Italia e il mondo

AVANTI IL PROSSIMO_di Teodoro Klitsche de la Grange

AVANTI IL PROSSIMO

Ha ottenuto una risonanza planetaria il discorso da Monaco di J. D. Vance in cui ha rampognato le classi dirigenti europee. Le reazioni di quella italiana (di centrosinistra) e della stampa mainstream sono state le solite. Chi, riferendosi all’incontro di Vance con i leaders di AFD l’ha ricondotta alla consueta reductio ad hitlerum; i più a una interferenza (ovviamente inammissibile perché non sollecitata da loro); altri al tentativo di far dimenticare analoghi errori della politica USA, e qua siamo al focherello, perché prassi simili sono state poste in essere dalle amministrazioni di Biden ed Obama (salvo altri).

A me preme di notare che in quanto affermato da Vance siano enunciate idee che da millenni, o da secoli fanno parte del pensiero politico realista, quello parafrasando Machiavelli, che prende in considerazione la realtà dei fatti e non l’immaginazione degli stessi.

Due in particolare.

La prima è che l’Europa è in crisi, e che questa è per così dire endogena.

Dice Vance: “L’Europa deve affrontare molte sfide, ma la crisi che questo continente sta affrontando in questo momento, la crisi che credo stiamo affrontando tutti insieme, è una crisi che abbiamo creato noi stessi” Questa è dovuta a “come molti di voi in questa sala sapranno, la Guerra Fredda ha schierato i difensori della democrazia contro forze molto più tiranniche in questo continente. E considerate la parte in quella lotta che censurava i dissidenti, che chiudeva le chiese, che annullava le elezioni. Erano i buoni? Certamente no. E grazie a Dio hanno perso la Guerra Fredda. Hanno perso perché non hanno valorizzato né rispettato tutte le straordinarie benedizioni della libertà. La libertà di sorprendere, di sbagliare, di inventare, di costruire, poiché a quanto pare non si può imporre l’innovazione o la creatività, così come non si può costringere le persone a pensare, a sentire o a credere a qualcosa, e noi crediamo che queste cose siano certamente collegate. E purtroppo, quando guardo all’Europa di oggi, a volte non è così chiaro cosa sia successo ad alcuni dei vincitori della Guerra Fredda”. In altre parole l’Europa decade perché non crede essa stessa nei propri valori. A chiosare quanto affermato dal vice presidente USA, perché ha oscurato le radici giudaico-cristiane, cioè il fondamento della democrazia liberale, in particolare nella “variante” della dottrina del diritto divino provvidenziale. Nei due capisaldi fondamentali: il rispetto per le decisioni e convinzioni della comunità e la tutela dei diritti di ciascuno, comunque quello di manifestazione della libertà del pensiero. Per cui, sempre a leggere Vance, alla luce di Machiavelli, farebbero molto bene i governi europei a “ritornar al principio”, cioè ai fondamenti dell’ordine politico democratico-liberale e non all’(ipocrita) camuffamento del medesimo.

La seconda. Vance ha poi posto un problema di potenza politica. Infatti dice: “Se avete paura dei vostri stessi elettori, non c’è niente che l’America possa fare per voi, né, del resto, c’è niente che voi possiate fare per il popolo americano che ha eletto me e ha eletto il presidente Trump. Avete bisogno di mandati democratici per realizzare qualcosa di valore nei prossimi anni. Non abbiamo imparato nulla dal fatto che mandati deboli producono risultati instabili, ma c’è così tanto valore che può essere realizzato con il tipo di mandato democratico che penso verrà dall’essere più reattivi alle voci dei vostri cittadini.

 

Se volete godere di economie competitive, se volete godere di energia a prezzi accessibili e catene di approvvigionamento sicure, allora avete bisogno di mandati per governare perché dovete fare scelte difficili per godere di tutte queste cose e, ovviamente, lo sappiamo molto bene in America”.

E qua Vance ha posto un tema fondamentale del pensiero politico ossia, a sintetizzarlo al massimo, quello dell’obbedienza (del consenso, della legittimità) e del rapporto con la potenza dell’istituzione politica (o nelle “varianti” dei governanti, delle comunità). È intuitivo che un comando che non ottiene obbedienza non è comando reale; quello che la ottiene, ma soltanto con la coazione, dura poco (è instabile). Quindi l’ideale è che il comando sia sempre corrisposto da un certo grado di obbedienza (anche se non perinde ac cadaver). Meno intuitivo è che un governo, poco confortato dal consenso degli elettori (pour richiamandosi alla democrazia) è un governo debole.

Scriveva Spinoza: “Il diritto dello Stato, infatti, è determinato dalla potenza della massa, che si conduce come se avesse una sola mente. Ma questa unione degli animi non sarebbe in alcun modo concepibile, se lo Stato non avesse appunto soprattutto di mira ciò che la sana ragione insegna essere utile a tutti gli uomini”[1] e che “non è il modo di obbedire, ma l’obbedienza stessa, che fa per il suddito”; ciò, malgrado non ammettesse un dovere d’obbedienza assoluta, Anche se un monarca come Federico II di Prussia enunciava come fattori di potenza e di sicurezza di uno Stato: esercito, tesoro, fortezze, alleanze” (omettendo così il consenso/obbedienza) è sicuro che senza questa, il potere del governante è ridotto ai minimi termini. L’ordine e la coesione sociale e politica che ne consegue – al contrario – facilitano sia l’esecuzione delle obbligazioni, anche internazionali come, del pari, rendono vane – o limitano – la possibilità di speculare dall’esterno sulle rivalità e conflitti tra i governati e soprattutto sui gruppi in cui si dividono. E pluribus unum non è solo il motto degli USA: è il compito e lo scopo di ogni unità politica vitale.

Ma se, al contrario, tale unità degli animi non si realizza, anzi si sviluppano nuove contrapposizioni, a farne le spese è, in primo luogo, la potenza (in senso weberiano) dell’istituzione statale, che vede nullificata o radicalmente ridotta la possibilità che la propria volontà possa essere fatta valere. Il parametro sul quale giudicare la potenza dello Stato è esistenziale e non normativo. La scelta virtuosa, dice Vance, è abbracciare “ciò che il vostro popolo vi dice, anche quando è sorprendente, anche quando non siete d’accordo. E se lo fate, potete affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la nazione è al fianco di ognuno di voi, e questa per me è la grande magia della democrazia… Credere nella democrazia significa capire che ogni cittadino ha la propria saggezza e la propria voce, e se ci rifiutiamo di ascoltare quella voce, anche le nostre battaglie più riuscite otterranno ben poco…. Non dovremmo avere paura del nostro popolo, anche quando esprime opinioni in disaccordo con la propria leadership”. Mentre nelle istituzioni europee a molti “non piace l’idea che qualcuno con un punto di vista alternativo possa esprimere un’opinione diversa o, Dio non voglia, votare in modo diverso o, peggio ancora, vincere un’elezione”.

E in ciò Vance non ha fatto altro che seguire non solo il pensiero politico realistico, ma anche la prassi del diritto internazionale (sia classico che post-vestfaliano) per cui soggetto di diritto internazionale, o comunque interlocutore è chi ha il potere, in una comunità; chi lo aveva, anche se titolare legale, ma non ce l’ha più, lo perde. Chi è in “lista di sbarco” come gran parte della classe dirigente europea, è un interlocutore debole e quindi inutile. Dato che, negli ultimi anni, la gran parte dei paesi dell’U.E. ha visto cambi di governo a favore di sovranisti (lato sensu) e, laddove non è successo, gli stessi sono cresciuti, di guisa che perfino la stabilissima quinta repubblica francese è diventata bastabile, è chiaro che i suddetti governanti non sono ritenuti interlocutori reali. A meno che – quanto meno improbabile – non recuperino il favore popolare. Ma se ciò non avviene non resta che aspettare le elezioni: avanti il prossimo.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Trattato politico, III, Torino 1958.

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PERCHÉ LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE NON PIACE?_di Teodoro Klitsche de la Grange

PERCHÉ LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE NON PIACE?

1.0 Tira un’aria di ridimensionamento – anche il più temuto; cioè quello mediatico – per la CPI. Questa istituzione, accolta a suo tempo, specie in Italia dal favore festaiolo dei politici di centrosinistra (Ciampi in testa) non era proprio quel rimedio definitivo ai reati sui quali è competente e ancor più, nasceva male. Vediamo perché  (il tempo trascorso – un venticinquennio – l’ha confermato).

1) La competenza della Corte è sui maggiori crimini: il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, nonché il crimine d’aggressione: la cui competenza è comunque complementare a quella degli Stati: può attivarsi nell’inerzia dei medesimi.

2) Ovviamente non si applica se non agli Stati che hanno aderito al Trattato istitutivo. Questo è stato ratificato superando il quorum previsto. Ma qua si trova il problema decisivo. Quelli che non l’hanno ratificato sono proprio coloro che hanno le maggiori tendenze (e possibilità) di commetterlo: USA, Cina, Russia, Israele tra i più propensi, dato che potrebbero essere perseguiti dalla Corte proprio loro governanti e funzionari.

3) proprio per questo gli USA hanno sempre tenuto un atteggiamento ostile alla Corte e alle di essa iniziative (non solo con Trump).

4) La Corte è stabile e ha una propria organizzazione e una propria burocrazia.

2.0 Ciò stante la CPI, così come istituzionalizzata, ha sofferto di un eccesso di strutturazione, inesistente nella storia del diritto internazionale prima del secolo passato.

In primo luogo la prassi del diritto internazionale classico per dirimere i conflitti, offre tutta una serie di soluzioni, per lo più con l’intervento di Stati-terzi “mediatori” e senza l’istituzionalizzazione di Tribunali.

Così come organizzata sembra fatta proprio per istituire quel “Pretore” tra gli Stati irreale secondo Hegel (e, a seguirlo, quindi non razionale). Ma occorre chiedersi se è più razionale un Tribunale istituzionalizzato o i “buoni uffici” di un terzo neutrale incaricato dai litiganti di conciliarli.

Conciliazioni, ivi comprese quelle di cui all’art. 33 dello Statuto delle Nazioni unite nei conflitti che possono compromettere il mantenimento della pace e della sicurezza, soprattutto arbitrati. È stato ritenuto che l’arbitrato, avendo avuto una diffusione prevalente, la stessa storia della giustizia internazionale coincide in gran parte con la storia dell’arbitrato. Esso può concretizzarsi – in analogia agli arbitrati privati – in due modi: quando la controversia è già in corso le parti possono stipulare un particolare accordo – il compromesso – nel quale è prevista (soprattutto) la scelta degli arbitri, oltre all’oggetto, ai poteri, alle norme e alla procedura.

Oppure può originare da una clausola compromissoria. Cioè dalla clausola di un trattato – ratificato dalle parti in cui, anche in tale  caso, di solito la scelta dell’arbitro (e degli arbitri) è rimessa alla decisione delle parti litiganti.

Terminata la procedura, emesso il lodo, l’ufficio arbitrale così costituito, cessa di esistere.

Anche laddove siano stipulati dagli Stati trattati di arbitrato in forza del quale si accordano di sottoporre a giudizio tutte le controversie che possano sorgere fra loro, spesso nel trattato non è previsto l’impegno arbitrale, cioè l’obbligo di sottoporre le controversie a quel dato organo arbitrale.

Secondariamente i paesi che non hanno aderito al trattato sono, come cennato sopra, quelli che hanno la propensione di commettere i crimini per cui la CPI è competente: USA, Cina, Russia, Iran, Israele, parecchi Stati arabi, l’India e il Pakistan. Il che di per sé ridimensiona la CPI. E sostanzialmente divide gli Stati in due gruppi: i sottoposti e i non sottoposti alla giurisdizione della CPI. Il che, per un diritto in cui vale il principio par in parem non habet jurisdictionem è una deroga al principio di uguaglianza (giuridica) tra gli Stati, tutt’altro che secondaria.

In terzo luogo, anche se il fine della CPI è, più che tutelare la pace, di evitare condotte in violazione dei diritti umani, ciò avviene, per lo più, nelle situazioni di disordine e conflittualità diffusa e spesso dis-ordinata, tipica delle guerre atipiche e asimmetriche.

Occorre comunque valutare se con la pace istituenda e l’ordine che ne consegue, sia più efficace l’opposta prassi della clausola di amnistia, di non punire i crimini commessi nello stato di guerra (Kant).

Resta poi da considerare che gli Stati non obbligati dal trattato istitutivo della CPI sono molto più popolosi di quelli che vi aderiscono.

3.0 Quel che più rileva è che le criticità della CPI sono riconducibili al coefficiente d’istituzionalizzazione della Corte, perché stridente con la natura di “giustizia di diritto comune” di quello internazionale.

Anche qui deve ripetere quanto al riguardo scriveva Maurice Hauriou, il quale distingueva due diritti: quello istituzionale con la relativa giustizia disciplinare (in cui le parti non sono in posizione di parità) e comune, ossia tra gruppi umani in posizione di parità. Questa “era esteriore ai gruppi, tra i gruppi (inter-groupale), interfamiliare e noi diremmo oggi internazionale, la quale aveva per organi tribunali d’arbitri, davanti a cui le parti erano uguali l’una all’altra”. Ciò perché, scriveva il giurista francese, quando i primi Stati si costituiscono come federazioni di clan, l’era delle vendette non era terminata, così che tribunali arbitrali funzionavano all’interno dello Stato, come arbitri tra uguali.

Il grande apprezzamento per l’arbitrato nel diritto internazionale si può spiegare proprio perché: a) è una giustizia tra uguali; b) l’arbitro è scelto dalle parti; c) o comunque determinato (o comunque pre-individuato) dalle parti. Cioè mancano i connotati che fanno della CPI un’istituzione e ne rendono l’operato assai più prevedibile.

Invece la Corte è “permanente”, i giudici sono espressi da un organo che non è parte in causa (anche se nominato da un collegio degli Stati aderenti, ossia dall’Assemblea degli Stati-parte), ha una procura (OTP) che può indagare anche su fatti non sotto-postigli dagli Stati, ma da semplici cittadini.

Che quindi sia profondamente innovativo rispetto agli arbitrati internazionali di un tempo è palese; e lo sono anche le ragioni della diffidenza verso lo stesso di tanti Stati.

Teodoro Klitsche de la Grange

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ANCORA SU POLITICA E GIUSTIZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

ANCORA SU POLITICA E GIUSTIZIA

Sono imbarazzato nel proporre ai miei lettori un concetto già esposto pochi mesi orsono (v. “Salvini e Montesquieu” e “Processare il politico”) relativo al carattere degli ultimi contrasti tra uffici giudiziari e potere governativo: di concernere materia oggettivamente politica. A differenza di gran parte dei processi a governanti nell’ultimo trentennio, dove li si accusava per lo più di reati a carattere non politico (furto, appropriazione indebita, violenza carnale, evasione fiscale, ecc. ecc.).

Invece nei casi di rilevanza mediatica degli ultimi mesi il connotato comune è che la materia è squisitamente politica. Si tratta cioè della sicurezza dei cittadini e della difesa del territorio dello Stato. Come scriveva Montesquieu:

“In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…

Per il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”.

Ossia è attività che da secoli  se non da millenni è considerata di competenza del potere esecutivo. E V.E. Orlando notava che la differenza di “natura” o di “materia” era soprattutto differenza di scopo: si operavano deroghe e talvolta rotture dell’ordinamento, al fine di soddisfare una necessità pubblica.

A differenza dell’attività giudiziaria il cui nocciuolo fondamentale è accertare la conformità di una condotta ad una regola onde è essenziale la correttezza del giudizio e l’imparzialità del giudice (almeno se si vuole una giustizia reale). E la cui conformità allo scopo (cioè l’opportunità) è poco o per nulla rilevante.

Tali funzioni e attività vantano dei brocardi latini che le sintetizzano. Per la prima questa è salus rei publicae suprema lex esto, ossia lo scopo prevale sulla regola, l’esistente sul normativo e il criterio principe per valutarla è il risultato; dell’altro fiat iustitia, pereat mundus, per cui il diritto dev’essere applicato, anche se provoca danni e il criterio è la conformità della decisione giudiziaria alla norma applicanda.

La conseguenza è che se da una applicazione esatta della legislazione derivano gravi danni è corretto sopportarli. Ad esempio qualche migliaio di morti affogati nel mediterraneo, problemi interni di sicurezza, miliardi di euro per l’accoglienza cedono rispetto al gradino alto dei valori costituito dalla giustizia, (qua) intesa come conformità al diritto.

Al contrario se si pone sul gradino superiore l’altro brocardo, è il contrario.

Ma tenuto conto come anche nell’ordinamento giuridico l’esistenza precede la regolamentazione (si può regolare ciò che non esiste? È una pratica inutile) la risposta non può essere che suprema lex prevale. E questo dovrebbe dirsi la sinistra che, a quanto pare, è tutta propensa al  pereat mundus (verso il quale ha una  certa propensione). Ma finché col non dirlo o appesantendo il proprio argomentare con clausole e cavilli si distoglie l’attenzione dall’essenziale, va tutto bene.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto_recensione di Luca di Felice

Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto, Oaks Editrice, 2024, pp. 111, € 12,00.

Da parecchi anni, nel dibattito sulla giustizia, la contrapposizione assolutamente prevalente, frutto evidente di una generalizzata naïveté, è tra cd. giustizialisti e cd. garantisti. Questo saggio (sulla giustizia civile ed amministrativa) ha un taglio del tutto diverso (e originale) che include il rapporto giustizia/garanzie. L’autore si ispira, mutuandone e mutandone ai propri fini argomentativi il titolo, ad una celebre opera di Jhering “La lotta per il diritto” nella quale il grande giurista tedesco sostiene che senza la lotta per il diritto soggettivo degli individui lesi, cioè l’esercizio dell’azione da parte di questi (nei sistemi dispositivi), il diritto oggettivo viene meno, ritenendo così essenziale per l’ordine sociale l’apporto dei singoli soggetti che lottando per il proprio diritto rendono effettivo e vivente quello oggettivo.

Scrive Klitsche de la Grange che la legislazione “italiana, nella Seconda Repubblica, ha reso più difficile, lento, costoso e defatigante l’esercizio dell’azione in giudizio e conseguentemente l’attuazione dei provvedimenti giudiziari”. A tal riguardo l’autore afferma che sono proliferate leggi e anche comportamenti volti a rendere più difficile, costosa, lunga la realizzazione della pretesa giudiziale. Il tutto nonostante la riforma (1999) dell’art. 111 della Costituzione volta ad aumentare le garanzie dei cittadini, prima e dopo ripetutamente contraddetta dalle fonti normative sottostanti.

Klitsche de la Grange ritiene che il connotato ricorrente di quella che appare una legislazione dilatoria sia di favorire la parte pubblica aumentando le disparità tra le parti del rapporto (processuale e sostanziale). Ricorda a tal proposito la tesi di Maurice Hauriou secondo la quale ogni Stato ha due diritti (istituzionale e comune) e due giustizie (tra parti uguali e non) che egli chiamava Temi (non paritaria) e Dike (paritaria). La Seconda Repubblica, per l’autore, pare aver fatto crescere il peso di Temi senza che con ciò ne derivasse alcun beneficio per la giustizia in generale, finendo anzi per determinare la scarsa efficienza dell’insieme. Il corollario di quanto precede, se si considerano ad esempio le pretese pecuniarie avanzate dal privato nei confronti dello Stato, è stata la produzione di norme orientate non a salvare i creditori dallo Stato quanto piuttosto lo Stato dai suoi creditori. Klitsche de la Grange riportando un passaggio dell’opera di Jhering così scrive “La lotta per il diritto è un dovere della persona verso se stesso. Affermare la propria esistenza è legge suprema di tutto il creato vivente, perché rispetto al debitore è per me un dovere sostenere il diritto mio, non importa cosa possa costare. E se non lo faccio, non metto solo allo sbaraglio questo diritto, ma il Diritto.

Parole quelle di Jhering che ancora oggi risuonano con immutato vigore. In fondo, secondo il racconto di Eschilo, da Temi nacque il testardo Prometeo che non si sottrasse ai tanti patimenti cui fu sottoposto per via di quella sua smania di far del bene agli umani.

Nel complesso “La lotta contro il diritto”, che ricollega la situazione odierna alle conclusioni della migliore dottrina dello Stato e del diritto, appare una lettura non appannaggio esclusivo dei tecnici o degli esperti rivolgendosi anzi a qualunque uomo che non rinunci ad invocare il Diritto per far valere le proprie pretese.

Luca di Felice

La lotta contro il diritto – copertina

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IL PRIMO DELLA CLASSE, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL PRIMO DELLA CLASSE

Dopo l’insediamento di Trump, ci è sembrato doveroso ritornare a chiedere lumi a Machiavelli, il quale come sempre ci ha cortesemente ricevuto.

Trump ha vinto nonostante da quattro anni ci garantivano che era finito e prossimo ad andare in galera. Che ne pensa?

Che non hanno capito nulla. Cominciamo che, ai tempi miei, e per la maggior parte della storia umana certe cose si fanno nell’ombra. Si usava il denaro, e spesso il veleno o il pugnale. Ma pretendere di condannare politicamente qualcuno con Tribunali, Giudici clamore e tanta… pubblicità è un’arma che spesso si ritorce a carico di chi mette in scena tale rappresentazione.

Soprattutto quando il pubblico è, in larga parte, a favore dell’accusato, anzi lo sostiene apertamente. Ancor più quando l’accusato è stato il capo di quella città. Come scriveva Lorenzo un tempo mio signore.

E quel che fa il signor fanno poi  molti/che nel signor sono tutti gli occhi volti.

Gli avversari di Trump avevano denunciato atti illegali a cominciare dall’assalto a Capitol Hill…

La carnascialata, come l’avevo chiamata qualche anno fa denominata come un golpe, ma in effetti un tumulto, senza alcuna conseguenza rilevante. Se non quella sua… repressione, importante e forse decisiva a sostenere la seconda volata del biondo; avrebbero fatto meglio a fare una bella amnistia almeno non avrebbero agevolato l’opera del nemico.

Inoltre “perché lo accusare uno potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi” (Discorsi, I, VII). Assai meglio in una città, che siano tutti a decidere con un giudizio essenzialmente politico.

Trump ha confermato la volontà di rendere gli U.S.A. di nuovo grandi, di voler realizzare l’interesse nazionale, senza prospettare fini ideali.

E ha fatto benissimo: se un governante ha un dovere (che è anche un suo interesse) è di accrescere la sicurezza e potenza dello Stato, e così della comunità. Il “bene essere loro dei popoli”, come ho scritto del governo del Valentino è concreto: significa poter vivere decentemente e in sicurezza. Ma se invece di dare protezione – perciò pretendere obbedienza – al popolo, il Principe si mette a recitare paternostri proponendosi quale nobile paladino di diritti e fini, spesso anche dell’umanità e non solo dei propri sudditi, i quali non hanno alcun interesse acché siano conseguiti, commette peccato mortale; riconducibile a quello fondamentale di non andar dietro alla verità effettuale delle cose, ma all’immaginazione di essa. E di volerne convincere e così ingannare i (propri) sudditi.

Tornando a leggi e conflitti, non pensa che l’effetto di non applicare la legge incentivi i conflitti?

Qualche volta, ma occorre che il fine del legislatore e del governante sia di decidere il conflitto scegliendo i mezzi più opportuni. Ma se scopo del principe è quello di dividere il popolo al fine di indebolirlo e conservare il potere per sé e per i suoi, castigando i contrari, il risultato è spesso opposto. La legge, come diceva Trasimaco, è in tal caso l’utile di chi governa e come tale si palesa. Il popolo è meno bue di quanto credono, se ne accorge e il conflitto se ne alimenta. Dia retta a me: ho sempre sostenuto che i conflitti, anche interni, sono insopprimibili, e che spesso sono la causa di grandi imprese, come quelle di Roma. Occorre capire che ciò che fa la differenza è la capacità di risolverli.

A tale proposito che ne pensa del fatto che sia Biden che Trump abbiano preso provvedimenti di “grazia” preventiva o successiva dei loro seguaci?

Che hanno fatto bene. Quanto a quelli di Biden, essendo stato conseguito l’obiettivo principale di sostituire il governo del loro partito, ha pochissimo senso processarne gli aiutanti. Anzi sembra (ed è) una vendetta, foriera di nuovi conflitti e comunque fascina per attizzarli.

Del pari è inutile tenere in galera i seguaci di Trump: hanno vinto e nulla aggiunge o cambia che stiano al fresco. Se li tenesse in carcere il biondo farebbe solo una pessima figura: un danno per se, senza alcun beneficio a nessuno. Non è così grullo!

E per i violatori della legge internazionale? Non vale punire i violatori?

Come scriveva quel filosofo – che non mi apprezzava molto – Immanuel Kant, è inerente ad ogni accordo di pace la “clausola d’amnistia”, cioè di non punire i reati commessi in guerra.

Pretendere di fare la pace processando i sudditi altrui e facendo processare i propri significa proseguire la guerra con altri mezzi e non conciliare le comunità.

Pensa che Trump sia un fenomeno passeggero, come il Valentino per l’Italia sua contemporanea?

No. Si capisce che non lo era prima e ancor più adesso. Passando ai fatti: a) è la seconda volta che vince b) hanno fatto di tutto per impedirlo c) ha vinto in modo più netto che in passato. L’intervallo di tempo e il perseguimento giudiziario rendono più evidente la sua vittoria.

Il che significa, come scriveva quell’altro filosofo – che mi apprezzava di più – cioè Hegel, che è montato sul cavallo dello Spirito del mondo. Cioè in una situazione che io, seguace della fortuna, ritengo avere il vento in poppa. Il che non essere disattenti o fiduciosi, perché la fortuna è come le donne, va battuta un po’. Vedremo: di quello che ha fatto finora è tra i vostri contemporanei, uno dei miei allievi migliori. Spero che lo rimanga in futuro.

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MACRON E LA VOLONTÁ POPOLARE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACRON E LA VOLONTÁ POPOLARE

La crisi francese, dopo l’approvazione della mozione di censura da parte di una maggioranza non omogenea della rappresentanza parlamentare (quindi non decisa a sostituire il governo con un altro espressione di una diversa maggioranza) pone una serie di problemi tutti siti sulla linea di confine tra politica e diritto pubblico.

Il tutto rifacendosi al giudizio espresso da Lincoln che il governo democratico è quello dal popolo, per il popolo, del popolo. Se questo non succede o lo è solo in parte, la democrazia è zoppa. Anche se l’ordinamento è democraticamente ineccepibile, occorre che i comportamenti dei governanti siano ligi allo “spirito” del regime politico e alla funzione di organi ed istituzioni.

Le vicende del 2024 dimostrano come i comportamenti di Macron non siano stati coerenti con lo spirito democratico.

Vediamo come tutto è iniziato quando, come previsto, le elezioni europee hanno assicurato un grande successo sia alla Le Pen che a Mélenchon, che sommati insieme riportavano più del 40% dei voti espressi. Con i “minori” (Zemmour soprattutto) sfioravano il 50%. A questo punto Macron prendeva una decisione inaspettata, anche se democraticamente corretta: scioglieva l’assemblea nazionale per l’evidente difformità della volontà popolare rispetto alla “composizione” di tale organo. A tale proposito è bene ricordare che l’istituto dello scioglimento parlamentare – da più di un secolo, dopo la diversa funzione che aveva nelle monarchie costituzionali – è usato per risolvere le crisi politiche (e costituzionali). In particolare quando l’orientamento politico dei massimi organi dello Stato (parlamento/governo) è conflittuale o almeno grandemente divergente.

In questi casi, oltre che consentire di superare la crisi e di riavviare il funzionamento del sistema, assume il significato di un appello al popolo, chiamato a decidere tra i due orientamenti. Allorquando (è successo tre volte nella quinta repubblica) l’elettorato (anche quando il Parlamento non era sciolto) sceglieva una maggioranza contraria al Presidente, questo nominava un capo del governo proveniente da quella, dando luogo così alla cohabitation. Ciò in ossequio al principio e alla legittimità democratica. Nei tre periodi di cohabitation non si verificarono così particolari turbative del funzionamento istituzionale: la costituzione della V repubblica dà comunque al governo i poteri necessari a governare. Ancor più con un parlamento a maggioranza omogenea allo stesso.

Nel corso del 2024 con lo scioglimento dell’Assemblea nazionale – e i conseguenti accordi elettorali di desistenza tra sinistra e centro – la funzione dello scioglimento è stata ribaltata (forse più nei fatti che nelle intenzioni): la desistenza non ha assicurato una maggioranza, dato che l’assemblea è ripartita in tre schieramenti di proporzioni non molto diverse.

Dopo l’approvazione della mozione di censura al governo senza maggioranza di Macron, questi ha avvertito qual era la logica conseguenza dell’intera vicenda: le sue dimissioni. Anche perché se ad essere censurato era il governo, la responsabilità politica di averlo nominato era tutta di Macron. E infatti Macron ha subito detto nel messaggio di giovedì u.s. che sarebbe rimasto al suo posto fino alla scadenza del mandato presidenziale.

Nel caso, come in altre vicende di altri paesi, si pone il problema di come possa governarsi una democrazia (ancor più che altre forme politiche) a dispetto della volontà popolare (ripetutamente) manifestata. Nel caso che Macron sia un Presidente di minoranza – oltretutto che deperisce – risulta da tutte le elezioni svoltesi in Francia quest’anno che hanno visto la coalizione macroniana sempre minoritaria e lontanissima dai dati delle presidenziali del 2022 (circa il 58% di voti a Macron). Scriveva Schmitt che (in generale) «la parola volontà indica – in contrapposizione ad ogni dipendenza ad una giustezza normativa o astratta – l’esistenziale oggettivo di questo fondamento di validità» (il corsivo è mio). Cosa che, almeno per il conflitto tra organi rappresentativi, con la prassi della cohabitation era stata costituzionalizzata nel sistema francese.

E così, a quanto pare – Macron non ha intenzione, per la verità pare neppure la possibilità – di adeguarvisi. Sembra, da alcune mosse, che cerchi di allargare la maggioranza sul versante di sinistra. Se riesce, a sinistra o a destra – si avrà così una demi-cohabitation che ricorda un po’ le alchimie italiane dell’ultimo trentennio (ma non solo): con governi né legittimi né stabili (ricordatevi dell’Ulivo), né coerenti nell’indirizzo politico.

Sembra un po’ ingeneroso paragonare quanto fa Macron all’esempio del fondatore della Quinta repubblica, De Gaulle. Il quale aveva, dal 1958 in poi, riportato consensi plebiscitari nelle diverse votazioni. Da ultimo, nelle elezioni  parlamentari del 1968, la maggioranza gaullista conseguì circa ¾ dei seggi all’assemblea nazionale. Ciò nonostante quando l’anno successivo perse per pochi voti il referendum sui poteri del Senato, il generale si ritirò a vita privata. È chiaro in quel gesto che a determinarlo (o co-determinarlo) fu la convinzione che la sintonia tra paese legale e paese reale è fondamento della vitalità istituzionale del regime politico, ancor più se democratico. Cosa che Macron non ha appreso; e che nell’Europa (e nell’occidente) del XX secolo, il Presidente è in una grande – anche se decrescente – compagnia.

Teodoro Klitsche de la Grange

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PARETO E IL M5S, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARETO E IL M5S

Non è affatto strano che alcune vicende del Movimento 5 Stelle ricalchino le osservazioni di Pareto sulle élite, la loro circolazione e la teoria dei residui ma (soprattutto) delle derivazioni. Uno dei modi per notare le analogie è confrontare i principi e le promesse del primo M5S e quanto ne è praticato ora. Scriveva Pareto che ad una élite in ascesa è naturale accreditarsi come disinteressata alla conservazione del potere e omogenea al sentire popolare (soprattutto a carattere etico).

A ciò servivano sia certi slogan come “uno vale uno” e, ancor più, il divieto del terzo mandato. Quello a garanzia dell’eguaglianza, questo (anche) della non professionalità del personale dirigente (almeno di quello elettivo). Solo che ambedue si sono rivelate pure derivazioni (nel senso di Pareto). Il primo perché è vero che in una democrazia l’eguaglianza dei diritti e dei doveri è connotato essenziale, sul piano giuridico. Su quello fattuale tutti gli uomini sono diversi: quel che per lo più determina se faranno parte delle élite sono le caratteristiche individuali.

L’élite artistica è formata da persone che eccellono nella musica, nelle arti figurative: a decretarne il successo sono l’orecchio, l’occhio e anche l’abilità manuale: un cantante stonato o con una voce stridula è destinato a non farne parte: a poco serve l’uguaglianza giuridica (nella specie di accesso alle posizioni superiori) se mancano quelle qualità. Così in una società politica decadente è decisiva la capacità d’intrigo; nelle élite sportive le capacità fisiche.

Quanto al divieto di mandato, lo sviluppo del dibattito interno del movimento mostra come cambino gli orientamenti. Dal periodo di ascesa al potere (e accrescimento del consenso) alla fase di conservazione del medesimo, una volta conquistato, in cui si tende a farlo durare indefinitamente o, almeno più a lungo possibile.

Pareto, come tutti i pensatori ciclici (per i quali le élite sorgono e decadono) sa che per l’ascesa al potere delle élite nuove uno dei sistemi più usati è di fare compromessi con le élite decadenti; che la stabilità, è l’equilibrio nel movimento: talvolta più veloce, tal altra lento. Così fu per il fascismo che stipulò compromessi con la monarchia, la chiesa, la borghesia industriale e le élite relative che detenevano il potere. I 5 Stelle l’hanno ripetuto con il PD e le élite europee: ciò dopo aver accusato l’uno e le altre dei peggiori fatti (peraltro non senza ragione).

L’alternativa – o il completamento – del compromesso è la cooptazione. Questa ha varie forme: da quella più “tradizionale” che è di servirsi – specie per esercitare la forza – di personale reclutato nella classe governata (gli auxilia romani presi dai non-cittadini ad esempio) a quelli più raffinati come la concessione di posti e prebende pubbliche a elementi estranei all’élite, ma dotati e desiderosi di far carriera.

Un’altra considerazione di Pareto che appare confermata è quella sulle categorie “dei partiti nella classe governante. Possiamo in ciascuno di essi distinguere tre categorie, cioè: (A) Uomini che mirano risolutamente a fini ideali, che seguono rigidamente certe loro regole di condotta; (B) Uomini che hanno per scopo di approcciare il proprio bene e quello dei clienti. Si dividono in due categorie, cioè; (B-α) Uomini che si contentano dei godimenti del potere e degli onori, e che lasciano ai loro clienti gli utili materiali; (B-β) Uomini che ricercano per sé e pei clienti utili materiali, generalmente di quattrini”.

In effetti, anche se comportamenti simili sono ascrivibili, come scriveva Pareto, a tutte (o quasi) le élite di governo, il M5S con le sue realizzazioni si è confermato non diverso almeno per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, nonché il superbonus (ambedue riconducibili al paretiano gruppo B). Anche se la responsabilità politiche dei due provvedimenti vanno ricondotte – in parte – ai collaboratori di governo e non solo al M5S.

Tant’è: ma la fecondità delle considerazioni di Pareto anche per un movimento/partito sviluppatosi quasi un secolo dopo la morte del pensatore, mostra come il pensiero degli elitisti (non solo Pareto, ma anche Mosca e Michels) sia tuttora utile per interpretare la realtà attuale.

Curiosamente se c’è una costante, sottolineata da Michels: il fatto che i partiti rivoluzionari sono, nella modernità, guidati da intellettuali, che non ricorre nel M5S. Ma forse non perché non sia reale quello che afferma Michels (v. giacobini e bolscevichi) ma perché i grillini non sono mai stati realmente rivoluzionari.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Johan Norberg, Il manifesto capitalista_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Johan Norberg, Il manifesto capitalista, Liberilibri 2024, € 20,00, pp. 324.

È difficile, ora più che allora, contestare quanto già scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista, che il capitalismo aveva creato prosperità e innovazione in misura superiore a tutta la storia umana precedente. Tuttavia a correzione di ciò si aggiunge che la globalizzazione degli ultimi trent’anni ha generato disuguaglianze, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, peggiorato l’emergenza climatica e si aggiunge che nei paesi sviluppati ha provocato stagnazione economica e impoverimento dei ceti medi e di quelli popolari. Spesso esponendoli alla concorrenza salariale di manodopera immigrata. Di qui populismo, sovranismi, ecologismi.

Norberg demolisce – o ridimensiona – tali argomentazioni. Più che analizzare le sue diffuse repliche è bene ricordare che il tutto fa parte di un dibattito che dura da oltre due secoli e le soluzioni date – o che se ne possono dare – sono legate (e condizionate) alle situazioni storiche ed economiche, ovviamente variabili. Ma vi sono delle regolarità costanti che non mutano, o le quali cambiano poco, e che connotano tutti i periodi storici. Ad esempio: De Bonald sosteneva all’incirca un trentennio prima che Marx ed Engels scrivessero il Manifesto, che un capitalismo mobiliare tende ad un’appropriazione illimitata “e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo”. Ragion per cui la limitazione dei commerci (e talvolta della stessa proprietà immobiliare) è stata una costante preoccupazione del Principe (specie se “idraulico”), volto a depotenziare qualsiasi potere come concorrente (v. Wittfogel). O, facendo un altro esempio, quel che scriveva List sulla distinzione tra economia cosmopolitica (di Quesnay, Adam Smith, ecc.) e politica (di cui si occupava lui): “Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere… Adam Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adam Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche” (il corsivo è mio); mentre l’economia  politica (nel senso dell’economista tedesco) parte dal “concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interesse, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro”. Questa seconda distinzione politica/cosmopolitica ha come criterio l’interesse: quello dell’umanità o delle singole nazioni A seconda del quale sono giudicati i risultati. Sempre per continuare nell’esempio se a livello globale è indubbio che l’economia ha garantito un’ulteriore crescita, beneficiari della quale sono state le nazioni meno sviluppate, è altrettanto vero che di tale sviluppo hanno profittato poco o niente le comunità più ricche. Quando poi pensiamo all’Italia della seconda repubblica, che di queste è il fanalino di coda, il giudizio è pessimo.

Il libro si conclude con un giudizio “originale”: che il capitalismo è etico.

Come scrive Bellardini nell’introduzione “la lettura di Elon Musk è corretta: quest’opera spiega che il capitalismo è fondamentalmente etico, perché consente di vivere secondo la versione migliore di se stessi”; questo perché, come conclude Norberg «La parola più importante nell’espressione “libertà economica” non è l’aggettivo, ma il sostantivo: siamo tutti diversi, con esigenze diverse; sicché la possibilità di trovare relazioni, comunità, lavoro e consumi che ci piacciono aumenta se siamo liberi di scegliere».

Anche perché si può aggiungere – ed è determinante – mentre nel mercato, almeno finché funziona senza perturbazioni (monopoli, embarghi, squilibri), ogni accordo nasce dal consenso tra volontà paritarie, in politica è naturale e insopprimibile che le volontà debbano non essere pari, ma una o(o talune) debbono comandare alle altre che devono obbedire. Ed è per questo che, finché funziona, la libertà economica e il mercato sono così appetibili e devono essere garantiti dal potere.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Stati Uniti, Europa! Elites a confronto Con Roberto Buffagni e Teodoro Klitsche de la Grange

La conversazione trae spunto da due articoli pubblicati dal sito Italia e il mondo, dei quali si consiglia la lettura. https://italiaeilmondo.com/2024/11/21/una-strana-sconfitta_di-aurelien/ https://italiaeilmondo.com/2024/11/17/guardare-avanti-dal-bivio-di-simplicius/
Da una parte le élites europee le quali, nella quasi totalità, nel loro cieco ostile radicalismo verso la Russia e ottuso dogmatismo su temi fondamentali di gestione interna si rifiugiano per nascondere la loro inesorabile decadenza e insignificanza. Un istinto di sopravvivenza che sta trascinando nella rovina le proprie popolazioni. Dall’altra le élites statunitensi le quali, con la vivacità e virulenza dello scontro politico in atto, quanto meno rivelano il proposito di un rinnovamento e rivolgimento delle proprie classi dirigenti in un contesto geopolitico a loro più favorevole rispetto al vicolo cieco nel quale sono chiusi i loro gemelli di qua dell’Atlantico. Uno scontro aperto ad ogni soluzione, anche tragica, ma più propositivo rispetto alla stantìa realtà europea; almeno quella attuale. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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FUKUYAMA È TORNATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

FUKUYAMA È TORNATO

In un articolo comparso sul “Financial Times” del 7 novembre, Fukuyama ha spiegato cosa significhi per gli U.S.A. la rielezione di Trump: “quando Trump fu eletto per la prima volta nel 2016, era facile credere che questo evento fosse un’aberrazione… Quando Biden vinse la Casa Bianca quattro anni dopo, sembrò che le cose fossero tornate alla normalità. Dopo il voto di martedì, ora sembra che sia stata la presidenza di Biden a essere l’anomalia e che Trump stia inaugurando una nuova era nella politica statunitense e forse per il mondo intero… Non solo ha vinto la maggioranza dei voti e si prevede che conquisterà ogni singolo stato indeciso, ma i repubblicani hanno ripreso il Senato e sembrano intenzionati a mantenere la Camera dei rappresentanti”.

Date le dimensioni della vittoria, lo studioso nippo-americano si chiede quale sia la natura profonda di questa “nuova fase della storia americana”. E che l’America così si avvii a non essere più uno Stato liberale classico definito in base al duplice criterio della protezione dei diritti fondamentali e della separazione dei poteri (v. art. 16 dichiarazione dei diritti del 1789). Ma tale identificazione ha subito “due grandi distorsioni”: il neoliberismo e il “liberalismo woke” “in cui la preoccupazione progressista per la classe operaia è stata sostituita da protezioni mirate per un insieme più ristretto di gruppi emarginati”, con relativo cambiamento della base sociale, così come in Francia ed Italia gli elettori di sinistra hanno votato per Marine Le Pen e Giorgia Meloni. Cui si può aggiungere che anche Sholz, tra AFD e Wagenknecht non se la passa troppo bene. E fin qui l’analisi è condivisibile. Ma non lo è nel seguito “Donald Trump non solo vuole far retrocedere il neoliberalismo e il liberalismo woke, ma è una minaccia importante per lo stesso liberalismo classico” (il corsivo è mio).

Ciò perché si crede controlli ed equilibri delle istituzioni americane glielo impediranno: cosa che Fukuyama considera un grave errore.

Quando però spiega perché sia tale comincia col citare il protezionismo del Tycoon: ma  questo è stato per diversi periodi di storia USA il sistema prevalente. E non risulta che abbia compromesso la tutela dei diritti fondamentali né la separazione dei poteri. Quanto all’immigrazione sostiene – e probabilmente ha ragione – che rispedire a casa qualche milione di immigrati è un compito immane. Ma più che lesivo dei principi del liberalismo classico, è una difficoltà oggettiva. Né spiega perché sarebbe contro i fondamenti del liberalismo classico il cambiamento in politica estera.

L’unico argomento apportato da Fukuyama che sia contraddittorio come i principi del liberalismo classico e l’uso politico della giustizia. Ma è un rischio che proprio le vicende di Trump nel passato quadriennio provano che non basta a impedire alla democrazia liberale di funzionare né al Tycoon, indicato come pubblico malfattore, d’essere rieletto a maggioranza ampliata. Proprio il carattere (profondamente) democratico delle istituzioni americane e quello federale costituiscono i maggiori ostacoli a una democrazia del genere.

L’articolo di Fukuyama, pertanto coglie nel segno allorquando pensa che siamo in una nuova fase della storia americana e che il liberalismo praticato ha subito due grosse distorsioni che lo differenziano da quello classico.

Tanti anni fa, proprio nell’Opinione-mese (dicembre 1990) commentavo il famoso articolo di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”. Saggio che prospettava due tesi fondamentali: l’una che col crollo del comunismo “Non l’uomo nuovo nato dal superamento dei valori e dell’organizzazione politico-sociale della borghesia, ma la società dei diritti dell’uomo e dei consumi costituirebbe l’ultima (e definitiva) forma di organizzazione umana”; l’altra che “ciò non è dovuto alla sola superiorità economica del sistema liberale rispetto a quello comunista. Prima che effetto di una débacle economica, l’evoluzione (o meglio la rivoluzione) dei paesi comunisti sarebbe il frutto della sconfitta ideologica”. Mentre sostanzialmente concordavo che con il crollo del comunismo era venuta meno la contrapposizione politica borghesi/proletari, ritenevo che di fine della storia non era proprio il caso di parlare perché contraria alla costante (regolarità) del conflitto (Machiavelli) e del nemico (Schmitt) e credere di liberarsi di una regolarità del politico è come voler abolire la legge di gravità. Finita una contrapposizione se ne fanno avanti altre. Il trentennio passato ce l’ha confermato.

Anche per questo intervento di Fukuyama bisogna da un lato dar atto allo studioso nippo-americano di aver preso atto del cambiamento epocale dato dalla vittoria di Trump, dall’altro di aver considerato che tale fatto avrebbe fatto regredire il liberalismo classico, invece che far dimagrire le due “deformazioni che ricorda”.

Invece se per le distorsioni la previsione di Fukuyama è vera, non lo è per il liberalismo classico. Il quale, almeno in termini di chiarezza e realismo, ha, probabilmente, qualcosa da guadagnare.

Teodoro Klitsche de la Grange

Francis Fukuyama: cosa significa un Trump scatenato per l’America

Il presidente eletto repubblicano inaugura una nuova era nella politica statunitense e forse per il mondo intero

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La vittoria schiacciante di Donald Trump e del partito repubblicano martedì sera porterà a cambiamenti importanti in settori politici importanti, dall’immigrazione all’Ucraina. Ma il significato dell’elezione va ben oltre queste questioni specifiche e rappresenta un rifiuto decisivo da parte degli elettori americani del liberalismo e del modo particolare in cui la concezione di “società libera” si è evoluta dagli anni Ottanta. Quando Trump è stato eletto per la prima volta nel 2016, è stato facile credere che questo evento fosse un’aberrazione. Correva contro un avversario debole che non lo prendeva sul serio, e in ogni caso Trump non aveva vinto il voto popolare. Quando Biden vinse la Casa Bianca quattro anni dopo, sembrava che le cose fossero tornate alla normalità dopo una presidenza disastrosa di un solo mandato. Dopo il voto di martedì, ora sembra che sia stata la presidenza Biden a rappresentare un’anomalia e che Trump stia inaugurando una nuova era nella politica statunitense e forse per il mondo intero. Gli americani hanno votato con piena consapevolezza di chi fosse Trump e di cosa rappresentasse. Non solo ha conquistato la maggioranza dei voti e si prevede che conquisterà ogni singolo Stato in bilico, ma i repubblicani hanno riconquistato il Senato e sembrano intenzionati a mantenere la Camera dei Rappresentanti. Dato il loro attuale dominio sulla Corte Suprema, sono ora destinati a detenere tutti i principali rami del governo. Ma qual è la natura di fondo di questa nuova fase della storia americana? Il liberalismo classico è una dottrina costruita sul rispetto della pari dignità degli individui attraverso uno Stato di diritto che ne protegge i diritti e attraverso controlli costituzionali sulla capacità dello Stato di interferire con tali diritti. Ma nell’ultimo mezzo secolo questo impulso di base ha subito due grandi distorsioni. La prima è stata l’ascesa del “neoliberismo”, una dottrina economica che ha santificato i mercati e ridotto la capacità dei governi di proteggere coloro che sono stati danneggiati dai cambiamenti economici. Il mondo è diventato complessivamente molto più ricco, mentre la classe operaia ha perso posti di lavoro e opportunità. Il potere si è spostato dai luoghi che hanno ospitato la rivoluzione industriale originaria all’Asia e ad altre parti del mondo in via di sviluppo. La seconda distorsione è stata l’ascesa della politica dell’identità o di quello che si potrebbe definire il “liberalismo sveglio”, in cui la preoccupazione progressista per la classe operaia è stata sostituita da protezioni mirate per un insieme più ristretto di gruppi emarginati: minoranze razziali, immigrati, minoranze sessuali e simili. Il potere dello Stato è stato sempre più utilizzato non al servizio di una giustizia imparziale, ma piuttosto per promuovere risultati sociali specifici per questi gruppi. La vera questione a questo punto non è la malignità delle sue intenzioni, ma piuttosto la sua capacità di mettere effettivamente in atto ciò che minaccia. Nel frattempo, i mercati del lavoro si stavano trasformando in un’economia dell’informazione. In un mondo in cui la maggior parte dei lavoratori sedeva davanti allo schermo di un computer piuttosto che sollevare oggetti pesanti dai pavimenti delle fabbriche, le donne sperimentarono una maggiore parità. Questo ha trasformato il potere all’interno delle famiglie e ha portato alla percezione di una celebrazione apparentemente costante delle conquiste femminili. L’ascesa di queste concezioni distorte del liberalismo determinò un importante cambiamento nella base sociale del potere politico. La classe operaia sentì che i partiti politici di sinistra non difendevano più i suoi interessi e iniziò a votare per i partiti di destra. Così i Democratici persero il contatto con la loro base operaia e divennero un partito dominato da professionisti urbani istruiti. I primi hanno scelto di votare repubblicano. In Europa, gli elettori del partito comunista in Francia e in Italia hanno disertato per Marine Le Pen e Giorgia Meloni. Tutti questi gruppi erano scontenti di un sistema di libero scambio che eliminava i loro mezzi di sostentamento mentre creava una nuova classe di super-ricchi, ed erano scontenti anche dei partiti progressisti che sembravano preoccuparsi più degli stranieri e dell’ambiente che delle loro condizioni. Un sostenitore indossa un cappello con la bandiera statunitense e quella messicana durante una tappa della campagna di Trump a Juneau, nel Wisconsin, il mese scorso © Jamie Kelter Davis/The New York Times/Redux/eyevine Questi grandi cambiamenti sociologici si sono riflessi nelle modalità di voto di martedì. La vittoria repubblicana è stata costruita intorno agli elettori bianchi della classe operaia, ma Trump è riuscito a staccare un numero significativamente maggiore di elettori neri e ispanici della classe operaia rispetto alle elezioni del 2020. Ciò è stato particolarmente vero per gli elettori maschi di questi gruppi. Per loro, la classe contava più della razza o dell’etnia. Non c’è una ragione particolare per cui un latino della classe operaia, ad esempio, dovrebbe essere particolarmente attratto da un liberalismo di destra che favorisce gli immigrati recenti senza documenti e si concentra sulla promozione degli interessi delle donne. È anche chiaro che la stragrande maggioranza degli elettori della classe operaia semplicemente non si è preoccupata della minaccia all’ordine liberale, sia interno che internazionale, posta specificamente da Trump. Donald Trump non solo vuole far retrocedere il neoliberismo e il liberalismo woke, ma rappresenta una grave minaccia per lo stesso liberalismo classico. Questa minaccia è visibile in un gran numero di questioni politiche; una nuova presidenza Trump non assomiglierà affatto al suo primo mandato. La vera questione a questo punto non è la malignità delle sue intenzioni, ma piuttosto la sua capacità di realizzare effettivamente ciò che minaccia. Molti elettori semplicemente non prendono sul serio la sua retorica, mentre i repubblicani mainstream sostengono che i controlli e gli equilibri del sistema americano gli impediranno di fare del suo peggio. Questo è un errore: dovremmo prendere molto sul serio le sue intenzioni dichiarate. Trump è un protezionista autoproclamato, che dice che “tariffa” è la parola più bella della lingua inglese. Ha proposto tariffe del 10 o 20 per cento contro tutti i beni prodotti all’estero, sia da amici che da nemici, e non ha bisogno dell’autorità del Congresso per farlo. Raccomandato Tassi di interesse USA L’economia di Trump. Quanto grande? Quanto bello? Come sottolineato da numerosi economisti, questo livello di protezionismo avrà effetti estremamente negativi su inflazione, produttività e occupazione. Sarà un’enorme perturbazione delle catene di approvvigionamento, che porterà i produttori nazionali a chiedere esenzioni da quelle che equivalgono a pesanti tasse. Ciò offre l’opportunità di alti livelli di corruzione e favoritismo, poiché le aziende si affrettano a entrare nelle grazie del presidente. Tariffe di questo livello invitano anche a ritorsioni altrettanto massicce da parte di altri Paesi, creando una situazione di crollo del commercio (e quindi dei redditi). Forse Trump farà marcia indietro di fronte a questo; potrebbe anche rispondere come ha fatto l’ex presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner, corrompendo l’agenzia statistica che riportava le cattive notizie. Per quanto riguarda l’immigrazione, Trump non vuole più semplicemente chiudere il confine, ma vuole deportare il maggior numero possibile degli 11 milioni di immigrati senza documenti già presenti nel Paese. Dal punto di vista amministrativo, si tratta di un compito talmente grande che richiederà anni di investimenti nelle infrastrutture necessarie per realizzarlo: centri di detenzione, agenti di controllo dell’immigrazione, tribunali e così via. Avrà effetti devastanti su un gran numero di industrie che si basano sulla manodopera immigrata, in particolare l’edilizia e l’agricoltura. Sarà anche una sfida monumentale in termini morali, dato che i genitori verranno allontanati dai loro figli cittadini, e creerà lo scenario per un conflitto civile, dato che molti dei senza documenti vivono in giurisdizioni blu che faranno tutto il possibile per impedire a Trump di ottenere il suo scopo. I partecipanti alla Convention nazionale repubblicana di Milwaukee, a luglio, mostrano il loro sostegno alle politiche sull’immigrazione di Trump © Joe Raedle/Getty Images. Per quanto riguarda lo Stato di diritto, durante questa campagna Trump si è concentrato esclusivamente sulla ricerca di vendetta per le ingiustizie che ritiene di aver subito per mano dei suoi critici. Ha giurato di usare il sistema giudiziario per perseguire tutti, da Liz Cheney e Joe Biden all’ex presidente dello Stato Maggiore congiunto Mark Milley e Barack Obama. Vuole mettere a tacere i critici dei media togliendo loro la licenza o imponendo loro delle sanzioni. Non si sa se Trump avrà il potere di fare tutto questo: il sistema giudiziario è stato una delle barriere più resistenti ai suoi eccessi durante il suo primo mandato. Ma i repubblicani hanno lavorato costantemente per inserire nel sistema giudici simpatici, come il giudice Aileen Cannon in Florida, che ha respinto il forte caso di documenti classificati contro di lui. Non ci sono campioni europei che possano prendere il posto dell’America come leader della NATO, quindi la sua futura capacità di tenere testa a Russia e Cina è in forte dubbio. Alcuni dei cambiamenti più importanti avverranno nella politica estera e nella natura dell’ordine internazionale. L’Ucraina è di gran lunga la più grande perdente; la sua lotta militare contro la Russia stava vacillando già prima delle elezioni, e Trump può costringerla ad accettare le condizioni della Russia trattenendo le armi, come ha fatto la Camera repubblicana per sei mesi lo scorso inverno. Trump ha minacciato privatamente di ritirarsi dalla NATO, ma anche se non lo facesse, potrebbe indebolire gravemente l’alleanza non rispettando la garanzia di mutua difesa di cui all’articolo 5. Non ci sono campioni europei che possano prendere il posto dell’America come leader dell’alleanza, quindi la sua futura capacità di tenere testa a Russia e Cina è in forte dubbio. Al contrario, la vittoria di Trump ispirerà altri populisti europei come l’Alternativa per la Germania e il National Rally in Francia. Gli alleati e gli amici degli Stati Uniti in Asia orientale non si trovano in una posizione migliore. Se da un lato Trump ha parlato con durezza della Cina, dall’altro ammira molto Xi Jinping per le sue caratteristiche di uomo forte e potrebbe essere disposto a fare un accordo con lui su Taiwan. Trump sembra congenitamente avverso all’uso del potere militare ed è facilmente manipolabile, ma un’eccezione potrebbe essere il Medio Oriente, dove probabilmente sosterrà con convinzione le guerre di Benjamin Netanyahu contro Hamas, Hezbollah e Iran. Ci sono ottime ragioni per pensare che Trump sarà molto più efficace nel realizzare questa agenda di quanto non lo sia stato durante il suo primo mandato. Lui e i repubblicani hanno riconosciuto che l’attuazione delle politiche è tutta una questione di personale. Quando è stato eletto per la prima volta nel 2016, non è entrato in carica circondato da un gruppo di assistenti politici, ma ha dovuto fare affidamento sui repubblicani dell’establishment. Consigliato La grande lettura Trump ridisegna la mappa politica dell’America. In molti casi, hanno bloccato, deviato o rallentato i suoi ordini. Alla fine del suo mandato, ha emesso un ordine esecutivo che ha creato un nuovo “Schedule F” che avrebbe privato tutti i lavoratori federali delle loro tutele lavorative e gli avrebbe permesso di licenziare qualsiasi burocrate. Il rilancio dello Schedule F è al centro dei piani per un secondo mandato di Trump, e i conservatori si sono impegnati a compilare liste di potenziali funzionari la cui principale qualifica è la fedeltà personale a Trump. Per questo motivo è più probabile che questa volta egli porti a termine i suoi piani. Prima delle elezioni, alcuni critici, tra cui Kamala Harris, hanno accusato Trump di essere un fascista. Si trattava di un’accusa errata, in quanto non stava per attuare un regime totalitario negli Stati Uniti. Piuttosto, ci sarebbe stato un graduale decadimento delle istituzioni liberali, proprio come è avvenuto in Ungheria dopo il ritorno al potere di Viktor Orbán nel 2010. Questa decadenza è già iniziata e Trump ha fatto danni sostanziali. Ha approfondito una polarizzazione già sostanziale all’interno della società e ha trasformato gli Stati Uniti da una società ad alta fiducia in una società a bassa fiducia; ha demonizzato il governo e ha indebolito la convinzione che esso rappresenti gli interessi collettivi degli americani; ha reso più grossolana la retorica politica e ha dato il permesso a espressioni palesi di bigottismo e misoginia; e ha convinto la maggioranza dei repubblicani che il suo predecessore era un presidente illegittimo che ha rubato le elezioni del 2020. L’ampiezza della vittoria repubblicana, che si estende dalla presidenza al Senato e probabilmente anche alla Camera dei Rappresentanti, sarà interpretata come un forte mandato politico che conferma queste idee e permette a Trump di agire a suo piacimento. Possiamo solo sperare che alcuni dei restanti guardrail istituzionali rimangano al loro posto al momento del suo insediamento. Ma forse le cose dovranno peggiorare molto prima di migliorare. Francis Fukuyama è senior fellow presso il Center on Democracy, Development, and the Rule of Law di Stanford e autore, da ultimo, di ‘Liberalism and Its Discontents’. Scopri prima le nostre ultime storie – segui FTWeekend su Instagram e X, e abbonatevi al nostro podcast Life and Art ovunque lo ascoltiate. Lettere in risposta a questo articolo: Un collega newyorkese offre un parere personale sul presidente eletto / Da Donald Laghezza, New York, NY, US Trump non può contare sul fatto che gli Stati Uniti siano la ‘nazione indispensabile’ / Da Andrew Mitchell, Londra W4, UK

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