nel 2013, ha un paio di capitoli dedicati all’iniziativa di Medvedev, che ho concluso fosse ostacolata da un concetto povero ulteriormente indebolito da una cattiva esecuzione.²

La bozza di accordo era prima di tutto un patto di non aggressione tra e tra tutti gli Stati interessati nello spazio atlantico-euroasiatico. Stabilirebbe un quadro di riunioni deliberative in cui tutti gli Stati membri ascolterebbero casi di minacce di uso della forza o uso effettivo della forza contro qualsiasi Stato membro. Tuttavia, la non aggressione era solo una vetrina, descrivendo qualcosa che tutti potevano capire e a cui dire “amen”. Il secondo obiettivo dichiarato era garantire la sicurezza collettiva dei suoi membri in base al principio che nessuno Stato o gruppo di Stati potrebbe promuovere la propria sicurezza a spese di altri Stati membri.

Quello che mancava al progetto di trattato sulla sicurezza europea era proprio la definizione di cosa costituisse il rafforzamento della propria sicurezza a spese dell’altro. Per gli europei il trattato potrebbe servire solo allo scopo di tributo alla Russia, stabilendo un nuovo importante forum per esprimere eventuali rimostranze che potrebbe avere sull’espansione della NATO, il sistema di difesa missilistico e altre misure sponsorizzate dagli Stati Uniti che migliorano la sicurezza occidentale a spese dello stato russo. sicurezza.

Il vuoto del progetto di trattato è stato un fallimento di Medvedev e dei suoi immediati assistenti che lo hanno redatto. Nel febbraio 2010, durante la regolare Conferenza sulla sicurezza di Monaco, Sergei Lavrov ha compiuto un coraggioso sforzo per salvare l’iniziativa Medvedev proponendo che l’attuale OSCE fosse riprogettata come veicolo per garantire la sicurezza collettiva. La Russia stava dicendo che la NATO doveva rinunciare al suo predominio in Europa e cedere il posto a un’OSCE rinvigorita. Molto poco del discorso di Lavrov è stato riportato dai media occidentali.

Il fatto che sia stato tranquillamente sepolto da tutte le parti riceventi può essere attribuito alla posizione molto debole della stessa Russia in quel momento. La vittoriosa campagna russa contro la Georgia nel 2008 è stata vista dai professionisti della difesa in Occidente in modo molto diverso da ciò che il pubblico in generale capiva. Per i professionisti, l’esercito russo ha dimostrato di non aver fatto molti progressi rispetto alle forze mal equipaggiate e guidate che l’URSS ha dispiegato in Afghanistan o che la Federazione russa ha dispiegato in Cecenia negli anni ’90. Il fatto è che la postura di Medvedev era quella di un supplicante , che tratta da una mano debole. Si noti, tuttavia, che le preoccupazioni russe erano esattamente le stesse evocate dal Cremlino oggi mentre promuove i suoi nuovi progetti di trattati.

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Fino ai giorni scorsi non abbiamo più sentito parlare di progetti di trattati russi per alterare l’architettura di sicurezza dell’Europa. Invece negli anni successivi ci sono stati ripetuti casi di lamentele pubbliche russe sulle attività degli Stati Uniti e della NATO che considera minacciose. Una di queste forti lamentele è arrivata nel gennaio 2016 con l’uscita di un film documentario intitolato World Order . Questa è stata una critica devastante dell’egemonia globale degli Stati Uniti giustificata in nome della “promozione della democrazia” e dei “diritti umani” sin dalla caduta dell’Unione Sovietica. nel 1992.

Seguendo i punti espressi nel discorso di Vladimir Putin a Monaco del 2007, World Order illustra attraverso filmati grafici e la testimonianza di autorità mondiali indipendenti le tragiche conseguenze, la diffusione del caos e della miseria, risultanti dal “cambio di regime” e dalle “rivoluzioni colorate” progettati dagli Stati Uniti. ‘, di cui il violento rovesciamento del regime di Yanukovich in Ucraina nel febbraio 2014 è stato solo l’ultimo esempio.

Il titolo del film è seguito al discorso di Putin alla riunione del 70 ° anniversario dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre 2015 che aveva come messaggio centrale che l’ordine mondiale si basa sul diritto internazionale, che a sua volta ha come fondamento la Carta delle Nazioni Unite. Infrangendo la Carta e facendo la guerra senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a partire dall’attacco della NATO alla Serbia nel 1999 e continuando con l’invasione dell’Iraq nel 2003 fino ai suoi bombardamenti illegali in Siria, gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO hanno scosso i fondamenti del diritto internazionale.

Gli intervistati stranieri in World Order comprendevano una selezione impressionante e diversificata di leader in vari settori, tra cui il regista americano Oliver Stone; Thomas Graham, ex direttore del Consiglio di sicurezza nazionale per la Russia sotto George W. Bush; l’ex direttore dell’FMI Dominique Strauss-Kahn; l’ex presidente del Pakistan Perwez Musharraf; l’ex ministro degli esteri francese Dominique Villepin; l’ex presidente israeliano Shimon Peres; il fondatore di Wikileaks Julian Assange; e vice leader del partito Die Linke nel Bundestag tedesco, Sahra Wagenknecht.

Strauss-Kahn, Musharraf e altri hanno accusato gli Stati Uniti di complottare e distruggere i leader stranieri che osano opporsi al controllo totale dell’America sui flussi globali di denaro, merci e persone. Wagenknecht ha affrontato la questione della sottomissione della Germania ai Diktat americani e della sua sovranità de facto circoscritta. Le dichiarazioni hanno sostenuto la tesi di lunga data di Putin, reiterata nel film, che gli alleati dell’Europa occidentale degli Stati Uniti non sono altro che vassalli.

Il messaggio chiaro del film era che la “promozione della democrazia” guidata dagli Stati Uniti e la sua diffusione di “valori universali” non saranno tollerati e che la Russia ha stabilito alcune linee rosse, come contro l’espansione della NATO in Ucraina o Georgia, su cui combattere fino alla morte utilizzando tutte le sue risorse.

Tuttavia, per quanto forte e pungente fosse questo film documentario nell’esporre il punto di vista del Cremlino sulla sicurezza globale ed europea, era solo una denuncia , niente di più. Lo menziono in dettaglio sopra per dimostrare la continuità delle preoccupazioni russe che questa settimana sono arrivate al culmine con l’uscita dei progetti di trattati all’esame della NATO e degli Stati Uniti.

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Cosa c’è di nuovo oggi nell’iniziativa russa sulla sicurezza europea? Sia il contenuto che la presentazione sono nuovi.

Contrariamente ai trattati di Dmitry Medvedev del 2008-2009, le ultime bozze di testi russi sono tutti contenuti esposti in modo metodico ed esauriente. Si riferiscono direttamente alle attività degli Stati Uniti e della NATO negli ultimi anni che la Russia considera le più minacciose per la sua sicurezza e quindi le più discutibili.

È chiaro che il trattato principale è con gli Stati Uniti e che il trattato con la NATO è un trattato sussidiario. Ciò riflette l’insistente visione del Cremlino che la verbosità della NATO sul suo essere un’alleanza guidata dal consenso è spazzatura e che la realtà è il dominio americano e la direzione della NATO. Questo punto di vista spazza via qualsiasi obiezione da parte di uno qualsiasi degli Stati membri della NATO, come ad esempio le obiezioni immediate che provenivano dagli Stati baltici e dalla Polonia, secondo cui è necessario il loro consenso alle modifiche proposte, per non parlare della necessità di consultare altre parti interessate , vale a dire l’Ucraina. Il Cremlino intende chiaramente isolare Washington nel processo negoziale per questi trattati, prima di fare passi da gigante con gli altri membri della NATO.

Nello spirito dei Dieci Comandamenti, quasi tutto il contenuto è in negativo, in divieti.

Rispetto alla proposta di trattato con gli Stati Uniti, troviamo quanto segue:

“[Le Parti] non attueranno misure di sicurezza adottate da ciascuna Parte individualmente o nel quadro di un’organizzazione internazionale, un’alleanza militare o una coalizione che potrebbero minare gli interessi di sicurezza fondamentali dell’altra Parte.

“Le Parti non utilizzeranno i territori di altri Stati al fine di preparare o eseguire un attacco armato contro l’altra Parte o altre azioni che influiscano sui principali interessi di sicurezza dell’altra Parte.

“Gli Stati Uniti d’America si impegnano a prevenire un’ulteriore espansione verso est dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico ea negare l’adesione all’Alleanza degli Stati dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

“Gli Stati Uniti d’America non stabiliranno basi militari nel territorio degli Stati dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che non siano membri dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, utilizzeranno le loro infrastrutture per attività militari o svilupperanno con loro una cooperazione militare bilaterale .

“Le Parti si asterranno dal pilotare bombardieri pesanti equipaggiati per armamenti nucleari o non nucleari o dal dispiegare navi da guerra di superficie di qualsiasi tipo, anche nell’ambito di organizzazioni internazionali, alleanze o coalizioni militari, nelle aree rispettivamente al di fuori dello spazio aereo nazionale e delle acque territoriali nazionali, da dove possono attaccare obiettivi nel territorio dell’altra Parte.

“Le Parti si impegnano a non dispiegare missili a raggio intermedio e a corto raggio lanciati da terra al di fuori dei loro territori nazionali, nonché nelle aree dei loro territori nazionali, da cui tali armi possono attaccare obiettivi nel territorio nazionale dell’altra Parte .

“Le Parti si asterranno dal dispiegare armi nucleari al di fuori dei loro territori nazionali e restituiranno tali armi già dispiegate al di fuori dei loro territori nazionali al momento dell’entrata in vigore del Trattato nei loro territori nazionali. Le Parti elimineranno tutte le infrastrutture esistenti per il dispiegamento di armi nucleari al di fuori dei loro territori nazionali”.

Per quanto riguarda il progetto di trattato con la NATO, richiamo particolare attenzione alle seguenti disposizioni:

“Le Parti devono esercitare moderazione nella pianificazione militare e nello svolgimento di esercitazioni per ridurre i rischi di eventuali situazioni pericolose in conformità con i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale, compresi quelli stabiliti negli accordi intergovernativi sulla prevenzione di incidenti in mare al di fuori delle acque territoriali e nello spazio aereo sopra , nonché negli accordi intergovernativi sulla prevenzione di attività militari pericolose.

“Per affrontare le questioni e risolvere i problemi, le Parti utilizzeranno i meccanismi delle consultazioni urgenti bilaterali o multilaterali, compreso il Consiglio NATO-Russia.

“Le Parti ribadiscono di non considerarsi avversarie.

“Le Parti manterranno il dialogo e l’interazione sul miglioramento dei meccanismi per prevenire gli incidenti in alto mare (principalmente nei Paesi baltici e nella regione del Mar Nero).

“La Federazione Russa e tutte le Parti che erano Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico rispettivamente dal 27 maggio 1997, non dispiegheranno forze militari e armi sul territorio di nessuno degli altri Stati in Europa oltre alle forze di stanza su tale territorio a partire dal 27 maggio 1997. ….

“Le Parti non dispiegheranno missili terrestri a medio e corto raggio in aree che consentano loro di raggiungere il territorio delle altre Parti.

“Tutti gli Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico si impegnano ad astenersi da qualsiasi ulteriore allargamento della NATO, inclusa l’adesione dell’Ucraina e di altri Stati.

“Le Parti che sono Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico non condurranno alcuna attività militare sul territorio dell’Ucraina e di altri Stati dell’Europa orientale, del Caucaso meridionale e dell’Asia centrale”.

I progetti di trattati non creano una nuova architettura di sicurezza quanto smantellano l’architettura esistente aggiunta dalla metà degli anni ’90 dagli Stati Uniti e dai suoi alleati attraverso l’espansione della NATO a est, esercitazioni militari vicino ai confini e allo spazio aereo russi, “temporanee” stazionamento di personale e attrezzature in posizioni avanzate in avvicinamento ai confini russi.

Se accettati nella loro forma attuale, questi trattati rappresenterebbero una capitolazione totale da parte degli Stati Uniti su tutto ciò che quattro amministrazioni successive hanno cercato di ottenere per contenere la Russia e metterla in una piccola gabbia alla periferia dell’Europa.

Le richieste hanno una portata così sorprendente che dobbiamo chiederci perché la Russia sta correndo il rischio apparentemente enorme di avanzarle, e lo fa pubblicamente. Inoltre, perché adesso?

Ho due spiegazioni da avanzare: la prima è l’incrollabile fiducia che Vladimir Putin e i suoi colleghi hanno nel loro attuale vantaggio tattico sugli Stati Uniti nel teatro delle operazioni europeo e vantaggio strategico sugli Stati Uniti sul territorio americano se arriva la spinta spingere.

Tre anni fa Putin ha usato il suo discorso annuale sullo stato dell’Unione per mostrare i nuovi sistemi d’arma che la Russia aveva testato con successo e che stava ora mettendo in produzione in serie, in particolare i missili ipersonici che possono eludere tutti i sistemi ABM conosciuti. Ha poi affermato che per la prima volta nella sua storia moderna la Russia ha superato gli Stati Uniti nello sviluppo e nell’impiego di sistemi di armi strategiche. Mentre gli Stati potrebbero svilupparsi allo stesso modo con il tempo, i russi andrebbero ancora più avanti.

Putin ha inoltre affermato che mentre in passato gli Stati Uniti avevano considerato gli oceani la loro difesa naturale contro le conquiste militari dall’estero, gli ultimi missili russi, abbastanza piccoli da essere trasportati in container su navi mercantili, su fregate o su sottomarini, hanno trasformato il oceani adiacenti nel punto debole del paese. I russi potrebbero posizionare le loro armi appena fuori dalla zona economica di 200 miglia e raggiungere comunque obiettivi militari chiave sul territorio degli Stati Uniti in pochi minuti. Vale a dire che la Russia potrebbe ora fare ciò che a Krusciov era stato negato il diritto di fare nel 1962 posizionando missili sovietici a Cuba.

Durante il suo discorso di presentazione, Putin ha sperato che gli Stati Uniti e i suoi partner occidentali se ne accorgessero, facessero i calcoli e alterassero il loro comportamento minaccioso. Invece, i media occidentali tendevano a trattare le armi russe come un bluff, o come uno stratagemma elettorale per fare appello ai suoi elettori nella campagna presidenziale allora in corso, o come qualcosa al di là della capacità dei russi di produrre in quantità sufficienti e con velocità per rappresentare un minaccia prima che gli USA possedessero lo stesso.

Un anno fa, il presidente russo ha nuovamente richiamato l’attenzione sullo spiegamento dei nuovi sistemi d’arma e ha esortato gli Stati Uniti a reagire in modo appropriato. Naturalmente, ancora una volta Washington non ha fatto nulla. Invece l’amministrazione statunitense ha continuato ad aumentare il livello di minaccia della Cina e a liquidare la Russia come nient’altro che spoiler che guidano un paese in declino.

Infine, possiamo concludere che Vladimir Vladimirovich e la sua squadra hanno deciso di agire, e di agire ora, in forza della superiorità strategica di cui credono di godere. Dato il modo molto cauto con cui Putin ha sempre condotto gli affari di governo negli ultimi vent’anni, chiunque pensi che il Cremlino stia bluffando o calcolando male farebbe meglio a ricredersi.

Ora c’è anche un secondo fattore di supporto per spiegare la decisione dei russi di pubblicizzare quello che è essenzialmente un ultimatum agli USA. Quel fattore è la Cina. Non per niente Putin e Xi hanno avuto una videoconferenza ampiamente pubblicizzata questa settimana durante la quale il presidente cinese ha dato il suo pieno sostegno alle richieste russe di risoluzione della crisi di sicurezza in Europa e ha detto esplicitamente che il rapporto tra Cina e Russia è superiore a un’alleanza.

Ora cosa potrebbe esserci di più alto di un’alleanza? Sicuramente questo suggerisce un patto di mutua difesa, nel senso che ciascuna parte verrà in aiuto dell’altra secondo necessità se minacciata o attaccata.

Possiamo presumere che ci sia qualcosa di scritto tra russi e cinesi per dare a Putin la fiducia di avere la Cina alle spalle mentre si avventura in uno scontro diplomatico e forse militare con gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO.

Eppure, quale sarebbe il valore di un simile pezzo di carta? Dove cercheresti riparazione se i cinesi non riuscissero a consegnare e la NATO marciasse a Mosca? No, il valore della videoconferenza con Xi è altrove. Come i loro 100.000 soldati ammassati al confine ucraino, i russi stanno usando il sostegno cinese per spaventare a morte Washington, il che potrebbe ben presumere che i cinesi coordineranno le proprie azioni militari contro Taiwan, contro le forze navali statunitensi nel sud della Cina Mare e oltre per presentare agli Stati Uniti una guerra su due fronti invincibile, servendo i propri interessi cinesi.

Se la situazione politica a Washington impedisse un pensiero così lucido, credo che i russi ricorreranno alla loro capacità del tutto indipendente di puntare una pistola alla testa dell’establishment americano, attraverso lo stazionamento delle sue forze missilistiche appena al largo, che non ha ancora stato fatto.

Il modo in cui andrà a finire dipenderà dalla natura della risposta degli Stati Uniti alla prossima mossa della Russia, che potrebbe, nelle circostanze dell’ostruzionismo di Washington, essere quell’invasione dell’Ucraina di cui si è tanto parlato nelle ultime settimane. Sarebbe avventato, a questo punto, abbozzare tutti gli scenari possibili. Ma siamo sicuramente nel momento in cui ‘il tarlo gira’.

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In conclusione, richiamo l’attenzione del lettore su un ulteriore dettaglio della presentazione: chi è stato il messaggero per conto del Cremlino.

Negli ultimi anni, le persone intorno a Vladimir Putin hanno scherzato riguardo alle potenze straniere, “se non possono trattare con Lavrov [ministro degli affari esteri della RF], allora dovranno trattare con Shoigu [ministro della difesa della RF]”. A giudicare dalle ultime due settimane, inserirei un’altra personalità in questa equazione: Sergei Alekseevich Ryabkov, viceministro degli affari esteri.

Ryabkov è in giro da molto tempo, ma fino ad ora non abbiamo avuto sue notizie. Si è diplomato alla prestigiosa MGIMO, la scuola superiore che tradizionalmente formava i candidati accelerati del corpo diplomatico sovietico-russo. Ha servito diversi anni presso l’ambasciata russa a Washington e parla correntemente l’inglese. Nel nuovo millennio ha avuto responsabilità relative alla non proliferazione e alla gestione dei rapporti con l’Europa. Il suo titolo attuale è viceministro.

Poiché le relazioni con gli Stati Uniti e l’UE si sono infiammate nelle ultime settimane a causa dell’accumulo di forze russe al confine con l’Ucraina, Ryabkov ha parlato con la stampa e lo ha fatto in modo poco diplomatico e sfacciato . Quando una settimana fa un giornalista gli ha chiesto come avrebbero reagito a qualcosa alcuni dei “partner occidentali” della Russia, ha risposto di scatto: “Non abbiamo partner in Occidente, solo nemici. Ho smesso di usare la parola “partner” qualche tempo fa”.

La messa in mostra del bulldog Ryabkov al Cremlino fa parte del cambio di tono, della nuova assertività di Putin e della sua squadra a cui mi riferisco sopra.

E per non perdere il punto, un altro portavoce intransigente del Cremlino, Dmitry Kiselyov, direttore di tutti i servizi di informazione della televisione di stato russa, ha aperto stasera il suo programma settimanale di notizie “Vesti Nedeli” con l’osservazione: “La Russia ha fatto un’offerta agli Stati Uniti Stati che non può rifiutare. Il momento della verità [момент истины] è arrivato”.

©Gilbert Doctorow, 2021

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¹https://mid.ru/ru/foreign_policy/rso/nato/1790818/?lang=en

²”Il progetto di trattato di Medvedev sulla sicurezza europea: morto all’arrivo” e “Il progetto di trattato della Russia sulla sicurezza europea: Sergei Lavrov in soccorso”

³”https://consortiumnews.com/2016/01/02/hearing-the-russian-perspective/

https://gilbertdoctorow-com.translate.goog/2021/12/19/a-surprise-russian-ultimatum-new-draft-treaties-to-roll-back-nato/?fbclid=IwAR0Ml8uVwuNHyN1Z99EwVdoR_3WrPgJpeAiwQdoi5sYv88I4t7rtliHRth4&_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it

Buon Natale da tutta la redazione

Quest’anno auguriamo il nostro Buon Natale con lo scritto di due autori esterni al sito, ma dai quali abbiamo attinto a piene mani. Rappresentano bene alcuni dei principi informatori e lo spirito che guidano faticosamente la conduzione della nostra realtà editoriale.

Andrea Zhok

Spero che un giorno guarderemo a questo periodo come un incubo superato, un periodo di follia collettiva come ogni tanto la storia riserva.
Ma in attesa di quel momento, se mai verrà, una cosa, alla vigilia del Natale più mesto di sempre, voglio dirla.
Questa vicenda, se da un lato ha distrutto molte illusioni, dall’altro ha aperto anche una dimensione umana insperata e inattesa.
Si sono scoperte affinità e solidarietà ideologicamente trasversali, si è riusciti a trovare conforto nella parola e nell’atto di persone fino a poco tempo prima sconosciute, con cui si è stabilita una connessione umana fondata su un primario senso di libertà, rispetto della persona e giustizia.
Questa connessione è “prepolitica”, o forse meglio, è originariamente politica nel senso primitivo del termine: è fiducia umana nella capacità di cooperare.
L’abbandono definitivo delle categorie politiche del passato, a partire da “destra” e “sinistra”, abbandono per alcuni maturato da tempo, ha ricevuto la definitiva consacrazione.
Il mondo che ci aspetta a valle di questo tornante della storia è un mondo politicamente da ricostruire da zero, perché del vecchio mondo non è rimasta pietra su pietra (per quanto molti non se ne siano ancora accorti).
Per quanto possibile, Buon Natale.
Pierluigi Fagan
ERMENEUTICA DEL NATALE. Com’è noto, il gatto è irresistibilmente attratto dall’albero di Natale che per lui è un semplice albero, oltretutto a portata di scalabilità. Così lo scala ma, arrivato in alto, il suo peso lo fa oscillare di qui e di là fino a farlo cadere per terra. Il gatto, infatti, non tiene conto che noi umani amiamo sradicare gli alberi per metterceli a casa a simbolo di una narrazione di mito generale, per lui l’albero è sempre ben piantato e quindi non è rischioso. Così un semplice istinto alla scalabilità dal punto di vista del gatto, per noi si trasforma in una gratuita cattiveria iconoclasta o una critica radicale al mito umano del Natale nell’ambito di una cultura occidentale che ha trasformato più antichi miti legati alle segnature stagionali.
Ieri ho sentito M. Cacciari in una intervista ripetere con sorriso sarcastico che “i fatti non esistono” come cosa ovvia e nota. A chiusura di questo secondo anno di società in pandemia, molti sono convinti che i fatti non esistono perché esistono solo le interpretazioni. Ma se qualcuno interpreta cosa sta interpretando se non ci sono i fatti e loro effetti in forma di fenomeno? Il pensiero si metterebbe in moto di suo elaborando complesse argomentazioni così, moto proprio?
I fatti esistono ma la loro natura e significato varia a seconda dell’impianto interpretativo, quello del gatto non è il nostro e viceversa. Sta il fatto che un gattone di dieci chili che arriva in cima ad un albero di Natale in precario equilibrio e senza le sue naturali radici, cade. Qualsiasi impianto interpretativo usiate.
In molte accese discussioni nel dibattito pubblico che hanno animato e suppongo continueranno ad animare i tempi che corrono, alcuni discutono la propria interpretazione contro quella dell’interlocutore, ma senza passare dai fatti. I fatti, a loro volta, sono diversamente definiti a seconda dei diversi impianti interpretativi. La faccenda è complicata, ma mi auguro che piano piano si evolva la convenzione pubblica di discutere anche animatamente le interpretazioni, includendo però il fatto pur nella sua problematica comune definizione. Il come definiamo i fatti ha conseguenze e la peggiore e non farci i conti dedicandosi solo alle interpretazioni.
E con ciò, i miei migliori auguri a lettori, lettrici e variamente dibattenti, ognuno dalla sua prospettiva, della pagina.
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