ORDINE E NORME NEL CONCETTO DI GUERRA GIUSTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

ORDINE E NORME NEL CONCETTO DI GUERRA GIUSTA

(tratto dalla rivista Nova Historica 2003)

Introduzione – La guerra giusta – Erosione dello justus hostis e mutamento della justa causa – Segue – Intervento e non intervento – Kant e S. Agostino – Conclusione

La guerra recentemente conclusasi in Irak ha riproposto una serie di questioni sulla legittimità del ricorso alla forza, molte delle quali occasionate da esigenze di propaganda, altre da dubbi sinceri. Tale conflitto ha sostanzialmente rispettato due delle condizioni individuate dalla Tarda Scolastica per lo justum bellum: di essersi svolto tra justi hostes, anche se la partecipazione dei peshmerga curdi ha offuscato tale requisito; e il debitus modus dato che gli anglo-americani hanno cercato di risparmiare la popolazione civile e, in generale, vite umane, e, forse sorprendentemente (stante la motivazione della guerra), lo stesso Saddam ha evitato di usare i “mezzi di distruzione di massa” – cioè, in concreto, i gas – di cui quasi sicuramente disponeva, posto che per fabbricarli non occorre una tecnologia particolarmente sofisticata. Dubbi sussistono tuttavia sulla justa causa, mentre solo il futuro potrà sciogliere quelli sulla recta intentio. Il dibattito è così connotato da una prevalenza delle scelte (aprioristiche) di campo, dal richiamo agli idola (fori et theatri) – specialmente in una sinistra alla ricerca di se stessa, dopo il crollo dell’89 – e dai luoghi comuni, oltre alle usuali forzature e mistificazioni – distribuite tra i due campi – della propaganda.

In questo quadro di irragionevolezza, o di falsa ragionevolezza (che è il pregiudizio sommato all’ipocrisia) è utile rivisitare le concezioni dei pensatori cristiani, in particolare della tarda Scolastica e i principi del diritto internazionale classico che tanto deve al loro pensiero. Il cui merito principale è di aver limitato ed umanizzato la guerra, come prova la storia europea dell’età moderna, coniugando ideali umanitari e realismo politico.

I

Guerra e diritto non sono alternativi. Sia nel senso che dove c’è guerra c’è diritto; sia, nell’inverso che nel diritto, sia astrattamente che concretamente inteso, è intrinsecamente presente l’idea (e la possibilità reale) della guerra, o quanto meno del conflitto. Le espressioni più varie testimoniano questo rapporto: da justum bellum, che coniuga la guerra con la giustizia, a ne cives ad arma ruant, a vim vi repellere licet, la connessione tra i due ambiti ha generato una serie di brocardi, che costituiscono la sintesi (estrema) delle riflessioni di tanti pensatori, convergenti nel ritenere che la guerra non è necessariamente illecita (antigiuridica) nei soggetti, nelle ragioni, negli scopi, nei modi e (soprattutto) nei risultati e, di converso, che il diritto non è irenico nei presupposti e (soprattutto) nelle conseguenze, perché una rivendicazione giuridica può essere polemogenetica. La guerra è anzi, solitamente, nomogenetica, forse ancor più di quanto sia polemogenetico il diritto. A S. Agostino dobbiamo l’affermazione – al limite del paradosso – che anche una banda di malfattori fa la guerra per realizzare la pace, o meglio un ordine: per cui il fine della guerra è la pace1. Giudizio ch’è accostabile alla (più celebre) delle definizioni di Clausewitz della guerra: d’esser la continuazione della politica con altri mezzi. Nella quale, qualificandola come mezzo, e della politica, esclude che possa essere un fine per sé.

A S. Tommaso e ai teologi-giuristi (epigoni dell’Aquinate) della Tarda Scolastica è ascrivibile il merito di aver distinto bellum justum (et injustum)2, e di aver identificato tre condizioni o requisiti (quattro secondo altri, tra cui S. Roberto Bellarmino) perché lo fosse: con ciò limitando (i danni conseguenti) la guerra. Ai teorici successivi del diritto internazionale aver proseguito su quella strada, mai del tutto abbandonata, anche se modificata da molti in misura più o meno grande.

La contraria tesi, che guerra e diritto siano incompatibili ed escludentesi a vicenda, appare frutto a un tempo di una confusione e di un’aspirazione (e, spesso, è solo una strumentalizzazione): così l’alternativa correttamente posta da de Maistre tra decisione e conflitto: “ou il n’y a pas sentence, il y a combat” (ché guerra e decisione sovrana sono alternative, come stato civile e stato di natura), è stata – erroneamente – trasposta in quella.Per cui si trasferisce al diritto la capacità reale di ordinare la società pertinente al potere sovrano.

L’ aspirazione – riconducibile ai sogni utopici di “uscita” alla politica – consiste nel pensare di aver trovato una forma pacifica, se non consensuale, di regolazione dei conflitti: che c’è, ma è il Sovrano (la sentence) e non il diritto. La strumentalizzazione, infine, è intrinseca al consenso suscitato nel sostenere tesi gradite all’uditorio (con il corrispettivo – in termini di popolarità e di potere – che comporta).

In effetti è abbastanza semplice notare al riguardo che, senza un apparato di coazione e repressione, il diritto rimane inapplicato, e che, essendo un’attività pratica, il reale problema consiste nel farlo osservare: nel suscitare cioè sufficiente consenso ed esercitare una congrua coazione perché sia rispettato. Problema essenzialmente politico. Tant’è che certe concezioni, nate nell’utopia del diritto, finiscono, talvolta, nella realtà dei Tribunali (dei vincitori), come capitato spesso nel secolo scorso.

Ma, oltre all’uso – innovativo – di Tribunali per processare i vinti c’è stato anche un correlativo “rilancio” della guerra giusta.

II

Il concetto di guerra giusta, al proprio ingresso nel pensiero medievale, richiedeva determinate condizioni (o requisiti). Per S. Tommaso l’autorità di condurla (l’essere cioè justus hostis), che spetta solo al “superiorem non recognoscens”, la justa causa (cioè il motivo legittimo, come la riparazione di un torto); la retta intenzione (di promuovere il bene o evitare il male)3. Tutto presupponeva che non essendovi un’autorità in grado di far rispettare il diritto delle (e tra le) parti, la guerra fosse un mezzo per ottenere tale scopo.

Per Francisco Suarez la risposta alla quaestio “Utrum bellum sit intrinsece malum” è che “bellum simpliciter nec est intrinsece malum, nec christianis prohibitum”. Ma perché si promuova guerra “honeste” cioè legittimamente occorre rispettare tre condizioni, due delle quali coincidono con quelle dell’Aquinate, e la terza delle quali è il “debitus modus gerendi bellum4. Per S. Roberto Bellarmino (conforme in questo all’opinione di altri teologi) le condizioni diventano quattro, dato che somma le “terze” condizioni di S. Tommaso e di Suarez (intentio e modus)5.

Nel pensiero degli Scolastici perché una guerra sia giusta (o almeno lecita) devono essere osservate tutte. Tuttavia, come nota Schmitt, nell’evoluzione successiva del diritto internazionale lo justus hostis, cioè il soggetto cui è riconosciuto il legittimo esercizio dello jus belli, ha prevalso sulle altre condizioni, in particolare sulla justa causa.

Così lo justum bellum diveniva il conflitto tra due justi hostes: due Stati sovrani (giuridicamente) uguali; la justa causa (e l’intentio) sono state (del tutto o quasi) espunte. Le considerazioni di giustizia (oggettiva: diritto o torto sostanziale) contenute nel concetto di justa causa non erano più considerate, anche perché uno Stato che muoveva guerra senza justa causa era pur sempre justus hostis, e comunque era solo lo Stato sovrano a decidere se ricorresse o meno una justa causa belli6.

Tale sistematica presupponeva ed aveva un significato determinato e coerente se applicata a un sistema di relazioni internazionali incentrato sugli Stati (e sul concetto relativo). Non una generica unità politica può essere presa a fondamento di un tale ordine, ma solo la species Stato (pensata e) formatasi nei secoli XVI e XVII, con le differenze e propria peculiari che la distinguono dagli altri tipi riconducibili allo stesso genere (imperi, poleis, tribù e così via). Tra queste le principali sono la “chiusura”, la sovranità (nel significato moderno) e il monopolio della violenza legittima.

Quanto alla “chiusura” (di uno spazio politico ordinato e impenetrabile) – resa possibile sia dalla nuova organizzazione in Stati sovrani, sia dalla diffusione delle armi da fuoco – costituisce un carattere spesso trascurato, anche se riveste un’importanza fondamentale, consistente nella distinzione tra interno ed esterno e nella delimitazione tra tali aree, cioè il confine. Interno ed esterno, intra o extra moenia, non costituiscono soltanto una divisione spaziale, né si limitano a determinare l’ambito d’esercizio dell’imperium dello Stato, ma sono la distinzione tra due diversi “ordinamenti”, fondati su principi e presupposti diversi. All’interno, lo spazio della sovranità statale, dell’imperium basato sul principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”7, la volontà sovrana è, per definizione, irresistibile e non condizionabile con limiti e controlli giuridici.

Corollario di questa illimitatezza è che non vi è alcun potere esterno o diverso che possa influire, in modo decisivo, all’interno (dei confini) dell’unità politica. Mentre all’esterno il diritto internazionale si basa su una società di Stati simili e pari, componenti l’ordinamento globale: per cui, di converso, nessuno può dettar legge all’altro, ma i rapporti tra gli stessi sono a carattere, in linea di principio, paritario.

La sovranità (intesa nel senso classico, che ha avuto da Bodin in poi, cioè di potere irresistibile e inopponibile) valeva a escludere qualsiasi altro potere (sia temporale che spirituale) all’interno dell’unità politica. Conseguenza ne era l’indifferenza dell’ordinamento interno dello Stato rispetto alle vicende dei rapporti tra Stati; così come la non-responsabilità di singoli funzionari rispetto a Stati stranieri, perchè il solo responsabile era lo Stato (il Sovrano) medesimo, unico competente a giudicare dei propri cittadini (e funzionari).

Quanto al monopolio della violenza legittima radicava, in una con la sovranità, la responsabilità esclusiva internazionale dello Stato: un’entità sovrana e dotata di quel monopolio è l’unica responsabile di quanto succede nello spazio interno all’unità politica.

III

Questo insieme coerente cominciò ad essere scosso dalla Rivoluzione francese: con il decreto La Révellière-Lépeaux della Convenzione, sull’esportazione dei principi rivoluzionari, l’ “indifferenza” delle vicende belliche rispetto all’ordinamento interno degli Stati coinvolti cominciò ad essere scossa. Parimenti, a iniziare dalle insorgenze anti-rivoluzionarie ed anti-napoleoniche si affacciò nella storia moderna un nuovo “tipo” politico: il combattente (e il movimento) partigiano. Un giurista così sensibile ai dati reali come Santi Romano notava come la disciplina giuridica dei rapporti con gli “insorti” tendeva a derogare dalle regole del diritto interno, per assumere connotati ed istituti di quello internazionale8 la cui ragione indicava “nell’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di esso”, che si riflettono anche sui (possibili) rapporti tra insorti e Stati terzi. Il giurista siciliano, può sintetizzarsi, riconduceva all’insufficiente chiusura e al venir meno del monopolio della violenza il riemergere, all’interno dell’unità politica statale di istituti e norme di diritto internazionale; causa e ragione dei quali era in sostanza, un difetto di “potenza” cioè una circostanza “fattuale” cui si (dovevano) ricondurre i mutamenti giuridici.

In sostanza accanto allo Stato si configura così un altro “tipo” di hostis, che, injustus di principio, di fatto tende a diventare justus, già dal momento in cui, a di esso favore, si prendono ad applicare norme di diritto internazionale e si deroga a quello interno: con ciò attuando una forma, atipica e “minore”, di “riconoscimento”. La circostanza che questa prassi nasca di fatto non toglie nulla alla sua giuridicità, dato che situazioni “fattuali” sono alla base di buona parte degli istituti di diritto internazionale (e non solo). Lo justus hostis tende così a perdere i connotati tipici e formali (cioè statali) che lo definivano nel periodo “classico”: ed è lo stesso Santi Romano che, nel descrivere i caratteri della rivoluzione (e del movimento rivoluzionario), ne sottolinea – di converso – la giuridicità, perché costituisce pur sempre un ordinamento: “Una rivoluzione che sia veramente tale, e non un semplice disordine, una rivolta o sedizione occasionale, è sempre un movimento organizzato, in modo e in misura che naturalmente variano secondo i casi. In generale può dirsi che si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano, se il movimento è vittorioso, si sviluppa sempre più in tale senso. Comunque essa si traduce in un vero e proprio ordinamento sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio” e prosegue “E non importa se questo ordinamento, per la sua stessa natura e in quanto non si travasa in seguito nel nuovo ordinamento statale che può derivarne, ha una durata e una stabilità transitoria. Finché vive e opera è un ordinamento che non può non prendersi in considerazione come tale”9. Proprio per la sua precarietà, tuttavia, l’ordinamento rivoluzionario non gode appieno di nessuna delle tre ( ricordate) caratteristiche dello Stato: non la chiusura, non la sovranità, non il monopolio della violenza legittima: in sostanza la situazione rivoluzionaria è ben rappresentata dall’ espressione impiegata da Trotsky per denotare il periodo tra le rivoluzioni russe di febbraio e ottobre 1917: del dualismo dei poteri10. Ma dove i poteri sono due (e conflittuali) nessuna di quelle caratteristiche può riconoscersi appieno a ciascuno di essi.

Il monopolio statale dello jus belli (e l’essere unico justus hostis) era con ciò eroso dal “basso” da movimenti allo stato “nascente”; e, del pari, lo justus hostis tendeva, a sfumare, se non a perdere, quei connotati formali che avevano assicurato a questo “requisito” d’essere il principale tra quelli della guerra giusta: perché venuto meno il carattere formale, viene ridotta anche la ragione che, secondo Schmitt, l’aveva fatto preferire: riconoscere in modo univoco e convincente la guerra “giusta” ancorandola alla qualità di Stato dei contendenti. Se è vero che è enormemente più facile individuare “cosa” è Stato rispetto a chi ha ragione in una controversia, è anche vero che se si allenta la “griglia” della forma, in definitiva lo justus hostis diventa non chi ha i caratteri di Stato, ma colui che di fatto riesce a condurre la guerra (civile o con un altro Stato), indipendentemente dal (pieno) possesso di quelli. E così determinare lo (justus) hostis diventa problematico come (o quasi come) decidere da che parte sta la justa causa. E’ appena il caso di notare, a tale proposito, che gli attributi individuati da un teorico militare come Sun-Tzu per condurre vittoriosamente la guerra sono altrettanti connotati negativi per il pensiero di un giurista pour cause orientato all’ordine e quindi alla forma11. Non aver forma consente, in guerra, la sorpresa e riduce enormemente la vulnerabilità, ma non averla in un contesto d’ordine significa portare ai minimi termini la possibilità di coesistenza pacifica. Non foss’altro perché non rende possibile individuare con chi trattare la pace.

D’altro canto l’emergere di un nuovo justus hostis, come i movimenti rivoluzionari, aumenta indirettamente il ruolo della justa causa: perché tutti (o quasi) gli insorti si appellano ad un ordine nuovo, la cui realizzazione costituisce la justa causa belli. In fondo uno dei primi documenti che lo testimoniano, in età contemporanea, è proprio la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti12. Non avendo i caratteri di stabilità, forma e durata degli Stati e non potendo vantare una “legittimità” in base a quelli, l’unica condizione legittimante il bellum justum degli insorti è proprio la justa causa. Dall’aver spesso avuto successo il ruolo di questa è cresciuto progressivamente. Così a una legittimità “storica” e tradizionale (quale quella degli Stati preesistenti) se ne contrappone una nuova, “ideale” e orientata a un progetto (cioè al futuro), giustificante il ricorso alla guerra.

Si noti che, tale prospettiva è (in parte) diversa da come i tardo-scolastici ritenevano legittima la seditio. Suarez, come Mariana, distingue tra tyrannus quoad dominium et potestatem” (cioè l’usurpatore) e quello “solum quoad regimen”. Contro il primo (privo di “titolo” a governare) è ammessa anche la guerra d’aggressione; contro il secondo no, perché verus est dominus. E contro lo stesso occorre pertanto che agisca “tota respublica quia… tota respublica superior est rege13. Quando però per “tota respublica” si intende la sola parte secessionista (territorialmente – per lo più – determinata) la rivoluzione consiste già nella dichiarazione di separazione, e non nei motivi che potrebbero legittimarla.

Quel che ancor più distingue tali justae causae rispetto a quanto intendevano gli scolastici è che per i primi la justa causa era motivata rispetto a un ordine concreto, fatto di diritti riconosciuti ed osservati, talvolta ab immemorabile, come il “transitus viarum, commune commercium occupatio res alterius”, e così via14; mentre per le justae causae moderne si tratta di diritti fondati non sulla storia e la consuetudine, ma, per lo più, sulla “ragione” o su “principi”. Spesso legittimi, come ne sono le aspirazioni a fondamento, ma con l’inconveniente, rispetto ai primi, di essere incerti e meno verificabili -, e, spesso, meno condivisi o condivisibili.

Parimenti la justa causa non è equiparabile alla violazione di una (o più) norme, secondo un modo di pensare normativistico. È intrinseco invece alla stessa di essere la condizione per reagire alla violazione di un ordine concreto, al fine di ripristinarlo. Basti all’uopo considerare che la violazione di una norma (o di un diritto) non è di per se sufficiente a costituire justa causa belli. “Non quamcumque causam esse sufficientem ad bellum, sed gravem, et damnis belli proportionatam15. Il concetto di gravis iniuria esclude che si possa muover guerra per dei passaporti non rilasciati o dei clandestini non fermati e così via (anche perché in casi del genere è impossibile distinguere tra diritto offeso e pretesto ricercato). Il concetto d’intentio, che Bellarmino specifica nel fine della pace e dell’ordine esclude, analogamente, che si possa promuoverla per un fine diverso dalla riparazione di un torto o dall’attuazione di un diritto, e nei limiti in cui questi sono soddisfatti e realizzati, e non è ammesso strumentalizzare un illecito patito per realizzare scopi diversi. In queste concezioni è assai chiaro come gli Scolastici pensino all’ordine concreto e non a una qualsiasi violazione o disapplicazione normativa. Inerisce al loro pensiero una distinzione analoga a quella di Carl Schmitt per il diritto costituzionale: quella tra Costituzione (come ordinamento concreto dell’unità politica) e leggi (norme) costituzionali16. L’ordine internazionale sta alle relative norme (consuetudinarie o pattizie) in modo simile alla Costituzione rispetto alle leggi costituzionali.

Per cui è chiaro che il carattere principale – e differenziale – del pensiero di teologi e giuristi come Vitoria, Suarez, Bellarmino, Ayala, rispetto alla “guerra giusta” contemporanea era di essere orientato (a e su) ordine ed esistenza concreta, e di applicare principi (e modi di ragionare) essenzialmente giuridici.

Per cui la justa causa era – ed è spesso – determinabile ove, nel giudicarla, si abbia riguardo a quei presupposti. Se uno Stato inibisce ad un altro la navigazione (fuori dalle proprie acque territoriali) commette un illecito, quale violazione di un diritto tradizionalmente riconosciuto. Così se lo Stato – parte offesa gli muove guerra, questo è, secondo il pensiero di Suarez e di S. Tommaso, l’unico sistema per ripristinare quel diritto, in assenza di un’autorità cui appellarsi. Tout se tient. Il collegamento della justa causa e dello justum bellum col diritto (“storico” e concreto) evita – o riduce – le conseguenze peggiori e (più) strumentali. Così, ad esempio, si ritiene legittimo muovere guerra per i diritti propri, non per quelli altrui17: un sovrano ha non solo il diritto, ma, di più, il dovere di tutelare gli jura propri e dei propri sudditi, ma non quello di investirsi paladino di ogni pretesa giuridica, anche se fondata18. Anche nel caso della seditio e della tirannide, nessuno di quei pensatori – che ci risulti – si è neppure posto il problema se fosse lecito – in generale – a uno Stato “terzo” far guerra al tiranno, perché, per una mentalità giuridica, la risposta è ovvia e non vale la quaestio. Per cui se è talvolta lecito ai sudditi ribellarsi (e anche uccidere) il tiranno, perché viola loro diritti, non lo è andare in giro per il pianeta a detronizzare tiranni (a causa della violazione dei diritti) degli altri. La saggezza giuridica lo sconsiglia, tra l’altro, perché in tal caso le causae belli si moltiplicherebbero esponenzialmente.

Ma se in luogo di un pensiero orientato a tutelare concrete esistenze politiche e concreto ordine, che la justa causa presuppone, si passa a dichiarazioni astratte di diritti, in effetti svincolate dal pensiero e dalla mentalità giuridica, i limiti e gli inconvenienti della dottrina della justa causa vengono ingigantiti.

È questo il caso della guerra giusta, almeno come si può intenderla negli ultimi decenni. Se al posto delle violazioni dei diritti dello Stato francese o italiano il casus belli è costituito dai “diritti umani” di montanari nepalesi o pastori somali – che spesso non sanno neppure che cosa siano, e forse non ne avvertono la primaria esigenza – le justae causae crescono in numero e in indeterminatezza, per cui diventa assai più difficile distinguere tra legittimo esercizio del diritto e pretesto. E così la justa causa viene dissolta in una fitta nebbia di rivendicazioni, offese e sanzioni scisse da bisogni e soggetti reali delle pretese. Lo justum bellum, pensato come il rimedio lecito per riparare alla perturbazione di un ordine, in funzione del ripristino del medesimo, diviene così, di converso, il grimaldello per scardinarlo. Perché il problema che si pone non è che quei diritti (spesso) debbano essere garantiti e rispettati, ma che per farlo uno Stato (o un’istituzione internazionale) debba muovere guerra, e ne abbia titolo.

IV

C’è peraltro da ricordare, come sopra cennato, che nel pensiero scolastico sullo justum bellum le condizioni dovevano ricorrere tutte insieme, perché fosse tale. Nella successiva evoluzione, per secoli, lo justus hostis ha annichilito la justa causa. Nella fase che stiamo vivendo l’inflazionarsi di justi hostes (da un lato) e la rinnovata importanza della justa causa (e la dilatazione della stessa) sta riducendo al minimo lo spazio dello justus hostis classico, cioè dello Stato. La maggior parte dei conflitti successivi alla seconda guerra mondiale, infatti, non sono stati combattuti tra Stati, ma tra Stati e non Stati, o tra non Stati (tribù, etnie, partiti, gruppi religiosi)19. Ma un gesuita o un domenicano del siglo de oro non avrebbe mai qualificato come justum bellum un conflitto promosso da una tribù (priva dello jus belli), che proceda allo sterminio (o alla “pulizia etnica”) della tribù nemica (senza quindi il modus) per appropriarsi dei pascoli di quella (senza recta intentio), anche se per un motivo (forse) apprezzabile. Una simile moltiplicazione di soggetti e motivi di conflitto è proprio il contrario di quanto si proponevano i teorici della guerra giusta, col determinarne le condizioni: di limitarli sia nel numero che nei danni arrecati.

V

La decadenza dello Stato come justus hostis è accelerata dal fenomeno, diffusosi nel XX secolo di Stati e istituzioni internazionali che pretendono d’avere per una justa causa il diritto d’intervento (o comunque d’intromettersi) all’interno degli altri Stati. Con ciò vengono lesi i tre ricordati tratti distintivi (chiusura, sovranità e monopolio della violenza) o tutti insieme o singolarmente.

È inutile dire che una simile prassi non rientra negli schemi dello justum bellum dei Tardo-scolastici; più ancora essa è apertamente contraria al sistema degli Stati e all’ordine internazionale su questi fondato. Ad esempio, il diritto d’intervento, vantato in questo caso, li lede tutti quanti: al contrario la regola del non-intervento, con i suoi presupposti, corollari e molteplici specificazioni (dall’ “indifferenza” dell’ordinamento interno rispetto al diritto internazionale – e viceversa alle conseguenze: cuius regio ejus religio, e così via) li salvaguarda.

In qualche misura , anche se su presupposti e basi diverse, la stessa aspirazione a leghe di Stati o comunque ad istituzioni internazionali che scongiurino il ricorso alla forza sostituendolo con procedure “giuridiche” (d’ispirazione Kantiana), o meglio para-giudiziarie, concorre ad attenuare la distinzione tra interno ed esterno, ma senza granché dei benefici prospettati: anche perché, a ben vedere, non riescono a portare la pace se non attraverso la guerra, che differisce da una “normale” guerra solo perché a promuoverla e condurla è (apparentemente) una lega di Stati piuttosto che uno Stato singolo. Il caso del Kosovo ne è stata la conferma più chiara, perché occasione (e motivo) dell’intervento non era un’aggressione esterna (come nella guerra all’Irak per l’occupazione del Kuwait), ma la repressione attuata dallo Stato iugoslavo sulla popolazione di etnia albanese residente nel proprio territorio. Con ciò gli si contestava l’esercizio della funzione di “polizia”, connessa a quella di identificare il nemico interno (il ribelle) e anche il criminale. Il principio di non-intervento negli affari interni dello Stato, essenziale alla distinzione tra quelli e gli affari esterni, viene così meno. Conseguenza di ciò non è tuttavia di sostituire il diritto alla guerra, ma di espropriare lo Stato del relativo diritto, trasferendolo ad un’istituzione internazionale, cui compete, nel caso, il potere anche d’esercitare la “violenza legittima” e garantire la pace, non solo tra Stati, ma anche negli Stati20.

A una simile concezione vanno ricondotti, mutatis mutandis, anche altri organismi (come la Corte penale internazionale di cui al recente Statuto di Roma) che, derogando alle regole (per la verità ripetutamente violate nel XX secolo) dell’esclusività statale dell’esercizio della giurisdizione la trasferiscono, in determinati casi, all’istituzione internazionale.

I Tribunali – in qualche modo basantisi su simile concezione – costituiti per giudicare i nemici vinti (anche se, come nel caso di Milosevic, vinti per “mandato” internazionale) hanno tutti la stessa limitazione fondamentale: che sullo scranno dei giudici stanno i vincitori, alla barra degli imputati i vinti. La costanza di tale “posizione processuale” prova come in effetti la decisione sia già avvenuta, non tanto nel senso di certezza della condanna dell’imputato, quanto nel fatto che è la vittoria o la sconfitta nella guerra ad assegnare il posto nel processo, e non la sentenza; la quale, per di più, di fronte a una risoluzione bellica del conflitto (la decisione reale) è sempre inutile (e talvolta maramaldesca). Se un processo (qualsiasi) ha la funzione – importantissima – di impedire ne cives ad arma ruant, a un processo celebrato dopo la conclusione della guerra neppure tale merito può ascriversi.

D’altra parte, come tante volte notato, la prassi di processare i vinti è invalsa nel XX secolo ed è contraria allo jus publicum europaeum, equiparando il nemico a un criminale (cioè negandogli la qualità di justus hostis). A taluno è apparso che possa (essere giustificata o piuttosto) conseguire, in qualche misura, dalla concezione Kantiana dell’hostis injustus21. Per certi aspetti effettivamente il pensiero di Kant è quasi profetico di certe soluzioni dello scorso secolo. Quando scrive per esempio che contro il nemico ingiusto i vincitori non possono giungere “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità; si può invece imporgli una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza verso la guerra”, questo ricorda assai la costituzione giapponese (“octroyèe”, si dice, da Mac Arthur) la quale sia nel preambolo che nell’art. 9 prescrive la rinunzia alla guerra22. C’è comunque da dire che il filosofo di Königsberg appare contrario a portare la logica insita nel concetto del nemico ingiusto a quelle che potrebbero esserne le conseguenze: né processi ai vinti (nel §58 della Methaphisik der Sitten scrive “risulta già dal concetto di un trattato di pace, che l’amnistia deve esservi compresa”), né debellatio con estinzione dello Stato vinto (v. passo sopra citato). Prassi, invece, invalse nel XX secolo (uno degli esempi della seconda sono stati la spartizione della Polonia o l’ annessione degli Stati Baltici nel 1939, questa senza guerra).

Peraltro il limite della concezione Kantiana appare duplice: da un canto per il rifiuto dello stato di natura, da superare in un nuovo ordine internazionale: “lo stato di natura dei popoli come degli uomini isolati, è uno stato da cui si deve uscire per entrare in uno stato legale”23, cosa che lo distingue da (praticamente tutti) i pensatori “giusnaturalisti” dei secoli XVI – XVIII. Dall’altro il carattere normativistico – e astratto – (quasi da imperativo categorico) di quel criterio (e definizione) dell’hostis injustus. Oltretutto definirlo tale ricavando la norma del di esso agire dalle dichiarazioni del medesimo, potrebbe legittimare addirittura la guerra preventiva alle intenzioni24.

Quanto al primo aspetto il tutto tende a sottovalutare il (realistico) impiego dei mezzi per salvaguardare la pace (possibile) in un contesto pluralistico (il pluriverso degli Stati): alleanze, equilibri di potere, preparazione militare.

Anche se questi mezzi (tradizionali) hanno l’inconveniente della provvisorietà, come scrive Kant, non è detto che siano meno efficaci, perché meno polemogeni, dello “stato legale” (cioè l’unione di Stati), né soprattutto che l’unione vagheggiata non finisca per somigliare all’insegna dell’oste, ricordata dal filosofo, che sotto la scritta “per la pace perpetua” raffigurava un cimitero. D’altra parte la provvisorietà inerisce alla politica, a quella estera e internazionale non meno che a quella interna: al punto che diversi giuristi (e non solo) hanno visto in guerre e rivoluzioni il momento (e l’elemento) dinamico, che tende a riportare l’ordine giuridico all’effettivo rapporto di potenza25. Ciò perché la concezione di Kant parte da presupposti morali (e giuridici) e non politici: e la politica ha a che fare con la potenza assai più che con la morale, con le convinzioni diffuse e profonde degli uomini più che con le norme legalmente in vigore.

Piuttosto la concezione di Kant dell’ hostis injustus appare condivisibile se (corretta e) rapportata non a norme (giuridiche o morali) ma all’ordine concreto. Facendo cioè un passo “indietro” fino a S. Agostino. Infatti se, al posto della “massima” si sostituisce l’ordine e la pace, nel senso che nemico ingiusto sia quello con il quale non esiste la possibilità di pace (concreta) e cioè di un ordine internazionale, la tesi ha una valenza reale e positiva. Occorre infatti riprendere proprio la tesi del Vescovo d’Ippona, che, ovviamente, non parlava di nemico ingiusto, ma determinava assai chiaramente l’aspirazione umana a (e i connotati della) pace: questa è, essenzialmente, “la tranquillità dell’ordine”. E l’ordine è “la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene”… come, in precedenza, afferma che la pace non può esistere senza un capo26. In S. Agostino, come negli scolastici, il pensiero è orientato (e determinato) dall’ordine concreto (e reale) più che da concezioni “normativistiche”. Da tale presupposto consegue che il nemico ingiusto è quello con il quale non è possibile realizzare (e convivere in) un ordine, per quanto “provvisorio”, ossia concludere la pace; non è la violazione della norma ciò che rende ingiusto il nemico, ma l’impossibilità di coesistere pacificamente, e questo è determinabile solo in base alla possibilità (di durata) di una situazione ordinata e pacifica. Cioè lo justus hostis è, sotto il profilo oggettivo, il soggetto politico i cui caratteri di forma siano tali da poter garantire un ordine, diverso da quello preesistente alla guerra, ma comunque tale. Ciò ci riporta al concetto di ordinamento di Santi Romano e agli elementi di “statalità” che, nel pensiero del giurista siciliano fanno si che anche il movimento rivoluzionario sia “un ordinamento statale in embrione”. Se infatti al nemico mancano quegli elementi – di guisa da non poter essere considerato inseribile in un contesto d’ordine e sicurezza internazionale – con esso trattare e fare la pace non è giusto o ingiusto: è semplicemente inutile (se non impossibile). Un ordine internazionale presuppone e richiede dei soggetti ordinati in se. Se non c’è un ordine interno nei soggetti-componenti, non può esservi neppure quello (complessivo) internazionale. Un nemico cui manchi un collegamento con territorio e popolazione, ma abbia solo un capo e dei seguaci (cioè un embrione di organizzazione) com’è il caso, a quanto pare, di Al Quaeda e di altri gruppi terroristici è “ingiusto” perché non appare determinabile chi rappresenti e in quale “spazio” delimitato o delimitabile; al contrario di altri movimenti che hanno fatto largamente ricorso alla guerra partigiana e al terrorismo (dall’IRA al movimento sionista, dal FLN algerino ai Viet-cong) ma comunque costituito Stati inseriti nell’ordine internazionale e conservato la pace nell’ambito del possibile. A tale situazione può assimilarsi quella dei cosiddetti “Stati falliti”, in cui la “statalità” sia solo un simulacro che mascheri uno stato di guerra civile endemica tra gruppi (a base etnica, religiosa o economica) per cui a una forma legale statale non corrispondano un’effettiva chiusura, una sicura sovranità, e neppure il monopolio della violenza legittima. Il che tuttavia richiede una justa causa, come appariva per l’Afganistan (mentre è tuttora oscura per l’Iraq), data l’ospitalità offerta dai Talebani ad Al-Quaeda.

VI

Il che ci riconduce al problema dello Stato. Se è vero che l’epoca degli Stati, come sembra, è probabilmente al tramonto, assistiamo al crepuscolo di un periodo storico che ha dato lunghi cicli di pace (possibile), essendo riuscito, in larga misura, il tentativo di mettere in “forma” non solo l’unità politica (tutte le quali, comunque, hanno una forma, anche se non accuratamente modellata come quella statale) ma addirittura la guerra. La guerra in “forma”, lo justum bellum dell’epoca nascente degli Stati (e prima ancora, abbozzata nell’epoca precedente, con le limitazioni alle guerre feudali e tra cristiani), con i suoi justi hostes, justae causae, intentiones e modi gerendi è stato il più articolato e elaborato sistema di limitazione ed umanizzazione di conflitti e di costruzione, anche per questo, di stati di pace possibile. Ma tale risultato è stato realizzato perché la guerra in “forma” era il “duello su larga scala” tra soggetti altrettanto in “forma”. Se a questi si sottraggono gli elementi che li costituiscono e caratterizzano non appare possibile che sia “messa in forma” la guerra, e neppure la pace.

Un soggetto politico senza territorio, neppure nell’immagine trozkista delle roccheforti, senza legami con la popolazione e con una struttura di comando “mobile” (e labile) è, a seguire Sun Tzu, il combattente ideale, ma il peggiore contraente della pace. In un sistema di diritto internazionale che meglio sarebbe chiamare interstatale, dato che presuppone gli Stati come soggetti dell’ordine politico di comunità sedentarie (Hauriou), il nemico “senza forma” con cui non può negoziarsi e conservarsi la pace è l’unico nemico “ingiusto” possibile.

Si dirà che, sulla scorta del pensiero di S. Agostino, un nemico del genere non è facile trovarlo (tant’è che il Santo ricorre all’esempio di Caco, tratto dalla mitologia)27; ma se si rapporta il concetto di nemico ingiusto a quello che è – concretamente – un dato ordine internazionale (o meglio le sue linee fondamentali), la incompatibilità con questo non è meramente ipotetica né irreale.

D’altra parte Clausewitz nel distinguere tra guerra “assoluta” (cioè l’ideal-tipo della guerra), con la sua logica dell’ “ascesa all’estremo”28 e guerra reale (cioè concreta, e orientata dallo scopo politico) e la relativa “moderazione” di questa rispetto a quella, descrive, in sostanza, la guerra reale come condotta(e relativizzata) nei secoli XVII – XIX dagli Stati europei: se al posto di quelli i protagonisti sono altri diventa verosimile – come lo è stato, ad esempio, l’11 settembre – che l’atto bellico sia molto più vicino al tipo ideale della “guerra assoluta”, senza confini né regole. Cioè senza alcuna limitazione giuridica.

Il che ci riconduce all’affermazione iniziale che nella guerra – in particolare in quelle reali, cioè effettivamente combattute – è presente il diritto, sia come regola di condotta (diritto internazionale di guerra) sia (e soprattutto) come aspirazione ad un ordine, alla risoluzione di contrasti d’interesse che non distrugga il “quadro” d’insieme di più popoli coesistenti, e, spesso, legati da una comune civiltà.

Il Bellum justum degli scolastici muoveva proprio da questa concezione (e aspirazione), realistica nei presupposti come ideale nelle intenzioni: di fare della guerra limitata nei modi, nei soggetti e negli scopi il mezzo – eccezionale – per l’attuazione del diritto e la conservazione dell’ordine in un sistema di Stati superiorem non recognoscentes. La difficoltà oggettiva di determinare il diritto o il torto non ne offusca i risultati ottenuti, né soprattutto i presupposti e la validità di quelle concezioni orientate realisticamente all’ordine concreto. Sulle quali c’è ancora da riflettere e apprendere nel contesto di una situazione politica così mutata dal periodo in cui fu formulata.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 De Civitate Dei, 19,XII v. anche 19,XIII.

2 La distinzione è precedente e risale (almeno) a S. Agostino. v. Roberto De Mattei Guerra Santa guerra giusta, Casale Monferrato 2002 p. 15 ss. Ma la teoria e il concetto sono quelli di S. Tommaso e dei tomisti che lo hanno elaborato e connotato.

3 Summa Th II, II, q. 40, art. I.

4 De Charitate disp. 13 De Bello.

5 Ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 259 ss.

6 V. Carl Schmitt Der Nomos der erde, trad. It. Milano 1991, p. 182 ss.

7 E’ la definizione di I. Kant in “Die Metaphysik der Sitten”, p. II, sez. I.

8 Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 73. D’altra parte la questione era stata posta da Vattel (v. E. di Rienzo “Guerra civile e guerra giusta…” in Filosofia politica 3/2002 pp. 380 ss.).

9 Frammenti di un dizionario giuridico, rist. Milano 1983, p. 224.

10 Trotsky riteneva che il dualismo di poteri “è un fatto rivoluzionario e non costituzionale” perché “la parte di potere ottenuta in una situazione del genere da ciascuna delle classi in lotta, è determinata dai rapporti di forza e dalle vicende della battaglia. Per sua natura questa situazione non può essere stabile… il frazionamento del potere non è che un preannuncio di guerra civile… la guerra civile conferisce al dualismo di poteri la sua espressione più visibile, cioè un’espressione territoriale” …con la costituzione di roccaforti di partito e il resto del territorio disputato. Perché “come sempre in una guerra civile, le delimitazioni territoriali siano estremamente instabili”. Questa situazione di dualismo termina con la vittoria di una delle parti (o con la itio in partes del territorio) giacchè “la società ha bisogno di una concentrazione di poteri”, e la decisione tra democrazia borghese (e borghesia) e sistema sovietico (e proletariato) dev’essere risolta in modo militare, con la vittoria di una delle parti. Proporre, come Kautski e Max Adler di combinare la democrazia con il sistema sovietico, equivale a trasformare la guerra civile in una componente della costituzione. Non è possibile – conclude Trotsky – “immaginare un’utopia più curiosa” Storia della rivoluzione russa, P. I, Milano 1967, pp. 164 ss. V. anche l’articolo di Lenin “Il dualismo del potere” sulla Pravda n. 28 del 9(22) aprile 1917, ora in Opere scelte, Roma 1965 p. 719.

11 Sun-Tzu consiglia “ci si assottiglierà più del sottile fino a rendersi privi di forma. Smaterializzarsi più degli spiriti fino a rendersi privi di suono! Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro destino” e prosegue “Il nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma” L’arte della guerra, trad. it., Milano 1980, p. 66

12 La quale fin dalle prime parole “si rende necessario che un popolo rescinda i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro ed assuma tra le altre Potenze della Terra quel posto distinto ed eguale che gli spetta per Legge Naturale Divina…” rende palese che l’invocazione successiva della justa causa (i diritti delle colonie e l’oppressione della madrepatria) è finalizzata a legittimare lo Stato rivoluzionario nascente come justus hostis.

13 V. Suarez, op. cit., Sectio VIII ; v. sul punto S. Tommaso d’Aquino De regimine principum, lib. I, cap. 6, dove l’Aquinate pone il criterium differentiae nel diritto del popolo alla scelta del re; sulla distinzione tra i due tipi di tirannide v. Juan de Mariana De Rege et Regis Institutione, Lib. I°, cap. 6.

14 V. Suarez op. cit. Sectio IV; de Vitoria sostiene che non si possa muovere guerra agli indios perché non sono cristiani né per i loro peccati De indis, I, 2, 20-21.

15 Suarez, op. cit., Sectio IV.

16 V. Verfassungslehre § 1, Berlino 1970, p. 4 ss.; sulla distinzione in particolare § 2,2 p. 13 ss; la distinzione è ripresa più volte da Schmitt nell’opera, v. p. es. § 3,2.

17 V. S. Roberto Bellarmino, op. cit., p. 260, Suarez op. cit., Sectio IVUnde, quod quidam aiunt, supremos reges habere potestatem ad vindicandas iniurias totius orbis, est omnino falsum, et confundit omnem ordinem, et distinctionem iurisdictionum: talis enim potestas, neque a Deo data est, neque ex ratione colligitur”, sul punto v. il dissenso di Baget Bozzo in Panorama dell’11/4/03 p. 50.

18 In modo simile a quella regola del diritto processuale per cui nessuno può agire in nome proprio per i diritti altrui (art. 81 c.p.c.).

19 Secondo H.Munkler Politica e Guerra in Filosofia Politica n. 3/2002 p. 440, solo il 17 % delle guerre successive al 1945 sono guerre tra Stati in senso classico.

20 Tra l’altro l’intervento di potenza “terza” in una situazione di conflitto “interno” costituisce di fatto una legittimazione del movimento rivoluzionario. Kant, nel difendere il principio del non-intervento, lo ammetteva in questa situazione “perché non si Stati si tratta, ma di anarchia”. Togliere il carattere di Stato all’uno equivale, tuttavia, a collocarlo sullo stesso piano dell’altro. V. Per la pace perpetua in Antologia di scritti politici, Bologna 1961, p. 10.

21 V. sul punto Carl Schmitt “Portata alle sue estreme conseguenze, l’identificazione di nemico e criminale avrebbe rimosso anche gli ultimi ostacoli che Kant ancora frapponeva al giusto vincitore, non intendendo egli ammettere che uno Stato scomparisse o che un popolo fosse privato del suo potere costituente” in Der Nomos der erde, trad. it., Milano 1991, p. 205.

22 Non è questa la sola disposizione d’ispirazione “Kantiana” di tale Carta; nel preambolo vi si legge “le leggi della moralità politica sono universali e che l’obbedienza a tali leggi incombe su tutti i popoli che vogliono mantenere la loro sovranità e giustificare le loro relazioni sovrane con gli altri popoli”.

23 Methaphisik der Sitten § 61.

24 Il che in una politica fondata sull’immagine e sui media e con diversi Capitan Fracassa al governo di Stati del pianeta correrebbe il rischio di provocare guerre a ogni piè sospinto.

25 Il tutto confermerebbe l’intuizione alla base dell’insegna: che la pace assoluta, non turbata da guerre, è solo quella della morte.

26 V. S. Agostino, De civitate Dei, 19, XII, e 19, XIII.

27 Si noti che S. Agostino fa discendere la “cattiveria” di Caco dalla totale asocialità del medesimo: “se si fosse preoccupato di mantenere con gli altri quella stessa pace che cercava di conservare nella sua caverna e in se stesso, non sarebbe stato chiamato né cattivo, né mostro”. Ma un uomo del tutto asociale non si è mai visto per cui il Santo prosegue: “Diciamo piuttosto che un tal uomo non è mai esistito, o almeno… non fu tale quale lo descrive la fantasia del poeta”. Op. cit. 19, XII.

28 Vom Kriege, Cap. I, 5 ss.

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Daniel Halévy, Appunti sulla lunga rivoluzione francese, introduzione di F. Ingravalle, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Daniel Halévy, Appunti sulla lunga rivoluzione francese, introduzione di F. Ingravalle, Oaks Editrice 2023, pp. 201, € 18,00.

Scritto da Halévy nel 1939, questo saggio è dedicato alla “Storia” (nel senso della percezione) della rivoluzione, in particolare, ma non soltanto; nei pensatori francesi che si sono succeduto nel successivo secolo e mezzo (1789-1939).

Ne esce, tra l’altro, una distinzione fondamentale, condivisa da molti storici e filosofi, non solo quelli citati da Halévy: che in quella francese vi siano due rivoluzioni: la liberale del 1789 e l’altra, giacobina, del 1792. La rapida successione degli eventi storici ha così fuso insieme due catene di eventi assai differenti, il cui “nocciolo duro” era per la prima la costruzione dello Stato borghese, con i suoi principi di tutela dei diritti fondamentali e di distinzione dei poteri; per la seconda il carattere democratico dello Stato con relativa uguaglianza di partecipazione, cioè (anche) di voto degli individui, ossia dei cittadini. Determinando così l’ingresso delle masse nell’età contemporanea. Tale secondo aspetto avrebbe influenzato la modernità in senso divergente dal primo: il totalitarismo del XX secolo, con le rivoluzioni bolscevica e nazi-fasciste sarebbe (anche) la conseguenza del giacobinismo. Come scrive Ingravalle nell’attenta introduzione: “Halévy resta, comunque, attaccato alla fase liberale della Rivoluzione (1789-1791), nettamente distinta dalla fase giacobina”; e così nel rifiuto del comunismo o del fascismo. La rivoluzione francese, sostiene Halévy “è una passione da vincere, non una questione intellettuale da affrontare con l’analisi razionale. Si tratta di mostrare con quali deviazioni, passionali, psicologiche, nel XIX secolo, sia stata interpretata la crisi rivoluzionaria nel suo complesso costruendo un dogma e una leggenda che sono andati a sostituirsi alla realtà storica”. Leggenda divenuta “superstizione” nazionale. E anche conformismo “l’Illuminismo rivoluzionario adottato e acclimatatosi grazie a una burocrazia di docenti è divenuto conformismo… l’Università, figlia ella Rivoluzione, insegna la Rivoluzione. A tutti i livelli, questo insegnamento esiste” confermando il giudizio di Max Weber sul carisma, la leggenda è diventata “pratica quotidiana”. Halévy nota che la rivoluzione ha avuto (anche) effetti tutt’altro che positivi sulla Francia. A tacer d’altro ciò ricorda quanto scriveva De Gaulle nelle Memoires: che quando ri-prese il potere (nel 1958) erano 169 anni che la Francia non era governata (cioè dal 1789). Che poi siamo ancora nell’influenza della rivoluzione e del di esso culto (e dei modi per celebrarlo), Halévy lo sostiene e ne descrive dogmi e liturgie a lui contemporanee, che somigliano tanto alle attuali: per i sostenitori del culto rivoluzionario “per meritare di vivere, una società deve mettere fine al duplice scandalo delle patrie separate nell’insieme dell’umanità e delle condizioni differenti all’interno di ogni patria… Quanto ai disastri causati da una avventura rivoluzionaria, un millenarista non ne è turbato: sicuro di aver fatto il proprio dovere, accusa la malvagità degli uomini e delle cose”. Che ci ricorda questo mix di umanità e uguaglianza? E Halévy prosegue citando un altro predicatore della rivoluzione “Se gli avvenimenti infirmano troppo brutalmente le nostre predizioni e puniscono la nostra orgogliosa avventura, ci consoleremo eventualmente, pensando che gli avvenimenti hanno avuto torto” Cioè le intenzioni (buone) contano più dei risultati.

In conclusione e consigliando di leggere un saggio che merita, per concisione ed efficacia, una recensione più lunga, una breve considerazione del recensore. È un fatto che le due rivoluzioni, al di là delle conseguenze negative – allorquando l’una soffoca l’altra, fin quando si tengono in equilibrio, hanno costituito il modello di forma politica del periodo successivo. Lo Stato democratico liberale nasce dalla compresenza e dall’equilibrio di un principio di forma politica, la democrazia con i principi dello stato borghese. Anche uno tra i più decisi sostenitori della libertà borghese e avversario del giacobinismo, come Constant, aveva capito benissimo che per difendere questi era necessaria la forma politica della democrazia rappresentativa. Così per avere la democrazia reale è necessario un congruo tasso di Stato di diritto. È un mélange di principi diversi, ma una fusione di successo. L’importante è tenerli in equilibrio.

Teodoro Klitsche de la Grange

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TERRORISMO E GUERRIGLIA, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

TERRORISMO E GUERRIGLIA

Il noto provvedimento del G.I.P. di Milano, dr.ssa Forleo, ha suscitato clamori (e anche qualche consenso), dovuti alla (probabile) inopportunità della pronuncia, all’impressione che se ne può ricavare (il guerrigliero è combattente legittimo; il terrorista no), con i corollari a carattere “morale” che spesso si accompagnano; al giudizio di fatto (questa organizzazione pratica il terrorismo o no?), sempre, in tale materia, soggetti a dubbi.

Al di là delle critiche, dovute anche a circostanze sottolineate dal G.I.P. (la mancanza di una definizione normativa di terrorismo e la necessità di ricavarla in via interpretativa sulla base delle convenzioni internazionali e della “ratio e genesi delle norme penali”, cioè l’art. 270 bis del codice penale italiano), è interessante inquadrare la decisione in una tendenza, diffusa in particolare nel secolo scorso, a riconoscere soggetti politici “irregolari” e “illegali”, (in quanto non-statali) quali soggetti del diritto internazionale, in particolare di guerra; e correlativamente lo “scorrimento” tra diritto interno, segnatamente quello penale, e diritto internazionale, con l’ampliarsi o ridursi dell’uno a scapito dell’altro, in misura proporzionale alla rilevanza politica dei soggetti (che pretendono di esercitare lo jus belli)[1].

  1. Già Santi Romano, nel Corso di diritto internazionale, osservava che in caso d’insurrezione o di guerra civile “le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti[2]. Qualche anno dopo ritornò su un problema prossimo: quello del partito rivoluzionario. Nel quale il geniale giurista vedeva un “ordinamento sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”, essendo in effetti “un’organizzazione statale in embrione”. Del suo essere ordinamento, anche se con i limiti ricordati, deriva la conseguenza che indicava nel Corso: di avere una sua (particolare) soggettività e un (limitato) “tipo” di riconoscimento[3].

Carl Schmitt, nel delineare i cambiamenti nel diritto internazionale relativi ai movimenti partigiani rilevava che le convenzioni di Ginevra del 1949 “ampliano il numero di coloro che vengono equiparati ai combattenti regolari soprattutto per il fatto che pongono sullo stesso piano i membri di un «movimento organizzato di resistenza» a quelli di corpi volontari o di milizie e conferiscono loro, a questo modo, i diritti e le prerogative dei combattenti regolari. Per goderne non viene neppure espressamente richiesto di appartenere a un’organizzazione militare” e prosegue “A questo allargamento e allentamento, citato qui solo a mo’ di esempio, si aggiungono le grandi trasformazioni e modificazioni che emergono dall’evoluzione della moderna tecnica bellica e ciò si ripercuote ancora più intensivamente in relazione al combattimento dei partigiani”. La popolazione civile è comunque protetta da tali Convenzioni, in linea col diritto internazionale classico.

Detto limite è tra i più difficili da rispettare, se la dottrina “classica” della guerra partigiana, come espressa da Mao-dse-dong vede nella popolazione (civile) una delle (due) braccia della morsa con cui schiacciare (e scacciare) il nemico (per cui la popolazione può essere, simmetricamente considerata “combattente” dal nemico); d’altra parte per la logica intrinseca della guerra civile, per cui non esiste distinzione tra civile e militare, come tra cittadino e non cittadino, così ben espressa da Henry de Montherlant[4].

Quindi la Convenzione O.N.U. citata dal G.I.P. progettata nel 1999 e per la quale ritiene che “Proprio da tale normativa, ed in particolare da detta esimente, si ricava che le attività violente o di guerriglia poste in essere nell’ambito di contesti bellici, anche se poste in essere da parte di forze armate diverse da quelle istituzionali, non possono essere perseguite neppure sul piano del diritto internazionale, a meno che – ed ecco che in tal caso l’esimente in questione non opera – non venga violato il diritto internazionale umanitario”, s’iscrive pertanto in una tendenza già individuata da alcuni dei più acuti giuristi del secolo scorso.

  1. L’argomentazione del G.I.P. poi prosegue “Da tale ultimo limite può ricavarsi dunque che le attività di tipo terroristico rilevanti e dunque perseguibili sul piano del diritto internazionale siano quelle dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l’umanità”. Tralasciando il “credo ideologico e/o religioso” (che si deve prendere come espressione esemplificativa, non ravvedendosi perché un terrorismo su base etnica o economica non possa esservi ricondotto), questo appare l’argomento-chiave del provvedimento.

La protezione degli innocenti, e più in generale il diritto in guerra, notoriamente risale (almeno) a Francisco Suarez e a S. Roberto Bellarmino  che ne fanno una delle condizioni della “guerra giusta” (passate poi largamente nel diritto internazionale moderno).

La tesi del G.I.P. è, in sostanza, che la sola condizione della guerra “giusta” è rimasta quella (peraltro limitata alle norme umanitarie): anche su questo la dr.ssa Forleo non ha torto. Se invero la condizione di essere justus hostis, si è così dilatata (altrimenti lo jus belli sarebbe limitato agli Stati sovrani, e tutti gli altri belligeranti sarebbero criminali); se la justa causa (cioè il motivo valido) non è più richiesta, soprattutto perché è difficilmente accertabile; se la recta intentio è… passata di moda, l’unica discriminante tra nemico e criminale (di guerra) rimane il modo di condurla.

Con la conseguenza che una guerra condotta da una compagnia di ventura o da una banda di briganti per predare dei territori, senza commettere crimini contro l’umanità, è “lecita”. Certo il tutto pone non pochi interrogativi: ad esempio un embargo sul cibo e sui medicinali, che provochi – come si racconta che abbia  causato in Irak – carestie ed epidemie, ma non uccide direttamente degli innocenti (e perciò non costituisce un crimine contro l’umanità) è lecito?

È un fatto che se la distinzione è data dal modo di condurre la guerra, e non più dalla “forma” dei combattenti, ovvero se questi siano istituzioni-Stato o qualcos’altro, l’equiparazione tra guerra interstatale e guerra tra partiti, etnie (magari) multinazionali o compagnie di ventura è totale. Il processo di dissoluzione dello Stato sovrano, come monopolista del politico, si completa. E la guerra, nella quale Rousseau vedeva un rapporto da Stato a Stato, di guisa che “ogni Stato non può avere come nemici che altri Stati”[5] diventa attività di ogni formazione politica.

Nel diritto internazionale classico, quando cioè scrivevano Rousseau e Vattel, la guerra doveva essere “legittima e nella forma”[6], cioè condotta da Stati sovrani (cioè da soggetti in “forma” per definizione) e con l’osservanza di un minimo di regole “procedurali”, come la richiesta (preventiva) di riparazione e la dichiarazione di guerra.

Vattel scriveva che bisogna accuratamente distinguere “la guerra legittima e nella forma, da quelle guerre informi e illegittime, o piuttosto da certe azioni di brigantaggio che si fanno, o senza autorità legittima, o senza soggetto apparente, e del pari senza formalità, solamente per saccheggiare”[7].

Queste ultime sono le guerre delle compagnie (di ventura), dei filibustieri, dei pirati. La Nazione attaccata da questi “non è obbligata a osservare le regole prescritte per la guerra in forma: può trattarli come briganti” (e impiccarli)[8].

Prosegue poi la G.I.P. di Milano con l’affermare che la modifica all’art. 270 bis c.p. “ha appunto esteso il rilievo penale dei fatti in tale norma già previsti anche ai casi in cui gli stessi fossero posti ai danni di uno Stato estero, voluta d’emergenza  all’indomani di tali fatti; parallelamente ad analoghi interventi legislativi posti in essere in altri paesi, ha evidentemente perseguito la finalità di creare una sorta di diritto penale sovranazionale con il quale tutelare i singoli Stati da attentati terroristici di ampio spettro, speculari di strategie politiche autonome e risolutive.

L’estendere tale tutela penale anche agli atti di guerriglia, per quanto violenti, posti in essere nell’ambito di conflitti bellici in atto in altri Stati ed a prescindere dall’obiettivo preso di mira, porterebbe inevitabilmente ad un’ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo peraltro notorio che nel conflitto bellico in questione, come in tutti i conflitti dell’era contemporanea, strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte le forze in campo”.

Tale periodo contiene tre tesi:

  1. che gli atti di guerriglia si differenziano dal terrorismo per l’“obiettivo preso di mira”;
  2. che sanzionare “atti di guerriglia” (non terroristici) costituisce un’ingiustificata presa di posizione a favore di uno dei contendenti;
  3. ancor di più perché tutte le parti si servono di “strumenti di altissima potenzialità offensiva” (per cui – sembra di capire – aerei-bomba e kamikaze sarebbero la risposta alle bombe – intelligenti o meno – e agli aerei invisibili).

Sulla prima affermazione, si è già scritto sopra: costituisce un’ulteriore conferma della depolitizzazione dello Stato. Giova invece approfondire la seconda, in connessione stretta ed evidente con la terza: che servendosi ambedue le parti di mezzi illeciti (secondo il diritto penale internazionale) una scelta per l’uno o per l’altro dei contendenti costituirebbe “un’ingiustificata presa di posizione”.

In effetti tale ragionamento appare viziato da iper-giuridicismo: vediamo perché.

In primo luogo perché la decisione per la guerra, l’alleanza o la neutralità è politica, rimessa alle autorità politiche. “L’ingiustificata presa di posizione” non è materia, come dicono i giuristi francesi, justiciable: altrimenti sarebbe possibile ricorrere ad un Tribunale per chiedere, ad esempio, di sospendere la chiamata alle armi, o l’invio di soldati in zona di guerra, e così via (e di ragioni ve ne sarebbero a iosa, ad invocare l’art. 700 c.p.c., perché in guerra si rischia di morire – o di essere oggetto di rappresaglie).

In realtà il problema consiste, per il Giudice, nell’applicare correttamente una norma: se da tale applicazione deriva un’“ingiustificata presa di posizione”, è affare del potere politico, e non dei Tribunali. Se la norma ha quell’effetto, significa che il potere politico ha fatto una scelta di campo: per (o contro) il terrorismo, e così via[9].

In secondo luogo: rispetto a cosa quella scelta è “ingiustificata”? All’interesse nazionale? Accertarne la corrispondenza a questo non è di competenza del potere giudiziario. Più probabile è ritenere che la G.I.P. abbia voluto spiegare la ratio della norma come dalla stessa interpretata: cioè che scegliere per la guerra, l’alleanza o la neutralità sia lecito solo in base alla normativa internazionale (che ci riporta alla tematica del modus gerendi bellum). Senonché non è così: perché lo jus belli (e lo justum bellum) non è lecitamente esercitabile (solo) come mezzo per la riparazione di un torto, peraltro inteso come illecito internazionale (la guerra come sanzione alla violazione di norme internazionali) ma anche – e ancor di più – per la tutela dell’esistenza (e dell’interesse) nazionale. È meno vicino alla pena di quanto lo sia ad una misura per la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza interna. È orientato dal criterio dell’opportunità più che dalla conformità (o meno) ad una norma. Il diritto di far la guerra, scrivevano, tra gli altri, Montesquieu e Vattel è dato: a) per la difesa e b) per la conservazione dei diritti delle nazioni.

Ciò che è realmente essenziale in un conflitto è la percezione – e l’identificazione  – del nemico o viceversa, del non-nemico, e quindi la possibilità di guerra: è ciò che da un senso e un contenuto specifico – ed esattamente applicabile – alla normativa penale, come ad esempio parte delle norme del codice penale, ricomprese nel titolo I del libro secondo.

Ma inimicizia, guerra, rappresaglia (e così via), intese in senso giuridico, dipendono da una decisione del potere politico: è questa a conferire un senso e un’applicabilità concreta a buona parte di quelle disposizioni. Tizio è nemico (o amico) e la nazione sta in guerra o in pace[10] è belligerante o neutrale, perché l’ha deciso l’autorità competente e responsabile, e non perché un Giudice ha sussunto la fattispecie ad una norma.

Peraltro considerare la guerriglia (o il terrorismo) irakeno come “una delle forze in campo” presenta problematiche nuove. Se, in un contesto di guerra tra Stati le “forze in campo” sono delle istituzioni, con dei rappresentanti, per cui hanno una forma (quindi coerenza ed unità) e possono assumere ed onorare degli impegni, quando si considerano “forze in campo” i movimenti di resistenza, il problema di chi decide (e che cosa) diventa di soluzione non facile. Ancor più nello stato che hanno attualmente molti movimenti “terroristici”, come Al-Quaeda, o buona parte della resistenza irakena. Se fu possibile negoziare con il Viet-Min o con l’FLN algerino, lo stesso non appare, o è assai più difficile con questi soggetti, spesso evanescenti e portatori di “linee d’inimicizia” non coerenti (e non comprensibili); ad esempio il sequestro di cittadini francesi, quando la politica francese ha cercato di evitare l’occupazione dell’Irak e la guerra, e che suscita l’interrogativo se il nemico di questi resistenti sia l’occidentale in se, ovvero l’occupante.

Se qualsiasi gruppo guerrigliero, magari a livello familiare o di clan, diventa “forza in campo” cioè nemico (o degno della scelta tra amico e nemico), il carattere pubblico della guerra viene perso del tutto. Ogni criminale comune può, con ciò, divenire “nemico” e beneficiare dello status che ne consegue, compreso di costringere ad una scelta tra intervento o neutralità. Con ciò, viene meno non solo il monopolio dello Stato sul politico, ma addirittura questo diviene indistinguibile dal non-politico. Il percorso che parte dal riconoscimento come nemico di un soggetto non statale si completa così nel riconoscere come tali anche soggetti privi dei requisiti minimi se non di statalità, almeno di pubblicità: dalla “guerra in forma” si ritorna così al bellum omnium contro omnes, da cui era partita la filosofia politica della modernità. In fondo Kant giustificava il concludere patti con gli insorti (di per se deroga al principio della non-ingerenza) allorquando uno Stato “per discordie intestine si divide in due parti, ognuna delle quali si costituisce in Stato particolare, con la pretesa di dominare il tutto: nel qual caso l’aiuto prestato ad uno dei due Stati non potrebbe considerarsi come ingerenza nella costituzione di un altro Stato, perché non di Stati si tratta, ma di anarchia”[11]. Ma come si può negoziare e concludere accordi senza che uno dei contraenti  abbia (un minimo di) forma e di consenso?

  1. E’ indubbio che la G.I.P. di Milano distinguendo tra terrorismo e guerriglia in base al criterio del modus gerendi bellum, ha (in larga parte) colto nel segno; tecniche terroristiche sono state impiegate da sempre in tante guerre: dalle piramidi di teste di Tamerlano alle bombe al fosforo di Amburgo e Dresda . Se infatti, come scriveva Clausewitz, “la guerra è un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario e sottomettersi alla nostra volontà”, ed è quindi uno scontro di volontà, fiaccare quella dell’avversario, anche attraverso il terrore, è il mezzo per assicurarsi la vittoria. La tentazione di non osservare il diritto delle genti per attingere allo scopo è difficile da respingere[12].

Laddove il ragionamento del G.I.P. non appare condivisibile è nel tentativo di valutare fenomeni politici in base a considerazioni non-politiche, ma (esclusivamente) giuridiche, anzi più propriamente normativistiche.

Considerare “forza in campo” ed applicare (sia pure indirettamente) la tutela che si da ai belligeranti (in quanto nemici), indipendentemente dalla forma e dalle condizioni minime per essere qualificati nemici non appare possibile a partire dai presupposti base di un pensiero giuridico istituzionale; cioè d’essere un gruppo umano “politico”.

Come scriveva Santi Romano occorrono all’uopo elementi delle forma-Stato di guisa da costituire perciò un “ordinamento, sia pure imperfetto, fluttuante e provvisorio”, per avere un (minimo) di soggettività politica (e quindi internazionale), e poter essere nemico (e amico); nella stessa linea si trova la considerazione di Kant sopra ricordata. E’ certo che, a voler applicare quale (esclusivo) criterio di distinzione tra atto di guerra legittima (e non) quello della G.I.P., salta la distinzione tra nemico e criminale comune, che sul carattere pubblico del primo e non del secondo di basa.

Il fatto che il Passatore – come scrive Pascoli – fosse cortese non toglie che fosse un brigante di strada, né la di esso cortesia lo faceva transitare nella categoria del nemico politico.

Così la guerra, già agli albori del diritto internazionale moderno, definita da Alberico Gentili come publicorum armorum iuxta contentio, con esclusione di qualsiasi conflitto tra privati, diviene affare di tutti: mentre ciò che la distingueva era proprio l’esser pubblica, (e riservata a soggetti pubblici).

E su questo occorre spendere due parole: ciò che fa la pubblicità e la statalità dell’istituzione non è il modo d’agire, ma, per così dire, il proprio essere. In un giudizio, penale o civile, si giudica una condotta (cioè, lato sensu un’azione) in base ad una norma che la qualifica e ne determina le conseguenze giuridiche. Di converso la pubblicità della guerra (e la sua legittimità) era data dall’essere i contendenti due soggetti politici. Anche nell’estensione a movimenti partigiani c’è ancora questa condizione minima, proprio perché l’essenza di questi è politica e presentano, in concreto, gli elementi-base dell’istituzione-Stato. Quindi ciò che fa “giusta” la guerra non può ridursi a una sola delle condizioni (il rispetto del diritto internazionale umanitario), a prescindere dalla forma e dal (conseguente) carattere politico dei contendenti.

Non è la condotta della guerra che dev’essere (l’unico) criterio di giudizio, ma l’essenza e il carattere dei contendenti. Ma il giudizio di un Tribunale normalmente prende in esame delle azioni, e – più raramente – l’essere dei contendenti: cioè proprio ciò, che, per il diritto pubblico, è maggiormente rilevante.

E anche in tal caso l’accento posto sulla valutazione sulla condotta ha monopolizzato l’attenzione del Giudice.

Così si dimentica completamente che la distinzione tra nemico e criminale è data proprio dal carattere pubblico o non del combattente: nella guerra marittima se a catturare la nave (del nemico) è un’unità militare (o sotto comando militarre), questa esercita il diritto di preda; se lo fa un privato è un pirata[13]. Questa distinzione è già posta da Bodin, che l’argomenta diffusamente; è così agli inizi della teoria dello Stato moderno[14]

Questa ordinanza quindi offre degli spunti di riflessione, anche nelle affermazioni più criticabili: perché, contrariamente a quanto apparso sui media, riflette considerazioni ed impostazioni più diffuse (ed autorevoli) di quanto non sembri a prima vista.

T.K.

[1] Sul punto v. da ultimo Jean Claude Paye: Lotta contro il terrorismo: atto costituente in Behemoth n. 36 luglio-dicembre 2004.

[2] Riportiamo il passo “in caso d’insurrezione o di guerra civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti, così nei rapporti con lo Stato contro il quale lottano come in quelli con gli altri Stati (esempi: le colonie spagnuole dell’America nel 1816; i greci, insorti contro la Turchia, nel 1821; etc.). Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si riducono ad una sola: l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purché anche gli insorti adottino uguale comportamento; e i terzi Stati, per la protezione dei loro interessi che non possono essere più tutelati dal primo, credono opportuno entrare in relazioni dirette col governo insurrezionale”; e prosegue “Sembra che in questi e in altri casi analoghi non ci sia difficoltà ad ammettere che si abbiano dei soggetti di diritto internazionale, la cui personalità, però, da un lato non è definitiva, e dall’altro lato è limitata a taluni rapporti, in modo che la loro piena appartenenza alla comunità internazionale rimane in un certo senso sospesa e incerta finché la loro situazione eccezionale e provvisoria non diventi normale e stabile” v. Corso di diritto internazionale, 3ª ed., Padova 1933, pp. 73-73.

[3] Riportiamo il passo di Santi Romano “Una rivoluzione che sia veramente tale, e non un semplice disordine, una rivolta o sedizione occasionale, è sempre un movimento organizzato, in modo e in misura che naturalmente variano secondo i casi. In generale può dirsi che si tratta di una organizzazione, la quale, tenendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano, se il movimento è vittorioso, si sviluppa sempre più in tal senso. Comunque, essa si traduce in un vero e proprio ordinamento, sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio… E non importa se questo ordinamento, per la sua stessa natura e in quanto non si travasa in seguito nel nuovo ordinamento statale che può derivarne, ha una durata e una stabilità transitoria. Finché vive e opera è un ordinamento che non può non prendersi in considerazione come tale. La rivoluzione è un fatto antigiuridico in riguardo al diritto positivo dello Stato contro il quale si svolge, ma ciò non toglie che, dal punto di vista ben diverso dal quale essa si qualifica da sé, è movimento ordinato e regolato dal suo proprio diritto. Il che vuole anche dire che è un ordinamento che deve classificarsi nella categoria degli ordinamenti giuridici originari, nel senso ormai ben noto che si attribuisce a questa espressione” in Frammenti di un dizionario giuridico voce Rivoluzione e diritto, Milano 1948, p. 244.

[4] Nel prologo al dramma La Guerre civile, questa si presenta “Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico.

Io sono la Guerra civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo” v. trad. it. di P. Buscaroli, Torino 1976, p. 29.

[5] Du Contrat social, lib. I, cap. IV.

[6] V. Vattel Droit de gens, Liv. III, cap. IV, 66.

[7] Op. cit., liv. III, cap. IV, 67.

[8] Vattel, op. cit., liv. III, cap. IV, 68.

[9] Ad esempio, ad esaminare il codice penale militare di guerra, l’applicazione dell’intero codice (come di alcune norme) è condizionato da atti del potere politico.

Per applicare la legge di guerra il limite temporale è dato dalla dichiarazione dello stato di guerra fino alla di esso cessazione (art. 3). Però può essere applicata con decreto del Presidente della Repubblica “anche in tempo di pace” (art. 5). Si applica ai contingenti delle F.F.A.A. destinati ad operazioni di guerra (art. 6), ai corpi di spedizione all’estero anche in tempo di pace (art. 9), alle operazioni di ordine pubblico (art. 10), ai mobilitati (art. 11) ai prigionieri di guerra (art. 12). I reati commessi a danno di uno Stato alleato sono considerati come commessi contro lo Stato italiano (art. 15). Lo stato di nemico da, com’è noto, dei diritti; in particolare l’art. 198 sanziona l’“arbitrario disconoscimento della qualità di legittimo belligerante”. Il che pone, ovviamente, il problema di chi sia il “legittimo belligerante” e se dei terroristi possano esserlo.

[10] V. Vattel, op. cit., liv. III, cap. III, 26; Montesquieu, L’ésprit des lois, lib. X, cap. II. Per Montesquieu, più precisamente, gli Stati “hanno diritto di fare la guerra per la loro conservazione” il che non comprende – a prima vista – la riparazione di un torto; però subito dopo aggiunge “le droit de guerre dèrive donc de la necessité et du juste rigide” in quel “juste rigide” si può ricomprendere il mezzo per riparare e sanzionare un illecito commesso.

[11] V. Per la pace perpetua, trad. it., Bologna 1961, p. 110.

[12] D’altra parte Clausewitz scriveva che la forza in guerra “è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere menzionate, alle quali si da il nome di diritto alle genti” v. Vom Kriege, trad. it. di Bollati e Canevari, Milano 1970, p. 20.

[13] Una delle peculiarità della pirateria è di poter essere perseguita da qualsiasi Stato: il pirata anche se non ha predato navi o territori dello Stato che lo cattura è da questo giudicato. Il che potrebbe apparire, a seguire l’opinione criticata, un’“ingiustificata presa di posizione” tra il pirata e lo Stato danneggiato dal medesimo.

[14] V. Bodin Six livres de la République lib. I, cap. 1.

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INTERVISTA A MONTESQUIEU SU NORDIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

INTERVISTA A MONTESQUIEU SU NORDIO

Da tempo le esternazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sono oggetto di critiche, in particolare di essere permissive, anti-legalitarie, garantiste, ecc. ecc. Per saperne di più siamo andati a intervistare il barone di Montesquieu, noto intenditore di libertà politica e di Stato di diritto il quale, ci ha benevolmente concesso l’incontro.

Caro barone, che ne pensa della dichiarazione del Ministro Nordio che “La nostra legislazione tributaria è piena di ossimori. Se un imprenditore onesto decidesse di assoldare un esercito di commercialisti per pagare fino all’ultimo centesimo le imposte non riuscirebbe perché comunque qualche violazione verrebbe trovata, le norme si contraddicono”.

Penso che il legislatore, come ho scritto, deve essere chiaro e conciso, la moltitudine delle leggi impedisce il secondo carattere e rende problematico il primo.

L’ideale della legge è quella delle XII tavole: così piana e succinta che i bambini romani la conoscevano a memoria. Provate a fare la stessa cosa con le leggi italiane, anche soltanto con quelle tributarie: non ci riuscirebbe neanche Pico della Mirandola. Ma quei caratteri sono essenziali per la certezza del diritto; cioè per un connotato fondamentale dello stesso. Senza quelle, il diritto non è altro che l’arbitrio (facile) dell’interprete.

Cosa ne pensa del fatto che Nordio ha detto che non vuole interferenze dell’ANM nella formazione delle leggi?

Che ha capito lo “spirito” del mio pensiero, anche oltre la lettera; ho scritto che “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”. Certo qui non si tratta di un’interferenza formale, prescritta dalle leggi (il che sarebbe ancora peggio). Ma certo un’interferenza di un soggetto rappresentativo di una categoria di funzionari pubblici che esercitano uno dei poteri  dello Stato è, a mio avviso, comunque da evitare per scongiurare quanto da me sostenuto. Che può essere declinato in più maniere, la prima delle quali è che, per conseguire la libertà politica, è necessario che colui che pone la norma non sia quello che la applica. Invece coloro che criticano il Ministro sembra che tengano non alla libertà o alla legge, ma al potere della burocrazia di applicarla, nel modo meno determinato e controllato possibile. Un caso di buromania e di burodipendenza.

Passando ad altro, che ne pensa della concezione, anche dell’Unione Europea, di misurare lo “Stato di diritto” (soprattutto) sulla protezione dei diritti “LGBT”?

Ho sostenuto, a proposito della libertà che “Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi…. Gli uni l’hanno presa nell’accezione di facilità di deporre colui al quale avevano conferito un potere tirannico; gli altri come la facoltà di eleggere colui al quale dovevano obbedire; altri ancora come il diritto di essere armati e di potere esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione o delle proprie leggi. Un popolo ha preso la libertà per l’uso di portare una lunga barba”. Ecco a me pare che chi condivide la concezione suddetta è assai simile a quelli che la pensano come facoltà di farsi crescere la barba. Quando tanti diritti sociali ed economici sono poco garantiti, pensare e tutelare pretese marginali (e in qualche caso non fondate sulla realtà) mi sembra un tentativo, come dite, di distrazione di massa. Si pensa al diritto di affittare gli uteri (et similia) per costruirsi un’immagine gradevole e “liberale”, senza pagare prezzo.

Allora la ringrazio sig. barone,  posso tornare ad intervistarla?

Sinceramente penso che ce ne sarà bisogno. Come ho scritto non è che il regime delle repubbliche italiane dei miei tempi fosse del tutto corrispondente alla forma di governo dispotica. Ma avverto, nel vostro modo di governare, una tendenza storica a raggiungerla. E, per quanto mi riguarda, darò mano per invertirla.

Teodoro Klitsche de la Grange

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GUERRE PIÙ DEMOCRATICHE CHE GIUSTE, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

GUERRE PIÙ DEMOCRATICHE CHE GIUSTE

già apparso sulla rivista  “Il giusto processo” n. 18/19 (ottobre
2005 – aprile 2006).

E’ diffuso oggigiorno ritenere che guerra giusta sia quella condotta per esportare i “valori” (e gli istituti) della democrazia liberale, tra cui viene collocata (e spicca) l’ideologia dei diritti dell’uomo. Accanto a questa c’è la tesi – spesso connessa – che ad evitare “guerre ingiuste” e punirne i rei  occorrano Tribunali internazionali. Ribaltando così, o meglio applicando in un contesto errato, il giudizio di De Maistre che “dove non vi è sentenza, v’è scontro”.

Diciamo che il contesto è errato perché quella di De Maistre, è la sintesi di un discorso sulla sovranità, il cui esempio è proprio il Tribunale “Nei Tribunali si vede l’assoluta necessità della sovranità; perché l’uomo deve essere governato proprio come deve essere giudicato, e per la stessa ragione; ossia perché dove non vi è sentenza vi è scontro[1]. Ma, in De Maistre, il tutto presuppone sovranità e Stato, e un Tribunale – ufficio di quest’ultimo.

Invece nel pensiero postmoderno, il Tribunale (internazionale) è l’alternativa/sostituto dello Stato. E’ cioè l’opposto del giudizio di Hegel che “non v’è Pretore tra gli Stati”[2]. Qui, di converso, si suppone che possa esservi, e sia in grado di far valere (ovvero far eseguire) i propri giudicati, come, all’interno dello Stato, fanno polizia ed altri servizi e uffici statali, valendosi del monopolio (statale) dell’uso legittimo della forza. Tuttavia che il problema in realtà sia questo e non quello dello jus dicere è dimenticato: e così le varie esperienze storiche che lo provano.

Ma è realmente questo tipo di guerra, giusta?

E il tutto è conforme a criteri di giustizia reali? Una disamina storica può concorrere alla risposta.

  1. Agli albori dello jus publicum europaeum la teologia cristiana che ne ha delineato i principi, identificava i requisiti della guerra giusta nella (legittima) autorità di chi la conduceva (e dichiarava), nel giusto motivo (di guerra), nella giusta intenzione e nel corretto modo di condurla. Il giusto motivo era inteso in senso giuridico “classico”, cioè come protezione di diritti concreti violati. La necessità (e la legittimità) della guerra derivava poi dall’assenza di un’autorità che potesse dirimere le controversie riparando le violazioni dei diritti con un comando efficace ed eseguito dai contendenti. In questa costruzione giuridica non c’è spazio per “diritti” astratti, ma solo (molto) concreti. Suarez nell’elencare esempi di “giusto motivo” di guerra, fa quasi un’enumerazione delle “azioni” riconosciute nel diritto romano per il ripristino dei diritti lesi: occupazione di province altrui (rivendica) impedimento al transito (confessoria servitutis), nonché lesioni del diritto agli usuali rapporti economici. Si tratta di diritti fondati sulla storia e la consuetudine, cioè su un ordine concreto, al mantenimento e conservazione del quale concorre il rimedio della guerra.

L’evoluzione successiva, induceva a fare della guerra giusta piuttosto che un mezzo per ripristinare il diritto, quello per conservare il potere, (la sicurezza, l’equilibrio) degli Stati, e, di conseguenza della comunità internazionale, fondata sul pluralismo delle unità politiche. Non che la tutela del diritto (che in se è un potere) non costituisse più giusto motivo, ma accanto o meglio sopra, si aggiunse (e prevalse) la ragione di difesa del potere. Un esempio l’offre Montesquieu “La vita degli Stati è simile a quella degli uomini: questi hanno il diritto di uccidere per legittima difesa, quelli hanno il diritto di muover guerra per la propria conservazione” e prosegue “Tra cittadini, il diritto di legittima difesa non implica la necessità dell’attacco. Invece di attaccare, essi non hanno che da ricorrere ai Tribunali. Non possono quindi esercitare questo diritto di difesa che nei casi subitanei, nei quali sarebbero perduti se attendessero l’aiuto della legge. Ma tra le società, il diritto di legittima difesa implica qualche volta la necessità di attaccare, quando un popolo si rende conto che una pace più lunga darebbe a un altro Stato la possibilità di distruggerlo, e che l’attacco è in quel determinato momento l’unico mezzo per impedire siffatta distruzione” per concludere “Il diritto di guerra deriva pertanto dalla necessità e da un rigido rispetto del giusto. Se coloro che dirigono la  coscienza o i consigli dei principi non si attengono a queste norme, tutto è perduto; e, se ci si vorrà fondare su principi arbitrari di gloria, di benessere, di utilità, fiotti di sangue inonderanno la terra[3].

Quel far derivare il diritto di guerra dalla necessità, non significa altro, giacchè necessitas non habet legem, che non è necessario vi sia un diritto da ripristinare: al contrario, che, in caso di necessità, è legittimo violare il diritto.

La situazione cambia con la rivoluzione francese: fino a quell’epoca era normale che le guerre fossero un mezzo per regolare controversie (di potere o di diritto) tra Stati che si riconoscevano e rispettavano. La conseguenza di ciò era l’intangibilità del diritto interno e degli Stati medesimi. Le guerre si concludevano col passaggio di “mano” di qualche provincia o (più spesso) di colonie che lasciava sostanzialmente immutato l’ordinamento.

Questo sistema cominciò ad essere scosso dalla Rivoluzione Francese: con il decreto La Révellière – Lépeaux della Convenzione sull’esportazione dei principi rivoluzionari, l’ “indifferenza” delle vicende belliche rispetto all’ordinamento interno degli Stati coinvolti cominciò ad essere scossa. Del pari il rispetto dell’esistenza degli Stati che, nel periodo rivoluzionario e napoleonico prese la forma di creazione di Stati del tutto nuovi (le repubbliche-sorelle e poi gli Stati del sistema napoleonico) politicamente omogenei al vincitore; cosa che lede in positivo il diritto “costituente” e originario a formare una comunità. Scriveva Kant che contro il nemico ingiusto i vincitori non possono giungere “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità[4]. E, quello che dice per la sparizione degli Stati, vale anche per la creazione di nuovi da parte del vincitore. Quel che parimenti interessa è che con la formula della “guerre aux chateaux, paix aux chaumiéres” iniziava e si legittimava l’esportazione di principi formulati astrattamente, estranei alle comunità che dovevano forzosamente importarli e spesso generatori di una “nuova” forma di guerra, quella partigiana (moderna) in cui la comunità “importatrice” , attraverso il movimento guerrigliero, assume progressivamente il carattere del nemico (e del soggetto belligerante), quale popolo in armi. Le cui formulazioni più radicali sono di Mao-dse-dong e la pratica relativa è quella delle guerre anticoloniali del XX° secolo.

La conclusione della II guerra mondiale lo ha confermato in tutt’altro contesto: gia nella Carta Atlantica era scritto che I Governi degli Stati Uniti e del regno Unito dichiaravano a quei tempi di “rispettare il diritto che hanno tutti i popoli di scegliere la forma di governo sotto la quale chiedono di vivere, e desiderare che siano ristabiliti i diritti sovrani e il libero esercizio del governo a coloro cui è stato tolto con la forza”, come confermato a Yalta[5] “per ogni Stato liberato d’Europa, ad ogni Stato europeo antico satellite dell’Asse”. Questo, anche se qualcuno non ne avesse manifestato l’intenzione.

La prassi attuativa di questa dichiarazione fu, come noto, che ciascuno dei liberati si dette la forma di costituzione corrispondente al colore delle divise dei liberatori (occupatori).

Il potere costituente, come poi affermato esplicitamente per la sovranità, ne fu (a dir poco) limitato. Ed è da chiedersi, a tal punto, se limitare poteri di per se illimitati (come, appunto, potere costituente e sovranità) non sia negarli in radice, come implicito nella dottrina dello Stato moderno da Sieyès a Vittorio Emanuele Orlando.

  1. Quanto ai Tribunali penali internazionali, istituti diffusisi nel secolo scorso, al fine di giudicare il nemico vinto (da parte dei vincitori), questi erano del tutto sconosciuti, perché rifiutati dallo jus publicum europaeum, in cui vigeva il principio che par in parem non habet jurisdictionem . Per cui, tra Stati sovrani, l’uno non poteva giudicare l’altro (e il tutto valeva, sia per gli organi “apicali” che per gli altri); di più Kant riteneva connaturale, in ogni trattato di pace, la “clausola d’amnistia” (reciproca) tra i contraenti. Ciò che più colpisce di tale prassi (consolidata per secoli) è il suo realismo che l’adattava assai meglio del pan-giurisdizionalismo contemporaneo all’ordine concreto di comunità dotate di pari diritti e dignità. In primo luogo perché si pone il problema della giustizia (e del diritto) in concreto: l’attività del giudice non è una pura posizione di norme, ma l’applicazione di norme ad un fatto concreto: anche le norme giuste e condivise se applicate selettivamente, o da giudice non imparziale, o sfocianti in sentenze ineseguibili, non possiedono i caratteri comunemente attribuiti alla giustizia né hanno la reale utilità di questa.

Orbene connotati comuni a questi Tribunali sono: (sempre) che l’imputato coincide col vinto; (molto spesso) che i giudici ne sono i vincitori; che ai fini pratici (cioè di conformare il nuovo ordine alla situazione di fatto (e di potere) creatasi a seguito della guerra, le decisioni dei Tribunali non hanno alcuna incidenza. La funzione prevalente è liturgica: rivestire con i panni solenni della giustizia quanto deciso con la guerra, squalificando moralmente il nemico vinto. Sono in sostanza gli autodafé della globalizzazione.

Ma che l’esigenza da risolvere sia stata già risolta con la guerra, il cui esito è realmente “conformativo” dell’ordine e che il giudizio del Tribunale non aggiunga o tolga nulla a questo è evidente. Diversamente da quello di un giudice “interno” la cui decisione è essenziale per i diritti (e la vita) del giudicato.

  1. Connotato comune di queste due “innovazioni” è per lo più ritenuto il carattere “democratico” che lo Stato e la guerra moderna hanno acquisito negli ultimi due secoli. Per cui la democrazia, ritenuta bene prezioso da quei popoli che hanno lottato per acquisirla, sarebbe un dono – altrettanto importante – per quelli che non si sono mai sognati di farlo. Ma, verosimilmente, non l’hanno fatto perché non lo giudicavano così prezioso, da valere una guerra o una rivoluzione. Peraltro e, ancor più, guerre “d’esportazione” e Tribunali internazionali sono collegati ad un’aspirazione (illusione) alla pace. Si ritiene meglio avere dei governi democratici al potere in altri paesi perché giudicati meno propensi alla guerra; e i Tribunali sarebbero il mezzo per conservare la pace con la punizione di quelli che la violano. Ma quanto alla prima, la Storia dimostra che le democrazie non sono meno guerrafondaie di altre forme di Stato: anzi, in concreto, lo sono, quanto a intensità della guerra, di più. Già nel descrivere i caratteri di quella ateniese, Pericle, nel discorso che riporta Tucidide[6], calca, per così dire, la mano sulle imprese (e virtù) belliche della stessa. Ancor più, nei tempi moderni, la democrazia si è (per lo più) coniugata con la levée en masse e l’intensificazione dell’ostilità.

Ma se ancora per la democrazia, c’è la speranza che ne prevalga l’aspetto “moderno” (secondo la nota distinzione di Benjamin Constant) cioè l’elemento liberale, la tolleranza, l’esprit de commerce che comunque condiziona l’esprit de conquête, per il rimedio dei Tribunali non si prospetta alcuna ragionevole speranza.

Perché in tal caso si tratta, in buona sostanza, di sostituire la politica (e il politico) col diritto. Una ricetta vecchia, che può funzionare soltanto se il Tribunale assuma dei connotati politici, cioè cessi di essere un (puro) organo giudiziario e divenga – organizzativamente e funzionalmente – unità o ente politico o organo-ufficio di questo. Cioè capace di avvalersi della forza (quindi con un’organizzazione apposita) e quindi essere “potenza” in senso weberiano, in grado cioè di far valere – in concreto – i propri comandi. Chi crede a ciò, crede di aver inventato la politica senza (il mezzo della) forza. Un Principe (tutto golpe e niente) lione. Un soggetto ancora non apparso nella storia, e che, essendo contrario ad una concezione realistica dell’uomo, non sembra possibile vi apparirà mai. Anche perché se il Tribunale si avvale della forza degli Stati, è questa, e non la sentenza, a determinare il reale rapporto tra giustizia internazionale e Stato (o Stati) esecutori: essendo l’esecuzione delle sentenze il fatto decisivo, sarà la capacità o la volontà di farlo a determinare la possibilità di ciò che realmente conta; che la decisione sia osservata e passi dall’immaginario normativo all’ordine concreto, conformandolo.

  1. Peraltro il razionalismo che è a base della dottrina dello Stato moderno, aveva costruito come “manuale d’uso” del medesimo, la Ragione di Stato. La “ragione di Stato” si basava – ed era una delle conseguenze – sia sulla secolarizzazione, configurantesi (anche) come separazione/limitazione tra potere temporale e potere spirituale; sia sull’autonomia del politico, sulla di esso estraneità-indifferenza rispetto ad altri ambiti dell’esperienza umana.

Da quest’ultimo era determinato anche il fine specifico della politica: la protezione, la sicurezza e il benessere della comunità di riferimento, con l’esclusione – o il passaggio in secondo piano – di obiettivi a carattere religioso o morale. Se un Papa nel Medioevo poteva proclamare una crociata, altrettanto non poteva fare un Monarca assoluto dell’età moderna, la cui funzione specifica è quella sopra ricordata, e non di promuovere la diffusione di una fede o una morale. Diverso, ma solo in parte, per il  diritto (o diritti): in tal caso la protezione di quelli, se corrispondenti ad un interesse dello Stato è compito del medesimo. Tuttavia secondo la dottrina dello jus publicum europaeum per diritto in tali casi s’intende il diritto spettante allo Stato ed ai di esso sudditi; è invece escluso[7] che sia justa causa belli proteggere i diritti non appartenenti al proprio Stato né ai propri sudditi. Cosa che nelle “guerre per la democrazia” è sacrificata ad un prepotente altruismo, e il cui effetto probabile (e visibile) è di moltiplicare (le justae causae) dei conflitti.

Proprio quello che la razionalità di quei giuristi-teologi (v. sopra nota 7) della controriforma cercava di evitare.

In tal senso questa concezione era conforme alla teoria della Ragione di Stato: la quale non è una concezione giuridica (pur avendo grandi riflessi giuridici) nel senso che non si basa sul concetto di diritto, ma piuttosto su quello d’interesse: è compito dello Stato tutelare l’interesse (pubblico-generale) della comunità politica (salus rei publicae suprema lex). Ciò che è conforme a quello è lecito e va fatto. Invece nel caso delle “guerre democratiche” la suprema lex dell’interesse dello Stato finisce, proprio nelle situazioni d’eccezione, in sottordine; e in primo piano è collocata invece una giustizia astratta, promuovente diritti di cui non si sa bene se e quanto i “protetti” aspirino a fruire (e quanto vogliano sacrificare per quelli). Lo scopo della politica e dello Stato non è più primariamente quello del bene comune dello Stato e della comunità, ma l’affermazione-protezione di diritti (astratti) o di un regime politico.

Vero è che interesse dello Stato e difesa delle democrazie liberali possono coincidere, come nell’aiuto prestato da Roosevelt alla Gran Bretagna durante il secondo conflitto mondiale, già prima dell’entrata in guerra degli USA[8]; ma il fatto che il motivo ideologico sia esternato e quello di potere occultato, conferma, e costituisce un’applicazione sui generis, della teoria paretiana dei residui e delle derivazioni, come dell’oblio della lezione di Tucidide[9] che la prima determinante dell’azione politica è (la difesa, la conservazione, l’accrescimento del ) potere.

La prova si è avuta, ripetutamente, durante la guerra fredda: in cui molto spesso gli USA hanno lasciato in pace e financo sostenuto e avuto per alleati dei regimi politici che in fatto di democrazia avevano delle credenziali non migliori di quelle dei regimi sovietici, cioè dei nemici reali.

Scelta politicamente corretta quanto ideologicamente contraddittoria.

  1. In realtà proprio gli esempi sopra addotti dimostrano l’essenzialità della corretta percezione del nemico. Se il nemico è percepito tale perché ha un ordinamento diverso, con un diverso regime politico o altri  valori                di riferimento,   dato che la politica ( e l’ordine internazionale ) é un pluriverso  di differenti comunità umane, ogni popolo, cui di per sé è riconosciuto il diritto di darsi l’ordinamento che preferisce, diventa, in forza solo dell’entità delle differenze, un nemico. Diventa tale perché il suo modo d’esistenza politica e sociale non è omogeneo a quello della potenza (o potenze) “dominanti”. E’ nemico non per le azioni fatte (al limite che possa compiere) ma solo perché esiste in un certo modo: In questo caso le “guerre per la democrazia” facilmente diventano il mezzo per promuovere l’omogenizzazione politica, che a sua volta può portare  non tanto                           alla globalizzazione  (politica) ma alla costruzione di una nuova entità  politica,  imperiale  e non statale, con regole, forme, tipi di comportamento che  ancora non conosciamo, ma di cui qualcosa s’intravede. S’intravede in particolare la perdita (parziale) dell’impenetrabilità dello Stato, per cui i  confini di questo segnavano il limite tra interno ed esterno, tra ordinamento interno ed internazionale.

D’altra parte un simile criterio nella scelta del nemico porta a contraddire la prima regola dell’agire politico che è quella di ridurre il numero dei nemici possibili. Espressa nella storia in tanti modi, sia come regola per la politica interna che per quella internazionale: dalla prassi politica del Senato romano, la cui massima costante era dividere i popoli[10] potenzialmente nemici (divide et impera), fino al “mai la guerra su due fronti” precetto della strategia tedesca nel secolo scorso, due volte violato, con i risultati che si conoscono. Se al nemico reale (cioè quello che è tale per azioni e contrasti di potere ed interessi) si aggiunge quello (o quelli) che lo sono per differenze ideali, la regola è sicuramente violata.

  1. Così le “guerre democratiche” appaiono come la negazione di alcune idee proprie dello Stato e della politica moderni, come delineatisi dal Rinascimento in poi, grazie alla forma peculiare dell’unità politica dell’epoca post-Medioevo e cioè lo Stato, ma anticipati e comunque praticati da millenni.

Proprio lo Stato è la prima vittima di un tale mutamento di prospettiva. I suoi caratteri salienti: la distinzione tra interno ed esterno, tra temporale e spirituale, l’impenetrabilità, il monopolio del politico (e della violenza legittima) sono in misura più o meno rilevante, contraddetti dalla diffusione delle “guerre per la democrazia”. Conseguenza delle quali è l’imposizione di un regime politico, con relative istituzioni e valori di riferimento, di una pretesa alla permeabilità delle frontiere, e quindi ad una sovranità limitata nel proprio territorio in cui vengono a concorrere diversi poteri (di comando). Tutte cose incompatibili con lo jus publicum europaeum. Il quale era costituito sul tentativo (riuscito per secoli) di far convivere popoli diversi. A cui è succeduto l’attuale di farlo con popoli (relativamente e artificialmente) omogenei, a prezzo di un aumento del potere “sovranazionale”.

Vero che la democrazia si fonda su un certo tasso di omogeneità nel popolo, ma questo è un presupposto, non una conseguenza della scelta del regime politico[11]; e, comunque, qua si tratta di rapporti esterni tra Stati, non di relazioni interne tra le diverse componenti di una comunità. Questo a meno che il tutto non sia la premessa della costituzione di una nuova forma politica imperiale, in cui i rapporti tra Stati siano sostituiti da quelli interni all’Impero. Nel qual caso la logica interno/esterno (e non solo) avrebbe un diverso senso, tutto da scrivere.

Comunque dato che forme politiche imperiali sono state (per lo più) caratterizzate dalla distribuzione dello jus belli tra diversi soggetti dell’unità politica, è tutto da vedere se un futuro di unione tra (istituzionalmente) omogenei sia più pacifico della convivenza tra diversi, su cui si basava lo jus publicum europaeum.

T.K.

[1] V. Du Pape, II, 1, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 155).

[2] Grundlinien der philosophie des rechts, § 313.

[3] Ésprit des lois, X, 2 trad. it., 1965, pp. 247-248.

[4] I. Kant, Methaphisik der Sitten § 61.

[5] V. sul punto Jeronimo Molina Cano La costituzione come colpo di Stato, in Behemoth n. 38, luglio-dicembre 2005.

[6] La guerra del Peloponneso, II°, 35-47.

[7] P. es. v. Suarez De Charitate- De Bello,  Sectio IV “Unde, quod quidam aiunt, supremos reges habere potestatem ad vindicandas iniurias totius orbis, est omnino falsum, et confundit omnem ordinem, et distinctionem iurisdictionum: talis enim potestas, neque a Deo data est, neque ex ratione colligitur” ; v. anche Bellarmino ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 260.

[8] La nota frase del Presidente che gli USA sarebbero stati l’ “arsenale delle democrazie” non esprimeva il fatto che l’interesse degli USA era aiutare la Gran Bretagna e contenere Germania e Giappone anche se i regimi politici delle tre potenze non fossero stati quelli.

[9] V. la nota ambasceria degli Ateniesi al popolo di Melos.

[10] V. Montesquieu Considérations sur les causes de la grandeur des Romains e de leur décadence, cap. VI.

[11] L’ultimo tentativo di formare un’unità politica tra musulmani e cristiani, turchi e slavi, protestanti e ortodossi fu il Trattato dell’Unione progettato da Gorbaciov e finito come tutti sanno. Sul tema ci permettiamo di rinviare al ns. scritto Dal comunismo al federalismo, in L’Opinione – mese giugno 1991.

IL PIZZO DI STATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL PIZZO DI STATO

Qualche giorno orsono, accendendo la televisione, mi è capitato di sentire un’omelia scandalizzata di un noto giornalista contro la Meloni che avrebbe qualificato “pizzo di Stato” le sanzioni, interessi e così via, applicate in caso di ritardo nel pagamento delle imposte (ovvero il pagarne troppe – non ho avuto occasione di ascoltare il discorso della Presidente).

Subito si è destato il solito coro (per lo più) dei burosauri  di regime i quali, con toni e argomenti            spazianti da quelli dell’agit-prop (post-moderno, cioè dell’epoca della globalizzazione) a quelli di un prefetto o generale ultraottantenne in pensione hanno stigmatizzato la carenza di senso dello Stato e di sensibilità sociale (???) della Meloni.

Vediamo un po’ se tanto sdegno trova fondamento nel pensiero politico e nella dottrina dello Stato moderno, quello che i parrucconi dicono di voler difendere chiamandolo “Stato di diritto” (e distorcendone il concetto).

Pizzo di Stato presuppone che: a) chi te lo chiede sia assimilabile a un criminale o brigante; b) che la richiesta sia ingiusta. A tale riguardo il primo (ma non è statisticamente “il primo”) a chiamarlo è stato Sant’Agostino – il quale si chiede (domanda che è già una risposta) “cosa sono gli Stati senza la giustizia se non grandi associazioni a delinquere?” (magna latrocinia). Qualche decina d’anni dopo un altro scrittore ecclesiastico, Salviano di Marsiglia, attribuiva alle malefatte del governo imperiale e all’avidità della burocrazia e del fisco decadenza e (prossima) caduta dell’Impero romano d’occidente (scusate se è poco…)[1].

Nel secolo successivo lo (pseudo) Procopio di Cesarea con la “Historia arcana” offre un quadro dettagliato delle ruberie e malefatte del governo di Giustiniano (dall’imperatore in giù). Non parliamo dei secoli successivi per non annoiare il lettore: facciamo presente che per l’alto medioevo la difficile reperibilità dei contributi sul “pizzo” è dovuta più che alla condivisione della concezione contraria (quella dei parrucconi) alla decadenza letteraria dell’occidente latino (anche se quanto a governanti delinquenti gli esempi non mancano). Arrivando all’età moderna e alle rivoluzioni borghesi il “pizzo di Stato” è il leitmotiv dei grandi rivolgimenti politici: ship money, no taxation without representation, deficit, sono le sintesi delle rivoluzioni.

Come i rivoluzionari consideravano la burocrazia, tra i tanti ricordiamo Saint-Just il quale nel rapporto presentato alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica il 19 vendemmiaio dell’anno II scrive: «Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; … e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano». Tutt’altro che dato per scontato, il fatto che l’amministrazione agisca realmente per l’interesse generale è problematico; e conseguentemente le somme prelevate possono (almeno) diventare retribuzione per parassiti di Stato (pubblici e privati). La scienza della finanza italiana, a partire da Maffeo Pantaleoni per arrivare a Cesare Cosciani, distingueva diversi assetti della finanza pubblica (tra governanti e governati) come mutualistico, parassitario e predatorio a seconda della quantità, utilizzazione (e risultati) del prelievo fiscale.

Non mi risulta che quando Giustino Fortunato scriveva che la legge fondamentale del funzionamento della burocrazia italiana era l’inverso di quella di Carnot; ovvero che tutta l’energia prelevata doveva essere consumata per il sostegno e il frazionamento della macchina amministrativa (cioè in stipendi, gettoni, contributi, pensioni, missioni ecc. ecc.) e il minimo reso in servizi al contribuente, fosse mai stata oggetto di tanto sdegno, Né lo sia stato don Sturzo, il quale giudicava così la “costituzione più bella del mondo” «Purtroppo di statalismo, l’attuale schema di costituzione puzza cento miglia lontano» e molte norme «invocano l’intervento dello Stato ad ogni piè sospinto, e risolvono tutti i più assillanti problemi con il rinvio all’autorità, all’ingerenza e alle casse dello Stato». A fronte di Fortunato, Sturzo e di tutti gli altri che condividevano il loro giudizio realistico, la Meloni, con il suo “pizzo” e la volontà di riscrivere la Costituzione, appare una moderata.

E lo stesso risulta a considerare quanto scrivevano i teorici dello Stato di diritto moderno.

A citare per tutti questo se pensavano gli autori del Federalista: ossia che se gli uomini fossero degli angeli, di governi non ce ne sarebbe la necessità; e se fossero angeli i governanti, neanche servirebbero i controlli sui governi.

Ma dato che di angeli in giro non se ne vedono, sono necessari sia i governi che i controlli sugli stessi. Invece per i parrucconi tecno-burocrati, chi insinua che imposte ed accessori siano la mangiatoia di interessi e clientele tutt’altro che sollecite del bene comune (ossia che il governante non è, come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni rispetto) bestemmia e merita l’anatema da cotanti sant’uomini.

Come scriveva Gogol nell’ “Ispettore generale” il giudizio dei parrucconi su chi la pensa come (anche) la Meloni è quanto uno dei personaggi dice parlando dell’autore della commedia «Ma che razza di uomo è? un… un..,. un… non c’è nulla di sacro, per lui! Oggi sparla d’un consigliere, mettiamo, e domani verrà fuori a dire che Dio non esiste. Il passo  è breve».

Giudizio che avrebbe condiviso, tra i letterati, il nostro Giusti col suo Gingillino ed il suo credo nella Zecca onnipotente.

Sacralizzare il prelievo fiscale e l’uso che se ne fa, è materia per facile ironia. Ben vengano una, cento, mille Meloni a demistificarlo, laicizzarlo e (speriamo) a ridurlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Giova riportare qualche breve passo di Salviano: «Ci sono forse non dico città, ma anche municipi o villaggi, dove tutti quanti i decurioni non siano altrettanto tiranni?… Nessuno, pertanto, è al sicuro… si salva dalla razzia di quei ladri che ti spolpano, a meno che uno sia un pirata loro pari. Si è arrivati a questa situazione, o meglio a questo livello di criminalità, che uno non ce la fa a cavarsela se non è un brigante pure lui». I governanti « con la scusa dell’esazione delle imposte, hanno dirottato queste imposte a profitto personale e hanno fatto delle tasse straordinarie un bottino privato… li hanno spolpati; si sono pasciuti non solo dei loro beni come normalmente fanno i ladri, ma anche del loro sangue dopo averli ammazzati».

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Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Editori Laterza_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Editori Laterza Bari 2012, pp. 295, € 25,00.

L’espressione “teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il cielo si è eclissato ed ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica sembra un’attività di archeologia culturale.

L’autore ritiene invece che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente. L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e giuridica “Ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste alla  riproposizione in forme rovesciate, spesso ostili al primato del “politico”, dei problemi di legittimazione e delle esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e del suo lascito paradossale”. Per teologia economica (il termine è anch’esso polisenso) Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula “teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la sovranità degli Stati, ma, non è riuscita ad eliminare quello che Miglio chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Freund “i presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono stati pensionati dalla “fine della storia”. L’inconveniente fondamentale del neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza… non solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale ingovernabilità si finisce per revocare… tutti gli elementi costitutivi del “politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’occidente globalista viviamo per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’anti politica, ne prova l’insostituibilità.

La stessa “teologia economica” neoliberale “è una teologia politica “anti-politica” perché fa dell’immanenza un assoluto, Cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria “economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”. Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “”Ne deriva che o c’è dio o c’è il popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Il popolo prende il posto di dio come soggetto costituente. Il populismo, evocando il popolo, si ricollegata a questo passaggio decisivo della tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna, emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé “trascendente””.

Preterossi conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga, non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante “Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La “teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna… L’unico modo per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di “auto-trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento sia di natura religiosa “Può essere anche di natura etico-politica, ideale (nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il “contenuto etico” non può risolversi in compensazione soggettivistica, moralistica del vuoto d’identità collettiva”. Così “La teologia politica si ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza”.

Resta il dubbio se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia politica, che l’autore ritiene auspicabili “di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le “cose ultime”, abbiamo bisogno.. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”

Un saggio assai interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Hobbes, Hegel e Schmitt.

Una notazione del recensore ad un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere l’essenziale.

È noto che a partire da de Bonald, continuando per Donoso Cortes e arrivando a Maurice Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo statali) è stato variamente affermato. Così per de Bonald il deismo era la concezione teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna ma non governa), il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortes il nocciolo del liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou lo stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse un  intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il diritto viene a mancare, come nel caso dei governi di fatto, fondati sulla “giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico” (versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né visibile né responsabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

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SEMPRE PIÚ FITTA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SEMPRE PIÚ FITTA

Qualche lettore ricorderà che nei primi tempi della guerra in Ucraina notavo che la clausewitziana “nebbia della guerra” era particolarmente densa e fuorviante perché alimentata a piene mani da una comunicazione tutt’altro che imparziale, informata ed esperta: con risultati spesso sconcertanti, a cominciare dal piano logico.

In occasione della controffensiva ucraina si è raggiunto un apice della (cattiva) informazione. Vediamo perché:

  1. a) in primo luogo della controffensiva sappiamo tutto leggendo il giornale o guardando la televisione: luogo (Dombass); entità delle forze ucraine (8 brigate in addestramento); tempo (imminente – ma rimandato già più volte nella sua imminenza perdurante); esiti politici (la caduta di Putin) e così via, vagamente precisando.

Ora la nebbia clausewitziana è frutto sia della natura della guerra che delle misure dei comandanti, tutte volte a non far capire al nemico i propri piani e obiettivi. Perché, a conoscerli, è facile prendere le contromisure. Non occorre aver fatto la scuola di guerra: basta ricordare l’Aida, quando Amonasro cerca di carpire, tramite la figlia, i piani di Radames. Nella storia militare vi sono poi dei casi clamorosi di “depistaggio” fornendo false (ma credibili) informazioni. Uno dei quali – così noto che ci è stato realizzato un film – consistente nel confondere  i tedeschi sul luogo dove sarebbe avvenuto lo sbarco degli alleati nel 1944. I servizi inglesi lo prepararono così accuratamente da trarre in inganno – anche a sbarco avvenuto in Normandia – Hitler, convinto che ce ne sarebbe stato un secondo a Calais.

La conseguenza logica non è solo che se uno dei contendenti ti dice che attaccherà a Charkiv invece che a Kiev, sicuramente non attaccherà Charkiv, probabilmente neppure Kiev, ma da un’altra parte, dove meno è atteso; ma anche che le informazioni più credibili sono quelle che non sono diffuse. I (falsi) piani dello sbarco in Francia furono messi dagli 007 inglesi sul cadavere di un ufficiale britannico fatto ritrovare agli spagnoli (e quindi dai tedeschi), e non pubblicati sul Times; se li avesse letti sul giornale, Hitler avrebbe creduto ad un espediente dell’Intelligence Service.

C’è da chiedersi per quale ragione la comunicazione mainstream è così lontana da una rappresentazione credibile (e coerente) della situazione. Perché se le notizie fuorvianti sono fornite – come in gran parte sono – dagli uffici dei belligeranti (e dei loro alleati) sarebbe il caso di citarne la fonte (almeno) e, in certi casi di scrivere due righe di commento. Cosa che qualche rara volta avviene, ma quasi sempre no. Escluso che tali mezzi possano trarre in inganno il nemico, per la loro disarmante ingenuità, occorre individuare altri obiettivi. Un analista attento come Pietro Baroni definisce la “guerra psicologica” come “L’insieme delle operazioni, delle azioni, delle iniziative tendenti a conseguire l’obiettivo di assumere e mantenere il controllo di grandi strati di masse e di pilotarne le opinioni, i giudizi e le conseguenti manifestazioni, agendo sulla ricettività istintiva, sull’emotività e sul processo formativo delle valutazioni”. Nel caso gli obiettivi non sono Putin o Zelensky, ma l’opinione pubblica, occidentale soprattutto. Dalla quale occorre far approvare le misure a favore dell’Ucraina, in modo da attenuare l’onere dei sacrifici e dei rischi che comportano. A tal fine è necessario rappresentare la situazione bellica in modo conforme agli scopi da raggiungere.

E il divario tra ciò che è e ciò che si rappresenta è l’inganno e la simulazione occorrente.

Teodoro Klitsche de la Grange

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BREVE DIALOGO SULL’ESISTENZA DEL NEMICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

BREVE DIALOGO SULL’ESISTENZA DEL NEMICO (*)

 

Nei giorni 25 e 26 novembre 2004 la rivista “Catholica” organizzava alla Sorbona a Parigi un convegno su alcuni aspetti e problemi della modernità.

Riportiamo qui la relazione sull’esistenza del nemico di Teodoro Klitsche de la Grange e i due interventi sulla stessa di Bernard Dumont e Gilles Dumont, la cui pubblicazione (Behemoth n. 37) era gentilmente autorizzata da “Catholica”.

 

Teodoro Klitsche de la Grange: Credo che la convinzione dell’inesistenza del nemico sia assurda, perché il nemico non ha bisogno di permessi, licenze o legittimazioni di chicchessia per esistere. Gli basta, per poter essere tale, la libertà che Dio gli ha dato come uomo, e potrà di conseguenza decidersi per la guerra o la pace, l’amicizia o l’inimicizia, il bene o il male. Credere quindi che il nemico non possa (o non debba) esistere è un falso problema, perché ontologicamente impossibile. Il nemico esiste e questo è questione d’esistenza, di Dasein che consegue al fatto di essere uomo. Non aveva torto Proudhon, quando a tale proposito, riteneva la guerra connotato peculiare del genere umano, ed approvava de Maistre, che la giudicava divina perché legge del mondo. Si può certo scegliere di non essere nemici, di non voler muovere guerra, ma vi sono sempre guerre e violenza; per cui è questo fatto e la conseguente facoltà di scegliere tra guerra e pace (possibili) che ha implicazioni morali.

La teologia cattolica (e cristiana in generale) ha da secoli posto quattro condizioni perché una guerra sia giusta. Se un sovrano cristiano voleva intraprendere una guerra giusta, poteva, di fatto, farla, ma se ne assumeva la responsabilità di fronte all’Onnipotente; all’inverso doveva prepararsi ad affrontare i possibili nemici. Ricordo la definizione che da l’abate Sieyès della Nazione: che è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere. La si può adattare anche per il concetto di nemico: il quale è tutto ciò che può divenire per il solo fatto di esistere. Lo stesso pacifismo è più razionale della negazione (dell’esistenza) del nemico. Perché, per far guerra, occorre essere in due. Per aggredire, basta deciderlo da soli: mentre perché vi sia guerra, ripeto, occorre essere due. Alla decisione di qualcuno di attaccare, deve contrapporsi quella dell’aggredito per la difesa. E anche questa è una scelta, tra il difendersi e l’arrendersi: se non ci si difende si fa come i cecoslovacchi o i lituani nel 1939. Di conseguenza il pacifismo, quand’è coerente, mantiene una certa ragionevolezza: si può preferire la servitù alla libertà (meglio rossi che morti), ed è comunque una decisione certamente possibile. Ma la negazione del nemico non ha nulla di ragionevole, perché impossibile.

Pertanto dalla negazione del nemico (e del conflitto) deriva uno strano effetto. Più la si fa, più nemici (e conflitti) crescono (di numero e soprattutto) d’intensità. Aron rileva che nel corso del XX secolo, più si è stati pacifisti convinti (o presunti) più si sono fatte guerre, perché le stesse idee-cardine del pacifismo possono convertirsi in giustificazioni (pretesti) della guerra. Si fa la guerra per non fare più guerre e quella che si combatte allo scopo è l’ultima: ma proprio perché è l’ultima, il nemico diviene assoluto, e soprattutto si possono pagare scotti pesantissimi per combatterlo e vincerlo. Dopo di che si sarebbe avuto il regno della pace, la fine della storia, (il paese dei balocchi), e così via. Invece si è avuto (solo e tutt’al più) un nemico nuovo, al posto di quello vecchio.

Credo che il nemico (in politica)  è, (quasi) sempre, il nemico relativo, non assoluto. Se si va a leggere il discorso dell’Imperatore Claudio, negli Annales di Tacito, questo è assai chiaro: Claudio sostiene l’ammissione in Senato delle grandi famiglie galliche, per integrarle meglio nell’Impero. I Romani erano dubbiosi, ma l’imperatore riteneva di doverle ammettere anche se avevano combattuto contro Giulio Cesare: ed affermava che è un’attitudine specificamente romana considerare il nemico come non assoluto, ma relativo. Romolo, ricorda, nello stesso giorno aveva mosso guerra e concluso un foedus, un accordo, con dodici popoli nemici.

In questo consisteva la differenza essenziale tra Greci e Romani, tale che questi hanno costruito un grande impero, e quelli no. Mentre i Greci consideravano i nemici (irrimediabilmente) diversi da se, i Romani li reputavano uomini come loro. Tale situazione (e il problema relativo) si è ripetuto spesso nella Storia. In effetti, dietro l’orazione di Claudio, questo discorso sull’integrazione, c’è sempre la questione del nemico, se assoluto o relativo; e nel diritto internazionale classico dal XVII al XIX secolo, il nemico è sempre relativo. Non c’è nemico assoluto nello jus publicum aeuropeum, tra le Nazioni cristiane d’Europa.

Ma, nel tempo ne cambiava il senso e con una distinzione importante: all’uopo ne ricordiamo due chiare formulazioni l’una del XVIII e l’altra del XX secolo. Vattel, a metà del XVIII secolo, ai tempi della “guerra in merletti”, scriveva: “l’ennemi est celui avec qui on est en guerre ouvert. Les Latins avaient un terme particulier (hostis) pour désigner un ennemi public, et ils le distinguaient d’un ennemi particulier (inimicus). Notre langue n’a qu’un même terme pour ces deux ordres de personnes, qui cependant doivent être soigneusement distingués. L’ennemi particulier est une personne qui cherche notre mal, qui y prend plaisir ; l’ennemi public forme des prétentions contre nous, ou se refuse aux nôtres et soutient ses droits, vrais ou prétendus, par la force des armes. Le premier n’est jamais innocent : il nourrit dans son coeur l’animosité et la haine. Il est possible que l’ennemi public ne soit point animé des ces odieux sentiments, qu’il ne désire point notre mal, et qu’il cherche seulement à soutenir ses droits”.

In effetti, il nemico pubblico  è un nemico che rivendica di esserlo, perché, in generale, vanta una pretesa (e uno status) giuridico.

Teologi-giuristi della Tarda Scolastica come Vitoria e Suarez, l’hanno sottolineato; mentre nell’altro caso il  nemico è ingiusto in se, (anche) perché agisce (solo) per odio.

Qui, a Parigi, nel 1965 fu rappresentato un dramma assai interessante di Montherlant, La guerre civile. Nel prologo la Guerra Civile prende la parola: “Ne ho piene le tasche di questi salami che si guardano in faccia su due fronti, come se facessero le loro stupide guerre nazionali. Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico.

Io sono la Guerra Civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”[1].

In effetti la vera guerra, nel XX secolo, era diventata quella civile.

Per Vattel (come per Rousseau) la guerra (vera e legittima) era solo quella condotta da soggetti pubblici e la guerra civile era ingiusta in se perché non è tra due Stati. Secondo Montherlant, è la guerra civile la “vera” guerra: affermazione assai simile a quella di Schmitt o Lenin nelle loro teorie della guerra (civile e ) partigiana. Secondo Lenin vera guerra non era quella regolare, in uniforme, ma la weltbürgerkrieg, destinata ad essere la levatrice della società perfetta – la frase di Saint-Simon, di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose, era stata ripresa da Engels per la società senza classi. Per la quale valeva la pena far una guerra assoluta. L’odio, ciò che Clausewitz chiamava il sentimento ostile, l’ “istinto cieco”; diventa così prevalente sugli aspetti razionali della guerra (il “triedo”).

Concludo il mio intervento sulla distinzione amico-nemico. Sulla quale, ora, c’è una gran confusione, così come tra pubblico e privato. Ad analizzare la frase di Saint-Simon, questa porta a una sorta di privatizzazione del pubblico. Del pari nella distinzione amico-nemico, non si comprende più chi è l’amico ed il nemico. Nel periodo dello Stato classico europeo, l’amico era il concittadino, vi erano limiti di spazio, di costume, di nazionalità, e si sapeva bene chi era il nemico: quello designato tale dall’autorità legittima. Ma da quando si sono diffuse (e sono assai più numerose di quelle tra Stati) le guerre civili, non fondate sull’appartenenza a uno Stato, non si capisce più se il nemico possa essere il proprio vicino di casa, il collega d’ufficio o qualcun altro.

Penso che il deperimento del politico nello Stato s’estende alla distinzione tra privato e pubblico. Ed anche a quella di comando-obbedienza, perché spesso si perde il coraggio del comando. E si crede che non c’è bisogno d’obbedienza: cosa impossibile, perché c’è sempre la necessità del comando.

Gilles Dumont: Non so se la questione non si identifichi, semplicemente, con quella del liberalismo, sia in relazione alla teoria di Montesquieu sulla distinzione dei poteri, sia, parimenti, al pensiero di Machiavelli.

Se si rifiuta di nominare il nemico, è perché lo stesso ordine politico liberale, nel senso della filosofia politica liberale, è fondato sulla necessità dell’integrazione del nemico nell’ordine politico. Tutta la teoria di Montesquieu si basa non sul potere esercitato contro una qualsiasi minaccia esterna, ma contro il potere considerato come una minaccia all’interno stesso dell’ordine politico: è perciò che rivolge le diverse istituzioni politiche le une contro le altre.

La questione è, mi sembra, di sapere ove si colloca la frontiera tra il nemico ed il politico. Perché dire che la negazione del nemico è una forma di spoliticizzazione, è vero ma non è forse connaturale alla politica liberale?

Da Machiavelli, in fondo, a partire dal momento in cui si afferma che non si deve più distinguere tra bene e male nell’ordine politico, che il male è più significativo del bene, e che è necessario quindi servirsi di mezzi illeciti per conseguire finalità politiche, si istituzionalizza il nemico allo stesso interno dell’organizzazione politica.

Quando Remirro de Orco viene fatto a pezzi, come ricorda Machiavelli, nel Principe, dopo che Cesare Borgia gli aveva affidato il compito, a causa della sua reputazione di crudeltà, di reprimere le sedizioni  in Romagna, è proprio perché era un nemico utile, quindi necessario all’interno, per l’ordine pubblico.

Se ne è, in qualche misura, modificato il confine tra amico e nemico all’interno della politica, per cui il nemico non è più colui che è esterno all’ordine politico; in questo caso il nemico essendo nella comunità. È in effetti uno sconfinamento tra guerra politica e guerra civile. Ma la guerra civile è una forma di guerra politica, o più esattamente è la conseguenza di una scelta voluta, che è del pari tale in partenza, trasferire la guerra all’interno dello Stato. Perché lo scopo – e bisogna riallacciarsi alla teoria liberale, molto chiaramente espressa in Montesquieu – è limitare il potere, non potendolo sopprimere completamente. Se c’è la guerra permanente all’interno del potere, ci sarà meno potere, e maggiore tranquillità per godere la nostra libertà, soprattutto se il popolo non vi partecipa.

La figura del nemico esiste sempre, anche quella del nemico pubblico, ma si colloca in seno all’ordine politico. Questo pone il problema dell’obbedienza e dell’autorità, perché, in fondo, è una negazione dell’ordine politico stesso, e non si può più avere autorità ed obbedienza, dal momento in cui non si sa più a quale capo, in seno all’ordine, o meglio al disordine politico, si dovrebbe obbedire. È l’instaurazione della guerra civile che consegue dalla spoliticizzazione. La negazione del nemico esterno non è una soppressione, anzi è una affermazione della guerra interna: si sopprime il nemico esterno per valorizzare meglio la guerra civile. Il che mi fa dire che questa è, come direbbe Eric Werner, intrinseca alla democrazia, il sistema politico liberale essendo fondamentalmente un sistema di guerra civile organizzata, che non può funzionare senza nemico interno, ed è interamente costruito su questa ipotesi di partenza.

Bernard Dumont. Teodoro Klitsche de la Grange ha mostrato l’importanza del fatto che non solo l’amico e il nemico si sono modificati nel loro rapporto, ma anche un certo numero di altri concetti, a partire da una chiave, da una parola chiave, che è quella di confusione. E penso che a questa parola chiave bisogna aggiungerne un’altra, l’astrazione. E questa aggrava l’altra: si fa astrazione della realtà per invertire concetti che non vi si trovano o per sopprimere ciò che è, cosa che confonde completamente le carte. Così, si astrae dall’esistenza del nemico, che è un’assurdità ontologica, perché questi è qui accanto, ciò che prova in fatto la possibilità che ci sia un nemico. È inverosimile che nel cattolicesimo contemporaneo, o nel cristianesimo contemporaneo, si possa mettere tra parentesi questa possibilità e dimenticare che in materia d’inimicizia, c’è prima di tutto colui che è chiamato appunto il Nemico, il Diavolo, nemico del genere umano. Questo Nemico esiste, e negarne l’esistenza è pura follia, perché non si misconosce solo una realtà estremamente pericolosa, ma per lo stesso fatto si è indotti a negare o svuotare di senso il peccato originale, la Redenzione, e, alla fine, tutto quanto il cristianesimo. Quindi è un’assurdità ontologica, teologica e storica (nel senso della storia della salvezza). Ne consegue che la negazione del nemico è una astrazione, ma un’astrazione profondamente peccaminosa, una follia, un’ingiustizia, una bestemmia. È gravissimo, e questo è il frutto dell’opera del Nemico, il cui proprium è seminare confusione, in particolare delle nozioni di bene e di male, di provocare un bailamme generale. Siamo in presenza di un disordine concettuale che si manifesta nel fatto che l’inimicizia negata è diffusamente concreta e presente, e questa presenza si traduce in guerra civile con differenti gradi di violenza, dall’incitamento al crimine all’intimidazione, al linciaggio mediatico, all’ostracismo, ecc. Perché, in realtà, la guerra civile permanente è una guerra condotta fin dall’interno delle persone, al punto che oggi, quando il ruolo dello psicologico è assai consistente, si manifesta in una pressione che colpevolizza nel profondo, che coltiva il risentimento e ogni tipo di cattiva disposizione diametralmente opposta alla philia, questa benevolenza reciproca che è il cemento di ogni società. Non soltanto c’è il nemico tutt’intorno a noi, il vicino sospetto, ma c’è anche il sospetto in se stessi nella misura in cui si coltiva questa colpevolizzazione interna e permanente.

Dietro la negazione astratta della possibilità del nemico si creano tutta una serie di inimicizie, ben camuffate quanto reali e durature.

[1] Trad. it. di Piero Buscaroli, Torino 1976.

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ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

Questo saggio sull’istituzione nel pensiero di due pensatori del XX
secolo come Hauriou e Miglio è stato pubblicato sul “Behemoth” n. 51,
nel 2012.

Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO

  1. Nelle “Lezioni di politica – Scienza della politica” Gianfranco Miglio dedica un capitolo dell’opera alla “teoria delle istituzioni” facendo considerazioni acute ma in qualche misura non del tutto conseguenti sia all’opinione dei giuristi cui riconosce di aver elaborato la teoria delle istituzioni (Maurice Hauriou e Santi Romano) sia (in qualche misura) con i presupposti, altrove svolti, delle proprie concezioni.

Sostiene Miglio che la teoria istituzionalista di Hauriou “è l’estremo prodotto di una capacità di elaborazione concettuale che si è avuta, in particolare fra i giuristi di scuola tedesca, durante la seconda metà del XIX e i primi decenni del XX secolo”; e spiega come nasce questa teoria”Abbiamo visto come l’uomo sia interessato a conoscere le regolarità del mondo che lo circonda e del comportamento dei suoi simili, perché operando in questo modo sa anche come regolarsi. Ma proprio per questo, l’uomo tende a costruire queste regolarità: in altri termini, tende ad organizzare il suo avvenire, proprio regolando il suo comportamento e tentando di regolare il comportamento degli altri. Qui abbiamo a che fare con regolarità non meramente ontologiche… siamo in presenza di norme e di regole teleologiche… Hauriou dice: «Ciò che fa un’istituzione è un complesso di norme legate, tenute insieme da un fine». In realtà cerchiamo di organizzare teleologicamente il mondo che ci sta intorno, in relazione ai fini”, pertanto “le istituzioni si presentano come giuochi preordinati” e così “l’istituzione è la manifestazione più concreta della vocazione che ha l’animale uomo a organizzare il futuro”; è lo sviluppo della tendenza peculiare della natura umana “l’istituzione è la manifestazione più tipica dell’uomo. Il passaggio da una regolarità ontologica a una teleologica, cioè preordinata e voluta, non è nient’altro che l’estendersi di questa capacità di organizzare ‘previsionalmente’ il futuro”[1]. Subito dopo Miglio distingue tra istituti-norma e istituti-organo.

Distinzione non nuova; per Miglio “generalmente ogni ‘istituto-organo’ nasce da un ‘istituto-norma’”: all’obiezione per cui esistono istituti-organo che nascono “di fatto”, replica che l’istituto-organo può non essere generato da una norma formale e prosegue “Nessuna legge, nessun regolamento l’ha posto in essere. Ma è proprio vero che non esiste un meccanismo normativo, un complesso di norme a monte di questo processo?… se più persone si ritrovano abitualmente – ad esempio convengono di ritrovarsi ogni settimana, ogni mese – e compiono determinati atti, determinate azioni, secondo precisi rituali, ciò accade perché coloro che così si comportano hanno come convinzione questa regolarità” e conclude “In altri termini, ciò che caratterizza la regolarità indispensabile per poter parlare dell’‘istituto-organo’, è l’esistenza di un certo modello di comportamento, che non è consolidato in nessuna norma formale, ma attiene all’ordine della consuetudine, che è anch’essa un ‘istituto-norma’… La verità è che l’unica entità originaria, che sta a monte, è l’‘istituto-norma’. L’‘istituto-organo’ è una sottospecie dell’‘istituto-norma’. Non può esistere un ‘istituto-organo’ se non c’è a monte un ‘istituto-norma’, un modello dal quale dipende, una consuetudine”. Per cui “Quelli che chiamiamo ‘istituti-organo’ e che crediamo siano cose concrete, legate a fattori materiali, in realtà non sono altro, in quanto istituzioni, che procedure convenute”. Anzi tutto il diritto consiste di procedure: per cui “Allora ecco il sospetto: che tutto il diritto si riduca a procedura convenuta; che le istituzioni siano proprio procedure convenute, comportamenti prefissati e siano tutte soltanto diritto”.

Miglio, quindi, contesta che “Legioni di storici e di giuristi hanno affermato senza dubbi: «Attiene all’ordine del “diritto pubblico” , che è “politico”». Allora come mai all’interno dello Stato si è prodotto il “politico” che è entrato in conflitto distruttivo con lo Stato?”[2]. Politica e diritto pubblico non coincidono: da una parte perché “la politica oggi si svolge  in gran parte contro lo Stato e comunque al di fuori dello Stato, i partiti, le corporazioni e via dicendo. E’ perché l’apparato che definiamo “Stato moderno” è in gran parte “diritto” e quindi struttura del “privato”. Originariamente lo Stato moderno è nato come un’aggregazione politica e come sintesi politica, ma tutto quello che ha fatto il suo “gran corpo” è nell’ordine del privato, perché è nell’ordine del diritto e là dove c’è diritto è inutile parlare di diritto pubblico”, dall’altra “Il “pubblico” o è politico o non è niente, perché se è diritto è privato. Esistono numerose prove, specialmente nella storia del diritto amministrativo, dei rami più recenti del diritto e nella storia del diritto pubblico”; e prosegue “Nel sistema politico che caratterizza la nostra età, lo Stato (moderno), ci sono un’origine e un nucleo politico e c’è un nucleo che attiene all’ordine del “privato” e che “politico” non è, perché appunto è diritto e appartiene all’area del contratto”[3].

  1. Secondo i giuristi istituzionalisti e in particolare i due più noti citati da Miglio, cioè Santi Romano e Maurice Hauriou il problema posto da Miglio (o meglio i problemi, tra loro concatenati), riconducibile al rapporto tra politico e diritto nello Stato moderno, non può risolversi separando, anzi negando, il diritto pubblico, né riconducendo agli strumenti prevalentemente impiegati (contratto o “provvedimento”) la linea di confine, né ritenendo che se entra in campo una regolazione giuridica, esce di scena la politica.

E’ d’uopo ricordare quanto scriveva Santi Romano. Questi nell’“Ordinamento giuridico” contesta che il diritto  sia norma (regola) “Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse”[4], e prosegue “In altri termini l’ordinamento giuridico così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere , le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino”.

Nella concezione di Santi Romano l’istituzione è un’organizzazione dei poteri e, in quella statale (e pubblica) – del rapporto di comando-obbedienza e quindi è questa a essere la realtà del diritto quale collegamento di autorità e forza che produce, modifica, applica, garantisce le norme. Più tardi nel “Diritto costituzionale generale” scrive che lo Stato non ha ma è un ordinamento giuridico[5].

Quindi lo Stato è in primo luogo un’organizzazione di poteri (prima che un insieme di norme).

Il rapporto tra potere e regole trova la propria valvola di sicurezza nella necessità che è fonte del diritto, superiore alla legge[6]: la tensione tra “obbligazione politica” e “contratto-scambio”, il dualismo ricorrente nel pensiero di Miglio, è risolto nell’ordinamento , cioè nel diritto (che non s’identifica, è appena il caso di ricordarlo, con la legalità).

Hauriou distingue “due specie di regole d’origine istituzionale, il diritto disciplinare e il diritto statutario che sono, in una certa misura, la controparte e il correttivo l’uno dell’altro”[7], e così contribuiscono all’equilibrio dell’istituzione e delle forze che la sostengono.

Il diritto disciplinare “rappresenta” (représente) l’interesse del gruppo espresso dalla coercizione del potere di dominio”. Il diritto statutario “rappresenta l’interesse del gruppo espresso dall’adesione individuale dei componenti alle procedure collettive della vita dell’istituzione”.

Il diritto disciplinare è repressivo e organico. E’ organico perché la forza di un’istituzione e il suo peso non si esercitano solo sui “trasgressori” ma su tutti, per forzarli ad accettare le organizzazioni create all’interno dell’istituzione”[8]. Il diritto disciplinare non comporta solo regole generali per l’oggetto (regolato) ma anche ad oggetto particolare, tuttavia opponibili a tutti e sanzionabili nei loro confronti.

Caratteristica ancora più importante è la sanzione. La sanzione del diritto disciplinare è la coercitio pura e semplice, ossia l’esecuzione con la forza a disposizione del funzionario (magistrat)[9]. Il diritto disciplinare va distinto dal diritto pubblico dello Stato, la cui caratteristica è di non ammettere sanzione se non statuita da un Giudice pubblico[10]. Il diritto pubblico ha progressivamente ammesso (e annesso) intere aree del diritto disciplinare, e ciò ne rivela l’origine e l’importanza che ha nella storia del diritto “constituant une des couches profondes du tuf juridique”[11]. Il diritto statutario è anch’esso generato dall’istituzione, Comporta delle regole, ma ancora più interessanti sono gli atti e le procedure che implica. Queste procedure sono legate alla vita dell’istituzione, sono i percorsi che segue nel suo movimento uniforme[12]; costituiscono un diritto che differisce da quello disciplinare perché ammette il punto di vista individualista dei componenti il gruppo combinato con le necessità sociali. Tipico è il procedimento (e le regole) maggioritario[13].

Nel “Précis de droit constitutionnel” la distinzione che Hauriou evidenzia è tra diritto disciplinare e diritto comune. Il primo è disciplinare, interno, gerarchico, dove le parti non sono pari, neanche davanti al Giudice. Già esisteva nelle famiglie patriarcali e nei clan: “les grecs appellaient Thémis cette sorte de justice organique”. Ma accanto a questa, si costituiva un altra giustizia che i Greci chiamavano Diké[14].

La sorgente di Thémis era l’organizzazione sociale, quella di Dikè l’attitudine sociale dell’uomo (sociabilité) “qui ne perd pas ses droits même vis-à-vis des étrangers, même vis-à-vis des ennemis”. All’epoca della formazione dei premiers états, confederazioni di clans, fu necessario dirimere dalle liti tra clan diversi (e i loro membri) con Tribunali arbitrali, accanto alla giustizia (interna) ai clan. Così questo diritto nato prima della polis (cité) fu integrato in questa[15]. Ciò che ha impedito al diritto comune (Diké) di confondersi con lo Stato “sont ses tendances internationales”: come il commerce juridique non conosce frontiere e si applica sia ai rapporti con gli stranieri che a quelli tra nazionali. Per cui “Entre un État, qui est forcément national, et un droit commun à tendances internationales, la fusion est impossible”. Diritto comune e Stato sono due sistemi d’idee che possono rendersi utilità reciproche e un mutuo appoggio, ma cui le tendenze divergenti impediscono di confondersi completamente.

Il diritto comune corrisponde a quello che nei “Principes de droit public” Hauriou chiamava le “commerce juridique”. Questo è un insieme di forme giuridiche generate dal “commerce economique” legato ad una forma di società assai diversa dalla forma politica[16]. Forze politiche e forze economiche, lottando tra loro, generano due forme di società e di diritto[17]. Non bisogna comunque esagerare con la contrapposizione di questi due “tipi” di convivenza sociale: in primo luogo perché ambedue compongono la società e sono inseparabili[18]. In se “le phénomène de l’échange et des relations d’affaires n’est pas dans la donnée logique de l’institution politique. Celle-ci repose sur le pouvoir, l’échange repose sur la valeur, deux notions qui sont hétérogènes l’une à l’autre”[19].

Inoltre il commercio ha una “vocazione” internazionale: ha delle sfere territoriali ma queste non si confondono con le frontiere politiche[20].

Il “commerce juridique” sostiene poi Hauriou, con le sue regole peculiari è penetrato nel diritto amministrativo (quindi pubblico) francese[21]. A tale proposito appartiene – scriveva Hauriou – ai giudici amministrativi “ce que l’on appelle un contentieux de la pleine juridiction qui est originairement le contentieux du commerce juridique[22]. Quindi Thémis e Diké hanno dei “punti” d’incontro, distinguibili concettualmente, ma assai meno sotto il profilo organico e oggettivo: l’accumulo di differenti “tipi” di giurisdizione (per i giudici amministrativi italiani quella generale di legittimità, quella esclusiva e quella di merito) ne è un esempio, così come la tutela da parte dello stesso Giudice di situazioni soggettive diverse (diritti e interessi legittimi).

  1. A questo punto è opportuno evidenziare le differenze. Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura[23]. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”[24]. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perchè lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”[25].

Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”. Quindi contrariamente a quello che sosteneva Hauriou del dualismo delle fonti del diritto (e della giustizia), (ossia l’istituzione e “commercio giuridico”), ma che sempre diritto (di tipi e origine diversa) era, il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione ha generato (e/o conservato), seguendo Hauriou, due tipi di diritto; e il fatto che il diritto “pubblico” sia tale deriva non soltanto dall’ovvio argomento che esiste, ma anche da un’analisi concettuale e storica.

La distinzione tra due diritti risale, com’è noto, al diritto romano ed al frammento di Ulpiano che “apre” il Digesto[26]. Il fundamentum distinctionis più rilevante è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione[27] . Anche se si pone il problema della difficoltà del criterio,potendo lo Stato (e gli altri enti pubblici) operare anche come “subietto economico privato”; come, d’altra parte, insegnava la dottrina del Fisco (Fiskuslehre)[28], anche se evolutasi in concezioni più moderne. Per cui “Diritto pubblico è quello che vincola un ente collettivo fornito di potere di signoria nei suoi rapporti con persone ad esso eguali oppure subordinate” e “Un potere di signoria diviene giuridico per il fatto di esser limitato: diritto è forza giuridicamente limitata”. Kelsen rileva, in relazione alla distinzione tra diritto pubblico e privato che “Secondo l’opinione più diffusa, si tratta di una suddivisione dei rapporti giuridici tale che il diritto privato indica un rapporto fra soggetti di ugual ordine e del medesimo valore giuridico, e il diritto pubblico indica un rapporto fra un soggetto sopraordinato e uno sottordinato, un rapporto quindi fra due soggetti dei quali l’uno ha un valore giuridico maggiore dell’altro. … Il maggior valore giuridico che spetta allo stato, e cioè ai suoi organi in rapporto ai sudditi, consiste nel fatto che l’ordinamento giuridico attribuisce alle persone qualificate come organi dello stato, oppure a certuni fra loro, i così detti organi dotati  di potestà d’impero, la capacità di obbligare i sudditi per mezzo di una manifestazione unilaterale di volontà (ordine)”. Ed esemplifica la distinzione facendo gli esempi dell’ordine amministrativo o del negozio giuridico. In quest’ultimo “i soggetti che sono obbligati partecipano alla produzione della norma che obbliga, e in ciò consiste del resto tutta l’essenza della produzione del diritto contrattuale, là, nell’ordine amministrativo di diritto pubblico, il soggetto che deve essere obbligato non ha nessuna parte nella produzione della norma che lo obbliga. Questo è il caso tipico di una produzione autocratica di norme; il contratto di diritto privato rappresenta invece un metodo espressamente democratico di produzione giuridica”. Dopo di che la conclusione è che “… la dottrina pura del diritto, dal suo punto di vista universalistico, sempre rivolto alla totalità dell’ordinamento giuridico, come alla così detta volontà dello stato, scorge anche nel negozio giuridico privato, come nell’ordine amministrativo, un atto dello stato, cioè un fatto produttivo di diritto che deve essere attribuito all’unità dell’ordinamento giuridico. Con ciò la dottrina pura del diritto relativizza il contrasto fra diritto pubblico, e privato che la scienza giuridica tradizionale aveva considerato come assoluto; essa lo trasforma da una distinzione extrasistematica, cioè fra diritto e non diritto, tra diritto e stato, in una distinzione intrasistematica, e con ciò si convalida come scienza appunto perchè supera anche l’ideologia che è unita all’idea di concepire come assoluto questo contrasto”. La distinzione quindi tra diritto pubblico e privato non ha nulla di essenziale e così i corollari e le conseguenze della medesima[29].

Questa, e altri criteri distintivi simili a quello (e/o al frammento di Ulpiano) sono stati ripetuti così sovente che non è il caso di ricordarli[30].

Come sostiene Miglio, anche sulla base (di parte) della dottrina amministrativista italiana del tardo novecento, lo Stato moderno (e soprattutto lo Stato “sociale”) ha acquisito molte più funzioni (e servizi), e li esercita con strumenti e modelli di diritto privato (tipico è il caso degli enti e delle aziende pubbliche economiche), per cui quello che guadagna in estensione lo perde in imperatività; resta il fatto che un nucleo – robusto – delle funzioni dello Stato, minoritarie come costo (e importanza) economica, ma maggioritarie come incidenza e orientamento sulla vita comunitaria, restano gestite con i sistemi “tradizionali”. Il cui connotato comune (relativamente agli atti) è la c.d. “imperatività”, ossia la trasposizione nella terminologia degli amministrativisti del rapporto di comando-obbedienza, uno dei presupposti – come scrive Freund – del politico[31].

Tale rapporto – quasi sempre – si esercita attraverso atti e procedure giuridiche, e il cui connotato è di poter essere controllate (annullate, disapplicate) dal Giudice. Rarissimo – ancorché politicamente decisivo – è il caso di atti sottratti al sindacato giurisdizionale; più frequente invece, quello di atti – e anche di mere azioni (non “formalizzate” in un provvedimento) – che si fondano sul potere di comando e sulla correlativa coercitio[32]. Quanto alla prima classe di atti (i quali) non sono justiciables: e la giurisprudenza francese, con un lavoro più che secolare li ha ricondotti  ad una liste jurisprudentielle, includendovi in particolare quelli relativi ai rapporti internazionali, ai rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. Se poi si prova a raggruppare i caratteri comuni peculiari di tali atti consistono nello scopo per cui sono presi: la difesa della società o del governo dai nemici (esterni ed interni), la sicurezza della comunità, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte con quelli che costituiscono il fine dello Stato quale istituzione. Cioè quello “politico” per eccellenza.

Il problema era posto anche in Italia, dato che l’art. 31 T.U. 26/6/1924 nel Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art.24 del precedente T.U. 2/6/1889) prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo  nell’esercizio del potere politico”[33].

Quindi, se è vero che lo sviluppo dello Stato borghese ha da un lato “separato” la società dallo Stato, garantendo i diritti fondamentali, e dall’altro ha sviluppato tutta una serie di controlli e limiti interni ed esterni all’esercizio dell’attività pubblica – amministrativa (che è quella quantitativamente prevalente) – restano comunque degli atti, pertinenti al politico, non controllati né dal Giudice né da altri; così come azioni (di soggetti pubblici) che non si fondano (e non si estrinsecano con) atti e provvedimenti formali, ma sul potere di coercitio spettante al funzionario.

Proprio questi sono i principali indici che il diritto pubblico  è da una parte il rivestimento in forme giuridiche del “presupposto del politico” (Freund) di comando-obbedienza, dall’altra proprio perciò, questo genera un diritto, che, pur essendo tale, presenta connotati differenti e per certi versi opposti a quello privato. Come scrive Hauriou riguardo alla teologia (e alla metafisica) anche qui il diritto non è che l’involucro di un “fond”, nella specie, politico. Che, a seguire le doyen, comincia molto presto con lo Stato moderno, già sotto Luigi XIV: “i grandi ufficiali della corona sono sostituiti da sotto-segretari di Stato come Colbert e Louvois: la monarchia diviene amministrativa e il suo potere politico si riveste (se double) d’un potere amministrativo”[34].

Resta il fatto che, come notato da Carl Schmitt, lo Stato borghese, malgrado la regolamentazione giuridica, ha comunque i suoi poteri eccezionali, per cui c’è un’espansione della regolamentazione giuridica nelle attività pubbliche, ma mai totale. A conclusioni analoghe era giunto Jellinek, partendo dalla distinzione tra attività statale libera e vincolata[35].

Per cui non è condivisibile la concezione di Miglio dell’opposizione irriducibile tra politica e diritto (se non in senso concettuale “puro”). É invece preferibile l’ipotesi che con l’incontrarsi nel concreto (in particolare dello Stato borghese), esigenze politiche da un lato, dall’altro principi del Rechtstaat, (e precedentemente, la razionalizzazione (anche) giuridica perseguita dalla monarchia assoluta), hanno generato un tipo di diritto a se:  il diritto pubblico dello Stato moderno. Categoria che non può essere ricondotta né al diritto privato, per le differenze essenziali, come, prima tra tutte, l’eguaglianza tra le parti del rapporto; né alla politica, per la proceduralizzazione, e la sottoposizione ai controlli, soprattutto a quello giudiziario, della quasi totalità dell’attività pubblica per così dire “quotidiana”.

D’altra parte la distinzione che fa Hauriou tra diritto disciplinare e diritto comune, ricorda da vicino quella di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo.

Secondo Weber gli ordinamenti statuiti possono sorgere: “a) mediante una libera stipulazione; b) mediante un’imposizione e una corrispondente disposizione ad obbedire. Un’autorità di governo in un gruppo sociale può pretendere la forza legittima per l’imposizione di nuovi ordinamenti” (ovviamente lo Stato moderno è un ordinamento politico, territoriale, imposto). Tra gli ordinamenti è essenziale distinguere amministrativi e regolativi[36]. Definendo cosa sia “l’agire del gruppo” Weber premette che l’ordinamento “può contenere anche norme in base alle quali deve orientarsi in altre cose l’agire dei membri dei gruppo sociale: per esempio, nello stato, l’«economia privata» che serve non all’imposizione coercitiva della validità dell’ordinamento del gruppo, ma a interessi particolari, deve orientarsi in base al diritto «privato»”; ma solo nel caso dell’ “agire dell’apparato amministrativo” si può parlare di “agire riferito al gruppo”[37].

Si può notare come l’ordinamento amministrativo ricordi da vicino il diritto generato dall’istituzione di Hauriou (sia disciplinare – in primo luogo – che statutario) e l’ordinamento regolativo il diritto comune del giurista francese. Le analogie non nascondono tuttavia le differenze. Weber pone l’accento prevalentemente sull’imposizione dei comandi (le statuizioni) riferibili all’istituzione, Hauriou, senza trascurare l’aspetto del comando, sottolinea maggiormente la necessità dell’ “accettazione”, o meglio del consenso perché vi sia un ordinamento stabile, un pouvoir de droit che comandi quale rappresentante dell’istituzione fondamentale, creando e garantendo l’ordine. Ordine che comprende anche il (rispetto del) diritto comune (Diké) non generato dall’istituzione (ma prima e/o fuori). L’eccezione ovvero il gouvernement de fait (il governo rivoluzionario o di fondazione) tende sempre a diventare governo di diritto attraverso il riconoscimento (interno ed esterno) e il ripristino di una situazione normale, segnatamente dal punto di vista istituzionale[38].

Anche Santi Romano scrive, a proposito del riconoscimento popolare di un ordinamento “nuovo” (cioè rivoluzionario) “quando di riconoscimento in tal senso si parla, non s’intende accennare ad un atto, ad un procedimento cosciente di un subbietto che sia fornito di capacità, di volontà suscettibile di produrre effetti dal diritto sanzionati, ma di un procedimento che può anche essere incosciente e che non è dal diritto regolato. In altri termini, non si tratta di un principio, di una norma, di un istituto giuridico, ma di un fenomeno sociale[39].

A prendere il più diffuso criterium differentiae tra diritto pubblico e privato, e cioè il carattere imperativo/impositivo del primo (e la connessa, indispensabile ineguaglianza tra i soggetti del rapporto), opposta a quello pattizio-paritario del secondo, appare evidente che il diritto pubblico è frutto della “giuridificazione”, come cennato, del rapporto di comando-obbedienza, cioè di un presupposto del politico. Ed è quindi essenzialmente politico. Né può inficiare questa considerazione il fatto che il costituzionalismo e tutto lo sviluppo dello Stato borghese abbiano costruito intorno a tale rapporto una rete di limiti, garanzie e controlli. Da un lato perché questi vengono meno – in tutto (o in quasi tutto) – nello stato d’eccezione, dall’altro perché concettualmente, non è razionalmente possibile l’esistenza politica di una comunità senza quello; mentre lo è senza controlli e limiti al potere, come la Storia dimostra, a partire dai Faraoni e per finire (per ora) alle dittature del proletariato; e come tanti da Hegel[40] fino a Santi Romano hanno sostenuto[41]. Quindi il fatto che lo Stato moderno sia il risultato della “fusione” di principi di forma politica e dei principi del Rechtstaat, come sottolineato da Carl Schmitt, non comporta che non sia un regime politico, e non una scorciatoia per “uscire dalla Storia”: piuttosto esso è il modo di esercitare il comando in società frutto dello spirito cristiano e del razionalismo occidentale in cui il tipo di potere prevalente è quello razionale-legale.

  1. Ci sono altri aspetti che occorre ricordare. Il primo è che molte delle funzioni acquisite (esercitate) dagli Stati nel XX secolo (e nella seconda metà del XIX secolo), non attengono all’essenza dello Stato (quale ente politico) ma all’accidentale, cioè non incidono, se non mediatamente, sul nucleo politico; senza le quali questo sarebbe perfettamente in grado di assolvere il proprio ruolo (idée directrice la chiamava Hauriou). Nel passo, sopra citato, di Hegel la distinzione tra essenza dello (Stato) politico e accidentalità dei compiti che assume è delineata con concisione ed efficacia. Ma se lo Stato (il potere pubblico-politico) assume compiti che non sono essenziali alla sua natura, non è neppure necessario, anzi per lo più è inopportuno, che lo faccia con i modelli propri delle funzioni politiche. Come scriveva Engels sia pure argomentando una tesi solo parzialmente assimilabile a quanto qui sostenuto “Ma nè la trasformazione in società anonime, nè la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive…Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice”.[42]

Più tali compiti sono servizi del tutto analoghi a quelli che rende un’impresa privata (ad esempio le pensioni, analoghe alle rendite vitalizie; le prestazioni sanitarie, che possono parimenti essere rese da professionisti e società private, e tante altre), più i modelli di gestione e funzionalità si allontanano dal politico per accostarsi al privato. Ma questo non vuol dire che lo Stato non è più politico: ma che si allarga l’area del pubblico annettendo dei servizi e compiti privati[43].  Il politico si espande come appartenenza, ma tende a ridursi quanto ai “modelli” di gestione[44].

Ma non è solo l’ “annessione”  massiccia di compiti per così dire eudemonistici che spiega come lo Stato contemporaneo si sia, sotto tale profilo, “privatizzato”; c’è un altro aspetto, attinente alla stessa struttura, anche politica, dello stesso.

Ossia la partizione/distinzione del potere pubblico, politico e amministrativo; con una serie di status e garanzie diverse a seconda del carattere della funzione, nonchè procedure e requisiti (di nomina) diversi. Dato che però normalmente personale politico esercita (anche) funzioni meramente amministrative (ad es. il Sindaco o gli assessori del Comune) e di converso – anche se con frequenza (forse) minore – funzionari di carriera rivestono cariche a carattere (anche) politico[45], sorge il problema di distinguere, nell’ambito pubblico ciò che è politico da ciò che non lo è (e così il funzionario politico dal burocrate di carriera). Sul punto è stato già sopra scritto (relativamente all’ “atto politico”). A volerne ulteriormente precisare la connotazione occorre ricordare le considerazioni di due giuristi sul punto. Carl Schmitt, dopo aver ricordato il criterio della giurisprudenza francese del mobile politique per distinguere atti politici e no, ne da la definizione seguente “Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in se stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo”[46]. Costantino Mortati sostiene che occorre distinguere tra ordinamenti giuridici a fini particolari e a fini generali: “gli enti del secondo tipo si costituiscono per il perseguimento di un fine generico, suscettibile cioè di comprendere in sé la soddisfazione di tutti i possibili interessi che possono o potranno essere avvertiti come necessari alla conservazione di un dato gruppo sociale”[47]. Una circostanza ricorrente e significativa è peraltro da ricordare ulteriormente: quando la funzione è (squisitamente) politica, non c’è tutela giudiziaria, nel senso del giudice indipendente e “terzo” (o è molto ridotta) e minori controlli. Non è solo il caso dell’”atto politico” ci sono – ad esempio – quelli dei diritti dei dipendenti di organi costituzionali o del controllo dei loro bilanci.[48]

Ne consegue che nell’ordinamento politico il perseguimento diretto del fine/i generico/i è ciò che connota la natura politica della funzione; diversamente dalla cura del fine specifico dei compiti particolari. Ma, il tutto non chiarisce esaurientemente la questione. Infatti l’altra “faccia” del problema è che alla funzione pubblica sono prescritti dei modi di funzionamento specifici; così come al funzionario-burocrate degli status e delle garanzie istituzionali specifiche. Ambedue aventi (prevalentemente) la propria radice nel rechtstaat.

Riguardo a ciò è particolarmente significativo quanto disposto nelle norme della Costituzione italiana relative alla pubblica amministrazione ed ai funzionari pubblici. Il relatore alla costituente, Ruini, sottolineava a proposito delle norme costituzionali relative che “Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia ben amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia”: con ciò “politico” era distinto (se non in sostanza contrapposto), dalla buona amministrazione[49]. Così carriere, obblighi, responsabilità, garanzie sono prescritti nella Costituzione e sotto riserva di legge[50].

  1. Miglio individua tra la classe politica e il seguito la categoria dell’ “aiutantato” cioè “quella dei ‘seguaci attivi’, di coloro i quali si dispongono in modo da aiutare la classe politica, i suoi membri”[51]. La tripartizione che fa Miglio (classe politica, aiutantato, seguaci) innova a quella sostanzialmente dualistica di Mosca e Pareto[52]. Nell’analisi dell’aiutantato lo studioso comasco inizia proprio dal criterio del comando (in base alla quantità del comando)[53].

Il primo elemento per quantificarlo è il quantum di discrezionalità[54]. Mano a mano che si scende nella scala di comando (dal vertice alla base dell’ “aiutantato”) la discrezionalità decresce, e aumenta la specializzazione (conseguenza peraltro, in tal senso, della “professionalità” della burocrazia nel tipo di potere razionale-legale di Weber). Per cui sul punto Miglio conclude “disponiamo di un mezzo per classificare i tipi di aiutantato. Gli aiutanti sono capi politici che presentano limiti nella loro discrezionalità, nella loro capacità di decidere”[55]. Dopo di che, e su questa base, Miglio imposta una tipologia dell’aiutantato, basata sul  rapporto tra decisione ed esecuzione (di evidente  ascendenza weberiana).

Al criterio della discrezionalità e della specializzazione – settorialità – se ne può aggiungere un altro, d’importanza (almeno) pari: è quello della subordinazione (controllo) per cui gli atti del funzionario subordinato sono sottoposti al controllo del funzionario gerarchicamente superiore, onde la discrezionalità del primo non ha la possibilità di esercitarsi del tutto “liberamente” nel proprio ambito, ma gli atti che pone in essere possono essere sostituiti, modificati o annullati dal secondo. Tale aspetto, non sempre presente nell’organizzazione dello Stato, è comunque particolarmente evidente nel corpo principale di essa, cioè quello della pubblica amministrazione, data la pluralità dei rimedi contro le decisioni degli organi subordinati (il ricorso gerarchico, connotato dal carattere “generale”, i ricorsi a commissioni speciali), mentre gli atti del potere supremo sono per definizione immodificabili e inappellabili; e più ci si avvicina al vertice, più la possibilità di riforma, riesame, sostituzione, diventa marginale ed eccezionale.

É interessante leggere all’uopo un “classico” dei manuali di diritto amministrativo, come quello  di Guido Zanobini “L’azione di quelle autorità, che fanno parte di uno stesso ramo della pubblica amministrazione, ha bisogno di  essere coordinata e diretta all’attuazione dell’unico fine, secondo criteri unitari. Questa coordinazione e unificazione viene attuata per mezzo di un particolare ordinamento, che prende il nome di gerarchia e che ha per essenziale principio la subordinazione degli organi inferiori a quelli superiori”[56].

Al contrario, come cennato, salendo verso il vertice i controlli, anche quelli di altri poteri (come il giudiziario) scemano, per estinguersi del tutto quando si arriva al potere sovrano. Il quale, per definizione, ha il connotato di non poter essere limitabile (giuridicamente) cioè di essere assoluto: carattere che lo distingue da tutti gli altri poteri pubblici[57]. Ne consegue che oltre essere limitato dall’oggetto (competenza) e nella discrezionalità, la materia affidata all’ “aiutantato” è anche soggetta alla sorveglianza, ai controlli (anche sostitutivi) degli organi e uffici sovraordinati.

Questo è un carattere decisivo, che ha colpito in particolar modo i giuristi, a partire dal passo, sopra citato, di Santi Romano (v. nota 4) per arrivare alle note critiche che Carrè de Malberg rivolgeva alla Stufentheorie di Kelsen, sostenendo che la gradazione delle norme non era data della qualità delle stesse (se legislative, amministrative, contrattuali) ma dal “grado di potere” che gli organi emananti hanno nell’organizzazione dello Stato[58]. O anche al concetto di gerarchia esposto da De Valles[59]. É chiaro che gli “aiutanti” non incardinati nell’organizzazione pubblica (privi cioè sia degli obblighi che dei diritti dei funzionati) non rientrano in tale distinzione.

  1. Occorre riscontrare in che misura il concetto di istituzione e di diritto pubblico dei giuristi sopra ricordati confligga con quello di Miglio: a mio avviso assai meno di quanto pensi quest’ultimo.

In primo luogo per la preminenza che nella concezione d’istituzione ha quello di potere e di organizzazione. Come scrive Schmitt, la distinzione tra le tre forme di pensiero giuridico che distingue non si fonda sull’esclusione del concetto dell’uno o dell’altra dal mondo giuridico, ma sulla prevalenza del concetto centrale di una rispetto a quello delle altre; onde non si nega che il diritto sia composto di istituzioni, norme e decisioni, ma che una lo caratterizza e lo comprende meglio delle altre[60].

I giuristi suddetti rifiutavano che, come scrive Miglio, alla radice degli istituti-organo vi fosse un istituto-norma.

L’istituzione è organizzazione dei poteri pubblici e del rapporto comando/obbedienza, al fine di conservare l’ordine sociale. Hauriou scrive che gli Stati moderni sono delle armate (civili) in marcia, come l’agmen tenuti a conservare l’ordine; i popoli (il “seguito” di Miglio) sono inquadrati “par une forte hiérarchie administrative” la cui rete ricopre il territorio; la prima opera dello Stato è fare di una comunità non organizzata e (quindi) incapace ad agire, “un corps organisé, vivant et puissant”[61].

Essenziale è il ruolo del centro direttivo o fondatore e degli organi (e dell’organizzazione) di governo. Il ruolo delle “norme” non è considerato primario:ad esserlo è il pouvoir che lo fonda; l’ordine sociale è costituito da idee, interessi, poteri di organi e organizzazione; segno evidente del ruolo secondario delle norme. Alle quali peraltro anche Santi Romano assegnava un ruolo per così dire accessorio (e strumentale) rispetto all’organizzazione (v. sopra nota 4). Lo conferma più in particolare sostenendo “storicamente si danno, com’è, del resto, notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola. É stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”[62].

Anche per il giurista siciliano è essenziale il potere, e la di esso organizzazione; le norme – generalmente presenti – possono tuttavia non esserlo non essendo necessarie all’organizzazione (e all’azione) dell’istituzione.

Altra differenza è la relazione tra rapporto di comando-obbedienza e “giuridicizzazione”. Nel senso che il rapporto di comando-obbedienza (dal superiore all’inferiore) non è (sempre) mediato dalla norma, ma per così dire (dal “differenziale” di) potere e dal rapporto di subordinazione. Così Hauriou scrive (v. sopra nota 9) che la sanzione del diritto disciplinare si basa sulla coercitio che compete al magistrato, basata sulla forza propria dell’istituzione, che implica necessariamente di potersi fare giustizia da sola[63]. Il diritto, inteso come procedura e come attribuzione di competenza giuridicamente sancita e regolata, c’entra poco (o niente): il rapporto è essenzialmente fattuale e politico o meglio istituzionale. É tale perché altrimenti l’istituzione non esisterebbe: e l’esistente, nel caso di necessità, prevale sul (o non ha bisogno del) normativo; consegue dalla “natura delle cose” non dalla legalità dell’attribuzione.

Appare pertanto chiaro che nella concezione istituzionista la regola disciplina solo una parte – anche se quella quantitativamente (e di gran lunga) prevalente – ma non tutto il rapporto di comando/obbedienza ed il potere che è esercitato dall’istituzione (e dai suoi organi). La ragione è semplice: l’istituzione è diritto, ma non è norma[64]. L’estensione del concetto d’istituzione è maggiore di quella di norma (giuridica), e la concezione d’istituzione di Hauriou e Santi Romano non è quindi coestensiva con quella di Miglio.

  1. Resta ancora da fare delle considerazioni sul diritto pubblico, e approfondendo il rapporto tra questo e la politica. All’uopo è interessante notare cosa scrive Freund a proposito dell’ordine politico: che è gerarchico per natura “Sa nature hiérarchique découle à la fois de son présupposé du commandement et de l’obéissance et de sa fonction qui consiste à sauvegarder l’ordre en général… Politiquement, l’ordre est toujours imposé ou ordonné, parce qu’il n’y a pas de coordination sans subordination. Autrement dit, la coordination est l’oeuvre d’une volonté qui décide de la régle coordinatrice. Aucun ordre ne s’impose de lui-même ; il n’y en a pas non plus sans contrainte”[65].

Il tutto è parzialmente coincidente con l’enumerazione che Hauriou fa delle funzioni essenziali dello Stato[66]: in cui è evidente, come altrove nel pensiero del doyen, il rapporto comando/obbedienza.

In realtà la tesi degli istituzionisti (e non solo la loro) che il diritto è ripartito in “pubblico” e “privato” non si contrappone alla concezione fondamentale di Miglio dell’obbligazione politica distinta da quella giuridica (il “contratto-scambio”), quanto alle conseguenze che lo studioso lariano ne trae (che il diritto è privato o non è tale). E la ragione dell’esistenza di un diritto pubblico che regoli – fino ad un certo punto – la materia politica e, in particolare, il rapporto comando/obbedienza è provata da una serie di elementi.

In primo luogo l’evoluzione del diritto “moderno”, a sua volta tendente alla “giuridificazione” del politico per due “spinte” fondamentali: la prevalenza del “tipo” di potere razionale-legale negli ultimi secoli e la diffusione degli “stati di diritto” cioè di unità politiche fondate, come cennato, oltre che su principi politici su quelli del Rechtstaat (distinzione dei poteri, tutela dei diritti fondamentali “borghesi”, nonché – a seguire Hauriou – funzionalizzazione di ogni potere pubblico, ossia la “de-patrimonializzazione” della funzione pubblica).

Quanto al “tipo” di potere: se è legittimo un potere che, normalmente adotta comandi ordinati secondo lo schema atto generale/atto di applicazione (e via discendendo nella scala gerarchica degli “esecutori”, riflessa in quella dei relativi atti), non vuol dire che quegli atti non siano comandi, né che non vadano obbediti. Anche se la forma di potere razionale-legale valorizza al massimo il ruolo della legge (e dell’organo statuente, come del diritto statuito) sempre potere e comando resta. Il comando è così esercitato (prevalentemente) per (o in base a) atti legislativi invece che per rescripta principis, senza che cambi alcunché dell’essere potere. Essendo un “tipo ideale”, peraltro, in concreto, non si presenta mai in forma “pura”[67].

Il fatto che, anche in uno “Stato di diritto” vi siano dei momenti irriducibili al diritto (come il gouvernement de fait di Hauriou, la necessità di Santi Romano, l’ausnahmezustand di Schmitt)[68] non implica che non vi sia un diritto pubblico. Quanto sopra è confermato non solo dal dato positivo, e cioè l’esistenza di una regolamentazione giuridica (non totale dei) rapporti di comando-obbedienza, ma dall’esistenza di diritti e obblighi, che è il primo criterio dell’esistenza di rapporti giuridici, ai quali è connaturata l’interdipendenza delle azioni di due soggetti[69].

Anche se c’è un rapporto – quello tra il Sovrano e i sudditi – connotato dall’aver il primo solo diritti e nessun dovere (giuridico) verso i secondi, e l’inverso per questi rispetto a quello[70]; è questa, di sicuro, l’unica “eccezione”. Per il resto nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà)[71] ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti[72].

D’altra parte, anche nelle istituzioni non pubbliche esiste un diritto disciplinare, connotato dal fatto che il giudice non ha vero carattere di “terzietà”, ma è un organo dell’istituzione (sorte de justice organique, la chiamava Hauriou)[73].

In secondo luogo il tutto è una conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non assoluta, al potere politico, e in particolare al rapporto di comando-obbedienza[74].

Miglio distingue l’obbligazione politica dall’obbligazione contratto-scambio rilevandone le differenze quanto all’oggetto, ai soggetti, ai limiti, ai contenuti strutturali, al tempo ed alle strutture del rapporto[75].

Se si vuole seguire Miglio e fare una partizione – di carattere generale – tra diritto pubblico e privato – è necessario partire dal tratto comune, e cioè l’esistenza di un rapporto giuridicamente rilevante, e dalla distinzione tra quelli differenti: i presupposti, che per Hauriou sono l’organizzazione sociale per quello pubblico, l’attitudine sociale (sociabilité) per il privato[76]; per l’oggetto ossia l’istituzione e i rapporti cui da luogo da un lato, i rapporti “interindividuali” (di scambio) dall’altro; la situazione dei soggetti, ineguale per il primo, paritaria per il secondo; la funzione, ossia l’esistenza dell’istituzione e della comunità e il perseguimento dell’interesse generale per il pubblico, la regolazione dei rapporti e degli interessi interindividuali per il privato[77].

Differenze profonde che non possono però eliminare il genere (comune) “diritto”, né le modificazioni dell’istituzione (sia sotto l’aspetto organizzativo che funzionale) che la “giuridificazione” del rapporto comando-obbedienza ha determinato.

Piuttosto la concezione di Miglio è spiegabile se si considera il diritto nella prospettiva (lato sensu) di una teoria  normativistica del diritto (come fa nello specifico lo studioso lariano, contrapponendo istituti-organo e istituti-norma); anche se questa affermazione può apparire imprecisa consegue dal ripetuto uso dei concetti e termini della teoria normativistica (ancorché tra le influenze vanno annoverate delle concezioni  giusnaturaliste, liberali, economiciste, non riducibili alla reine rechtslehre). L’istituto-norma di Miglio basantesi su consuetudini e procedure consuetudinarie non ha un significato uguale (e coestensivo) alla norma di Kelsen. Infatti questa, come notato da Schmitt, non è idonea a dar conto di  aspetti essenziali del diritto, come il momento dell’applicazione, la tematica dell’eccezione (la “necessità”), fino a quella dell’efficacia del diritto. Hauriou e Santi Romano avrebbero rifiutato l’idea di Miglio che dietro (e prima) di ogni istituto-organo vi sia un istituto-norma. Per Hauriou il genitore dell’istituzione è le pouvoir, (definito “una liberta energia della volontà che assume l’impresa (entreprise) di governare un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”) che fonda l’istituzione: istituzione che, da un canto deve proteggere la comunità, e il diritto generato dalla stessa, (Diké), ma, anche a tale scopo, genera un diritto proprio (Thémis), specificamente istituzionale; per Santi Romano il rapporto tra istituzione e norma è quello tra giocatore e pedine (v. sopra), e non occorre aggiungere altro.

La teoria istituzionista riesce a dare la spiegazione unitaria ed esauriente del “fenomeno” giuridico, fatto di organizzazione e regole, di norme ed eccezione, di validità ed efficacia. A quasi due secoli non si può che ricordare, a proposito della concezione istituzionista, l’affermazione di De Maistre quando, criticando realisticamente le teorie rivoluzionarie scriveva “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’aucune exceprion”[78].

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Op. cit., pp. 439-444.

[2] Op. cit. p. 452.

[3] Op. cit. p. 453 (il corsivo è nostro).

[4] Op. cit. rist. Firenze 1967 p. 15 (i corsivi sono nostri).

[5] Scrive Romano  “Come ogni istituzione così anche lo Stato non ha , ma è un ordinamento giuridico. Se talvolta si dice che il diritto è l’anima e il principio vitale dei corpi sociali e, quindi, lo Stato, ciò non deve intendersi nel senso che diritto e corpo sociale siano due cose diverse, per quanto unite, e tanto meno che il primo sia un prodotto o una funzione del secondo, ché anzi quell’immagine vuol ribadire il concetto che l’uno non si può disgiungere né materialmente né concettualmente dall’altro, come non si può distinguere, se non per vuota astrazione, la vita dal corpo vivente. Si può anche dire che una istituzione ha un diritto, cioè un ordinamento, se per questo s’intendono soltanto i principi e le norme che ne fanno parte  e ne emanano, così come si dice che un tutto ha questo e quell’elemento fra gli altri che lo compongono; ma più comprensivamente si deve dire che esso è per intero un ordinamento giuridico” (i corsivi sono nostri). Op. cit. Milano 1947, p. 56.

[6] V. op. ult. cit. p. 92

[7] V. Principes de droit public  Paris 1916 (rist. 2010) p. 136.

[8] Op. cit. p. 137 e prosegue “Quand une organisation a été créée à l’intérieur d’une institution et s’est implantée d’une certaine façon, elle est liée à l’existence même de celle-ci, on sent qu’on ne pourrait pas arracher l’une sans détruire l’autre

[9] E così lo spiega “Le pouvoir disciplinaire s’appuie sur la force propre que l’institution a conscience d’avoir pour se faire justice elle-mêmeop. cit., p. 139.

[10] Op. cit, p. 141.

[11] Op. cit., p. 143.

[12] Op. cit., p. 144.

[13] Così lo descrive “cherche à dégager l’assentiment de tous les membres du groupe à une mesure déterminée, par une procédure liée à la vie même de l’institution, mai qui, par la nécessité sociale d’aboutir dans un temp donné, s’arrête à l’assentiment immédiat de la majorité”, op. cit., p. 144.

[14] v. Précis de droit constitutionnel, ed. 1929, pp. 97 ss. e specificando le caratteristiche di Dikè scrive “celle-là, était extérieure aux groupes, intergroupale, interfamiliale, et nous dirions aujourd’hui internationale; elle avait pour organes des tribunaux d’arbitres, devant lesqueles les parties étaient égales l’une à l’autre; elle était néè a l’occasion des guerres privées, des vendettas entre familles, et pour les faire cesser par des arbitrages”.

[15] Mais il ne fut jamais inhérent à l’insititution de l’Etat comme l’avait été, par exemple, le droit pénal public primitif, qui état disciplinaire”.

[16] E lo spiega così: “Tandis que, dans la société politique, les hommes sont tenus en groupe par leur soumission à la discipline d’une même institution, dans la société economique, ils sont tenus en relation les uns avec les autres par leur collaboration à l’oeuvre commune de la satifaction des besoins humains” e per cui  “on doit donc opposer les ‘situations de dépendance’ aux ‘rapports de collaboration”, op. cit., p. 177.

[17] Tendent à engendrer deux formes de société ed deux formes de droit qui se déterminent, l’une en institutions politique, l’autre en rapports ou relations du commerce juridique”.

[18] Scrive “L’institution politique n’est pas une forme sociale qui se suffise, pas plus que les rapports du commerce juridique n’en sont une. La véritable position de la question est de considérer la société complète comme composée des deux éléments de l’institution politique et du commerce juridique, et, quant à la combinaison des deux éléments, elle se présente comme l’équilibre de deux forces avec actions et réactions réciproques, mai avec légère suprématie de l’institution politique affirmée par le seul fait de l’existence des États”, op. cit., p. 180.

[19] Si noti che il valore ha qui un significato esclusivamente economico (i corsivi sono nostri).

[20] Op. cit., p. 181 ss.

[21] Op. ult. cit. p. 192.

[22] Op. ult. cit. p. 192; e prosegue in nota “Le véritable juge procédant de l’institution politique est le juge disciplinaire. Pendant que les nécessités de la discipline politique  engendrent le juge disciplinaire, celles du commerce juridique engendrent l’arbitre pour trancher les différends”.

[23] Scrive “Abbiamo allora ridotto a mal partito il mondo del diritto. Hanno ragione i giuristi a guardare lo scienziato della politica con sospetto. Qui abbiamo ridotto tutto il diritto a contratto e tutti i diritti sostanziali a procedure. Tutto il diritto diventa contratto, procedura pattuita, contrattuale. Le norme si riducono  tutte a procedura. L’ “istituto-norma” e l’ “istituto-organo” non sono che un complesso di procedure convenute”; e prosegue “A questo punto scopriamo le conseguenze del nostro lavoro d’indagine: quelle che probabilmente sono “istituzioni politiche”, in realtà sono espressione del contratto e del diritto”. Op. cit. p. 450.

[24] “Costante è il sospetto che l’interferenza della politica (perfino nei diritti pubblici soggettivi) sia macroscopica. Questo non è altro che la constatazione che area dell’obbligazione politica e area del diritto e quindi del contratto sono aree distinte in continua, conflittuale interferenza”. Op. cit. p. 451.

[25] Op. loc. cit.. Per una interessante riflessione sui rapporti tra politica e diritto (con particolare riguardo a Schmitt) V. R. Cavallo Le categorie politiche del diritto, Catania 2007.

[26] Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem,  D I, De Iustitia et jure, I,

[27] Jellinek scrive “L’antitesi fra i due diritti può essere ricondotta a questo concetto fondamentale: che, nel diritto privato, gli individui si trovano gli uni rispetto agli altri in una situazione essenzialmente di coordinazione, e quindi esso disciplina i rapporti degli individui come tali; mentre il diritto pubblico, invece, regola i rapporti tra subietti diversi dotati di autorità, nonché la organizzazione ed il funzionamento di tali subietti e le relazioni di essi con coloro che sono sottoposti alla loro autorità” v. Allgemeine Staatlehre, trad. it. di M. Petrozziello (con introduzione di V. E. Orlando) Milano 1949 p. 2. Le difficoltà di distinguere tra  pubblico e privato, e, nella specie, tra diritto soggettivo (privato) e diritto soggettivo pubblico era avvertita da Carnelutti. Dopo aver scartato che il fondamentum distinctionis  fosse il carattere del soggetto, dato che a soggetti privati possono competere diritti soggettivi pubblici, e all’inverso ad una persona giuridica pubblica un diritto privato “ad esempio, allo Stato la proprietà”; né che lo fosse la natura dell’oggetto (la cosa): ad esempio una cosa può essere demaniale (pubblica) o di proprietà privata “la demanialità o la patrimonialità deriva alla cosa dal diritto, non al diritto dalla cosa”, Carnelutti concludeva che “il fondamento va ricercato nella natura stessa del rapporto, e precisamente nel collegamento tra la forma e la sostanza e cioè tra il potere e l’interesse”. Teoria generale del diritto Roma, 1946, p. 151. Diversamente dal diritto soggettivo privato, che è “possibilità di comandare per la tutela del proprio interesse”, quello pubblico è la possibilità di comandare in funzione di un interesse collettivo (attribuito a ciascuno degli interessati).

giuridiche La concezione, distinguendo tra pubblico e privato, riguardo alle situazioni soggettive è originale; l’altro aspetto interessante – ai fini di questo scritto – della teoria di Carnelutti sul punto è che l’intera partizione tra diritti, obblighi, potestà e così via si fonda sul criterio del comando (e della soggezione relativa) e dell’interesse.

[28] Jellinek scrive “Questa dottrina del Fisco è della massima importanza per tutta la storia della concezione dei rapporti fra Stato e suddito ….. Nella Germania, pel contrario, il Fisco viene dichiarato come subietto di diritti privati, per cui è riconosciuta allo Stato una doppia personalità – di diritto pubblico e di diritto privato -: la qual cosa ha questa grande importanza pratica, che, fin dove si estende il diritto privato, sono escluse arbitrarie invadenze dello Stato nella sfera giuridica dell’individuo”.

[29] E ne conclude “D’altra parte l’attribuzione del carattere assoluto al contrasto fra diritto pubblico e privato fa sorgere anche l’idea che solo il campo del diritto pubblico, quale è prima di tutto quello del diritto costituzionale e amministrativo, sia il dominio della sovranità da cui sarebbe invece escluso il campo del diritto privato. Già anteriormente si è mostrato che questo contrasto totale fra «politico» e «privato» non sussiste nel dominio del diritto soggettivo perché i diritti privati sono diritti politici nello stesso senso di quelli che si suole designare unicamente in questo modo, perché entrambi, sia pure in senso diverso, garantiscono la partecipazione alla formazione della volontà statale, cioè alla sovranità. Con la distinzione di principio fra una sfera giuridica pubblica, cioè politica, e una privata, cioè non politica, risulta più difficile comprendere che il diritto privato prodotto nel negozio giuridico rappresenta una sfera d’azione della sovranità non minore del diritto pubblico prodotto nella legislazione e nella amministrazione”. Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik. Trad. it. Torino 1967, p. 132 ss.

[30] Vedasi, tra i tanti, O. Ranelletti Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1953, pp. 29 ss.

[31] Tra tutti citiamo per la connotazione dell’imperatività quanto scritto da M. S. Giannini “L’imperatività è la produzione unilaterale di effetti giuridici a realizzabilità immediata e diretta. Il provvedimento costituisce modifica ed estingue situazioni giuridiche soggettive altrui non solo senza il concorso o la collaborazione del soggetto a cui si dirige, ma anche contro la di lui volontà”, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano 1981, p. 299.

[32] Un esempio ne sono le c.d. “vie di fatto” e il divieto al Giudice ordinario, sancito dall’art. 4, ALL: E, L. 2248/1965 di “revocare o modificare” il provvedimento anche se illegittimo.

[33] É interessante a tale proposito il giudizio di Paolo Barile che l’attività politica non può venir “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato” v. Atto del governo (e atto politico) in Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, p. 220 ss.

[34] Précis de droit constitutionnel cit., p. 156 (i corsivi sono nostri).

[35] G.Jellinek Allgemeine Staatslehre,trad. it., Milano 1949, p.177.Così la definisce  “attività libera è quella determinata soltanto dall’interesse generale, ma da nessuna speciale regola di diritto; vincolata, invece, quella che consiste nell’adempimento di un obbligo giuridico. L’attività libera è la prima per importanza, logicamente originaria; che sta di base a tutta la restante attività. È per essa che lo Stato fissa la sua propria esistenza, giacché la fondazione degli Stati non è mai l’esecuzione di norme giuridiche; è da essa che lo Stato riceve indirizzo e scopo della sua evoluzione storica; è da essa che procede ogni mutamento ed ogni progresso nella sua vita. Uno Stato, di cui tutta l’attività fosse vincolata, è una concezione irrealizzabile. Quest’attività libera si riscontra in tutte le funzioni materiali dello Stato, che si sono venute storicamente distinguendo; nessuna, senza di essa, è possibile. Il suo campo più vasto è nel dominio della legislazione, la quale, in confomità stessa sua natura, deve godere della maggiore libertà. Non meno importante, però, essa si mostra nell’amministrazione, dove questo elemento assume il nome di governo (Regierung)”(il corsivo è nostro).

 

[36] “Un ordinamento che regoli l’agire del gruppo, deve essere detto ordinamento amministrativo. Un ordinamento che regoli un agire sociale di altro genere, garantendo le possibilità degli individui scaturiti da tale regolamentazione, deve essere detto ordinamento regolativo… Evidentemente la maggior parte dei gruppi sociali è insieme dell’uno  e dell’altro tipo; un gruppo esclusivamente regolativo sarebbe un puro ‘stato di diritto’, teoricamente concepibile, in cui regna l’assoluto laissez faire (e ciò presupporrebbe che anche il compito di regolare la moneta fosse  affidato alla pura economia privata)” Wirtschaft und Gesellschaft, vol. 10, trad. it. Milano 1980, p. 50.

[37] La concezione di Weber è più articolata e ne riportiamo il passo essenziale: “Nel primo caso si può parlare di un «agire riferito al gruppo», e nel secondo caso di un agire regolato dal gruppo. Solamente l’agire dello stesso apparato amministrativo, e oltre ad esso ogni agire riferito al gruppo, da esso diretto in maniera sistematica, deve essere chiamato «agire del gruppo». Per esempio, «agire del gruppo» sarebbe per tutti i suoi membri una guerra che uno stato «conduce», o una «richiesta» che il comitato esecutivo dell’unione delibera, o un «contratto» che il capo stipula, imponendone o imputandone la «validità» ai membri del gruppo”, op. cit., p. 47.

[38] v. Hauriou Précis de droit constitutionnel, cit., pp. 17 ss.

[39] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione, ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 149 (il corsivo è nostro).

[40] v. “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale… L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli… L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità” (il corsivo è nostro).  Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1961, pp. 41 ss. Hegel prosegue distinguendo ciò che considera essenziale da quel che non lo è (unità della legislazione, della giustizia, fiscale, monetaria, ecc. ecc.) v. anche op. cit., pp. 30 ss.

[41] v. per Santi Romano “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto. Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato ‘non costituito’ in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile natura, lo Stato”  Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3

[42] Antidühring, trad. it. Roma 1971, p. 297 Alla logica della produzione capitalista, si può asssimilare quella conseguente al carattere privato dell’attività gestita dallo Stato.

[43] Questo non significa che poi l’annessione di servizi, funzioni, aree di azione private al pubblico, non venga utilizzata a fini politici – anche e soprattutto di politica di partito, come l’acquisizione di consenso, l’erogazione di rendite politiche e atro, che Miglio ricorda con acuto realismo.

[44] Così tipici ne sono stati le aziende municipalizzate e gli enti pubblici economici, e il relativo rapporto di lavoro con i dipendenti, indistinguibile da quello del settore privato.

[45] Tipica, tra tante quella di Commissario agli enti locali.

[46] Cfr. Schmitt C. Der Begriff des politischen, trad it. ne Le Categorie del politico, Bologna 1972, 104.

[47] E prosegue: “La necessità del raggiungimento di tale fine, che può, in via di prima approssimazione, ricondursi a quello della pacifica coesistenza e dello sviluppo dei vari soggetti appartenenti al gruppo, induce l’ente ad assumere di volta in volta compiti svariatissimi, anche culturali o religiosi o sportivi, ecc. e in misura e con l’estensione delle più varie… ne segue che ogni mutamento che si verifichi in ordine all’assunzione o all’abbandono di compiti particolari non determina la trasformazione dell’ordinamento, non muta la sua natura di ente ai fini generali, o, come anche e più comunemente si dice, di ente «politico»”, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1972, pp. 19 ss.

[48] A proposito di tutte queste immunità Vittorio Emanuele Orlando scriveva “che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”; e  Santi Romano nel trattare delle immunità parlamentari sosteneva «Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza  e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guerentigia» Santi Romano, Corso di diritto costituzionale,  Padova 1928, 222.

[49] Diceva Mortati alla costituente “La necessità di includere nella Costituzione alcune norme riguardanti la pubblica amministrazione sorge per due esigenze. Una prima è quella di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti. A tale proposito la Costituzione di Weimar stabiliva che i funzionari erano a servizio della collettività e non dei partiti” v. in V. Carullo, La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna 1950, p. 396.

[50] v. sulle garanzie istituzionali della burocrazia v. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 231.

[51] E prosegue: “Ho già utilizzato il termine di aiutanti. Questa definizione generica copre la funzione che svolge questo strato, il quale è molto vicino alla classe politica e sta fra quest’ultima, intesa in senso stretto e il seguito”, op. cit., p. 362.

[52] Ma chiarisce: “Già in Mosca e Pareto tuttavia la definizione di ‘classe dirigente’ denotava questa presenza, come appare anche in altri autori che hanno seguito questa linea di ricerca. Devo però dire che normalmente la politologia moderna privilegia l’interpretazione dicotomica”, op. loc. cit..

[53] “La domanda che ci si pone è: «Come ci si presenta scientificamente il problema della quantificazione del comando?». Posto che in ciascun sistema politico c’è chi comanda di più e chi comanda di meno, si possono fare rilevazioni scientifiche, scoprire le regolarità di questa quantificazione del comando?”, op. cit., p. 364.

[54] “Colui che comanda di meno fa questo perché la sua discrezionalità nel prendere decisioni (abbiamo visto che esercitare l’autorità è decidere, prendere una decisione e il comando è ‘possibilità di decidere’ e di fare accettare queste decisioni), la sua possibilità di decidere, è limitata”, op. cit., p. 365.

[55] Op. cit., p. 370.

[56] Corso di diritto amministrativo, Milano 1954, vol. I, p. 146. E prosegue “L’ordinamento gerarchico è proprio esclusivamente delle pubbliche amministrazioni: gi organi legislativi, dato il numero ristretto e la fondamentale loro parità, non consentono alcuna applicazione del principio; quelli giudiziari, che pure sono ordinati per gradi, non presentano fra i medesimi quei poteri di direzione e di dipendenza, che sono propri del rapporto gerarchico. Nell’ordinamento amministrativo il principio è di applicazione generale” subito dopo specifica “Il rapporto di supremazia gerarchica ha per contenuto una serie di poteri dell’autorità superiore sugli organi dipendenti. Il più importante e fondamentale fra tali poteri è quello di dirigere e regolare l’attività degli inferiori per mezzo di norme generali e di ordini particolari. Le prime, dette norme di servizio, circolari e istruzioni, nonostante la loro generalità, non hanno mai valore di norme giuridiche nel senso stretto della parola” (infatti si basano, per l’appunto, sul rapporto gerarchico stricta sensu) “Il potere dei superiori di comandare, sia con tali atti sia con ordini particolari, implica il dovere degli organi dipendenti di obbedire a tali comandi” e oltre a questo vi sono “altri poteri compresi nel rapporto di supremazia gerarchica, che pel momento ci limitiamo ad enumerare:

  1. a) il potere di risolvere i conflitti di competenza, positivi o negativi, che eventualmente sorgano fra due o più autorità dipendenti;
  2. b) il potere di decidere i ricorsi amministrativi presentati contro gli atti delle autorità inferiori; e di annullare, in caso di accoglimento, i provvedimenti di queste;
  3. c) la facoltà di delega e di avocazione, nei casi eccezionali in cui tali facoltà sono espressamente consentite;
  4. d) il potere di sostituzione dell’azione dell’inferiore, quando questo, avendo l’obbligo di provvedere, non abbia provveduto” (i corsivi sono nostri).

[57] Tra i tanti che l’hanno affermato ricordiamo G.D. Romagnosi, Scienza delle costituzioni, Firenze 1850, p. 190; Max von Seydel in Principi di una dottrina generale dello Stato (trad. it.) Torino 1902, vol.. VIII della Biblioteca di Scienze politiche e amministrative, Torino 1902, pp. 1153-1161.

[58] “La gradazione delle norme, come anche quella delle funzioni e degli atti, non proviene dal grado di qualità inerente ad ogni specie di norma presa in se, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazioni di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” La teoria gradualistica del diritto (trad. it.) Milano 2003, p. 38. É chiaro che Carrè de Malberg scrive dell’organizzazione generale dello Stato e non (solo) di quella della pubblica amministrazione.

[59] “Essenziale nel concetto di gerarchia è quindi l’idea di potere, sacro o profano, ordinato per gradi, nel governo della cosa pubblica, religiosa o civile; e questa idea centrale si può dire permanga anche nella moderna letteratura giuridica; ma in questa il concetto subisce una specificazione, venendo riferito al governo delle persone giuridiche pubbliche, in contrapposto al concetto di autarchia; ed uno sdoppiamento, essendo passato ad indicare, molto spesso, per metonimia l’ordine per gradi dei pubblici funzionari ed impiegati” Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931, p. 277.

[60] v. “Ogni pensiero giuridico lavoro tanto con regole, che con decisioni, che con ordinamenti e strutture. Ma la concezione finale – per quanto riguarda la scienza giuridica – dalla quale sono derivate giuridicamente tutte le altre, è sempre e soltanto una: o una norma (nel senso di regola e legge), o una decisione, o un ordinamento concreto… In base alla diversa importanza riconosciuta, nel pensiero giuridico, a ciascuno dei tre concetti specificamente giuridici e in base alla successione per cui l’uno viene dedotto dall’altro oppure ricondotto ad esso, si distinguono i tre tipi di pensiero fondati sulla regola o sulla legge, sulla decisione o sull’ordinamento e la struttura concreta” I tre tipi di pensiero giuridico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 247.

[61] Précis de droit constitutionnel, cit., p. 74 ss.

[62] E prosegue poco dopo “Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve ritenersi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che sono propri di ordinamenti  più complessi e più evoluti” L’ordinamento giuridico, cit., pp. 20-21.

[63] Dall’altro lato “il n’y a pas pour l’individu exposé à l’effet du poivoir disciplinaire obligation préétablie de le subir, du moins il ‘y a pas obligation juridique, il n’y a qu’un devoir moral ou un deovir professionnel ; le pouvoir disciplinaire se présente comme una force à laquelle on obéit ou à laquelle on résiste à ses risques et périlsPrincipes de droit public, p. 139.

[64] D’altra parte, con parole diverse, concezioni simili sono state variamente espresse dalla dottrina. Carrè de Malberg, a proposito degli actes de gouvernement scrive “ciò che caratterizza, di converso, l’atto di governo è proprio d’essere, a differenza degli atti amministrativi, svincolato dalle necessità d’abilitazione legislativa e  deciso dall’autorità amministrativa con un potere d’iniziativa libera in virtù di un potere proprio e che deriva da una fonte diversa dalle leggi; di guisa da poter qualificare (la funzione di) governo, almeno in tal senso, come indipendente dalle leggi e che esiste una determina sfera di attribuzioni, ch’è precisamente quella del governo, all’interno della quale esso occupa una posizione costituzionale analoga a quella del legislatore, nel senso che, proprio come il parlamento, trae i propri poteri relativi a queste attribuzioni direttamente dalla Costituzione” Carrè de Malberg, Contribution à la theorie générale de l’État, tome I, Paris 1920, 526; o P. Barile, scrivendo degli atti politici i cui caratteri dipendono dalla natura delle cose v. Enc. dir. IV, Milano 1959, pp. 220 ss.

[65] L’essence du politique, Paris 1965, p. 270.

[66] v. “1° Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée. par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux ; 2° La contrôler et lui rendre des services par son administration ; 3° Réprimer les écarts de l’individualisme par une organisation répressive et aussi par una oeuvre éducatricePrécis de droit constitutionnel cit., p. 49.

[67] v. Max Weber, op. cit., vol. I, p. 211. Onde la contaminatio con altri tipi non rende inutile l’elaborazione del concetto.

[68] Con la differenza tra i tre concetti che non ne alterano il connotato comune, di essere “al di là” del diritto.

[69] “Rapporto giuridico è, infatti, l’interdipendenza delle azioni di due soggetti (o «persone» in senso giuridico), stabilita da una norma in guisa che uno di essi sia titolare di un diritto verso l’altro e l’altro sia investito di un obbligo verso il primo. Così concepito, il rapporto giuridico è veramente la cellula primitiva e il nucleo irriducibile di ogni realtà sociale” v. Widar Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano 1963, p. 11.

[70] É la nota affermazione di I. Kart, il quale specifica che il Sovrano non ha doveri coattivi, v. Metaphisyk der Sitten, trad. it. Bari 1973, p. 149; il principio era stato già enunciato da S. Tommaso Summa Theologica I, II, q. 96, art. V  “Il principe si dice svincolato dalla legge quanto alla forza coattiva della legge stessa; poiché nessuno propriamente può essere costretto da se stesso, e la legge non ha forza coattiva se non per l’autorità del principe. Si dice dunque che il principe è svincolato dalla legge, poiché nessuno può condannarlo se opera contro la legge… Il principe è poi al di sopra della legge in quanto, se è opportuno, può mutarla o dispensare da essa in un certo luogo o in un certo tempo”” v. Antologia politica, Torino, s.d., p. 66.

[71] A tale proposito anche il mero depotenziamento del potere giudiziario rispetto a funzioni (funzionari, situazione, atti) pubblici può essere considerato esatto il profilo della salvaguardia del rapporto di comando-obbedienza, e della “catena di comando”. Già Tocqueville nell’Ancien Régime et la Révolution, in particolare a proposito della giustizia (e della garanzia) amministrativa, ironizzava dicendo che non si avvertivano grandi differenze tra la prassi dell’ancien règime e la legislazione post- rivoluzionaria, ambedue rivolte a salvaguardare il potere politico e amministrativo delle ingerenze giudiziarie (v. op. cit., trad. it., Milano 1981, p.91 ss.). Ma tale chiave di lettura è anche applicabile ai rapporti tra la giustizia (in particolare il Giudice ordinario) e la pubblica amministrazione, dall’unificazione italiana in poi.

In effetti l’all. E alla L. 2248/1865, sia per il dettato, ed ancor più per l’interpretazione prevalente che ne fu data, consente  una cognizione “ridotta” nei confronti della P.A.; in particolare non consente che sia comandato un facere specifico né che l’atto amministrativo venga annullato, ma solo disapplicato, né che fossero presi provvedimenti possessori, ecc. ecc., tutte deroghe che contrastano con la pienezza della tutela giudiziaria accordata tra privati (in situazione di parità) e volte a salvaguardare, per lo più, le situazioni di fatto create dall’attività della P.A..

[72] É interessante notare che uno dei punti di contatto (e di frizione) tra politico e diritto nel Rechtstaat (ma non solo) sia la c.d. giustizia politica, allorquando – specie in materia penale – il Giudice deve decidere su rapporti e soggetti politici. La politicità della materia fa si che questa giustizia abbia carattere derogatorio, sempre più evidente man mano che la posizione del giudicando sale nella scala gerarchica, di guisa da creare una rete di protezione a favore della funzione politica e in particolare del rapporto di comando-obbedienza, necessario al mantenimento e alla conservazione dell’ordine politico della comunità. Affermare che il tutto è in contrasto con il principio d’eguaglianza di fronte alla legge (isonomia) è esatto: ma è anche vero che nessun ordine sarebbe possibile, e ancor meno un ordine democratico, se anche i governanti “supremi” fossero  incarcerabili da magistrati ordinari, secondo le procedure ordinarie. La posizione “gerarchica” si riflette non solo nel potere di comando , ma anche nell’irresponsabilità assoluta (“la persona del Re è sacra e inviolabile” art. 4 dello Statuto Albertino) o relativa, sia sostanziale (come per tipi di reato punibili) o processuale (autorizzazioni a procedere, organi giudicanti speciali e così via).

[73] Scriveva a tale proposito Cesarini Sforza che “gli statuti e i regolamenti dei corpi sociali stabiliscono, di consueto, a quale organo sociale competa l’applicazione delle punizioni disciplinari… il potere disciplinare – cioè la potestà spettante ai capi di un corpo sociale di punire l’associato che sia incorso nella violazione di un obbligo sociale – è la manifestazione più evidente del carattere imperativo degli ordinamenti giuridici privati”, op. cit., p. 80 ss.

[74] É interessante notare che nel pensiero di Montesquieu la “giustizializzazione” del rapporto di comando non era neppure cennata (per l’ovvia considerazione che non esisteva né giustizia amministrativa né quella costituzionale moderna) “Quando Montesquieu nell’Ésprit des lois inizia ad esporre la teoria della distinzione dei poteri scrive: «Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere di quelle che dipendono dal diritto civile.

In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o a termine, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato»”.

[75] Op. cit., p. 153 ss.

[76] Tale distinzione riecheggia in quella di Miglio “Politica e vocazione dell’animale uomo presentano un nesso molto stretto. Ecco perché un filosofo come Aristotele scrisse che l’uomo è uno zoon politikon. É qui il nesso fra politica e uomo: non si tratta affatto del nesso della ‘socialità’, che è qualcosa di completamente diverso e proprio la differenza fra queste due dimensioni potrà essere messa in luce dallo studio dell’oggetto dell’obbligazione ‘contratto-scambio’, in quanto distinto da quello dell’‘obbligazione politica’” op. cit. p. 160

[77] Scriveva V. E. Orlando “Il diritto suppone sempre, come sua essenza, una «norma» regolatrice dei rapporti sociali cui dan luogo così gl’interessi dei singoli (diritto privato) come quelli della collettività considerata in se stessa e nei suoi rapporti coi sudditi (diritto pubblico)” Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 69.

[78] Du Pape, Lib. II, cap. III.

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