Carl von Clausewitz, Pensieri sulla guerra, introduzione del generale Stefano Basset_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carl von Clausewitz, Pensieri sulla guerra, introduzione del generale Stefano Basset, OAKS editrice, € 10,00.

Perché recensire una edizione di massime tratte da un classico del pensiero, come il “Vom Kriege” di cui circolano tante edizioni integrali? La risposta è duplice: da un canto perché la guerra nel XXI secolo è tornata alla “ribalta” – a scapito delle anime belle che credevano di averla seppellita per sempre – e nella sua forma “tradizionale” (Russia-Ucraina) e in quella “aggiornata” (Israele-Hamas). Dall’altro perché il generale prussiano trattava della guerra come fenomeno, sia negli aspetti immutabili, sia in quelli più legati alle condizioni particolari (e così all’epoca e alle guerre napoleoniche).

Ne consegue che molte considerazioni (in particolare tratte dai libri I, II e III) concernono l’essenza e la teoria della guerra (le regolarità di qualsiasi conflitto armato) e così costanti.; oltre alle condizioni (variabili) delle epoche e dei mezzi delle singole guerre. Ad esempio il Reno fu attraversato – nella stessa direzione – da Giulio Cesare e dagli alleati (Remagen): ovviamente i problemi e le difficoltà che dovevano affrontare il generale romano e quelli angloamericani erano assai diverse, e così la tattica; onde i consigli di Clausewitz vanno presi cum grano salis. Il libro raccoglie massime sulle “regolarità”: è quindi adatto ad un lettore anche non esperto. Una introduzione del generale Basset completa il volume.

Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., La proprietà e i suoi nemici a cura di S. Scoppa, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., La proprietà e i suoi nemici a cura di S. Scoppa, Tramedoro, Bologna 2023, pp. 110, € 10,00.

Questo volume fa parte della collana “Biblioteca della proprietà”, promossa da Confedilizia.

Prende l’occasione dalla direttiva sulle Case-green e in genere dall’andazzo ecologista dell’Unione europea per riproporre l’importanza e la necessità della proprietà, non solo in generale, ma anche per l’ambiente.

Per far questo deve superare due luoghi comuni propagandati: il primo che la proprietà privata comporti necessariamente peggioramento dell’ambiente, mentre quella pubblica no, o quanto meno lo comprometterebbe in misura minore; dall’altro il riflesso condizionato antiproprietario, in particolare da Marx in poi che, dopo il crollo del comunismo ha scelto la tutela dell’ambiente come ragione fondamentale del proprio livore.

Come scrive nell’introduzione Piombini, l’obiettivo «politico principale delle classi politico-burocratiche occidentali, appoggiate dai media e dagli intellettuali (è)  Usare la confisca, il clientelismo, la centralizzazione e la coercizione per combattere il cosiddetto “cambiamento climatico”». E così aumentare (e giustificare) il proprio potere. A tale proposito sostiene Lottieri che «la direttiva detta “case green” è soltanto l’ultimo frutto avvelenato di un’idea pervertita di Unione europea e, oltre a ciò, dello stesso declino del diritto». Tra le due mende, la più interessante è quella del “declino del diritto”. Questo è assorbito dalla legislazione, cioè dalle norme emanate dal principe, che hanno assunto, nello Stato moderno, un ruolo esclusivo (o quasi). Questo a scapito della concezione romana del diritto il quale, oltre alla leges, alle constitutiones, ai senatus consulta era “costituito” dai responsa prudentium, dagli edicta dei Pretori, dai mores maiorum. Cioè era un sistema pluralista e non (quasi del tutto) monopolizzato dallo Stato. Oltretutto negli ordinamenti giudiziari continentali, fino a meno di un secolo fa, privo di quello che Hauriou chiamava, per quello degli Stati Uniti, la superlegalité constitutionnel che garantisce la società civile dall’invadenza dello Stato.

Nell’individuare la ragione di tale bulimia pubblica, Lottieri scrive «alla base di tutto questo, allora, c’è l’antica, antichissima questione del potere. Perché non c’è dubbio che il potere esiste e una delle sue manifestazioni più caratteristiche consiste proprio nella capacità da parte di  alcuni (dominatori) di estrarre le risorse di altri (dominati)». Come gli italiani tartassati da un fisco predone coniugato ad un’amministrazione sgangherata, conoscono bene.

Restando nei limiti di una recensione ricordare tutti i contributi degli autori che affrontato i diversi aspetti del problema: vi rinviamo i lettori.

È opportuno fare comunque un’eccezione per quello di A. Vitale, già dal titolo assai attraente “dall’economia verde a una società al verde”.

Scrive Vitale nella post-fazione che «questo libro mette il dito nella piaga della legislazione e della regolamentazione, nel fondamentalismo ecologico e nella bulimia regolatoria europea – che minacciano di non avere limiti – giustificate con la “crisi climatica globale”» e prosegue che in realtà questo « è funzionale ai pianificatori di ogni colore per un rimodellamento della società secondo i loro desideri (l’uso delle espressioni “cambiare il mondo” e “nuovo mondo” è infatti molto frequente)». Peraltro l’obiettivo dell’ambientalismo radicale è «il controllo e in prospettiva l’annientamento della proprietà, del mercato, dell’economia libera. L’ambientalismo infatti, ignorando il ruolo del meccanismo del libero mercato, dei prezzi e della proprietà privata nella conservazione e nell’aumento delle risorse naturali, finisce sempre per perorare la causa di un’economia pianificata, interventista». Carente di sicuri presupposti, l’ideologia ambientalista non considera le esigenze sociali che sacrifica «di occupazione, di costi per i meno abbienti, di prezzi troppo elevati per i salari medi». E così conduce al verde la comunità.

Nel complesso un libro che possiede il pregio più importante in un’epoca di “politicamente corretto”: la demistificazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

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NOTE SU FREUND E LA DECADENZA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU FREUND E LA DECADENZA

Non ho letto il libro di Freund, per cui queste brevi note si rifanno alle altre opere del filosofo alsaziano, particolarmente L’age de la renaissance, tradotto e pubblicato in italiano nel 1980 (da Armando) con un titolo (quanto mai opportuno): La fine dello spirito europeo.

La concezione della decadenza di Freund è quella “classica” della ciclicità delle istituzioni (e delle civiltà umane) per cui a fasi di espansione e crescita seguono quelle di contrazione e decrescita; a queste ultime succedono poi epoche di “rinascite” (cioè di nuova espansione) e così secondo un andamento che si ripete in cicli per certi aspetti molto simili. Questa concezione applicata alle forme politiche è stata condivisa già dal pensiero antico, dagli stoici e da Polibio di Megalopoli. Nel pensiero moderno tra i tanti che l’hanno sostenuta occorre ricordare G.B. Vico e, ovviamente con le dovute differenze, Spengler; i quali l’applicavano anche alle civiltà umane; e Pareto (alla società prima che alle istituzioni).

Tutte tali visioni hanno in comune di contrapporsi all’idea di progresso, per cui l’uomo progredisce rispetto al passato e questo cammino unidirezionale non conosce marcia indietro (il futuro è e sarà migliore del passato).

Il contrario di quanto ritenevano tanti pensatori antichi (ma non solo) che collocavano l’età dell’oro all’inizio della Storia, per cui la decadenza sarebbe un cammino costante in direzione contraria a quella del progresso. Tra le due, ma in effetti opposta a quella del progresso (prevalente nella modernità) è quella ciclica per cui l’andamento delle fasi di espansione/contrazione somiglia, nello spazio cartesiano, ad una sinusoide.

Scriveva Freund di aver mutuato la nozione di decadenza nel doppio significato datole da Pareto: della degenerazione di un tipo storico di civiltà, ma dall’altro, del rinascimento possibile ad uno stadio successivo sotto nuovi aspetti, differenti, come scrive Jeronimo Molina Cano (nella prefazione dell’edizione 2023) sintetizzando le linee direttrici “del suo opus magnum, la Décadence”. In effetti nei pensatori della ciclicità delle istituzioni e comunità umane, il tutto non stupisce. Perché dalla regolarità della successione dei cicli deriva anche la normalità del processo.

Sempre sul doppio aspetto della decadenza occorre ricordare quel che ne pensava Hauriou con la sua concezione sull’alternanza delle epoche medievali e di rinascimento[1]

Interrotte da crisi che non sono decadenze complete ma fasi di cambiamento intenso, che comunque conserva nella nuova epoca molti elementi della precedente[2]. La coincidenza (anche lessicale) della attuale epoca come di rinascenza – secondo Hauriou e Freund – (la modernità dal XVI secolo ad oggi) è un modulo ulteriore di collegamento dei due pensatori.

Quel che più interessa della concezione di Freund, oltre alla “ciclicità”, sono i caratteri che enumero di seguito:

1) il valore dato ai fatti e all’esperienza, rispetto alle costruzioni intellettualistiche che connotano molti dei nuovi idola della contemporaneità, derivanti da astrazioni di tesi settoriali, anche scientifiche (o pseudo-scientifiche); come ad esempio l’emergenza climatica, il genderismo, ecc. ecc.: ossia la prevalenza di quello che Freund definiva il pensiero razioide, essenzialmente una caricatura della razionalità occidentale[3] e già di per se connotato di decadenza.

Di converso il fatto che l’Europa sia in fase di decadenza è un’affermazione constatabile da una pluralità di circostanze reali e percepibili: in primo luogo l’arretramento territoriale, con la perdita degli imperi coloniali. In secondo luogo, al posto dell’aggressività della fase d’espansione, nel presente prevale – nel migliore dei casi – l’esigenza di conservazione. A questo si accompagna la perdita di fiducia nei valori che avevano ispirato la fase ascendente, i quali anzi, sono occasione di autocolpevolizzarsi, con una mollezza spirituale, prima ancora che materiale. Peraltro, come scriveva Freund, l’aberrazione delle autocolpevolizzazioni (oltre che le loro evidenti parzialità) consiste nel credere che biasimando l’azione degli europei si puliscono quelli che puliti non sono, cioè i governanti dei paesi decolonizzati, alcuni dei quali artefici di predazioni, stragi e genocidi non inferiori,  e spesso più efferati di quelli degli ex colonizzatori.

Secondariamente la tesi di Freund si basa sul fatto che quella materiale deriva dalla decadenza spirituale; la razionalità e la libertà, caratteri della rinascenza occidentale ne hanno fatto le spese, essendo trasformate da una ipertrofia senza limiti che le distorce.

Questa consiste nell’intellettualizzazione. Nell’esempio di Freund la civiltà europea ha costruito una serie di libertà concrete (di pensiero, di riunione, ecc.) per difenderle dall’arbitrio del potere; ovviamente. come affermato da secoli di pensiero, libertà e dominio sono opposti ed insopprimibili.

Invece l’intellettualizzazione “preconizza l’emancipazione totale del genere umano… restituisce al sistema delle libertà il fine escatologico di una libertà totale, senza condizioni” (ossia la fine del dominio). Così “l’intellettualizzazione svia la razionalità appartenente alla Rinascenza, da cui peraltro è nata, assegnandole una missione radicale nella quale perde il proprio significato”. E, sotto un altro aspetto “l’intellettualizzazione trasforma la razionalizzazione in una pura attività razioide, ossia in una discussione sterile, senza alcun riferimento al reale”. Inoltre “una delle illusioni dell’intellettualismo sta nel non accorgersi del rapporto sottile e spesso oscuro tra il tutto e le parti”; nonché tra fine e mezzi. È un modo di argomentare scombinato e sofistico: a farne le spese è soprattutto il principio che “nomina sunt consequentia rerum” sostituito dalla “produzione” di parole a mezzo di parole.

In terzo luogo Freund, come sopra detto, non ritiene che la decadenza sia annientamento delle istituzioni e, ancor di più, delle comunità, ma una fase di trasformazione. La gestione della quale, al fine di migliorare le doglie del nuovo che nasce, richiede la consapevolezza di essere decadenti. Ovviamente è una consapevolezza rigettata a priori da chi condivide l’idea che la Storia sia in costante progresso, che l’oggi è meglio di ieri, e domani lo sarà di oggi. Per cui i progressisti (più i convinti, meno quelli strumentali) sono i più inadatti a gestire le fasi di decadenza. E quindi le peggiorano, anche trascinando e ritardando i cambiamenti con doglie di durata pluridecennale. Gli europei pensano di non essere in decadenza perché vivono bene, e il loro benessere attrae i non europei, scrive Freund in una prolusione del marzo 1985, prevedendo gli inconvenienti delle conseguenze (multi-culturalismo, terrorismo). Profezia quanto mai azzeccata: “Assumere la condizione di decadenza, induce a prevedere il peggio di essa in vista di fermarla, d’impedire che questo arrivi. Se la politica europea è in procinto di fallire, è perché essa si incammina contro una condotta politica lucida che consiste nell’individuare il peggio per darsi i mezzi per affrontarlo”.

Anche perché, aggiunge Freund, per percepire la decadenza occorre (previamente) aver coscienza della propria identità “come popolazione particolare e come civilizzazione originale”.

L’identità “implica due elementi: da una parte la coscienza corrispondente della alterità, dall’altra la coscienza di un passato, di una tradizione”. E l’identità presuppone la distinzione dall’altro perché “non possiamo attribuire significato a noi stessi senza rapportarci all’altro”. Peraltro l’identità è anche “il riferimento a un passato, il riferimento quindi alla durata nel tempo. È nel tempo che io resto identico, non nell’istante. È impossibile restare identico a se stesso mutando senza sosta, senza essere fedele a ciò che si è, a ciò che si è stati e a ciò che si tenterà di restare”.

Aggiunge Freund che “La conservazione non esclude comunque il cambiamento; al contrario essa è creazione continua nel rispetto della propria identità. Detto altrimenti, l’identità esige un continuo rinnovamento, così come il corpo non si conserva se non creando ripetutamente nuove cellule. L’identità europea risiede nella capacità della propria civilizzazione di uscire dagli stereotipi, di uscire da un tempo prefissato, di rinnovarsi continuamente nella critica”. Anche in queste affermazioni Freund ricorda Hauriou secondo il quale l’istituzione è caratterizzata non dalla stasi (che il giurista francese rimproverava al sistema di Kelsen) ma da un movimento lento ed uniforme che le consentiva di rinnovarsi pur durando nel secoli.

Ne consegue che comunque “La decadenza, però, non esclude di poterla contrastare, a patto di averne la volontà. Non foss’altro che per darci dei nuovi mezzi nella stessa azione”. L’importante, al fine di contrastare la decadenza, è non farsi illusioni rifiutandone l’idea. Come spesso, fanno le classi dirigenti detronizzate.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e all’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”.

[2] V. La science sociale traditionnelle, cap. III section I e ss.

[3] Hauriou l’avrebbe chiamato l’eccesso di spirito critico.

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Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco, Liberilibri 2023, pp. 88, € 16,00.

Sarebbero necessari tanti saggi come questo per risvegliare il senso comune da quel “sonno mediatico” che occulta pratiche, mezzi ed espedienti di sfruttamento dei governati (alias sudditi) del nostro tempo, soprattutto di quelli della Repubblica italiana. L’argomento può essere affrontato da più angoli visuali: Lottieri lo considera soprattutto da quello filosofico. Così l’autore considera il neopositivismo di Kelsen, per cui il diritto è “ricondotto alla mera validità formale”, ed è un sistema normativo organizzato secondo una gerarchia di precetti, fino a quello fondamentale. Questa «gerarchia ben precisa colloca obblighi e sanzioni ben al di sopra dei cosiddetti “diritti”. Questo positivismo giuridico, di conseguenza, si traduce nell’assoluto arbitrio di chi comanda» (il corsivo è mio). Ciò era stato stigmatizzato già circa un secolo orsono da Carré de Malberg, secondo il quale la gerarchia di norme del giurista austriaco non era altro che la conseguenza della gerarchia tra organi dello Stato: la conformità dell’atto amministrativo alla legge era il riflesso della superiorità del Parlamento sul governo e l’amministrazione (e così via).

In particolare la proprietà è stata svuotata di contenuto attraverso una disciplina che sottraeva o limitava facoltà a favore dei poteri pubblici (quello che Rodotà, lato sensu, chiamava il “controllo sociale delle attività private).

Per cui sempre il giurista calabrese riteneva la proprietà un diritto sotto riserva di legge, ma del quale il legislatore poteva plasmare ad libitum il contenuto. I tedeschi, che avevano già assistito ad un dibattito simile relativamente al diritto di proprietà come regolato dalla Costituzione di Weimar, quando si dettero la Grundgesetz, tuttora vigente, si affrettarono per evitare simili concezioni, a disporre (all’art. 19) che “in nessun caso un diritto fondamentale può essere leso nel suo contenuto sostanziale”; oltre a vietare su tali diritti, di legiferare con leggi di carattere non-generale.

In realtà, sostiene Lottieri “esiste un’inimicizia originaria tra il potere e il diritto, e quindi anche tra il potere e la proprietà”, in ispecie da quando l’ “ordine giuridico è stato ricondotto alle decisioni arbitrarie del legislatore”, onde “L’arbitrio anarchico del decisore politico stabilisce chi deve avere cosa, ma questo è reso possibile da una sorta di ipoteca collettivistica: dall’idea che ci sia un gruppo di potere titolato a disporre di ogni bene e che può attribuirlo a sua discrezione”. Lo Stato è il più grande distributore dei diritti (e delle risorse correlative). Peraltro nella cultura progressista e nel suo “Stato di diritto”; “è stato allora delineato, grazie alla teorizzazione dello Stato di diritto democratico e sociale, un super-costituzionalismo in ragione del quale alla tripartizione puramente istituzionale tra legislativo, esecutivo e giudiziario si affiancherebbe una tripartizione ben più rilevante, la quale rinvia al contrapporsi dei tre “poteri” (politico, culturale ed economico). In questo modo la sovranità collettiva trarrebbe la sua legittimità e necessità dal compito di contrastare le minacce provenienti dall’economia e dalla cultura, dalla ricchezza e dal pensiero”. Onde funzione dello Stato sarebbe di contrastare i relativi (e così denominati) abusi. Ma “L’esito di tutto ciò è un potenziamento crescente, tendenzialmente illimitato, del dominio politico: del controllo che il ceto governante esercita sul resto della società, sempre più espropriata dai governanti e dai loro complici”.

Il che non ha affatto impedito che dei poteri pubblici si servissero anche i grandi poteri privati, realizzando così un mélange pubblico-privato, d’altra parte spesso ripropostosi (storicamente) in gran parte delle comunità. Anche l’occidente, e non solo Putin (e Xi) ha i propri oligarchi. D’altronde, quanto alla dimensione temporale questo era già stigmatizzato da Pareto nella forma della “plutocrazia demagogica” molto simile all’attuale apparato economico-mediatico di controllo. Anche oggi, i poteri forti “hanno reso possibile un nuovo dirigismo, in cui la grande impresa lavora di concerto con i politici e gli intellettuali. Non c’è dunque da stupirsi se ora, un po’ tutti, stanno passando all’incasso”.

Da ultimo, per favorire il controllo sui governati si è inventato anche degli stati di emergenza gonfiati, l’ultimo dei quali pressoché inesistente (quanto alla causa indicata). È quello del riscaldamento ambientale, contestato da tanti scienziati e contraddetto dall’andamento ciclico delle temperature (da millenni, assai prima dell’uso dei combustibili, dei motori e delle caldaie moderne).

Nel complesso un saggio assai interessante, che ne fa auspicare un altro: come nell’Italia della Repubblica sia stato conculcato legislativamente il diritto di proprietà e quanto ci sia costato. Speriamo che Lottieri sia disponibile a scriverlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

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DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

DISAPPLICARE NON È UNA PAROLACCIA

A leggere la stampa, compresa quella non di sinistra, sulle recenti decisioni giudiziarie sui migranti, si ha l’impressione che venga criticata (anche) la possibilità per il Giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi (nonché, in certi casi, norme di legge).

Dato che la disapplicazione ha una storia che quasi coincide con quella dell’unità d’Italia e della costruzione dello Stato nazionale e liberale, urge ricordare cos’è, chi l’ha voluta, e perché.

Con la L. 2248/1865 all. E era abolito il vecchio contenzioso amministrativo degli Stati pre-unitari. L’art. 5 dispone: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.

Come scriveva Vittorio Emanuele Orlando, la portata liberale di tale riforma fu limitata da una giurisprudenza timida e favorevole alla parte pubblica. Scriveva: “L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo”. A completarla comunque intervenne nel 1889 l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione sugli interessi legittimi. Sosteneva Silvio Spaventa che, dato l’accrescimento del potere pubblico era necessario un controllo giudiziario più esteso e penetrante: “È evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno e contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere… Tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressoché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo… la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative”.

Ho riportato, tra i tanti, le opinioni di due tra i più noti e influenti giuristi per ricordare come l’intero “comparto” della giustizia amministrativa – disapplicazione inclusa – fu opera e merito della classe dirigente liberale; la quale, pur detenendo il potere, all’epoca ebbe il coraggio di approvare riforme il cui effetto era di limitarlo e controllarlo.

Dopo che da un trentennio si sta facendo tanto per conculcare i diritti dei cittadini, come più volte e più estesamente ho sostenuto, occorre evitare l’errore di pensare che disapplicare sia abuso di potere giudiziario, che è contrario al principio di distinzione dei poteri (Montesquieu si rivolta nella tomba), che occorre un governo che possa governare, ecc. ecc.

Tutte cose in tutto o in larga parte condivisibili ma le quali con la disapplicazione (come “tecnica sanzionatoria” degli atti illegittimi della P.A.) hanno poco a che fare. E limitarla o anche solo deprecarla sarebbe fare un passo (enorme) indietro, che tutti i sedicenti liberali aspettano fregandosi le mani.

Ciò stante, è comunque da valutare se e come siano “disapplicabili” atti o anche disposizioni con valore di legge perché contrarie al diritto internazionale, ed ancor più se qualche decisione giudiziaria, apparentemente sollecita del diritto delle genti non sia piuttosto frutto della personali convinzioni politiche ed etiche del giudicante. Ma questo è un problema (enorme) che concerne l’esercizio di (ogni) funzione pubblica ed in particolare di quella giudiziaria. E non solo della disapplicazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Murray N. Rothbard, Contro l’egalitarismo a cura di Roberta Adelaide Modugno_recensione di Tedoro Klitsche de la Grange

Murray N. Rothbard, Contro l’egalitarismo a cura di Roberta Adelaide Modugno, Liberilibri 2023, pp. 122, € 18,00

Nel volume sono raccolti saggi del filosofo ed economista libertario, allievo di von Mises. Scrive la Modugno nell’introduzione dell’eguaglianza avversata da Rothbard che “non si tratta del principio dei Padri fondatori della repubblica americana, cioè l’idea che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati della stessa libertà. L’egalitarismo di sinistra proclama invece di voler rendere tutti gli uomini uguali, cosa ben diversa da un’uguaglianza nella libertà”. Dato che gli uomini sono (fortunatamente) tutti diversi l’uno dall’altro, il percorso tra eguaglianza da realizzare e disuguaglianza fattuale è del tutto in salita.

Anche perché a partire dall’eguaglianza più “soft”, cioè quella delle opportunità, le differenze fisiche di ciascun individuo fanno sì che ai punti di arrivo si ricreino disuguaglianze. Basti ricordare quanto pesino tali caratteri negli atleti, negli attori o nei cantanti (a tacer d’altro). Anche se provvisti di borse di studio, palestre, ecc. ecc., decisivi per il successo del calciatore, del tenore e dell’attrice saranno la prestanza fisica, l’ugola e la bellezza. E così a ricreare la disuguaglianza sia delle possibilità e stili di vita che nella ricchezza.

Inoltre come sottolinea Alessandro Fusillo nella post-fazione: “lo strumento per la realizzazione forzosa dell’uguaglianza è lo Stato… lo Stato, in quanto monopolista territoriale della violenza aggressiva ed entità collettiva che ricava i propri redditi non dalla produzione e dallo scambio ma dall’appropriazione fraudolenta o forzosa di quanto altri hanno prodotto o scambiato, è un’entità antisociale e asociale. Lo Stato, pertanto, non è, secondo la ricostruzione rothbardiana, un’entità magari inefficiente e farraginosa, ma fondamentalmente benevola e utile. Lo Stato è il nemico della società civile, l’organizzazione che ne impedisce o rallenta lo sviluppo e la prosperità”. Anche Rothbard nota che “La grande realtà della differenza e della varietà individuale (cioè, la disuguaglianza) risulta evidente dalla lunga storia dell’esperienza umana; da qui, il riconoscimento generale della natura antiumana di un mondo di uniformità forzata. Socialmente ed economicamente, questa varietà si manifesta nell’universale divisione del lavoro e nella “Legge Ferrea dell’Oligarchia” – la consapevolezza che, in ogni organizzazione o attività, alcuni (generalmente i più capaci e/o i più interessati) finiranno per diventare leader, con la massa che riempie le fila dei seguaci”. Quindi né l’ordine economico, né quello politico (anzi questo ancora di più) prescindono dalla disuguaglianza.

Chi scrive è convinto che un’affermazione è sicuramente condivisibile, il resto lo è solo in parte.

A osservare la realtà lo Stato moderno è anche il garante della libertà concreta (Hegel). Il bicchiere cioè è mezzo pieno, perché è proprio il monopolio della violenza legittima (e della decisione politica) che ha reso possibile un grado di coazione e quindi di realizzazione delle pretese (delle “obbligazioni-scambio” di Miglio) ragguardevole.

A parte i casi (tanti) di esercizio dispotico del potere, quello dello Stato moderno è assai più efficace di quanto lo fosse il sistema feudale o i diritti degli “Stati” arcaici dove le pretese – anche se statuite dal giudice – dovevano essere eseguite dagli aventi diritto.

Il tutto si basa tuttavia sulla diseguaglianza più evidente e necessitata perché determinata dalla natura umana: che il “politico” è squisitamente disuguale, basandosi sulla differenza più sostanziale e decisiva, ossia quella tra chi comanda e chi obbedisce.

Per cui l’eguaglianza da realizzare si fonda in ogni caso, su una disuguaglianza necessaria e decisiva. Perché normalmente chi comanda può arrivare fino a condannare (o destinare) alla morte. Cosa che Fusillo nota: “La supremazia dei pubblici poteri è la negazione del principio di uguaglianza”.

Rothbard nei saggi raccolti offre sempre una lettura originale, ma soprattutto anti-conformista e, ricordando Bacone, anti-idola. Un’ottima ragione per leggerlo.

Teodoro Klitsche de la Grange

IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA A TEODORO KLITSCHE de la GRANGE

Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri.

Oggi risponde Teodoro Klitsche de la Grange[2], che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. 

Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati_Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

DOMANDE

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

RISPOSTE

Premesso che, come i lettori di “Italia e il mondo” sanno, la “nebbia della guerra” nel conflitto russo-ucraino è particolarmente fitta – anche se rozza – e pertanto ha, quanto meno, l’effetto di disorientare i giudizi; tenuto conto di tale – fondamentale limite – provo a rispondere:

Al primo quesito: sembra che sia stato di sottovalutare il nemico. Ma non è certo, dato che lo “scopo” politico potrebbe anche (per gli USA) essere di impelagare la Russia in una guerra lunga. Obiettivo, per ora, conseguito.

Quanto al secondo quesito (e in parte al primo), l’errore più evidente (dell’epoca contemporanea) è valutare fatti politici, come per eccellenza è la guerra, con “categorie” e criteri economici. Se è vero che contiene (una parte) di vero il detto “c’est l’argent qui fait la guerre” è vero (per l’altra, prevalente, parte) che se fossero PIL, cambi, spread, ecc. ecc,. e così la sproporzione economica a determinare la vittoria in guerra, non si capirebbe l’esito –  opposto – di tanti conflitti. Già oltre quarant’anni fa Luttwak ironizzava sui rapporti redatti dal pentagono sulla guerra in Vietnam, dove l’impegno militare era commisurato dal numero di proiettili e missili sparati, dal peso delle bombe, ecc. ecc.: con criteri e parametri assai simili a quelli di manager che misurano la produttività in base alla quantità di “pezzi” che escono dalla fabbrica. E dalle vendite dei medesimi.

Circostanze importanti, ma non decisive in politica e in campo militare. Qui essenziale è fiaccare la volontà di combattere del nemico, seguendo la prima definizione della guerra nel “Von Kriege”. Il che spiega come popoli del Terzo mondo, poverissimi, abbiano sconfitto gli eserciti delle grandi potenze, colmi di ogni ben di Dio. Napoleone, che di queste cose s’intendeva, sosteneva che il morale sta al materiale come 3 sta ad 1. Sarebbe bene che se ne ricordassero.

E ovviamente questo non è il solo ambito – ma è il principale – che distorce i giudizi delle élites.

Ma è sicuro che tale errore coinvolge sia le élite che la cultura in cui sono vissute e prosperate (loro): che è quello della “fine della Storia” durato poco più di un decennio, ma che dopo ha continuato a far danni. Secondo la quale i quattro cavalieri dell’Apocalisse erano andati in pensione. Ma negli ultimi anni almeno due: peste e guerra hanno ripreso servizio, anche in Europa, infrangendo i sogni delle anime belle (quanto ingenue o ipocrite).

Il terzo quesito: la crisi è una conseguenza della fuga dalla realtà; della credenza di poter cambiare il reale in conformità ai propri sogni e favole mentre, come scriveva Machiavelli, così si trova “più presto la ruina” propria.

Sul quarto: non mi intendo di Russia e Cina da poter azzardare giudizi. Posso all’uopo ricordare anche qui quello di Machiavelli: che per rigenerare una repubblica occorre “ritornare” al principio

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UN CASO INTERESSANTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN CASO INTERESSANTE

Spesso si ripete che l’Italia è un grande laboratorio politico dato che è la prima a sperimentare novità: e, con altrettanta frequenza, questo è vero.

Uno dei casi è proprio Forza Italia. Denominata partito personale, leggero anche per contrapporlo a quelli della I repubblica connotati da apparati assai più ideologizzati, professionalizzati e pervasivi.

Orsono venticinque anni mi capitò di scrivere su Berlusconi e Forza Italia, confrontandone l’allora breve esistenza politica con regole e parametri presi da Machiavelli e da un acuto giurista tedesco, Rudolf Smend. Questi è rimasto nella dottrina costituzionale come colui che ha valorizzato l’integrazione, cioè il rapporto tra vertice e base come “divenire dinamico dell’unità politica”, cioè (anche) come produzione di un idem sentire, che consolidasse e rendesse effettive unità e azione politica. Scrive Rudolf Smend “l’integrazione è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti unificate”. E tra i gruppi sociali, quelli che più necessitano di integrazione sono quelli a carattere politico, a cominciare dai partiti fino allo Stato. Notavo che Forza Italia, data la forte personalità del capo era cospicuamente dotata di integrazione personale (anche se difettava nei dirigenti intermedi).

A distanza di oltre 5 lustri si può confermare che l’integrazione personale (tramite il leader) è stato il principale fattore d’integrazione e probabilmente quella che ha consolidato l’esistenza del partito. Lo dimostrano il numero enorme di preferenze (nelle elezioni che le consentivano) a Berlusconi, gli assai più modesti risultati nelle elezioni locali, e comunque quando il cavaliere non si candidava, l’evidente ascendente dello stesso sull’elettorato. E perfino il complotto anti-Berlusconi che ne ha portato, tramite legge Severino, alla di esso privatizzazione: la (voluta) privazione del ruolo pubblico del cavaliere dopo la condanna definitiva è stato probabilmente il fatto che ha maggiormente contribuito al sorpasso della Lega su Forza Italia alle elezioni politiche del 2018. Proprio per la preponderanza che aveva l’integrazione personale nella “tenuta” di Forza Italia la tattica preferita dal centrosinistra è stata quella di attaccare il leader avversario sul piano personale (e “privato”).

Anche perché gli altri due mezzi (tipi) d’integrazione individuati da Smend, in Forza Italia di converso erano assai deboli. Nella vita di ogni struttura le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend – “prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi comuni”. Ma da quanto risulta tale mezzo è stato sempre poco praticato: i “congressi” di Forza Italia più che un modo per realizzare la volontà comune e selezionare la dirigenza (almeno in parte), sembravano convention aziendali per promuovere i prodotti offerti (in genere sono anche questo, ma era la proporzione prevalente a minare, alla lunga, la solidità dell’insieme).

Tra l’altro i sistemi elettorali per lo più adoperati hanno ridotto la possibilità che la selezione della dirigenza politica, in modo democratico, fosse “compensata” in sede elettorale. Questo perché la collocazione in collegi e listini consente ai vertici dei partiti un potere di designare gli eletti assai superiore alla vecchia legge elettorale proporzionale con preferenza, così che si è parlato – correttamente – per lo più di un parlamento di nominati.

Quanto all’integrazione materiale, cioè attraverso la comune adesione a “tavole di valori” comuni, all’inizio si manifestava per lo più in negativo cioè contrapponendosi al centrosinistra. Presentava il limite di essere in parte nebulosa, in altra stemperata in più rivoli, ma soprattutto non ha retto il confronto con le realizzazioni dei governi Berlusconi. I quali, malgrado maggioranze parlamentari cospicue, realizzavano poco di quanto promesso. Certo meglio di quanto avrebbe fatto il centrosinistra o i governi “tecnici” o “simil-tecnici”, ma comunque modesto rispetto alle promesse ma soprattutto alle aspettative dell’elettorato. Di guisa che circa due terzi del bacino elettorale di Forza Italia si è riversato sulla Lega e Fratelli d’Italia, partiti che quindici anni fa insieme avevano consensi pari a un terzo di quelli del partito di Berlusconi.

E adesso? La risposta è tutt’altro che facile e Tajani avrà un bel da fare. Venuto meno il fattore Berlusconi, estremamente difficile a sostituirsi, non resta che puntare sugli altri fattori d’integrazione e su mezzi di selezione del personale politico meno “autocratico”.

Scriveva Michels che la democrazia non è concepibile senza organizzazione. Nel caso di Forza Italia vale anche l’inverso e l’organizzazione non è concepibile senza democrazia. E così anche con la discussione a tutti i livelli dell’organizzazione. Questa serve a selezionare i capi, come ad acquisire e diffondere idee (anche) nuove. Serve sia all’integrazione funzionale che a quella materiale. Così come alla coesione dell’insieme.

Riuscirà l’impresa? È nuova, sicuramente per l’Italia, ma non mi risulta che sia stata realizzata altrove, almeno in Europa. Non resta che fare gli auguri, ricordando che il merito nel riuscirci è pari alle difficoltà da superare.

Teodoro Klitsche de la Grange

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FETICISMO DOCUMENTALE E PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

FETICISMO DOCUMENTALE

E PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE

(tratto dalla rivista Nova Historica 2010)

1. La fortunata espressione “patriottismo costituzionale”, diffusa e sostenuta da Jürgen Habermas, è recentemente spesso ripetuta – al di la della cerchia degli specialisti – da personaggi (in ispecie politici, ma non solo), tra i quali assume significati come “Ci unisce e ci incoraggia in questo sforzo la grande, vitale risorsa della Costituzione repubblicana. Non c’è terreno comune migliore di quello di un autentico, profondo, operante patriottismo costituzionale. È, questa, la nuova, moderna forma di patriottismo nella quale far vivere il patto che ci lega: il nostro patto di unità nazionale nella libertà e nella democrazia”1.

Per quanto l’espressione citata, come tutte quelle estrapolate da discorsi più vasti, potrebbe non rendere esattamente il pensiero del nostro Presidente, è – a confrontarla con altri interventi e dichiarazioni – chiaramente “rappresentativa” di caratteri essenziali del “patriottismo costituzionale”.

Infatti mentre il patriottismo è riferito a una comunità di popolo legata da vincoli storici, religiosi, etnici, in quello costituzionale è “il patriottismo di un popolo che si ritiene unito non dai vincoli tradizionali e tipici della nazione, ma da quei principi e valori (ad esempio il valore della persona e il metodo democratico, ricordati dallo stesso presidente Napolitano) che sono fissati in un patto costituzionale”2.

Resta il fatto che oggigiorno nel senso comune, la Costituzione è un patto, o più precisamente un patto scritto; e che quindi la lealtà e la fedeltà dei cittadini dovrebbe essere rivolta a un atto (patto), o a un documento. Cioè un “pezzo di carta” su cui ironizzava Lassalle3.

Il patriottismo costituzionale, malgrado le critiche preventive (e realistiche) di Lassalle, si presenta come (l’unica) forma d’integrazione possibile in una società contemporanea. L’ “inclusione dell’altro” (titolo di un lavoro di Habecmas) non è né un’assimilazione né chiusura verso l’esterno, ma consiste in una convinta adesione ai principi universalistici della Costituzione, di guisa da consentire la compresenza, all’interno della società, di una pluralità di visioni del mondo e relative “tavole di valori”. Sarebbe, in altri termini (l’unico) modo possibile per esorcizzare i conflitti derivanti dalle differenze culturali, etniche (ed economiche), verosimilmente in crescita in un mondo globalizzato connotato dell’aumento esponenziale dei movimenti migratori. E così la risoluzione, in relazione a tutti i conflitti (intracomunitari) possibili, di quella “lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «Dio» e il «demonio», che Max Weber attribuiva ai contrasti tra “valori”. Lo scioglimento dell’enigma irrisolto della storia, che Marx riteneva essere il comunismo, così diventa, nell’attuale momento storico e in relazione ad esso, il carattere (e pregio) del “patriottismo costituzionale”.

2. Questa concezione lascia irrisolti, perché non chiariti, due elementi fondamentali, ambedue riconducibili all’aggettivo “costituzionale” e al termine da cui deriva, cioè costituzione. Se a questo si da un significato ovvero un altro, cambia completamente il concetto, derivato, di patriottismo costituzionale.

Se per costituzione si intende, secondo la nota concezione kelseniana, ciò che è connotato dall’essere modificabile solo a seguito di un particolare procedimento di revisione previamente stabilito, ne consegue che il patriottismo costituzionale sarebbe ciò che riassume la lealtà e l’osservanza nei confronti di un complesso di norme coordinate. Per cui “patriota costituzionale” e quel che più preoccupa, “non-patriota costituzionale” (con quel che ne può conseguire negli ordinamenti positivi, dalla fucilazione in giù) è chi ritiene costituzionali tanto l’art. 1 o 2 della Costituzione vigente (sulla forma di Stato e di governo) che l’art. 16 (sul diritto c.d. di locomozione) o l’art. 44 (sul diritto all’abitazione)e così via.

Se di converso il concetto di costituzione è svincolato dal criterio procedurale-formalistico kelseniano, per accedere ad una visione sostanziale della Costituzione, per cui il documento relativo (la Costituzione formale) è fatta di disposizioni realmente costituzionali (le decisioni fondamentali sulla forma dell’unità politica) e d’altro, cioè le leggi costituzionali, si rifugge da conseguenze un po’ bizzarre, perché costituzione sono solo le decisioni fondamentali e non l’insieme delle norme connotate da rigidità.

L’altro problema è se la costituzione vada identificata con l’atto così denominato o piuttosto questo (e neppure integralmente) ne faccia parte; e, prima di questo se una comunità esiste perché ha una costituzione o ha una costituzione perché esiste. Com’è noto tale problema se l’era posto (tra gli altri) Santi Romano: e la soluzione del grande giurista era che “Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo”4. Per cui “esistente” e “giuridicamente ordinato” sono (salvo una distinzione) coevi: simul stabunt et simul cadent.

La distinzione da fare a tale proposito è quella in cui l’istituzione è generata con la sua costituzione (o scompare con quella) o quando la costituzione è generata (o abolita) senza che abbia inizio o cessi l’esistenza dell’istituzione. Questo è il caso più frequente. Solo in Italia, dal 1861 in poi, è capitato (almeno) tre volte5.

Né sfugge alla “costante” dell’esistente che precede il normativo, il caso – non molto frequente – della costituzione come “trattato” tra più Stati (istituzioni), dato che è l’esistenza precedente (e l’accordo) di questi a costituire il presupposto del nuovo Stato. Anche in tal caso, il rapporto tra esistenza dell’istituzione e vigenza della costituzione si manifesta asimmetrico: mentre la nascita o la fine della prima comporta quella della seconda, le vicende di questa non sono decisive per quella6. In questo senso è l’esistenza di un potere costituente (l’attore) ad assicurare l’ordinamento pur nella variazione degli atti (decisioni) costituzionali.

A lato di ciò si trova l’aspirazione, tipica dell’età moderna, che perché una costituzione sia tale occorre poterla mettere in tasca (Thomas Paine). In altre parole che sia scritta; in effetti le moderne costituzioni scritte hanno il loro antecedente, come scrive Jellinek, nei patti e nelle Carte redatti nelle colonie inglesi in America; in particolare è ricordata quella sottoscritta tra i coloni del Connecticut, quelle redatte da William Penn, o il convenant dei Padri Pellegrini convenuto sulla Mayflower7.

Tale identità (costituzione = documento scritto e “statuito”) è affatto sconosciuta alle concezioni non moderne, e, in parte, anche a quelle successive alla Rivoluzione francese. Basti all’uopo, per le prime, ricordare l’opinione di Cicerone sulla costituzione romana “nostra autem re publica non unius esse ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot constituta saeculis et aetatibus8. Per le seconde, tra i primi a formularla dopo la rivoluzione francese, quella di de Bonald che “la costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza”: onde scriverla non è necessario perché una costituzione vi sia. Il che è stato condiviso da gran parte della dottrina del diritto successiva (da Hauriou a Santi Romano e Carl Schmitt); tuttavia nell’opinione corrente, alimentata assiduamente, un fatto così evidente ossia che le unità politiche erano e sono costituite, e spesso assai ben costituite, prima che fossero inventate le costituzioni scritte (e lo saranno dopo), è (forse volutamente) trascurata. Di guisa che, se fosse fatto un sondaggio sul quesito, se le costituzioni debbano (necessariamente) essere scritte, riporterebbe una schiacciante maggioranza affermativa, e l’opinione contraria sarebbe probabilmente considerata una diavoleria di qualche astuto manipolatore. Ovvero questa tesi, così contraria alla realtà storica, ha la consistenza (e la non ragionevolezza) di un idola tribus (e anche fori).

3. Da quando le costituzioni sono (per lo più) scritte, ha progredito la teoria che, per fare una costituzione non serve avere qualcosa in comune: dalla lingua, alla religione alla cultura, e così via. Ma sia sufficiente essere animati da buona volontà, e, preferibilmente da (qualche) interesse condiviso, per raggiungere un accordo soddisfacente e durevole.

La scrittura e la statuizione dei documenti costituzionali sarebbe in altri termini non la conseguenza, ma il succedaneo di quegli elementi identitari sopra (parzialmente) ricordati. A conforto di ciò si possono portare due circostanze: la prima che Costituzioni scritte – cioè (solo) quella degli Stati Uniti d’America – sono in vigore da oltre due secoli. Cui può replicarsi che il successo di quella statunitense è rara avis, perché di solito quelle europee scritte, e le più longeve, al massimo superano la sessantina. E più che altro che ciò prova la saggezza delle scelte dei costituenti americani (il “contenuto”), più che la forma scritta e statuita della costituzione.

La seconda che, prevalendo nel mondo contemporaneo il modello “società” rispetto a quello “comunità”, scrivere le costituzioni sarebbe un segno – e una conseguenza di questo “ethos” moderno.

Pur se questa tesi ha molto di vero, è debole però sul momento “genetico” e sulle cause. Infatti non risolve il problema se, continuando con l’esempio della Costituzione americana, la costituzione (e la conseguente durata), fosse dovuta al fatto che i padri costituenti (e la stragrande maggioranza della popolazione allora) fossero Wasp, cioè bianchi (i neri non votavano) anglosassoni e protestanti (per lo più fedeli di una particolare confessione protestante) per cui raggiungere un accordo tra persone accomunate da lingua, razza, religione, teoria e prassi giuridica fosse, per così dire, estremamente facilitato da questa comune identità. Ma se, di converso, fossero stati di tre o quattro etnie diverse (e bilanciate), di altrettante religioni, parlanti lingue diverse, nessuno è in grado di affermare che si sarebbe raggiunto un accordo e più ancora che la durata di quello sarebbe stato di oltre due secoli. Piuttosto l’esperienza storica dimostra che – gli ultimi casi sono stati quelli della Iugoslavia, dell’Unione sovietica e della Cecoslovacchia – il tutto sarebbe andato presto in frantumi9. E, peraltro, finché quegli Stati non si sono dissolti ciò che li ha tenuti insieme non è stato un consenso a un accordo tra volontà arbitrarie (e razionali) – cui può ricondursi un patto stilato in un documento – ma la dittatura sovrana del partito comunista. È stato il potere illimitato di questo a sopperire all’inesistenza – o alla debolezza – dei legami comunitari tra etnie e popoli diversi per lingua, religione, storia, costumi: se all’espressione della volontà popolare fosse stato riservato uno spazio se non uguale non troppo lontano da quello riconosciuto in Stati non totalitari, probabilmente si sarebbero dissolti molto prima.

Per cui appare chiaro che l’unità delle volontà – o del consenso – nel costituire e conservare un’esistenza comunitaria è il presupposto necessario perché possa essere tradotto in una costituzione scritta, statuita e durevole.

In altri termini è il contesto (cioè la comunità) dove si decide di darsi una costituzione scritta, a determinare se questa avrà il carattere della costituzione “weberiana”, cioè “la possibilità effettiva di disposizione a obbedire… nei confronti della forza di imposizione delle autorità di governo sussistenti”. Se è vero, come precisa Weber che “il concetto di «costituzione» qui impiegato è uguale a quello usato da Lassalle. Esso non coincide con il concetto di una costituzione «scritta» e in genere di costituzione in senso giuridico”10, è parimenti vero che una costituzione avente alte difficoltà a farsi accettare nel gruppo sociale – la quale cioè non procuri consenso e obbedienza ai governanti, è del tutto inutile come costituzione anche “giuridica”, giacché il diritto non prescinde dal problema della efficacia dell’ordinamento, che anzi ne è una caratteristica intrinseca e peculiare.

Il problema specifico che si pone è la possibilità che l’istituzione politica si fondi solo su una convenzione (chè se si fonda anche su una convenzione, la questione non si pone) sia nella forma del patto che del “rescritto”, o che occorra dell’altro (e prevalente). Dato che la politica (e il diritto) attengono alla vita “pratica”, e che, come sopra cennato è assai difficile che una “pattuizione” possa avere vigenza durevole se non poggia su una certa identità (e su un presupposto tasso d’omogeneità), la soluzione non può che essere negativa. Per pensare possibile il contrario, sarebbe necessario addurre qualche esempio storico. Ma dato che non se ne vedono, non resta che considerarlo un mero auspicio.

A ciò occorre aggiungere che se è vero che il carattere dell’atto costituente (pattizio, scritto, deliberato) ha un’importanza nel contesto di un ethos collettivo, è ancor più vero che la costituzione è “la soluzione del problema seguente: dati la popolazione, i costumi, la religione, la posizione geografica, le relazioni politiche, le ricchezze, la buona e cattiva qualità di una determinata nazione, trovare le leggi adatte”11. E quei dati appena elencati, oltre a esulare e preesistere dalla costituzione statuita, tuttavia ne determinano in modo cogente il “contenuto” e il successo. Con la conseguenza che o questa è congrua a quelli o diventa incongrua, perché inutile a costituire un regime politico stabile e cioè inutile al (di essa) scopo tipico e peculiare.

4. Ma è proprio vero che, nell’ambito dell’ethos moderno, la “statuizione” della costituzione ne esaurisce il carattere fondamentale?

A leggere i primi documenti costituzionali e le concezioni che li hanno ispirati, risulta che accanto – e prima – della forma dell’atto (e del documento) “costituzione”, è la novità del potere costituente (del popolo) a costituirne il connotato fondamentale, non meno importante della scrittura e statuizione dell’atto.

Le opere di Sieyès e il preambolo della Costituzione degli Stati Uniti12 ne sono testimonianze evidenti. E, parimenti, la concezione del potere costituente è la secolarizzazione della teologia politica cristiana, in particolare di quella tomista del diritto divino provvidenziale, che riserva alla decisione della comunità la scelta della forma di organizzazione del potere13.

La decisione costituente si fonda cioè sul potere costituente di una Nazione consapevole della propria esistenza storica e politica; nella quale esistenza rientrano (gran parte di) quelle determinanti che ne costituiscono l’identità.

Onde la costituzione non è un atto deliberato per un qualsiasi popolo e Stato: ma peculiare a quel popolo (e a quello Stato). Come scriveva efficacemente de Maistre, criticando la Costituzione francese del 1795 (quella “direttoriale”, durata quattro anni), questa era fatta per l’uomo, ma aggiungeva subito dopo “non esiste uomo nel mondo. Ho visto, nella mia vita, francesi, italiani, russi…” stigmatizzando così l’illusione delle costituzioni fatte a tavolino (e al lume dell’ideologia). Il carattere storico-identitario ( come risulta – tra l’altro – dal concetto di Nazione formulato da Sieyès) non è meno presente nel pensiero borghese di quanto lo sia in quello contro-rivoluzionario.

Nel suo “stato nascente” la dottrina costituzionale borghese è un pensiero forte, presupponendo una comunità consapevole della propria unità ed omogeneità come dei diritti conseguenti derivati non dal diritto positivo, ma da quello naturale14.

Nelle odierne condizioni di (decadenza e) travisamento del pensiero costituzionalistico, è stato espunto tutto quel che lo rendeva forte: non l’unità (e l’omogeneità) presupposta, non il diritto naturale, non il potere costituente, non il diritto (naturale) a modellare la forma politica. È rimasto solo ciò che vi era di meno incisivo e decisivo: il carattere scritto (e statuito) della costituzione. Peraltro interpretata di guisa da limitare ed annacquare i connotati forti della concezione borghese-rivoluzionaria. Ne è un esempio (tra gli altri) la sistematica dimenticanza del potere costituente, e (ad esso collegata) l’interpretazione della costituzione come atto immodificabile (di fatto soggetto all’applicazione ed interpretazione dei poteri costituiti), e al “patto costituzionale” come compromesso tra partiti e “famiglie” politiche: Aleggia su tutto il tacito (?) conferimento di un qualche carattere “sacro” al patto/atto/documento, quasi un reflusso della secolarizzazione.

Tuttavia, oltre all’incapacità di una concezione del genere di rappresentare la realtà, v’è un problema: fino a quando riesce a contenere questa, che è di natura mutevole, essendo qualcosa d’organico (e reale) e non di meccanico (e ideale)?

Come sopra ricordato, mentre la comunità è sempre in movimento15 il sistema normativo (intendendo con ciò l’ordinamento giuridico come concepito da un normativista) è in se, come sosteneva Hauriou, statico (e “trascendente”). Col rischio di indirizzare il proprio patriottismo a un oggetto obsoleto e non (corrispondente) cioè che esiste realmente16; e con la conseguenza d’innescare un conflitto tra legittimità e legalità17. Perché la legittimità concerne un rapporto tra uomo ed uomo (il potere weberiano); è stata invocata per il rapporto tra uomo ed istituzione (Stato, regime politico, governo), ma è (almeno) inconsueto scomodarla per il rapporto tra uomo ed atto (norma); e per il patriottismo (che appare, nell’uso dell’espressione, qualcosa di non lontano dalla legittimità) vale lo stesso discorso. Nel senso che se è vero che una Costituzione condivisa concorre a creare consenso al potere dei governanti, appare difficile che possa sostituire e surrogare ogni altra componente della legittimità. Lo stesso per il patriottismo: se la costituzione, ancor più nel senso di costituzione formale, potesse sostituire la devozione alla comunità (Nazione, Patria), nella sua conformazione (e retaggio) storico ed ideale, ne conseguirebbe che non avremmo più italiani, francesi, inglesi, tedeschi, ma parlamentaristi, semi-presidenzialisti, monarchico-parlamentaristi, federal-cancellieristi e così via.

Manca ai costituzional-patrioti l’accortezza di Socrate, il quale nella Presopopea delle leggi (nel Critone) le fa accompagnare dall’insieme delle città (kai to koinon tes poleos)18; anzi quelli isolano ancora di più la costituzione formale, privandola anche del seguito ossia del resto della legislazione19. Al contrario di Renan che, quando elenca i principali fattori che fanno una nazione (razza, lingua, religione, comunanza d’interessi, territorio) esclude che possono essere presi esclusivamente ed (isolatamente) sufficienti (e significativamente, non cita né la costituzione né il diritto).

5. Ai costituzional-patrioti, a quanto pare, sembra basti un documento (peraltro neanche citato tra i fattori di Renan, neppure nel genus diritto o leggi), per surrogare tutti quei fattori.

A leggere gli ultimi contributi apparsi sulla stampa in rete infatti ci si chiede, dubitando, se ci siano forze politiche disposte a “sottoscrivere l’art. 33 comma 3° della Costituzione (il diritto d’istituire scuole)…o l’art. 11 (il rifiuto della guerra),… o l’art. 32 comma 2° (divieto di trattamenti sanitari obbligatori) E si potrebbe continuare a lungo con questo elenco20. Elenco composto, evidentemente, dall’insieme delle disposizioni costituzionali indistintamente. Dalla sovranità quindi al diritto all’abitazione, dalla scelta della forma democratica a quella di non subire trattamenti sanitari, dalla funzione legislativa allo sviluppo dell’artigianato. Tutte equiparate e parimenti “costituzionali” (perché rigide).

Più sorvegliati e condivisibili altri interventi. Ad esempio quello di Barbara Spinelli sulla “Stampa” dove dopo aver sostenuto “per alcuni le istituzioni e le costituzioni hanno una forza così potente – la forza del Decalogo – da sostituire identità controverse come la nazione o l’identità etnica” si legge: “Non sono Habermas e le sinistre ad avere inventato il concetto, non a caso tedesco, di patriottismo costituzionale: Lo coniò negli anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger … Per Sternberger, il patriottismo costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate”. O quello di Gianfranco Fini che ha rilevato “L’esperienza drammatica del secolo scorso ci ha insegnato che la base più solida del sentimento nazionale risiede nel valore del patriottismo costituzionale, quindi in quei principi di libertà, democrazia, uguaglianza e rispetto della persona che mettono al riparo i popoli……alla base del sentimento nazionale non può esservi l’appartenenza etnica ma la volontà politica di condividere un destino e un progetto, non c’è nulla di più solido e profondo se non l’identificazione nei valori sanciti dalla Carta Costituzionale”21. Dove il richiamo nel primo caso non è quello meramente cartolare a documenti e norme, ma all’istituzione; e nel secondo, del pari, ai principi e i valori (cioè – prevalentemente – alle decisioni fondamentali sulla forma politica), alla comunanza di destino e alla volontà. Tutti elementi decisivi e non riducibili alla costituzione formale.

E questo, il legame con qualcosa di concretamente esistente e comune (comunitario) e non normativo, risulta da tanti scritti. Di cui ne ricordiamo due. L’uno di Machiavelli “la patria è ben difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria […] dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cedere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita, e mantenghile la libertà”22. Se il Segretario fiorentino avesse avuto una concezione da costituzional-patriota (oltre a dimenticarsi di citare la costituzione), non avrebbe liquidato il giusto e l’ingiusto, il laudabile e l’ignominioso. L’altro di Marx laddove descrive il patriottismo delle armate rivoluzionarie francesi “il patriottismo era la forma ideale del sentimento di proprietà”23; per cui collegava il patriottismo ad una forma concreta di produzione, cioè alla realtà.

E si potrebbe continuare a lungo.

6. Per cui chiedersi se è possibile che si configuri un patriottismo costituzionale quale momento fondativo (ed esclusivo) dell’esistenza politica, occorre rispondere in primo luogo, che cosa s’intende per costituzione.

Sicuramente appare bizzarro, dato che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino” (art. 52 della Costituzione), che si chieda al buon cittadino di morire per difendere l’art. 45, II comma della nostra costituzione (“la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”), anche perché gli stessi artigiani sarebbero sicuramente assai restii a farlo.

E quindi è indispensabile identificare la Costituzione col suo nucleo essenziale (dalla forma democratica alla sovranità alla libertà).

Dall’altra anche in tal caso il patriottismo costituzionale appare come una sineddoche politica, e perciò anche se non bizzarro, parziale: perché ad essere oggetto di quel sentimento, di quella volontà unificante appare assai più adatta la totalità dell’esistenza e dell’identità nazionale: comprensiva della storia, dei costumi, della geografia, della religione, della lingua.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 V. dichiarazione del Presidente on.le Napolitano citata da articolo sulla “Stampa” del 24/01/2008 del prof. Marcello Pera.

2 V. articolo di Marcello Pera cit.

3 v. Überverfassungswesen trad. it. di Clemente Forte in Behemoth n. 20.

4 Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.

5 Questa constatazione va chiarita con le tesi di Santi Romano e di Hauriou. Secondo il primo anche nei periodi di transizione politica, prima di una regolamentazione compiuta, c’è sempre un diritto costituzionale, anche se rudimentale “il diritto è immanente a qualsiasi assetto politico, e l’unica negazione, logicamente e storicamente, possibile del diritto costituzionale sarebbe l’anarchia” (op. cit. p. 4). Ad avviso del secondo il governo di fatto può beneficare non della giustificazione giuridica, ma di quella “teologica” che si applica ad ogni forma (espèce) di potere… “è un modo di asserire (traduire) il carattere naturale e necessario del potere, l’impossibilità per gruppi umani di sussistere senza un governo, di legare la necessità del potere a quello dello Stato sociale…” (v. Précis de droit consitutionnel, Paris, 1929, p. 29).

6 L’apparente contraddittorietà tra l’affermazione di Santi Romano che ogni Stato non ha ma è una costituzione e l’ “asimmetria” è risolta dal fatto che l’essenza della costituzione è un potere che esercita con successo (ottenendo un certo grado d’obbedienza) il comando in una comunità, così dando forma (ed azione) politica alla stessa. Per cui il potere (obbedito) è il nucleo essenziale di ogni ordine costituito.

7 V. G. Jellinek Allgemeine Staatslehere (III libro) trad. it. Dottrina generale del diritto dello Stato, Milano 1949, p. 100 ss.

8 De re publica, II, 1.

9 Si noti che tutti i casi citati le costituzioni hanno in comune di essere frutto non solo di guerre – come capita per lo più a tutte le costituzioni – ma di un particolare contesto politico internazionale e interno.

10 V. Max Weber, Wirtshaft und Gesellshaft, trad it. Milano 1980, pp. 48-49.

11 J. de Maistre, Considérations sur la France, trad. it. Roma 1985, p. 47. In ciò è evidente che de Maistre si ricollega a Montesquieu.

12 “Noi popolo degli Stati Uniti, allo scopo di ancor più perfezionare la nostra unione, di garantire la giustizia, di assicurare la tranquillità all’interno, di provvedere alla comune difesa, di promuovere il benessere generale e di salvaguardare per noi stessi e per i nostri posteri il dono della libertà, decretiamo e stabiliamo questa Costituzione degli Stati Uniti d’America”.

13 La quale concezione è condivisa da parte della dottrina protestante come contestata da altra parte dei teologi cattolici e protestanti. Per una trattazione più diffusa ci sia consentito rinviare a quanto scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 5 ss.

14 v. ad esempio J.E. Sieyès Qu’est-ce-que le tiers Etat? “La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale. Se vogliamo farci un’idea esatta dell’ordine delle leggi positive che possono emanare solo dalla sua volontà, troviamo al primo posto le leggi costituzionali, esse si dividono in due parti… Queste leggi sono dette fondamentali, non nel senso che possano divenire indipendenti dalla volontà nazionale, ma in quanto i corpi che esistono ed agiscono in virtù di esse, non possono modificarle. In ogni sua parte la Costituzione non è opera del potere costituito, ma del potere costituente… Una nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale. Un governo, al contrario, è frutto solo del diritto positivo. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere” trad. it. Milano 1993, pp. 256-257.

15 Scriveva Haurion che “l’ordine sociale si presenta come il movimento lento ed uniforme di un insieme ordinato. “ Précis de droit constitutionnel, Paris 1929 p. 62. v. precedentemente nello stesso volume, la critica al sistema “trascendent et statique du professeur Hans Kelsen”.

16 Come scriveva Renan “L’esistenza di una Nazione (mi si perdoni la metafora) è un plebiscito di tutti i giorni, come l’esistenza dell’individuo è un’affermazione perpetua di vita” mentre qua il “plebiscito” dovrebbe essere rivolto non all’esistente ma al normativo e non a ciò che esiste oggi, ma a ciò che era statuito oltre sessant’anni fa.

17 Si potrebbe dubitare più che la legittimità possa riguardare non un rapporto tra uomini, ma tra uomini e norme (documenti).

18 Non vogliamo entrare sui significati del termine nomos e sulla esattezza della sua traduzione col latino lex.

19 Cosa che a Socrate non succedeva, tant’è che le leggi comprendono, com’è naturale nella libertà degli antichi, tutto l’ambito della vita del cittadino, dal matrimonio all’educazione.

20 V. E. Carnevali. Le parole di Brunetta e l’assalto alla Costituzione – micromega -on-line.

21 V. Il futuro della libertà Area dicembre 2009 p. 34

22 Discorsi, III, 41.

23 Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma 1977, p. 218.

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Luigi Marco Bassani, Tolleranza, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Luigi Marco Bassani, Tolleranza, Liberilibri, Macerata 2023, pp. 93, € 14,00.

Bassani spiega la tolleranza seguendo il “percorso tracciato dal realismo politico”. In effetti l’esigenza di tolleranza può essere sorretta da diverse argomentazioni e punti di vista: il rispetto delle idee e del modo d’essere altrui, in primo luogo, il diritto alla libertà di pensiero, il progresso del sapere e della scienza (cui giova tanto il confronto di comunicazioni che il superamento di quelle già condivise). È raro pensare che la tolleranza è necessaria alla formazione dello Stato moderno, perché funzionale alla neutralizzazione dei conflitti – riducendoli o rendendoli meno pericolosi.

Come scrive l’autore «La tolleranza è certamente una conquista del pensiero europeo moderno, ma è anche un momento fondamentale per la legittimazione del potere, nel suo tentativo di superare la frattura della Riforma. Vi è, infatti, una sorta di “regola aurea”, una vera e propria bussola nella storia del pensiero politico moderno: tutto ciò che va nella direzione del consolidamento della statualità ha successo, mentre tutto quel che vi si oppone, ogni pensiero che crei sacche di resistenza al potere, si sgretola. In questo senso, il principio di tolleranza stravince alla fine le guerre di religione, perché è necessario al consolidamento del potere del Principe».

Alla fine del XVI secolo Bodin e i politiques francesi collegarono sovranità e tolleranza «Sarà proprio il concetto di sovranità il miglior alleato di quello di tolleranza nel corso dell’età moderna. Molti critiani avranno la loro vita risparmiata in virtù della bramosia del Principe di creare un unico soggetto del suo dominio». Le guerre di religione in Francia si concludono con l’editto di Nantes che è «il capolavoro e la vera eredità permanente dei politiques». Con la fine delle guerre di religione, la tolleranza diviene pratica osservata dai sovrani assoluti. Federico II di Prussia, “tipo ideale” del sovrano assoluto del 700 rivendica la propria neutralità “tra Roma e Ginevra”, nel di esso amico Voltaire c’è «la fusione dei temi cari ad Erasmo e del movimento dottrinario statuale che parte da Bodin…Voltaire reinterpreta tutto il precedente dibattito politico e teologico, e pone la riflessione sul concetto di tolleranza come fulcro di una concezione moderna della politica, intesa a dirimere tutti i rapporti fra lo Stato e la Chiesa dal punto di vista teorico».

Con le costituzioni moderne la tolleranza è codificata nelle dichiarazioni tra i diritti fondamentali, a partire da quella francese e americana (col primo emendamento). Nel secolo passato i totalitarismi sono stati tutt’altro che propizi alla tolleranza; anche se, nella seconda metà è stato riconosciuta in dichiarazioni internazionali dei diritti. Ma adesso si vede un nuovo pericolo: è quello del politically correct, definito da Bassani un autodafé il quale «nasce e germoglia nel cuore di quello che è ormai l’Occidente tout court, ossia gli Stati Uniti, ma sta già minando la libertà di manifestazione del pensiero del Pacifico agli Urali. Se la nascita della tolleranza investe un’unica cultura, anche la fine della tolleranza parte da noi, ma ha a questo punto risvolti planetari». Tale intolleranza «è la conseguenza di un lungo processo di addomesticamento degli intellettuali ed è il risvolto, nel campo delle idee, dell’inesorabile marcia dello Stato nelle vite dei cittadini… vi è bisogno di un gruppo di intellettuali di professione diuturnamente impegnati a diffondere il verbo di Stato e la scienza di Stato… E se il tutto avviene senza alcun tipo di coercizione palese è proprio grazie alla vittoria straripante del politicamente corretto, di una polizia di pensiero, che colpisce pochi, spaventa molti ed è, almeno in apparenza, avversaria di tutti». E di fatto è un declino della cultura dell’occidente la quale da espansiva com’è stata per secoli (v. Toynbee) è divenuta inclusiva e soprattutto, autocolpevolizzata.

Riconosce l’altro, distruggendo se stessa. Ma per il primo risultato non è necessario il secondo. L’autore conclude «Solo quando il riconoscimento dell’altro smetterà di implicare necessariamente la distruzione di sé saremo finalmente sul punto di imboccare la strada che porta a una società libera e certamente assai disordinata nelle opinioni. E allora questa guerra alle fobie cadrà nel più assurdo dei ricordi».

Teodoro Klitsche de la Grange

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