CAPITALE IN CRISI – Il ruolo delle classi medie – CONVERSAZIONE CON GIANFRANCO LA GRASSA

GIANFRANCO LA GRASSA, accademico di estrazione marxista, primo decostruttore in Italia di alcuni principi chiave della teoria marxiana e fondatore, in Italia, della teoria del primato del politico, fondato sulla dinamica conflitto/cooperazione tra centri decisori come motore e chiave interpretativa delle dinamiche geopolitiche e dei conflitti sociali
GABRIELE GERMANI ( OTTOLINA TV – LA GRANDE IMBOSCATA )
CESARE SEMOVIGO ( ITALIA E IL MONDO )
PIERGIORGIO ROSSO
GIUSEPPE GERMINARIO ( DIRETTORE ITALIA E IL MONDO )
Marx oltre il materialismo storico verso una contemporaneità olistica .
Sociologia e macroeconomia , un doverosa multidisciplinarità per analizzare il presente e interpretare il futuro .
Primo episodio della collaborazione di Italia e il Mondo e La Grande Imboscata
Tema della discussione: l’annosa questione delle caratteristiche e delle dinamiche di stratificazione delle formazioni sociali e l’inadeguatezza del criterio di interpretazione dualistico della teoria marxiana ed individualistico della sociologia liberale classica e neoclassica nella individuazione delle caratteristiche e delle funzioni dei ceti cosiddetti intermedi. Le implicazioni di tali limiti nello sviluppo della sociologia del potere. Buon ascolto

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Il Politico, lo Stato, le multinazionali Con Gianfranco La Grassa e Piergiorgio Rosso

Nel dibattito teorico e nell’azione il rapporto tra le categorie del politico, lo Stato e le multinazionali, più in generale tra l’economia e il politico è stato definito nella maniera più controversa sino ad assumere caratteri deterministici tanto semplici nella efficacia della rappresentazione e nell’individuazione dell’avversario, quanto distorcenti e sterili nella realizzazione degli obbiettivi politici e di strutture organizzative meno effimere. La conversazione con Gianfranco La Grassa e Piergiorgio Rosso prende spunto da una interessante intervista ad un manager della multinazionale Danieli, pubblicata sul sito lo scorso 21 aprile ( http://italiaeilmondo.com/2024/04/21/industria-e-diritto-di-fronte-allo-smantellamento-delle-catene-del-valore/ ) e segue la pubblicazione di numerosi altri articoli, tra i primi: http://italiaeilmondo.com/2017/09/13/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-pubblicato-sul-sito-conflittiestrategie-it-il-28112013/ . Sotto l’abito corto dell’autonomia dell’economico e delle scelte manageriali, stiamo calzando una delega della funzione politica sempre più incondizionata da parte della nostra classe dirigente e del nostro scadente ceto politico a prescindere dalla coloritura apertamente globalista o fumosamente nazionalista dei governi sino ad ora succedutisi a partire dagli anni ’90. Il Governo Meloni non oppone nessuna eccezione a questa tendenza sino a raschiare il barile con gli ultimi collocamenti azionari di ENI e Poste Italiane, propedeutici al progressivo allineamento delle politiche di queste aziende strategiche per la fornitura energetica e la gestione del risparmio e della logistica nazionali. In questo quadro dovremo valutare il peso e la funzione che sta svolgendo il cosiddetto “Piano Mattei” e il peculiare dinamismo manifestato dall’attuale governo, rispetto ai predecessori. Le figuracce, a cominciare da quanto successo in Etiopia, non mancano. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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L’araba fenice dello Stato_Con Piergiorgio Rosso e Gianfranco La Grassa

La questione della fine e del ruolo dello Stato ha assillato per decenni il movimento comunista preso come era nella stretta tra le aspettative utopiche di una società senza gerarchie di potere, di fatto senza la politica ed una visione deterministica della sua funzione come mero strumento della borghesia, del capitale e della sua accumulazione. Un approccio che ha impedito di individuare la funzione imprescindibile del politico nella costruzione delle formazioni sociali in tutti i loro ambiti di attività e di determinare le logiche proprie degli apparati e dei centri decisionali interni allo stato in grado di condizionare pesantemente gli stessi processi di accumulazione capitalistica e il conflitto e la competizione dei soggetti interni ad essa. Con una unica eccezione parziale della scuola althusseriana e la definitiva meritoria rottura operata in Italia negli anni ’90 da Gianfranco La Grassa. La conversazione ha tratto spunto da un interessante saggio di Pierluigi Fagan di seguito indicato: http://italiaeilmondo.com/2024/03/28/comunisti-e-stato-di-pierluigi-fagan/ Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Politiche UE e Interessi Nazionali Italiani, di Piergiorgio Rosso

Politiche UE e Interessi Nazionali Italiani (di Piergiorgio Rosso)

 

In questo inizio d’anno sono emerse tutte insieme all’attenzione della cronaca italiana numerose decisioni dell’UE relative alla svolta energetica e ambientale. Il denominatore comune è: de carbonizzazione. Produzione di elettricità unicamente da fonti rinnovabili, riconversione dell’industria automobilistica alla produzione di veicoli a batteria, incremento della classe energetica degli edifici residenziali e non, riconversione dell’industria agro-alimentare con abbandono progressivo degli allevamenti di ovini, suini e bovini.

 

Nel merito della questione de-carbonizzazione abbiamo già preso posizione più volte in questo blog, ad esempio qui e qui. In questa nota ci concentreremo su alcuni aspetti delle prese di posizione dell’attuale governo italiano nei confronti delle summenzionate proposte UE.

 

Nel merito tecnico è difficile contestare la correttezza degli argomenti utilizzati. Esaminiamoli brevemente e sinteticamente uno per uno.

 

Veicoli a batteria (BEV) vs. bio-combustibili: fintantoché l’elettricità non sia prodotta al 100% da fonti rinnovabili anche l’utilizzo di BEV comporta emissioni. Al raggiungimento eventuale ….  molto eventuale … di questo obiettivo, l’estrazione e la raffinazione dei metalli necessari per le batterie comporterà continue emissioni aggiuntive. D’altra parte i bio-combustibili già da ora dovrebbero essere considerati “neutrali” in quanto la loro combustione emette la stessa quantità di CO2 precedentemente inglobata dalla biomassa attraverso la fotosintesi.

 

Classe energetica degli edifici: obbligare tutti alla medesima classe energetica – espressa in kWh al m2/anno – non ha molto senso. Le sensibili differenze climatiche fra Europa del nord e del sud fanno sì che anche con una classe energetica inferiore, le emissioni effettive annue di una residenza/ufficio da Roma in giù, possano essere minori di quelle di un edificio di classe superiore da Amburgo in su.

 

Eliminazione degli allevamenti intensivi: dal punto di vista delle emissioni ogni animale emette tanto carbonio quanto precedentemente catturato dall’atmosfera dalla biomassa di cui si ciba.

 

Ma allora se le argomentazioni tecniche sono a favore della posizione espressa dai ministri italiani, come mai queste non prevalgono? Chissà forse c’entra la Politica nel senso lagrassiano del conflitto fra nazioni per la supremazia. Certo qui in Europa non parliamo certo di poteri globali in alcuna sfera, ma più limitatamente e prosaicamente alla supremazia per la distribuzione dei sussidi UE (che sono poi risorse messe a disposizione dalle nazioni secondo certe quote e poi redistribuite internamente secondo …. i rapporti di forza). E che la Germania stia indirizzando queste risorse verso i suoi interessi nazionali, appare evidente ai più.

 

Per gli interessi nazionali italiani non c’è molto spazio fintantoché i ministri non costruiscano dal nulla esistente, una rete di funzionari lobbisti abili almeno quanto quelli tedeschi e francesi. Temiamo però che anche in questo caso non otterremmo soddisfazione. Una nuova classe dirigente non dovrà essere solo abile nelle trattative tra Commissione, Consiglio e Parlamento europei, ma dotata di una ben radicata autonomia ideologica rispetto ad una UE ancora concepita prevalentemente, sia a destra che a sinistra, come il luogo dove si prendono le decisioni.

 

Occorre prima sapere esercitare un confronto autonomo bilaterale fra nazioni, per noi soprattutto Francia e Germania, ristabilendo la corretta gerarchia degli interessi e dei poteri (sempre relativi perché siamo comunque tutti vassalli degli USA).

 

Per ora accontentiamoci della possibilità che le stesse recenti decisioni UE in materia energetica ed ambientale – con il protagonismo assoluto del vice presidente Timmermans – contribuiscano ad alzare il velo a livello di massa sulla reale e sottostante natura nazionalistica delle sue decisioni.

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Fusione nucleare e ENI: perché conta, di Piergiorgio Rosso

Qui sotto un breve articolo di Piergiorgio Rosso, apparso su www.conflittiestrategie.it, riguardante lo stato dell’arte, in casa ENI, sulle prospettive di ricerca del processo di fusione nucleare e un lungo articolo, dal carattere prevalentemente agiografico ma comunque interessante, del sito IndustriaItaliana, sulla partecipazione della piccola e media industria italiana allo sviluppo delle moderne tecnologie nucleari. Seguirà all’indomani un lungo commento ai due testi. _Giuseppe Germinario

Il quotidiano La Verità del giorno 22 dicembre u.s. dedicava l’intera pagina 19 ad un articolo molto informato sulle prospettive della ricerca sulla fusione nucleare soffermandosi in particolare sul ruolo dell’ENI.

 Le osservazioni in proposito sono diverse e tutte rilevanti. La prima è che ci sono voluti 100 giorni dal comunicato ANSA, perché della questione se ne parlasse diffusamente su un quotidiano quindi destinato al grande pubblico non specializzato. I cosiddetti “giornaloni si sono limitati a riportare delle sintesi dell’agenzia ANSA in merito, relegate per lo più nelle pagine di economia/mercato.

 La seconda è che l’ENI, una delle poche grandi aziende italiane sopravvissute con difficoltà allo smantellamento/spezzettamento sistematico subito dall’industria pubblica italiana negli ultimi trent’anni, sta giocando un ruolo da protagonista in un campo di ricerca di punta, ad altissima tecnologia, con ampie ricadute in tutti i settori industriali. Svolgendo puntualmente il ruolo che lo Stato le ha affidato in particolare nel campo energetico. La scelta di allearsi con gli americani del MIT assumendo la maggioranza azionaria in CFS – la società che ha realizzato il test positivo di un magnete superconduttore per il confinamento del plasma – sembra suggerire che il gruppo dirigente ENI abbia scelto un approccio insieme realistico ed autonomo. Occorre infatti sottolineare come la ricerca in questo campo coinvolge tutte le nazioni ad alto sviluppo scientifico e la competizione per arrivare “primi” a produrre energia da questa fonte, è fortissima.

 La terza è che la notizia del test positivo superato da CFS è arrivata proprio nel momento in cui è diventato evidente e di dominio pubblico (…finalmente! è il caso di dire …) che la sostituzione dei combustibili fossili con eolico e solare è una chimera – per l’intermittenza di vento e sole – oltretutto poco sostenibile socialmente ed economicamente. Il significativo disinvestimento nell’esplorazione e sfruttamento delle riserve di fonti fossili, stimolato in questi ultimi anni dalle politiche energetiche definite “alternative/ecologiche”, ha comportato una penuria delle stesse fonti che ha messo in crisi settori fondamentali (come l’industria dei fertilizzanti) e ne ha fatto schizzare i prezzi. Tutto questo ha rilanciato il dibattito sulle fonti energetiche nucleari da fissione (una realtà consolidata) e da fusione. Per quanto riguarda la prima, l’Unione Europea si è convinta a definirla “sostenibile”, garantendole i necessari investimenti (gode la Francia, nicchia la Germania). Per quanto riguarda la seconda, è uscita opportunamente dai laboratori ed è stata presentata sulla scena pubblica come uno dei protagonisti dei prossimi decenni.

 Che su questa scena sia apparsa l’ENI da protagonista non può che essere motivo di soddisfazione. Non sfugge d’altra parte che il comunicato ENI del 21 settembre scorso, ripreso e rilanciato dall’ANSA, potrebbe riflettere anche una reazione difensiva da parte ENI, da tempo attaccata su vari fronti e da diverse direzioni, nazionali ed internazionali.

Se poi consideriamo la scarsa attenzione che la grande stampa nazionale ha rivolto a quel comunicato, capiamo come sia ancora lunga la strada da percorrere per ribaltare la narrazione ambientalista relativa alla “nocività-della-CO2-di-origine-antropica-per-il-pianeta” e difficile, ancorché necessario, su questa stessa strada difendere e rilanciare la nostra grande industria energetica nazionale.

Da qui la nostra enfatizzazione di questo importante evento scientifico/tecnologico che nella nostra lettura permette tra l’altro di rilanciare la significatività e fertilità – anche interpretativa dei fatti – del concetto lagrassiano di conflitto strategico per la supremazia, agente in tutte le sfere sociali. In questo specifico caso nell’industria/finanza, nella comunicazione/controllo dei media, nella politica.

http://www.conflittiestrategie.it/fusione-nucleare-e-eni-perche-conta-di-piergiorgio-rosso

Eni e CFS: raggiunto un traguardo fondamentale nella ricerca sulla fusione a confinamento magnetico

08 SETTEMBRE 2021 – 1:15 PM CEST
Una fonte di energia sicura, sostenibile e inesauribile che riprodurrà i principi alla base della generazione dell’energia solare

 

San Donato Milanese, 8 settembre 2021 – Eni annuncia che CFS (Commonwealth Fusion Systems), società spin-out del Massachusetts Institute of Technology di cui Eni è il maggiore azionista, ha condotto con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva HTS (HighTemperature Superconductors) che assicurerà   il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica.

La fusione a confinamento magnetico, tecnologia mai sperimentata e applicata a livello industriale finora, è una fonte energetica sicura, sostenibile e inesauribile che riproduce i princìpi tramite i quali il Sole genera la propria energia, garantendone una enorme quantità a zero emissioni e rappresentando una svolta nel percorso di decarbonizzazione.

La tecnologia oggetto del test è di particolare rilevanza nel quadro della ricerca sulla fusione a confinamento magnetico poiché rappresenta un passo importante per creare le condizioni di fusione controllata, e questo rende possibile il suo impiego in futuri impianti dimostrativi. Studiare, progettare e realizzare macchine in grado di gestire reazioni fisiche simili a quelle che avvengono nel cuore delle stelle è il traguardo tecnologico a cui tendono le più grandi eccellenze mondiali nella ricerca in ambito energetico.

L’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha commentato: “Lo sviluppo di tecnologie innovative è uno dei pilastri su cui poggia la strategia di Eni volta al completo abbattimento delle emissioni di processi industriali e prodotti, nonché la chiave per una transizione energetica equa e di successo. Per Eni, la fusione a confinamento magnetico occupa un ruolo centrale nella ricerca tecnologica finalizzata al percorso di decarbonizzazione, in quanto potrà consentire all’umanità di disporre di grandi quantità di energia prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile e senza alcuna emissione di gas serra, cambiando per sempre il paradigma della generazione di energia e contribuendo a una svolta epocale nella direzione del progresso umano e della qualità della vita. Il risultato straordinario ottenuto durante il test dimostra ancora una volta l’importanza strategica delle nostre partnership di ricerca nel settore energetico e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer”.

Eni è impegnata da tempo in questo ambito di ricerca e nel 2018 ha acquisito una quota del capitale di CFS per sviluppare il primo impianto che produrrà energia grazie alla fusione. Contestualmente, l’azienda ha sottoscritto un accordo con il Plasma Science and Fusion Center del Massachusetts Institute of Technology (MIT), per svolgere congiuntamente programmi di ricerca sulla fisica del plasma, sulle tecnologie dei reattori a fusione, e sulle tecnologie degli elettromagneti di nuova generazione.

Il test ha riguardato proprio l’utilizzo di tali elettromagneti di nuova generazione per gestire e confinare il plasma, ovvero la miscela di deuterio e trizio portata a temperature altissime da fasci di onde elettromagnetiche, e ha dimostrato la possibilità di assicurare l’innesco e il controllo del processo di fusione, dimostrando l’elevata stabilità di tutti i parametri fondamentali. La tecnologia oggetto del test potrebbe contribuire significativamente alla realizzazione di impianti molto più compatti, semplici ed efficienti. Ciò contribuirà a una forte riduzione dei costi di impianto, dell’energia di innesco e mantenimento del processo di fusione e della complessità generale dei sistemi, avvicinando in tal modo la data alla quale sarà possibile costruire un impianto dimostrativo che produca più energia di quella necessaria ad innescare il processo di fusione stesso (impianto a produzione netta di energia) e consentendo, successivamente, la realizzazione di centrali che possano più facilmente essere distribuite sul territorio e connesse alla rete elettrica senza dover realizzare infrastrutture di generazione e trasporto dedicate.

Sulla base dei risultati del test, CFS conferma la propria “roadmap”, che prevede la costruzione entro il 2025 del primo impianto sperimentale a produzione netta di energia denominato SPARC e successivamente quella del primo impianto dimostrativo, ARC, il primo impianto capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica che, secondo la tabella di marcia, sarà disponibile nel prossimo decennio.

SPARC sarà realizzato assemblando in configurazione toroidale (una ciambella detta “tokamak”) un totale di 18 magneti dello stesso tipo di quello oggetto del test. In tal modo sarà possibile generare un campo magnetico di intensità e stabilità necessarie a contenere un plasma di isotopi di idrogeno a temperature dell’ordine di 100 milioni di gradi, condizioni necessarie per ottenere la fusione dei nuclei atomici con il conseguente rilascio di un’elevatissima quantità di energia.

https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2021/09/cs-eni-cfs-raggiunto-fusione-confinamento-magnetico.html

Nucleare: il tassello perfetto per raggiungere il net zero. E un’industria che ci piace moltissimo!

di Filippo Astone e Laura Magna ♦︎ È un settore che vedrà la rivoluzione della fusione e tecnologie di avanguardia nella fissione: i mini reattori modulari. In Italia, una filiera di aziende fornitrici di significativo impatto economico: Ansaldo Nucleare, Fincantieri, Asg, Cestaro Rossi, Simic. I progetti Iter e Dtt per reattori di quarta generazione

Tokamak

Il net zero? Impossibile senza Nucleare, soprattutto quello in parte avveniristico della Fusione, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori.  Una verità che emerge con forza in questi giorni, dopo che la Commissione europea ha deciso che il nucleare rientrerà nella tassonomia delle attività economiche sostenibili. Una mossa rivoluzionaria che segue la presa di posizione del ministro italiano per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, secondo cui non solo l’accelerazione data dalle rinnovabili è insufficiente per la transizione ma «non ha senso pensare che dietro l’aggettivo nucleare si celino solo ed esclusivamente tecnologie pericolose, poco efficaci e costose». Anche perché il nucleare sta cambiando profondamente – non è più quello della vecchia fissione rigettato da due referendum anche nel nostro Paese.

Ma è un settore caratterizzato da tecnologie di avanguardia nella fissione stessa (come i mini reattori modulari) ma che soprattutto mirano a creare energia dalla fusione tra atomi, replicando lo stesso processo che avviene nelle stelle. Last but not least, come raccontiamo nell’articolo qui nel nostro Paese è presente una filiera di aziende fornitrici di tecnologie ad altissimo valore aggiunto e di significativo impatto economico. Filiera preziosa e strategica, da difendere e da far crescere il più possibile. Per tutti questi motivi, Industria Italiana è fortemente a favore del nucleare: la fusione in primo luogo, ma anche la nuova fissione dei mini-reattori puliti. Riteniamo che l’avversione pre-giudiziale e irrazionale verso il Nucleare sia l’ennesima manifestazione dell’autolesionismo italico e di quella mentalità anti-impresa che ha già fatto troppi danni. (Filippo Astone)

I protagonisti della filiera italiana del Nucleare, che sta cambiando

Iter è un reattore deuterio-trizio in cui il confinamento del plasma è ottenuto in un campo magnetico all’interno di una macchina denominata Tokamak. La costruzione è in corso a Cadarache

Un settore che vede tra i suoi protagonisti, in Italia, aziende di grandi dimensioni come Ansaldo Nucleare e Fincantieri, ma anche e soprattutto pmi attive nella componentistica a elevato contenuto di innovazione: la Asg della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi; Cestaro Rossi, meccanica pugliese che ha diversificato nella costruzione e nel montaggio di impianti nucleari; Simic che partendo dall’oil&gas si è poi specializzata nei Tf coils, tubi che contengono i magneti superconduttivi.

E un settore che sta cambiando grazie in particolare a due progetti, quello globale – ma con un cuore tutto italiano – Iter e quello domestico Dtt. Sono progetti che valgono, solo per la filiera italiana oltre due miliardi (1,6 il primo e 600 milioni il secondo). E sono i progetti che abiliteranno i reattori di quarta generazione, capaci di garantire la produzione di energia dalla fusione nucleare. La parte manifatturiera di Iter – al cui centro c’è la realizzazione del reattore sperimentale Tokamak, che si basa sull’approccio del confinamento magnetico – è all’80%. Lo afferma Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation. Per Dtt invece, secondo il presidente Francesco Romanelli, è stato impegnato il 30% del budget: la tecnologia italiana sarà usata per risolvere il problema dello smaltimento del calore che si genera nella fusione e che arriva intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremmo se fossimo seduti sul sole. Quando i progetti vedranno la luce i primi impianti di generazione commerciale, nel 2035, secondo le stime più accreditate. Le informazioni e gli interventi che i lettori troveranno in questo articolo sono tratte da un recente convegno che Confindustria ha organizzato a Roma. La parte informativa è frutto di nostre rielaborazioni. Le parole virgolettate sono state pronunciate in quella sede.

L’energia da fusione? È necessaria (e va messa sullo stesso piano delle rinnovabili)

Oggi in Europa i reattori operativi sono 292, in cui viene prodotta il 20% dell’elettricità e il 43% della generazione a basse emissioni. Tuttavia, le fonti fossili dominano ancora, anche perché negli ultimi 20 anni oltre 70 reattori sono stati scollegati dalla rete e nella metà dei casi rimpiazzati da fonti fossili. Sono dati contenuti in un rapporto rilasciato dalla United Nations Economic Commission for Europe (Unece).

L’energia nucleare è una fonte di energia a basse emissioni di carbonio che ha svolto un ruolo importante nell’evitare le emissioni di CO2. Negli ultimi 50 anni, l’uso del nucleare ha ridotto la CO2 globale emissioni di circa 74 Gt, ovvero quasi due anni del totale emissioni globali legate all’energia. Solo l’energia idroelettrica ha svolto un ruolo maggiore nella riduzione storica emissioni

Secondo il rapporto, le centrali nucleari hanno un elevato potenziale di riduzione delle emissioni perché possono produrre in modo continuato sia elettricità sia calore utile a diversi processi, dal riscaldamento residenziale agli usi industriali. A favore del nucleare ci sono anche ragioni legate al costo (già con una penetrazione pari al 50%, le rinnovabili intermittenti renderebbero l’elettricità più costosa del nucleare). Senza considerare che sta aumentando vertiginosamente il prezzo del gas naturale, che è il migliore sostituto del nucleare per fornire backup alle rinnovabili intermittenti. Ma se il suo costo aumenta viene meno il vantaggio marginale.

 

L’LCOE confronta tutti i costi a livello di impianto, ma non lo fa non tener conto del valore o dei costi indiretti per il sistema complessivo ed è scarso per confrontare le tecnologie che operano in modo diverso (es. rinnovabili variabili e tecnologie dispacciabili). Mentre i costi della variabile le fonti di energia rinnovabile (VRE) stanno rapidamente diminuendo, queste tecnologie impongono anche costi di sistema aggiuntivi che iniziano ad aumentare significativamente a penetrazioni più elevate. Questi costi di sistema aggiuntivi aumentano il totale costo dell’energia elettrica

E anche sul fronte dell’impatto ambientale e sanitario il nucleare è vincente. L’impatto (sul ciclo di vita) è molto ridotto, più esiguo del solare e secondo solo all’eolico per quanto riguarda i potenziali danni agli ecosistemi. Tuttavia i progetti scontano le difficoltà insite nell’elevato costo capitale iniziale e nella durata di lungo termine che li rende soggetti al mutare delle agende politiche e dell’opinione pubblica. Ecco perché è prioritario che si instaurino politiche di supporto che consentano al nucleare di competere alla pari con le altre fonti a basse emissioni. E lo si fa, secondo Unece, perseguendo due strade: creando un clima a lungo termine favorevole agli investimenti, a cominciare dal suo inserimento nel novero degli investimenti sostenibili – punto che è stato almeno in parte soddisfatto grazie alla nuova tassonomia. E accelerando lo sviluppo delle tecnologie nucleari avanzate per favorirne l’ingresso sul mercato.

Anche le centrali nucleari richiedono acqua per il raffreddamento e questo deve essere gestito per prevenire impatti sul locale ecosistemi acquatici. Ciò richiede un’attenta ubicazione e valutazione di impatto ambientale. L’analisi comparativa del fabbisogno di spazio delle diverse fonti di energia è presentato nel grafico

 

La roadmap di Iter e il ruolo della filiera della fusione nucleare italiana

Su questo secondo punto sono proprio Iter e Dtt a poter fare la differenza. Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor) è in costruzione a Cadarache, nel Sud della Francia, per iniziativa di un consorzio internazionale che vede partecipare Europa, Russia, Cina, Giappone, Usa, India, Corea del Sud. Per la sua realizzazione saranno investiti 21 miliardi di euro. Si tratta del progetto più importante in assoluto a livello globale, avviato nel 2006: ne deriverà la prima centrale termonucleare al mondo. Al centro il già citato Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.

Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter. Come cinque settori del Vacuum Vessel, la camera di vuoto del reattore, come pure i grossi magneti capaci di assicurare il confinamento magnetico del plasma nella camera stessa sono in produzione da parte di aziende italiane.

Circa il 60% dei contratti industriali per la costruzione di Iter sono stati aggiudicati da aziende italiane

Orlandi (Iter): «I lavori sono all’80%»

Tokamak, il reattore sperimentale a cui stanno lavorando tutti i grandi nomi e anche i più innovativi dell’industria italiana della fusione.
Le aziende italiane si sono aggiudicate circa il 60% dei contratti industriali del valore dei bandi per componenti ad alto contenuto tecnologico per la costruzione di Iter

Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025. Dello stato di avanzamento dei lavori parla Sergio Orlandi, head of department di Iter Organisation: «I lavori sono all’80% – dice Orlandi – Le imprese italiane hanno commesse per 1,5 miliardi di 7 miliardi di investimenti complessivi. Nato nel 2007 per accordi internazionali, il progetto prevede la costruzione di un sito grande almeno 4 volte un impianto medio nucleare a fissione, complesso, sulla frontiera delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e l’integrazione tra attori diversi che hanno cooperato in tempi difficili. Il sito comprenderà la parte elettrica con 400 kw volt, trasformatori di impianto, convertitore di potenza e impianto criogenico; pozzi freddi ad acqua e edifici ad alta frequenza».  Per quanto riguarda Tokamak, l’edificio reattore con una massa di 400mila tonnellate, con una platea (fondazione) di un metro e mezzo, numeri che già di per sé rappresentano un record, «tutto quello che ruota intorno a questa opera è completato, siamo al commissioning – dice Orlando –Il caricamento del combustibile nucleare è previsto a dicembre 2035». Ma l’impianto, spiega il responsabile, viene costruito per fasi successive, allo scopo di testare la macchina i progress: «il primo stadio è fissato a dicembre 2025 in cui facciamo la reazione di fusione pulita, studiamo il plasma e cerchiamo di mettere in commissionig tutti i sistemi; poi la fase due prevede il caricamento del criostato; e infine il test dei sistemi in modo integrato per avere certezza del buon funzionamento».

L’industria nostrana sta offrendo il suo altissimo contributo nelle attività di montaggio e di avviamento dell’impianto, qualificandosi per la capacità di assicurare la qualità del prodotto. I principali player sono Ansaldo Nucleare nell’assemblaggio e Fincantieri nei montaggi d’impianto. Ma anche nella costruzione: ancora Ansaldo è coinvolta nell’ideazione dei componenti chiave come il divertore o la camera di vuoto; il design della zona di raffreddamento delle acque; la produzione dei settori della Vacuum Vessel; la produzione dei prototipi dei divertori. Poi c’è il contributo di Asg, l’azienda della famiglia Malacalza che produce magneti superconduttivi e che ha un giro d’affari intorno ai 40 milioni, specializzata nella produzione di magneti superconduttivi: per Iter ha prodotto bobine poloidali in sito e bobine toroidali per le quali è stato necessario allestire una fabbrica ad hoc al porto di La Spezia in modo da poterle trasportare poi a Cadarache. E il lavoro delle Università di Pisa, Padova, Torino e Roma. Insomma un progetto che ha un cuore italiano.

Romanelli (Dtt): «Attività al picco nel prossimo biennio. Facciamo palestra per le necessarie partnership pubblico-private che dovranno seguire»

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Tokamak si sarebbe dovuta accendere nel 2019, ma a giugno 2016 il Consiglio Direttivo ha annunciato ufficialmente che la previsione iniziale per la data di ignizione dovrà essere spostata a dicembre 2025

Strettamente collegato alla realizzazione del reattore Tokamak di Iter è la Dtt (Divertor Test Tokamak), progetto questo tutto italiano avviato nel sito Enea di Frascati, con capofila Ansaldo Energia ed Enea. La roadmap di Dtt prevede la costruzione di un reattore dimostrativo nel 2050, la chiave è il successo di Iter e in cui il know how italiano ha avuto modo di farsi valere. «Ci siamo focalizzati sulla sfida principale che è lo smaltimento del calore che si genera nella fusione – dice il presidente Francesco Romanelli – Il calore fluisce verso il bordo del plasma e poi viene trasferito nel divertore (in una nicchia intorno ai bordi). Localmente i carichi termici arrivano intorno a 60 megawatt al metro quadro, gli stessi che avremo se fossimo seduti sul sole. Dobbiamo fare componenti in grado di sopravvivere sulla superficie del sole. Enea e Ansaldo Nucleare lavorano a questo».

Quanto allo stato di avanzamento, Dtt è già in costruzione, «abbiamo impegnato circa il 30% del budget, firmato contratti con Asg per la fornitura delle bobine superconduttrici, per i cavi e per le casse dei magneti stiamo per firmare, abbiamo una serie di attività che raggiungeranno il picco nel 2022-23 con gare per edifici e componenti della macchina». Un progetto che è un elemento fondamentale nella roadmap europea: una sfida e una grossa opportunità. «Prevede un salto tecnologico a livello di dimensioni e tipologie – continua Romanelli – Nelle tecnologie dei magneti superconduttori, nei sistemi di riscaldamento avanzati, nelle diagnostiche innovative: questo richiede una organizzazione del progetto adeguata che metta assieme tutte le competenze che servono». Ma non è solo sul fronte della tecnologia che Dtt rappresenta un balzo senza precedenti. «Si tratta – prosegue Romanelli – di un laboratorio interessante anche per lo studio di partnership pubblico-private: abbiamo di fronte una sfida per il sistema energetico che deve assicurare sostenibilità, sicurezza di approvvigionamento e competitività economica. La soluzione verrà da un portafoglio di fonti che includono fer, fissione, soluzioni di cattura di co2 ma la fusione ha interesse particolare per i vantaggi che offre. È una sorgente diffusa e infinita. Deuterio e litio nell’acqua durano 30 milioni di anni, non producono gas serra ed è una fonte intrinsecamente sicura. Quanto ai materiali radioattivi, riguardano sono la camera di fusione e sono a rapido decadimento, dopo 100 anni possiamo riciclare tutto in un nuovo reattore e non abbiamo bisogno di depositi geologici».

 

Minopoli (Ain): «Ecco perché la fusione nucleare, e le prossime frontiere della fissione – come i minireattori modulari, sono un’occasione che l’Italia non può perdere»

Realizzazione del reattore sperimentale Iter

Nel prossimo futuro oltre alla fusione, hanno prospettive interessanti sono i mini reattori modulari, basati sulla fissione e sotto i 300 megawatt di potenza (rispetto ai 1600 megawatt di una centrale tradizionale): cilindri di metallo grandi come un paio di container che contengono il nocciolo con il combustibile e il generatore di vapore: il calore del nocciolo trasforma l’acqua in vapore e aziona un alternatore che produce energia (senza l’intervento di pompe). Con tre vantaggi: possono essere montati in fabbrica e trasportati ovunque, occupano il 10% dello spazio di una centrale tradizionale e producono meno scorie perché il rifornimento può essere fatto ogni 3-7 anni con combustibili non convenzionali, contro gli 1-2 anni. «Rischiamo di perdere il treno perché ci sono cose che vanno fatte subito – spiega il presidente dell’associazione italiana del nucleare Umberto Minopoli – Nel mondo il nucleare esiste ed è un mercato competitivo, perché per i piccoli reattori sono per esempio già 70 i modelli in pipeline, pronti a essere lanciati sul mercato; così i dimostratori della fusione nucleare. Cose per cui in Italia si fa ancora fatica a capire di cosa parliamo. Ci sono dietro impegni degli Stati e aziende privati del settore che hanno investito e si apprestano a sfidarsi sul mercato. Perché alle aziende italiane e ai centri di ricerca deve essere precluso partecipare a questa iniziativa competitiva? Al di là che poi impianteremo o no le centrali. Lo fa la Francia ma anche la Uk. Noi oggi siamo fuori da tutte le leggi di ricerca e sostegno e innovazione. Fa specie quando si parla del nucleare come qualcosa rispetto a cui aspettare cosa succede in Europa».

Per questo la decisione dell’Europa sulla tassonomia è importante: «La tassonomia non è qualcosa di astratto di cui si discute tra paesi pro e contro. La Commissione aveva proposto un anno fa che il nucleare debba far parte delle tecnologie della transizione energetica perché ci siamo dati un target sulla decarbonizzazione che con la sola tecnologia no carbon non riusciremo neanche ad approcciare. Il “tutto rinnovabili” potrebbe essere uno slogan ma ci poniamo l’obiettivo di realizzare i target bisogna essere onesti riconoscere che solo con le rinnovabili non si riesce». Inserire il nucleare nella tassonomia, ovvero nelle politiche finanziarie che servono a incentivare gli investimenti nelle tecnologie no carb, è una presa di posizione precisa. E rappresenta il superamento delle resistenze ideologiche. «Anche il Gse si è espresso sulla pericolosità delle tecnologie nucleari, con riferimento ai temi della sicurezza e della riduzione delle scorie. Il Gse ha prodotto un poderoso documento concludendo che il problema non esiste: il nucleare è no harm per tutti gli obiettivi della transizione e risponde pienamente alle esigenze della transizione».

Marchesini (Confindustria): «Bisogna affrontare il nucleare senza barriere ideologiche»

il Vice Presidente di Confindustria per le Filiere e Medie Imprese Maurizio Marchesini, ceo dell’omonima azienda bolognese di macchine industriali

Proprio l’urgenza di abilitare la sostenibilità rende necessario lavorare sulle tecnologie nucleari. Ne è convinto Maurizio Marchesini (Vicepresidente Confindustria), secondo cui «non si può trascurare il nucleare con barriere ideologiche ma la questione deve essere affrontata con il giusto peso. Altro aspetto che va tenuto in considerazione: la lotta ai cambiamenti climatici richiederà investimenti in tecnologia per 650 miliardi in dieci anni solo per l’Italia e bisogna partire adesso. L’Europa è responsabile dell’8% delle emissioni di CO2, dunque se la strada non è fatta in sintonia globale assisteremo a ondate di delocalizzazione e a un impoverimento del nostro tessuto industriale. Le filiere sono il modo in cui l’Italia sviluppa nuovi settori e tecnologie per cui sono richieste competenze. Non conta la dimensione ma la capacità di innovare».

Se la filiera è il modo di produrre italiano, dobbiamo trovare le policy giuste per trasformare il rapporto da commerciale «a relazione di scambio di tecnologie e affidamento tra aziende di tutte le dimensioni, con un ruolo cruciale svolto dai capofiliera. Che hanno bisogno di far crescere la filiera su digitalizzazione, green, crescita culturale dei collaboratori anche sulla base di un ragionamento collettivo. O cresciamo tutti o non riusciamo a competere. Molti capofiliera organizzano la crescita della filiera, Ansaldo è una di queste, ma anche Leonardo. E lo fanno per “puro egoismo industriale”: o crescono gli elementi della filiera o non ce la facciamo

https://www.industriaitaliana.it/nucleare-fusione-energia-iter-ansaldo-fincantieri-asg/?utm_source=sendinblue&utm_campaign=NEWSLETTER%20INDUSTRIA%20ITALIANA%2028%20dicembre%202021&utm_medium=email

Relazioni amorose di un altro mondo, a cura di Piergiorgio Rosso

Qui sotto la trascrizione del discorso di benvenuto del Ministro della Difesa giapponese indirizzato all’omologo vietnamita durante la visita ad Hanoi del 12 settembre scorso. Al di là della banalità dei convenevoli, assume un significato politico rilevante. E’ solo uno degli eventi che stanno investendo ormai freneticamente l’area indo-pacifica. Gli Stati Uniti stanno intensificando la collaborazione militare con l’Australia ai danni della Francia; la Cina inizia a spingere il proprio naviglio militare verso l’Alaska e l’Artico suscitando l’ovvia diffidenza statunitense, ma anche della Russia; l’India, attratta dalle lusinghe americane, rimane spiazzata dagli eventi in Afghanistan e tende ad assumere una postura più autonoma. Il default di oltre trecento miliardi di dollari in Cina del China Evergrande Group sembra essere ancora una sorta di pesante regolamento di conti interno alla dirigenza cinese tra la componente strategico-politica e parte di quella finanziaria-imprenditoriale; può altresì innescare una crisi finanziaria difficilmente controllabile. Si potrebbe continuare ad enumerare per parecchio. Sino a pochi anni fa le dinamiche geoeconomiche hanno avuto il netto sopravvento in quell’area. Le delocalizzazioni partite dagli Stati Uniti, ma ora avviate anche dalla Cina, le ambizioni di numerose classi dirigenti di quell’area tese a sfruttare con abilità in maniera selettiva e opportunistica le opportunità della globalizzazione hanno creato un groviglio di relazioni ormai molto complicato da districare tra paesi e formazioni politicamente rivali e spesso confliggenti. Le dinamiche geopolitiche, però, hanno ripreso a regolare e sussumere sempre più strettamente quelle geoeconomiche che sembravano sino a poco tempo fa alimentarsi di vita propria. Si sta avviando un confronto tra giganti, con popolazioni dell’ordine delle decine e centinaia di milioni di persone, dalle caratteristiche diverse da quelle offerte dallo scenario europeo e nel quale gli europei sembrano essere risucchiati senza alcun riguardo ai propri interessi strategici da perseguire autonomamente_Giuseppe Germinario

“La cooperazione Giappone-Vietnam per la difesa raggiunge un “nuovo livello”: una partnership focalizzata a livello globale”

(Traduzione provvisoria)

 

Xin chao. Piacere di conoscerti, sono KISHI Nobuo, Ministro della Difesa del Giappone.

È un grande onore visitare il Vietnam durante la mia prima visita all’estero come ministro della Difesa. Prima di tutto, vorrei esprimere la mia sincera gratitudine al tenente generale Vu Chien Thang, direttore generale del dipartimento per le relazioni estere, ministero della Difesa nazionale, Vietnam, e a tutti i partecipanti di oggi per avermi dato questa opportunità.

La cooperazione per la difesa tra Giappone e Vietnam è solida e ha un grande potenziale di crescita. Oggi sono qui per esprimere i miei pensieri su come possiamo sviluppare ulteriormente questo partenariato per la pace e la stabilità della regione e della comunità internazionale. Per questo motivo, vorrei esprimere candidamente le mie opinioni, compresi quei punti su cui noi, Vietnam e Giappone, potremmo non essere allineati.

Colgo l’occasione per parlare dei miei ricordi speciali in Vietnam. La mia esperienza personale con il Vietnam è iniziata quasi 20 anni fa. Prima di diventare membro della Dieta, ho viaggiato in tutto il mondo mentre lavoravo per una società commerciale. Ho lavorato qui in Vietnam per un anno e mezzo dall’estate del 2000. Ho girato per Hanoi, Ho Chi Minh City, Can Tho nel bacino del fiume Mekong, Kamau all’estremità meridionale, Phan Thiet sul mare, il Dalat Altopiano, e le montagne vicino al confine con la Cina.

All’epoca in cui la “Politica del Doi Moi” iniziò a decollare, ricordo di aver sentito che le persone e la città stavano esplodendo e che il paese si stava veramente sviluppando. E oggi continuo ad assistere allo sviluppo del Vietnam, che è un potente leader nella regione.Ricordo distintamente un’interazione con un collega vietnamita generoso e gentile. A quel tempo, ho avuto una disputa sul lavoro, e quando mi sono lamentato perché: “hai detto che avresti potuto farlo in quel momento“, ha risposto con un grande sorriso, “Signor KISHI, se avessi detto che non potevo farlo in quel momento, saresti stato triste, non volevo vedere il tuo viso triste.” Non avevo altra scelta che perdonarlo.Il tipo non era solo accomodante e divertente, ma lavorava anche sodo. Abbiamo potuto intenderci e costruire un buon rapporto di fiducia, anche se litigavamo per differenze di pensiero. Il Vietnam, dove ho lavorato duramente con molte persone, è speciale per me. Questo è il motivo per cui ho fatto del Vietnam la meta della mia prima visita all’estero come ministro della Difesa.Sono convinto che è grazie al popolo vietnamita che possiamo sviluppare ulteriormente la cooperazione in materia di difesa tra i nostri due paesi. Questa convinzione non è cambiata dalla mia visita qui come Viceministro Parlamentare della Difesa nel 2009.”Quando siamo nei guai, ci aiutiamo a vicenda.” Questa è una virtù che i giapponesi hanno cara da lungo tempo. Gli amici si aiutano a vicenda nei momenti di difficoltà. Nella sfida senza precedenti della pandemia, e per affrontare insieme questa difficoltà da amico, il Giappone ha fornito circa 3 milioni di dosi di vaccino al popolo del Vietnam, con il quale abbiamo una lunga e profonda amicizia.Se ricordiamo, 10 anni fa, nel marzo 2011, sulla scia del grande terremoto del Giappone orientale, un disastro naturale senza precedenti, il Giappone ha ricevuto una quantità straordinaria di donazioni e sentite condoglianze da molte persone in Vietnam. Abbiamo ricevuto un caloroso sostegno in varie forme come lettere, scritti e disegni. Il Giappone non lo dimenticherà mai.”Gian nan mới biết bạn hiền“, quanto è incoraggiante per noi giapponesi essere colpiti e incoraggiati dalle virtù di tutti espresse in questa lingua vietnamita. Vorrei ringraziarvi ancora. E questa è stata anche un’opportunità per noi Giappone e Vietnam per renderci conto ancora una volta che condividiamo la virtù di aiutare i nostri amici in difficoltà e quanto siano forti i nostri “legami”. Le relazioni bilaterali tra Giappone e Vietnam continuano a svilupparsi. Da quando le relazioni Giappone-Vietnam sono state elevate a “partenariato strategico globale” nel 2014, i due paesi si sono sviluppati fortemente in tutti i campi.Questo si estende al campo della difesa. Sulla base dei risultati cumulativi delle varie cooperazioni e scambi fino ad oggi, quando ci siamo incontrati con il ministro della Difesa GIANG nel giugno di quest’anno, egli ha proposto di elevare la cooperazione in materia di difesa tra i due paesi a un “nuovo livello”.
Vorrei fare di questa visita una pietra miliare che segna l’inizio della cooperazione per la difesa del Giappone-Vietnam verso un “nuovo livello”. Prima ho accennato al fatto che noi, Giappone e Vietnam, condividiamo la virtù dell’impegno ad aiutare i nostri amici di fronte alle difficoltà. E, insieme a questa virtù, condividiamo altri valori universali che sono essenziali per regolare le relazioni internazionali. Uno di questi è lo “stato di diritto” in mare. Ciò che ha collegato il Giappone e il Vietnam fin dall’antichità è stato il mare vasto e abbondante. Dal XVI al XVII secolo, i mercanti giapponesi navigavano liberamente dal Mar Cinese Orientale al Mar Cinese Meridionale sui “Goshuinsen”, velieri mercantili giapponesi, alla ricerca di un ampio commercio con i paesi del sud-est asiatico. Il “Raienbashi”, noto anche come “Nihonbashi”, che rimane ancora nell’antica città di Hoi An, città natale del presidente Nguyen Xuan Phuc, ricorda i vivaci scambi tra Giappone e Vietnam dell’epoca. I mari liberi e aperti sono stati la pietra angolare della nostra prosperità fin dall’antichità. Il precetto che il Giappone continua a difendere in mare è molto semplice e basilare. Il Giappone ha costantemente promosso lo “stato di diritto” anche in mare. La nostra prosperità non sarebbe possibile senza la libertà di navigazione e di sorvolo e la sicurezza delle rotte marittime. Il Vietnam, che si trova geopoliticamente alla sovrapposizione del sud-est asiatico e dell’Asia orientale, svolge un ruolo importante nella regione. Noi, Giappone, abbiamo molto apprezzato la leadership del Vietnam nella regione durante il suo ADMM Plus, sottolineando al contempo il valore universale dello “stato di diritto”. Quelli di noi, che condividono valori, hanno una missione comune per proteggere la pace e la stabilità della regione. Ora stiamo affrontando una realtà senza precedenti, anche nell’arena della sicurezza, oltre alle difficoltà di affrontare il COVID-19.

 

Soprattutto nel mare e nello spazio aereo del Mar Cinese Orientale e del Mar Cinese Meridionale, ci sono casi in cui vengono intraprese azioni, basate su asserzioni unilaterali che sono incompatibili con l’ordine internazionale esistente.

La libertà di navigazione e la libertà di volo non devono essere indebitamente violate. A tal fine, è importante promuovere ripetutamente l’importanza dello “stato di diritto” e del principio fondamentale della risoluzione pacifica dei conflitti e, soprattutto, metterlo in pratica.

Nel Mar Cinese Orientale, continuano i tentativi di cambiare lo status quo con la coercizione, anche nelle acque intorno alle Isole Senkaku, che è un territorio intrinseco del Giappone. La situazione si fa sempre più grave, con ripetuti casi di navi della Guardia costiera cinese che si sono insinuate nelle acque territoriali, avvicinandosi ai pescherecci giapponesi.

Nel Mar Cinese Meridionale, la Cina ha continuato a militarizzare il terreno conteso, ha condotto frequentemente esercitazioni militari e si ritiene che abbia lanciato missili balistici, intensificando le sue azioni. Il Giappone si oppone fermamente ai tentativi unilaterali di cambiare lo status quo con la coercizione e a qualsiasi attività che aumenti le tensioni e condivide le preoccupazioni con il Vietnam.

Nel febbraio di quest’anno è entrata in vigore la legge sulla guardia costiera cinese. Questa legge include clausole problematiche in termini di coerenza con il diritto internazionale, come la sua applicazione a zone marittime ambigue e l’autorizzazione all’uso delle armi. I diritti giustificati di tutti i paesi interessati, inclusi Giappone e Vietnam, non dovrebbero mai essere compromessi a causa della legge sulla guardia costiera e non possiamo mai tollerare nulla che possa aumentare le tensioni sull’acqua, come nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale.

 

Inoltre, Taiwan si trova al nesso tra il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale, che è un punto chiave per la sicurezza marittima regionale. La pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan sono importanti sia per la regione che per la comunità internazionale. È stata una posizione coerente del Giappone aspettarsi che sarà risolta pacificamente attraverso dialoghi diretti da parte delle parti interessate.

Inoltre, è un fatto indiscutibile che ci siano varie sfide per garantire la pace e la stabilità della regione indo-pacifica.

In primo luogo, il lancio di missili balistici da parte della Corea del Nord, indipendentemente dalla loro gittata, è una violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che non solo minaccia la pace e la stabilità regionali, ma è anche un problema serio per l’intera comunità internazionale. Il Giappone sta lavorando con i paesi interessati per attuare pienamente le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per lo smantellamento completo, verificabile e irreversibile del programma di armi nucleari della Corea del Nord e la cooperazione con il Vietnam è importante.

Per quanto riguarda la situazione in Myanmar, il Giappone chiede con forza l’immediata sospensione delle violenze contro i civili, il rilascio dei detenuti e il rapido ripristino del sistema politico democratico, in collaborazione con la comunità internazionale. Il Giappone considera i “cinque consensi” come il primo passo verso una svolta e accoglie con favore la nomina di S.E. Erywan, Ministro degli Affari Esteri II del Brunei, come inviato speciale dell’ASEAN. In futuro sarà importante ottenere risultati concreti attraverso l’attuazione dell’iniziativa.

 

È inoltre necessario rispondere a questioni globali come la sicurezza informatica e la diffusione di nuove infezioni da coronavirus.

 

La regione indo-pacifica, dove viviamo, è al centro della vitalità del mondo. E quindi, la pace e la stabilità della regione sono essenziali per la prosperità del mondo.

I tentativi di cambiare lo status quo con la coercizione che abbiamo di fronte, possono colpire non solo questa regione ma l’intera comunità internazionale, e dovrebbero essere visti come una sfida globale che minaccia l’ordine internazionale esistente.

Tuttavia, ci sono naturalmente dei limiti a ciò che possiamo fare come singolo paese. È importante utilizzare tutte le partnership per affrontare questo problema.

Soprattutto, dobbiamo lavorare insieme per mantenere e rafforzare l’ordine internazionale basato sulle regole, libero e aperto, che è fondato sul diritto internazionale e ci ha portato prosperità. In queste circostanze, ciò a cui stiamo assistendo ora è che paesi che la pensano allo stesso modo condividono questa visione di come dovrebbe essere la regione indo-pacifica e si preoccupano e lavorano per la pace e la stabilità regionali. È qualcosa che stiamo cercando di rafforzare come mai prima d’ora.

Anche i paesi che sono partner chiave del Giappone stanno prestando attenzione al Vietnam. Dagli Stati Uniti, il segretario alla Difesa Lloyd J. Austin ha visitato la regione alla fine di luglio e il vicepresidente Kamala D. Harris ha visitato la regione ad agosto. Entrambi gli alti funzionari hanno scelto di fermarsi in Vietnam come parte del loro viaggio. Ciò dimostra chiaramente che gli Stati Uniti riconoscono l’importanza strategica del Vietnam.

E quest’anno, di particolare interesse è il maggiore coinvolgimento dei paesi europei nella regione. Il ministro della Difesa britannico Ben Wallace, che ha visitato il Giappone a luglio, ha visitato Hanoi per la prima volta come ministro della Difesa britannico. Il lancio della politica “Tilt to the Indo-Pacific” è rivoluzionario per la Gran Bretagna.

Al fine di promuovere con forza la visione del Giappone per un “Indo-Pacifico libero e aperto”, è indispensabile la cooperazione con i paesi europei che condividono l’ambizione di sostenere lo “stato di diritto”. Da quando ho assunto la carica di ministro della Difesa, ho lavorato attivamente per rendere l’impegno dell’Europa in questa regione ancora più forte e permanente

 

Nel 2019, il Vietnam, insieme a tutti gli altri paesi dell’ASEAN, ha annunciato l'”ASEAN Outlook on the Indo-Pacific (AOIP)” come proprio percorso. In esso, lo stato di diritto, l’apertura, la libertà, la trasparenza e l’inclusione sono promossi come principi di azione. Il Giappone sostiene pienamente l’AOIP, che condivide i principi essenziali con la FOIP. Andando avanti, continueremo a incoraggiare sforzi tangibili e cooperativi per realizzare l’AOIP, sostenendo nel contempo la centralità e l’unità dell’ASEAN.

L’espansione dei partenariati nell’Indo-Pacifico contribuirà a garantire la pace e la stabilità regionali. Cosa dovrebbero fare gli amici insostituibili, Giappone e Vietnam, nel mezzo di questa espansione delle partnership globali? La mia risposta è far evolvere la cooperazione di difesa Giappone-Vietnam a un “nuovo livello” adatto all’era attuale. E così facendo, vorrei camminare insieme come compagni che si tengono per mano, per adempiere al nostro obbligo di proteggere la pace e la stabilità della regione e della comunità internazionale. Fino ad ora, le autorità di difesa del Giappone e del Vietnam hanno rafforzato la loro capacità di proteggere le loro terre con sforzi continui. Sulla base delle rispettive capacità, abbiamo promosso la cooperazione e gli scambi in una vasta gamma di settori tra i due paesi, e i risultati hanno portato grandi benefici sia al Giappone che al Vietnam. Le forze di autodifesa giapponesi stanno ora contribuendo al mantenimento e al rafforzamento dell'”Indo-Pacifico libero e aperto”, e l’esistenza del potente esercito popolare vietnamita – che continua a migliorare ulteriormente le sue capacità – è diventata essenziale per mantenere la pace e stabilità nella regione. Alla luce della cruda realtà dell’ambiente di sicurezza che ci circonda, la nostra cooperazione deve mirare a ulteriori vette. In altre parole, nello spirito di “quando siamo in difficoltà, ci aiutiamo a vicenda” e “Gian nan mới biết bạn hiền”, siamo amici che danno una mano ad altri amici in difficoltà in questa regione e nella comunità internazionale. Dovremmo dire che siamo entrati in quella fase. Qui oggi vorrei “ridefinire” che la cooperazione per la difesa del Giappone e del Vietnam mira a contribuire in modo più positivo alla pace e alla stabilità non solo dei nostri due paesi, ma della regione e della comunità internazionale. Questo è l’intento della cooperazione di difesa Giappone-Vietnam nella “nuova fase” di cui parlavo prima.

 

Sia il Giappone che il Vietnam collaboreranno per affrontare varie questioni di sicurezza nella regione, sottolineando al contempo lo “stato di diritto”. Lavoreremo a stretto contatto non solo a livello bilaterale, ma anche con i paesi regionali e l’ASEAN a beneficio di tutti i paesi. Vorremmo fornire una pace duratura alla comunità locale e internazionale. Per il Giappone va detto che il Vietnam è uno dei paesi importanti con cui condividiamo la stessa barca.

 

Con la cooperazione che raggiunge questo “nuovo livello”, rafforziamo ulteriormente la cooperazione per la difesa tra Giappone e Vietnam, spostando la nostra attenzione sulla pace e la stabilità dell’Indo-Pacifico e del mondo.

Ora abbiamo un nuovo strumento per questo. È l’accordo di trasferimento di attrezzature e tecnologie per la difesa Giappone-Vietnam firmato ieri.

In futuro, in base a questo accordo, accelereremo le discussioni verso la realizzazione di trasferimenti tangibili di attrezzature, come la cooperazione nel campo delle navi che contribuiscono alla sicurezza marittima regionale.

E amplieremo l’ambito della cooperazione a campi senza precedenti e nuovi domini.

Ad esempio, rispondere alle minacce nel cyberspazio è una sfida urgente per la sicurezza globale. Lo scorso dicembre ho annunciato gli sforzi per migliorare le capacità di sicurezza informatica con i paesi dell’ASEAN. Lavoreremo a stretto contatto con il Vietnam per migliorare la sicurezza informatica nella regione in modo che questa iniziativa serva da modello per la cooperazione di difesa ASEAN Giappone-Vietnam al “nuovo livello”.

 

Anche la diffusione globale delle infezioni da coronavirus ha avuto un forte impatto sulla sicurezza. Alla teleconferenza dei ministri della Difesa Giappone-Vietnam nel novembre dello scorso anno, abbiamo deciso di promuovere la cooperazione nel campo del controllo delle malattie infettive.

Alla luce di questi sviluppi, le autorità di difesa di Giappone e Vietnam continueranno a coordinare la firma di un memorandum d’intesa in questi due importanti ambiti, al fine di promuovere la cooperazione nei settori della sicurezza informatica e della medicina militare.

 

Anche le operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite sono un campo in cui la cooperazione Giappone-Vietnam è notevole. Al fine di migliorare la capacità del personale PKO, il Giappone ha lanciato il Progetto ONU di Partenariato Triangolare (UNTPP) con le Nazioni Unite nel 2015. Finora, il Ministero della Difesa giapponese e le Forze di autodifesa hanno inviato un totale di circa 230 istruttori , e ha formato circa 360 persone – provenienti da 17 paesi dell’Asia e dell’Africa – per le missioni delle Nazioni Unite.

Dal 2018, con la piena collaborazione dell’Esercito popolare del Vietnam, gli istruttori delle forze di autodifesa giapponesi addestrano il personale dei paesi asiatici qui ad Hanoi e sotto la bandiera delle Nazioni Unite. Tale cooperazione tra Giappone e Vietnam sostiene fortemente le operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite.

Inoltre, da quest’anno Giappone e Vietnam co-presiedono il gruppo di lavoro di esperti dell’ADMM Plus sulla PKO e hanno tenuto la loro prima riunione ad aprile. Nei prossimi tre anni condurremo discussioni costruttive tra i paesi partecipanti e gli esperti di PKO.

Questo tipo di cooperazione tra i nostri due paesi dimostra la forte volontà che condividiamo entrambi di contribuire attivamente alla pace e alla stabilità della comunità internazionale. Continueremo a promuovere ulteriore cooperazione in futuro.

 

Oggi ho una visione grandiosa e ambiziosa della cooperazione per la difesa tra Giappone e Vietnam in una “nuova fase”. Alcuni di voi che hanno sentito questa aspirazione potrebbero chiedersi: “È davvero possibile?”

Ma sono molto convinto. Insieme al fermo popolo vietnamita che conosco, sono sicuro che sarò in grado di superare molte sfide e raggiungere questo obiettivo immenso e alto.

Oggi, mentre le partnership più forti che mai si espandono nella regione indo-pacifica, Giappone e Vietnam lavoreranno insieme per promuovere risultati positivi. Inoltre, in cooperazione con i paesi associati, lavoreremo insieme per affrontare questioni comuni e per contribuire alla pace e alla stabilità nella regione e nella comunità internazionale.

https://www.mod.go.jp/en/article/2021/09/418fe0507c857ab01e14fe7f2dc8d547410018da.html#1

NORD STREAM 2/ Una lezione per la futura Forza Nuova su come sostenere l’Eni, di Piergiorgio Rosso

NORD STREAM 2/ Una lezione per la futura Forza Nuova su come sostenere l’Eni

Ripubblichiamo il commento di Paolo Annoni della rivista online Il Sussidiario che ci sembra cogliere alcuni punti decisivi degli ultimi sviluppi della questione Nord Stream 2 che questo blog ha seguito fin dalle origini e poi continuativamente qui, qui e qui sulla base della teoria del Conflitto Strategico promossa da Gianfranco La Grassa.

Il primo punto da considerare è il riconoscimento della necessità del gas russo a basso costo per la Germania. I rigassificatori del GNL americano si faranno ma non possono avere la rilevanza strategica del gas russo da pipeline.

Questo vincolo interno ha comportato sia la forte determinazione della classe dirigente tedesca sia la presa d’atto degli USA di non poter proseguire oltre sulla linea delle sanzioni, pena la rottura dei rapporti con la Germania. Rottura strategicamente intollerabile per gli USA, considerato l’imperativo geopolitico di evitare la saldatura della penisola europea con la Russia.

La lezione da portare a casa per noi è che fare di necessità, virtù … paga anche se si hanno le forze armate americane in casa (dedicato agli alternativi critici-critici tutto no-gas/no-NATO) .

Il secondo punto è la consapevolezza che le politiche europee denominate Green Deal sono ad esito del tutto incerte, perché basate su tecnologie inaffidabili, costose o ancora da sviluppare (vedi in particolare alla voce Idrogeno Verde). Seppure la Germania può permettersi qualche lusso in proposito, ma con un sicuro ed affidabile back-up costituito da carbone e nucleare previsti durare ancora decenni, per l’Italia l’alternativa non esiste: “ … Il Nord Stream 2 italiano, la garanzia di poter far sopravvivere il nostro sistema economico e industriale mentre si vive il sogno, o l’utopia, delle rinnovabili tutte e subito si chiama Eni che non a caso è stata la protagonista dell’industrializzazione italiana..”. Tesi più volte sostenuta in questo blog e riconfermata nel recente libro “Per una Forza Nuova” di G.La Grassa/G. Petrosillo, da cui estraggo questo passaggio assai pertinente alla vicenda trattata in questo articolo: “… E’ indispensabile che sul piano geopolitico globale, si partecipi alla lotta tra “predoni” nell’attuale multipolarismo e si dovrebbero prendere la misure adatte a sviluppare la propria potenza. In ogni caso anche se non sarà gran cosa per un lungo periodo di tempo, in Italia andrebbero difese quelle poche grandi imprese che agiscono in settori di punta, tecnologici ed energetici…”

Buona lettura

22.05.2021 – Paolo Annoni

Gli Stati Uniti hanno dovuto accettare il fatto che la Germania completi il Nord Stream 2. Una lezione per l’Italia sulla difesa di Eni

L’Amministrazione Biden ha deciso che non applicherà le sanzioni contro la società che sta costruendo il Nord Stream 2 e il suo amministratore delegato. Il portavoce del Segretario di Stato Blinken ha dichiarato che la decisione riflette l’impegno del Presidente americano per “ricostruire le relazioni con i nostri alleati e partner europei” anche se ha ribadito che “l’opposizione al progetto rimane risoluta”. 

Gli Stati Uniti ritengono che il gasdotto sarebbe decisivo per ampliare l’influenza russa in Europa, ma evidentemente i rapporti con Berlino sono stati ritenuti prioritari. La Germania, infatti, si è dimostrata determinata a completare il progetto nonostante le minacce e le pressioni dell’alleato americano. 

A questo punto della vicenda e a pochi mesi dal completamento del gasdotto bisogna interrogarsi su quello che sembra essere l’epilogo di una vicenda che ha messo i due partner su lati opposti per anni. L’epilogo oltretutto arriva in una fase in cui i rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia sono ai minimi termini con il Presidente americano che dà in pubblico dell’assassino a Putin e gli ambasciatori rientrati in patria. L’unica spiegazione possibile alla svolta americana e alla determinazione tedesca è che sia la Germania ad aver bisogno della Russia e del suo gas e non viceversa. La necessità di avere gas a buon prezzo e per molti anni evidentemente deve essere così importante che anche l’alleato americano alla fine ha dovuto “mollare”. La Russia potrebbe vendere il suo gas altrove tanto più in una fase in cui si minaccia il blocco dell’esplorazione in idrocarburi che gli Stati in via di sviluppo non saranno mai in grado di sostituire con fonti rinnovabili. La Germania invece non ha alternative.

Il costo energetico tedesco è già alto e riflette anni di investimenti in rinnovabili. Lo sforzo europeo sulle emissioni rischia di minare l’industria tedesca e di metterla fuori gioco nella competizione globale oltre che abbassare irrimediabilmente gli standard di vita dei suoi cittadini; la Germania ha quindi più che mai bisogno di un complemento affidabile ed economico ed eventualmente di un ripiego nel caso in cui la transizione verde si dovesse rilevare impraticabile e incompatibile con le esigenze di un Paese sviluppato. I Paesi sviluppati, infatti, si basano su un’enorme premessa: la disponibilità di energia a basso costo e affidabile. Tolto questo elemento che oggi si dà per scontato salta tutto. 

Le rinnovabili oggi hanno enormi problemi di costi e di affidabilità. Non sono in grado di sostituire gli idrocarburi in un’ottica di 10/20 anni se non a patto di gravare imprese e cittadini di rincari molto consistenti e magari di esporli al rischio di blackout periodici. Tralasciamo poi i lati sporchi delle rinnovabili a partire dall’auto elettrica che richiede l’estrazione di materie prime che pongono tanti problemi ambientali e sociali nei Paesi produttori; il fatto che l’Occidente non li veda e per questo si senta la coscienza ambientale pulita è un fattore non secondario.

La Germania, quindi, è perfettamente consapevole di non poter garantire un futuro al suo sistema economico e industriale senza il gas russo. Gli Stati Uniti sanno perfettamente che in un contesto di investimenti green miliardari in tecnologie acerbe privare la Germania del gas russo rischia di far saltare l’alleato europeo. Questo è il quadro.

A questo punto si impone una riflessione sull’alleato italiano che ha perso la partita sul South Stream. Oggi si invoca in Italia una transizione decisa verso il green che non si guardi indietro e bruci i ponti. È una posizione da incoscienti alla luce non di qualche oscura contro teoria ma proprio di quello che è successo questa settimana tra Stati Uniti e Germania. Il Nord Stream 2 italiano, la garanzia di poter far sopravvivere il nostro sistema economico e industriale mentre si vive il sogno, o l’utopia, delle rinnovabili tutte e subito si chiama Eni che non a caso è stata la protagonista dell’industrializzazione italiana. Chi oggi cerca di impedire a Eni di fare il suo mestiere è nella stessa posizione di chi voleva impedire all’industria tedesca di completare il Nord Stream 2. La Germania ha percepito immediatamente la minaccia mortale e per questo ha sfidato ogni sorta di pregiudizio. C’è solo da imparare.

NB_Già apparso su http://www.conflittiestrategie.it/nord-stream-2-una-lezione-per-la-futura-forza-nuova-su-come-sostenere-leni

Geopolitica secondo il Centro di Gravità, a cura di Piergiorgio Rosso

“L’1 e 2 febbraio 2020 quasi 100 “intellettuali, pensatori e artigiani” italiani, di discipline diverse, provenienti da percorsi professionali, culturali e storie politiche anche molto differenti, si sono incontrati a Roma per la prima volta, innanzitutto per conoscersi, uniti nel constatare la necessità di trovare punti di convergenza e analisi comuni per fronteggiare insieme la vera e propria transizione globale di sistema che è già in pieno avanzamento e si attua in tempi sempre più rapidi.”
E’ nato così su ispirazione di Giulietto Chiesa il Centro di Gravità (centrodigravità.org) che al momento non è che un gruppo stabile di soggetti molto diversi che promuovono analisi all’interno di gruppi di lavoro dedicati.
Il sottogruppo di lavoro Guerra e Geopolitica – cui ho partecipato – dopo un anno di confronti ha prodotto un primo documento “per un’ipotesi di posizionamento internazionale” dell’Italia che Italia e il Mondo – che ringrazio – ha deciso di ospitare.
Nell’orientarne la lettura vorrei sottolineare i passaggi che sottolineano il ruolo delle nazioni – non “individui” né “comunità” – come soggetti protagonisti dei conflitti internazionali, ma soprattutto la coppia identità/strategia nazionali: senza identità nazionale non si può pensare di essere considerati interlocutori a livello internazionale. Da qui parte il programma di lavoro che il gruppo si è dato a partire dalla sfida di contribuire a chiudere/suturare tre faglie che ancora dividono gli italiani, tre “guerre civili” irrisolte. I lavori del gruppo continuano. Buona lettura, Piergiorgio Rosso

Posizione geopolitica 22 dicembre 2020

PREMESSA

Il presente documento intende proporre in estrema sintesi una ipotesi di posizione geopolitica nazionale, basandosi su di una analisi che individua gli elementi che hanno portato alla presente fase conflittuale globale e particolare per la nostra nazione, introducendo il concetto basilare di interesse nazionale. La descrizione e le tesi sulle diverse élites dominanti ed il loro conflitto sono indicate, ma non sviluppate in termini di schieramento da scegliere, in quanto si vuole privilegiare l’autonomia di Patria piuttosto che le posizioni politiche. La bibliografia in calce è composta in modo distinto sia da testi ufficiali di organi istituzionali che da fonti pubblicistiche. INTRODUZIONE

La perdita di autonomia politica della nazione italiana viene datata da alcuni osservatori a partire dalla crisi politico-giudiziaria degli anni 1992-1993 detta “Mani Pulite”, periodo nel quale un’intera classe politica è stata annientata per via giudiziaria, è stata ratificata in Parlamento l’adesione al Trattato di Maastricht – in piena emergenza politica – l’intero, strategico, patrimonio dell’industria pubblica dell’IRI – risalente al 1933 – è stato smembrato e privatizzato, è stato cancellato il diritto dello Stato italiano a battere moneta. In realtà, non sfugge agli osservatori più attenti, che l’autonomia politica italiana era già stata pressoché annullata nell’immediato secondo dopoguerra, in quanto nazione sconfitta e costretta a firmare un Trattato di Pace (1947) che – lungi dal considerare la cosiddetta cobelligeranza del periodo 43’/45’ – rappresentava una vera e propria resa senza condizioni. Quel contesto si innestava inoltre su una precedente realtà politica e sociale ereditata dal secolo XIX nel quale era, sì stata “fatta l’Italia” – seppure con l’aiuto interessato di alcune potenze straniere – ma non gli italiani. La frattura Nord-Sud non era stata completamente sanata dalla classe dirigente liberale sia della Destra che della Sinistra storica: “… c’è fra il nord e il sud della 1 penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gli intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale…» (Giustino Fortunato/1911). Nel corso della discussione, interna al CdG, alla ricerca di un possibile nuovo posizionamento geopolitico dell’Italia, ci siamo presto resi conto che non aveva molto senso discutere di politica internazionale, senza prima definire se e come l’Italia poteva prima pensarsi e quindi presentarsi nel consesso internazionale, come una nazione. Come premessa a qualsiasi discussione geopolitica abbiamo pertanto identificato tre questioni irrisolte che a nostro parere ancora dividono profondamente e pesano sugli italiani. Le abbiamo chiamate tre guerre civili per segnalare la serietà di tre specifiche questioni storiche e l’assoluta priorità politica che esse oggi assumono.

UNA NUOVA IDENTITÀ NAZIONALE La premessa politica è che: “La tesi secondo la quale il principio nazionale risulterebbe superato è propria dei popoli vinti che accettano la sconfitta. L’emergere delle grandi realtà a livello continentale ha bensì posto in termini nuovi il rapporto di forze internazionali, ma non esclude, anzi presuppone, le nazioni come soggetti politici operanti.” Le “tre guerre civili” vengono sinteticamente descritte volendo offrire un’indicazione alla ricerca storica che auspicabilmente il CdG potrebbe promuovere ed alimentare. Esse sono: • Il “brigantaggio” o “lotta al banditismo” ingaggiata dal neonato Regno d’Italia nelle regioni meridionali e durata più di dieci anni; • La guerra civile 1943-45 e oltre; • La lotta armata degli anni ’70 del secolo scorso. L’obiettivo del documento è duplice. La rilettura e ricostruzione storica degli eventi legati alle “tre guerre civili” italiane ha un evidente scopo culturale. Ma assume in sé un significato politico in quanto premessa necessaria per: “… la rivendicazione, da parte della società italiana, del diritto di riconoscersi come comunità nazionale, con una propria identità civile, politica e storica e, su tale presupposto, a svolgere – nel quadro geopolitico – una missione di civiltà: una comunità di destino, avanguardia mondiale del diritto dei popoli”. Storicamente il Paese Italia ha avuto in età moderna un processo unificante che si è imposto sulle sue specificità ed identità storiche e geografiche, con un iniziale processo 2 militare sostenuto e diretto da opposti interessi stranieri (austriaci, inglesi e francesi). Questa presenza straniera ha prodotto un continuo condizionamento sulla classe dirigente politica italiana, che da una parte ha favorito gli interessi di trasferimento di ricchezza nazionale all’estero, dall’altra ha prodotto all’interno del Paese una frattura fra la progressiva integrazione europea dei gruppi economici settentrionali e la disgregazione delle strutture economiche meridionali. Tale iniziale processo ha creato e sviluppato un profondo disconoscimento popolare dello stato unitario tra le masse sociali. Ciononostante, le risorse umane e materiali del Paese hanno portato ad uno sviluppo economico elevato dell’Italia, con una capacità manifatturiera esportativa e una crescita del mercato interno, terzo d’Europa, e hanno prodotto un accumulo di risparmio domestico maggiore degli altri Paesi europei. Tale processo ha avuto ulteriori eventi negativi sulla coesione identitaria: la guerra civile successiva alla seconda guerra mondiale, che portò ad un inserimento nella sfera USA del Paese, ed il periodo di conflitto sociale armato degli anni ’70 del secolo scorso, culminato con il terrorismo, precedente alla caduta dell’Unione Sovietica, che fu caratterizzato nuovamente dal rientro delle ingerenze americane, inglesi e francesi. Queste ingerenze non hanno più la modalità esclusiva, del periodo post unitario del XIX secolo, ma sono inserite nel processo di unificazione europea che passa, dall’iniziale natura puramente commerciale, ad una natura strategico politica con i Trattati di Maastricht e Lisbona. Questo passaggio si sostanzia per la nazione italiana con la sostituzione della classe politica democristiana e socialista con quella ex-comunista e della sinistra democristiana (significativamente salvate dai processi di “Mani Pulite”), si rinforza con la privatizzazione di gran parte delle grandi aziende strategiche nazionali (svendita degli assetti pubblici, IRI) e culmina, alla fine del XX secolo, con la perdita della sovranità monetaria; tutti eventi che introducono e consolidano in Italia il quarto grande soggetto estero, la Germania, che prende un ruolo, da primo sub-dominante – rimanendo gli USA gli assoluti egemoni in Italia – rispetto ai sub-dominanti storici Francia e Regno Unito. Al presente abbiamo una realtà sociale che risulta frazionata e sempre più lontana da un’identità comune. Anche in questo presente, nonostante tutto, il Paese riesce a mantenere una capacità economica manifatturiera e finanziaria che lo pone secondo in Europa e in molti settori al primo posto. Non egualmente si mantiene la capacità di identità sociale, causa la destrutturazione della scuola 3 pubblica e della sanità, accelerate con l’autorità autonoma assunta dalle Regioni, parallela alla perdita di sovranità monetaria. Fattore questo che ha portato il governo statale a giustificare tutte le manovre restrittive, come obbligatoria ottemperanza alle direttive politiche e finanziarie europee. Quindi, i cittadini sono schiacciati tra un governo nazionale, che dichiara strumentalmente di non avere autonomia dall’”Europa”, e da governi regionali, che, obbligati dai vincoli di riduzione della spesa pubblica sistematicamente accettati dal governo nazionale ai tavoli europei, garantiscono le speculazioni del sistema criminale territoriale e i grandi capitali, privatizzando i servizi essenziali, acqua, luce, gas, trasporti, sanità e scuola. Le fasce sociali dominate e tradizionalmente patriottiche (lavoratori, studenti e piccola borghesia) sono disarticolate in una pletora di marginalità, individualizzate e alienate dai vecchi e nuovi strumenti di comunicazione Tale scenario è divenuto globale, portato dal sistema capitalistico occidentale in tutto il mondo, con il concorso/competizione di molti paesi. Assunto questo scenario vediamo che in esso, e in modo specifico proprio in occidente, è in corso il conflitto competitivo per la supremazia, tra diverse fazioni della formazione capitalistica tradizionale per l’introduzione sistematica delle tecnologie ed il nuovo sistema digitale, in cui la produzione di merci avviene avvalendosi anche di “materia prima immateriale”, come i dati e l’informazione. Prendendo atto che si è raggiunto un livello molto basso di coscienza sociale identitaria, si può ipotizzare che, per avviare una ricostruzione di tale identità sociale, vada adottato un paradigma diverso da quello che ha condotto allo stato presente. Pensiamo che sia possibile riproporre il paradigma di uno stato federale, che tenga conto delle diversità socio-culturali, sostituendolo allo stato centralizzato unitario – peraltro rimesso in discussione in modo disfunzionale con la riforma del Titolo V della Costituzione – che ha schiacciato tali diversità. Si riprenderebbe, così, un antico corso della millenaria storia italiana, che fin dall’Impero di Roma, iniziò un vasto ordinamento federale amministrativo, poi ripreso dalle Città Stato e dalle nostre sapienti Repubbliche Marinare. Il concetto di stato federale possibile, si basa sulle diversità culturali ed economiche ancora presenti in Italia. Il fine di tale impostazione è quello di superare la sperequazione prodotta dallo stato centrale, storicamente definita come questione meridionale. Per conseguire il risultato combinato di differenziazione locale ed identità nazionale, si introduce il principio di diretta 4 responsabilità della politica locale sull’amministrazione del territorio, lasciando allo stato centrale la competenza sulla politica internazionale e della difesa, sul bilancio generale, sulla politica industriale, infrastrutturale ed energetica e sui servizi universali del cittadino, sanità, scuola, acqua, ambiente e trasporti erogati esclusivamente da enti pubblici. Diversamente i settori specifici locali, piccola impresa, urbanizzazione e beni culturali (esclusa la loro tutela) sono di diretta amministrazione locale. Tale processo socialmente differenziativo viene compensato dal processo integrativo, che viene realizzato dall’erogazione statale dei servizi basilari, soprattutto nei territori più penalizzati. La tesi per cui in un mondo in cui i mercati non hanno confini, lo Stato non avrebbe più alcun ruolo né importanza, è in realtà una tesi portata avanti dai promotori della globalizzazione liberista. Per i paesi che accettano questa visione dell’economia mondiale, la capacità statale di rendere la politica indipendente dal principale partner commerciale di un paese, viene progressivamente erosa man mano che i paesi stessi si trovano intrappolati in una rete continua di interdipendenza. I mercati più grandi non arrivano senza un costo. Del resto le crisi del 2008 e quella del 2020 si sono incaricate di rendere difficile sostenere ancora tale tesi. Lo Stato (sovrano) continua ad essere la forza capace di plasmare e guidare lo sviluppo economico nazionale, compresa la stessa globalizzazione. La maggiore capacità di superare la distanza geografica, resa possibile dalle innovazioni nelle tecnologie di trasporto e comunicazione, è di scarsa utilità se esistono barriere politiche a tali movimenti. Le politiche di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione sono state necessarie per superare le barriere non tecniche al libero flusso di lavoro, capitale e merci. Pertanto, la forza abilitante della globalizzazione è lo Stato. In effetti, gli Stati più grandi e potenti – come gli USA – hanno usato la globalizzazione come mezzo per aumentare i loro poteri e interessi. Ci muoviamo da queste premesse – e dalla prioritaria soluzione delle “tre guerre civili” – per articolare alcuni principi che dovrebbero ispirare una strategia italiana volta a tutelare i propri interessi nazionali nel consesso internazionale.

CONTESTO INTERNAZIONALE

La conclusione della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, vedono la crisi dell’equilibrio bipolare che conteneva nell’egemonia dei Paesi Egemoni (USA ed URSS) i conflitti geopolitici dei diversi Paesi satelliti. 5 Fase mondiale conflitto permanente multinazionale. Quindi si entra in una fase in cui le élites dominanti sovranazionali vanno in conflitto tra loro tramite una nuova dinamica, composta da conflitti regionali e locali tra stati e dentro gli stessi stati, andando a recuperare contrapposizioni etniche e religiose. Il metodo conflittuale comporta un’estrema turbolenza in quanto libera gli interessi geopolitici delle diverse nazionalità, sia minori sia emergenti. La globalizzazione, in una nuova fase, contrasta il ruolo delle nazioni dominate nell’economia, anche sviluppando nuove tecnologie produttive e di controllo sociale. Nel settore produttivo si supera il rapporto con le merci materiali e i mezzi di produzione per l’impiego di mezzi immateriali: i dati e l’intelligenza artificiale. Di pari passo il controllo sociale sugli individui non necessita di organi intermedi, sindacati, partiti, ma si opera direttamente sul singolo individuo collegandolo in modo permanente con tecnologie attive, che ne acquisiscono (depredano) le informazioni personali linguistiche e biometriche, con cui predeterminano il comportamento nel lavoro, nei consumi e nella vita emotiva. Nuovi e vecchi fattori di forza. Il fattore di forza per svolgere il conflitto permanente avviato dalle élites dominanti resta la capacità militare. Restano soggetti attivi i Paesi che ospitano élites dominanti industriali militari a capacità continentale. Per capacità industriale militare deve intendersi un concetto complesso, che include oltre ai sistemi d’arma, i sistemi di veicolazione, archivio, elaborazione dell’informazione. In questo contesto il concetto di informazione va oltre quello tradizionale di notizie e propaganda, si estende come accennato ai dati globali sulle singole persone. USA. In questa fase di conflitto permanente multinazionale, la dinamica di posizionamento degli stati europei si è andata modificando dall’equilibrio istituzionalizzato con la NATO. L’elemento pattizio che ha permesso e permette di mantenere l’egemonia storica postguerra agli USA nell’occidente, di fatto, perdura, con gli accordi bilaterali che avallano la presenza militare americana nei diversi paesi europei. Di tale situazione l’Italia ne è stata ed è la maggiore vittima. In modo specifico in quanto ne limita ed abortisce il ruolo mediterraneo e con il medio e lontano oriente, cui è deputata per geopolitica e storia. Il fatto più recente è stata la cancellazione violenta dei rapporti 6 con la Libia. Gli USA appaiono, a qualsiasi osservatore attento, profondamente divisi al loro interno, sia fra i diversi schieramenti di cittadini sia, soprattutto, fra le varie élite dominanti. Le divisioni in essere, non mettono in discussione la necessità per gli Usa di mantenere la supremazia mondiale, ma sono dialetticamente concorrenti per quanto attiene alla migliore strategia da applicare, per mantenere la supremazia geopolitica degli USA sul mondo. Il mutamento strategico segnala che gli Stati Uniti hanno dovuto prendere atto di un loro predominio non incontrastato, così come avevano pensato, dopo il crollo dell’Urss, per un periodo di tempo tutto sommato breve (1990-2003). E’ in tal senso che si può parlare, oggi, di declino relativo del paese ancora predominante e – parallelamente alla maggiore assertività di Russia e Cina – dell’avvio di una fase multipolare del sistema-mondo. In ogni caso, gli Stati Uniti dovranno rigiocarsi la centralità globale, in un periodo che dovrebbe essere piuttosto lungo, di alcuni decenni almeno, e il cui esito non è scontato in partenza; non è affatto escluso che riacquistino la preminenza, ma nemmeno è indiscutibile un simile risultato. Si tratterà di una fase storica turbolenta – con svariati mutamenti di prospettive e di previsioni – di cui le crisi economiche sono soltanto il segnale premonitore. In questo processo la loro dialettica interna diviene strumentale ad adottare una posizione isolazionista (sovranista) o globalista (deep state) a seconda della congiuntura più favorevole a loro. Tale dialettica è dimostrata dal cambiamento di valori e tipologia sociale di consensi che hanno avuto i due partiti principali, repubblicano e democratico . Data questa premessa, sembra che le due fazioni USA, attualmente in lotta fra loro, si differenzino, rispetto alla priorità da dare al contenimento di Russia o Cina. Il gruppo isolazionista (sovranista – repubblicano) sembra avere l’intenzione di bloccare l’espansione cinese – non solo di tipo commerciale/logistico ma, soprattutto, di tipo militare/strategico – soprattutto nella “zona-mare”, per orientarla verso la parte continentale, quindi verso la zona centro-asiatica, dove potrebbe scontrarsi con la Russia. Mentre il gruppo globalista (democratico- Deep State) considera la Russia quale avversario principale, il primo da “contenere” e mettere in isolamento e in difficoltà. E’ indubbio, che le dirigenze attuali cinese e russa – ancorché insidiate al loro interno da fazioni che si oppongono a loro e vorrebbero giocare alla “globalizzazione” magari in nome dei “diritti civili” – comprendono molto bene il significato delle mosse statunitensi e hanno consapevolezza dell’interesse, di non breve momento, a collaborare per sventarle e non cadere nella “trappola”. 7 La fazione USA che dà priorità al contenimento della Russia, procurerebbe come ovvia conseguenza una maggior spinta sull’acceleratore, soprattutto, nell’area UE. E l’Italia – data la sua posizione geografica, e ancor più con la sua debolezza “strutturale” di “nazione incompiuta”, attraversata da spinte centrifughe, da ostilità interregionali, ecc. – assumerebbe, in quel contesto, un’importanza significativa e, quindi, maggiori pressioni e interferenze. Russia Il collasso dell’URSS, avvenuto alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, aveva portato, come conseguenza, la rapida spoliazione della nazione ex-sovietica, da parte di un’élite antinazionale interna (gli oligarchi) “aiutata” e guidata da “esperti” e consiglieri occidentali. Questo processo si interrompe con la crescita e la presa di potere, di un élite nazionale, che esprime la sua guida in Putin. La Russia putiniana, uscita vincente dallo scontro con la parte più “filo-occidentale” degli oligarchi – che pur mantenendo un certo potere economico non hanno accesso ad alcun potere politico – sembra godere di una relativa stabilità ma deve fare i conti con le continue insidie nel suo “estero vicino” (Georgia, Ucraina, Bielorussia, ecc.), una seria crisi economica – e la contestuale difficoltà a svincolare la sua economia dall’eccessiva dipendenza dalla vendita di fonti energetiche fossili – e con le storiche difficoltà nel tenere unito un Paese geograficamente immenso (immigrazione cinese nell’est siberiano). La Russia sta dimostrando di aver acquisito la consapevolezza che il suo sistema produttivo deve migliorare la complementarietà con il complesso della ricerca civile e militare (due mondi che in epoca sovietica viaggiavano totalmente disconnessi da quello economico-produttivo). Per il momento rimane un nano economico ma è ridiventata una nazione potente militarmente, in grado, in questo modo, di svolgere un ruolo globale e non solo regionale. Cina La Cina è un paese fortemente dipendente dall’esterno e tale resterà per molti anni a venire. Con una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone, la tigre asiatica dovrà guardare fuori dai suoi confini per accaparrarsi risorse sufficienti. Per quanto, infatti le politiche interne siano ambiziose e volte al ricorso di fonti energetiche interne, sfruttabili a livello nazionale, il sistema industriale cinese necessiterà, ancora per molti anni, di fonti energetiche di origine fossile importate da altre nazioni. Anche l’impegno su grande scala nell’utilizzo delle fonti energetiche 8 cosiddette “rinnovabili” e l’elettrificazione della mobilità necessitano per la Cina l’acquisizione e il controllo di metalli speciali di cui è ricco il continente africano. Il che spiega perché la Cina continuerà ad essere presente in Africa e in altre parti del mondo e a promuovere investimenti massicci in progetti cosiddetti “green” e non solo. La stessa cosa vale per le risorse alimentari: la dieta dei cinesi – progressivamente inurbatisi negli ultimi decenni – è drasticamente cambiata dagli anni del Grande Balzo In Avanti. La Cina non ha abbastanza risorse all’interno dei suoi immensi confini per sfamare la propria popolazione. A questo si accompagna la fragilità della sua sicurezza ai confini marittimi collocati sulle linee di una manciata di isole ed arcipelaghi del Mar Cinese Orientale – il cosiddetto “Filo di Perle” a poche centinaia di chilometri dalle sue coste – che non controlla né economicamente né tanto meno militarmente. Questa condizione di dipendenza dall’estero e di debolezza strategica ai suoi confini marittimi – per molti uno svantaggio nella corsa alla leadership mondiale – favorisce gli americani, i quali auspicano e lavorano affinché si prolunghi il più a lungo possibile. Sulla questione del conflitto USA-Cina e della nuova prospettiva in cui va inquadrato, è molto importante un saggio scritto da Giulietto Chiesa nell’ottobre scorso: Quale destino per l’Impero. UE In un recente saggio storico, Joshua Paul della Georgetown University, ha scandagliato gli archivi istituzionali del suo paese, portando alla luce come l’intelligence americana abbia avuto una parte sostanziale nel creare e finanziare il mito europeistico per ragioni strategiche. I cosiddetti padri fondatori dell’Ue erano a libro paga dei servizi segreti americani. L’occupazione americana dei paesi dell’UE non cessa ai nostri giorni, anche se trova in questa fase “due” Stati Uniti in contrasto fra loro. Ognuna delle due fazioni ha i suoi punti di riferimento in Europa. Quella dei sovranisti, venuta alla luce di recente soprattutto con Trump, si sta creando i suoi sodali tra coloro che si dichiarano sovranisti. Quella dei globalisti (Clinton, Bush, Obama) trova da sempre i suoi sodali nelle socialdemocrazie e nei tradizionali partiti ex-democristiani. Entrambe lavorano per creare una frattura tra le “vecchie” nazioni europee e le “nuove” – quelle che appartenevano al Patto di Varsavia nell’epoca del bipolarismo USA-URSS – in chiave anti-russa. La situazione della UE ha visto la realizzazione di una capacità economica continentale tramite l’aggregazione dei Paesi aderenti, ma non con una dialettica di equilibrio dei partecipanti, bensì con una prevaricazione degli interessi del blocco Franco Tedesco a danno dei paesi mediterranei, 9 ed un continuo boicottaggio USA operato prima dalla Gran Bretagna ora dalla Polonia. In questa dinamica il ruolo dei governi italiani è stato sempre subalterno ad entrambi, verso gli USA, primariamente, per la dipendenza militare industriale, verso la Francia e Germania per i ai vantaggi politici e finanziari portati ai gruppi storici stranieri egemoni nell’economia italiana. Questa schizofrenia non ha portato mai l’Italia ad inserirsi nelle iniziative di partecipazione strategica negli assetti industriali, civili e militari europei. Un discorso a parte merita di essere fatto sui rapporti che si sono consolidati, in questi ultimi trent’anni, fra Italia e Francia, riassumibili in estrema sintesi in pochissime parole: il PD è diventato il partito dei francesi in Italia. Qualsiasi evoluzione dei rapporti geopolitici con i nostri vicini francesi – articolabili in estrema sintesi nel triangolare con la Germania all’interno della Commissione Europea e nel definire le reciproche sfere d’influenza nel Nord Africa e nel Mediterraneo – deve necessariamente prima passare dalla liquidazione dei riferimenti italiani asserviti alla Francia, interni ai centri di potere politici, militari, economici e finanziari. INTERESSE NAZIONALE ITALIANO

Partiamo dalla doverosa premessa che l’Italia, uscita dal Trattato di Pace del 1947, non è un paese libero. Secondo un giudizio storico autorevole – ma ancora non condiviso da chi denomina gli “alleati” come nostri “liberatori” – le conseguenti osservazioni di cui tenere necessariamente conto sul piano geopolitico, sono: • Il Trattato di Pace mostra prima di tutto l’impotenza dell’Italia nel secondo dopoguerra; • Gli USA pensavano ad un Europa bastione contro l’URSS e in questa chiave usavano la democrazia ed il benessere; • Per la GB l’Italia doveva essere punita e le interessava la supremazia nel Mediterraneo, quindi indebolire la flotta e la presenza italiana in nord-africa (vedi anche le ricerche di Fasanella); • L’URSS mirava alle riparazioni per la sua ricostruzione, dava per scontato l’allineamento occidentale dell’Italia e mantenne un atteggiamento morbido, tranne sulla questione del confine orientale; • La Francia puntava ad una Germania neutralizzata e spezzettata. Intervenne limitatamente per promuovere i suoi interessi in Tunisia e sul confine occidentale. 10 Ad oggi le basi militari USA in Italia sono ufficialmente 8: • Friuli Venezia-Giulia Base aerea di Aviano USAF • Veneto Vicenza Caserma Ederle US Army • Veneto Vicenza Camp Del Din Base militare US Army • Toscana Pisa-Livorno Camp Darby Base militare US Army • Lazio Gaeta Naval Support Activity Base navale US Navy • Campania Napoli Naval Support Activity Naples US Navy (VI flotta) • Sicilia Niscemi Base radio US Navy • Sicilia Sigonella Base aerea US Navy A questi dati di fatto – che devono essere riconosciuti realisticamente come fondativi del carattere della nazione – si deve aggiungere quanto emerso dopo la firma dei Trattati di Maastricht e di Lisbona. Dichiara Guido Carli nelle sue memorie: “… L’economia di mercato, mutuata dall’esterno, è sempre stata una conquista precaria, fragile, esposta a continui rigurgiti di mentalità autarchica. Il vincolo esterno ha garantito il mantenimento dell’Italia nella comunità dei Paesi liberi. La nostra scelta del «vincolo esterno» è una costante che dura fino ad anni recentissimi e caratterizza anche la presenza della delegazione italiana a Maastricht. Essa nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese…” Tale visione di immaturità del popolo italiano, che sfiora il razzismo antropologico, si perfeziona duplicando il vincolo esterno aggiungendo anche quello europeo o meglio franco tedesco, come venne spiegato da Paolo Peluffo – che raccolse le memorie di Carli – il quale, a proposito di Maastricht, ha scritto: “ …. L’Italia si trovò nel giro di pochi mesi nella condizione di essere privata di alcuni dei suoi obiettivi strategici, per esempio nei Balcani, nel Mediterraneo, in Medio Oriente. La scelta del trattato di Maastricht …. apparve l’unica soluzione possibile, ma rappresentò anche lo scivolamento da un vincolo esterno a guida americana (quello che inizia nel 1945) ad un vicolo esterno a guida europea e dunque nel tempo franco-tedesca.” L’analisi schematica del contesto internazionale, svolta più sopra, ci consegna un sistema in accelerazione dinamica, verso un assetto sempre più multipolare. In questo contesto alcune nazioni trovano spazi che, nel contesto bipolare/unipolare del secolo passato, non avevano. Per le nazioni, che non competono a livello globale, risulta pertanto giustificata una posizione 11 internazionale flessibile, dove non si ponga come vincolo un singolo esito, cosa d’altronde impossibile determinare, in questa fase storica. A fronte di queste considerazioni, della collocazione strategica al centro del Mediterraneo, della residua ricchezza del proprio patrimonio industriale, produttivo e culturale e della tradizione di rapporti con le aree circostanti, in particolare nell’area adriatica e mediterranea, siamo convinti che l’Italia abbia ancora un ruolo autonomo significativo, orientato alla risoluzione positiva dei conflitti e alla creazione di un contesto che possa allargare rapporti oggi preclusi e garantire lo sviluppo economico e sociale del Paese. Si tratta, dunque, di sostituire il vincolo esterno con un vincolo interno dell’interesse nazionale, che si può definire con alcune considerazioni basilari e necessarie per delineare una nuova strategia per l’Italia, della quale la futura classe dirigente dovrà dotarsi. La prima cosa è fare pace con noi stessi: da qui la necessità di risolvere le “tre guerre civili” che abbiamo descritto più sopra. Serve ridare senso e forza allo Stato unitario, per evitare che con le istituzioni nazionali evapori la nazione. Il che comporta dare priorità alla costruzione di nuovi gruppi dirigenti politici fondati a partire dalla crisi e dalla destrutturazione degli attuali schieramenti politici, che siano in grado di dare prospettive e plasmare l’identità della nazione riorientando gli interessi e stabilendo nuove regole di governo, nonché capaci di individuare, in particolare tra i ceti professionali e direttivi, i referenti in grado di coagulare le forze necessarie a garantire il successo della svolta. Occorre ricostruire la reale identità storica italiana, per ottenere uno spirito civile e sociale che produca un orgoglio patriottico da trasmettere alle future generazioni, recuperando tutti i nostri antichi valori frutto del patrimonio di cultura e di Civiltà che ha portato un contributo assoluto per la centralità dell’uomo e delle arti. L’Italia ha anche una dimensione manifatturiera, materiale ed oggigiorno anche immateriale, da leader mondiale in molteplici settori, che dobbiamo alimentare e promuovere, prima di tutto, contrastando la sua svendita a proprietà estere che ne determinano lo sfruttamento irrispettoso dei lavoratori e dell’ambiente sino alla chiusura dell’impiantistica e conseguente disoccupazione, e, poi contrapponendoci ad un risorgente sentimento interno anti-industriale, falso-ambientalista. L’Italia non possiede nel suo territorio sufficienti fonti energetiche e altre materie prime essenziali per le produzioni strategiche; per acquisirle da altre nazioni, pagando quindi in valuta estera, deve considerare oltre ai vincoli geopolitici anche l’equilibrio della bilancia commerciale. Lo scambio 12 energia/materie prime contro manufatti, servizi ed agroalimentare è la formula che ha garantito meglio la relativa autonomia della Prima Repubblica, insieme al conto economico nazionale. L’esempio strategico di Enrico Mattei, a est (Russia) ed a sud (Nord Africa), rimane una scelta valida anche per il futuro, se non altro perché ancorata ad evidenti ragioni geografiche. Lo scambio commerciale intra-UE ed in particolare con Germania e Francia deve essere basato sulla reciprocità, per salvaguardare il patrimonio dei settori economici e lo sviluppo tecnologico nazionale. Il partenariato nei settori a dimensione continentale deve essere realizzato sempre con soggetti equivalenti a dimensione subcontinentale. Un’attenzione particolare va prestata al settore digitale o dei dati (traffico, gestione, elaborazione, archivio) pubblici, privati e classificati in cui è imprescindibile garantire la totale autonomia infrastrutturale tramite assetti esclusivamente nazionali. Il finanziamento delle attività di ricerca scientifica di base ed applicata deve assumere in questo contesto un significato insieme strategico e complementare al sistema industriale-manifatturiero, orientandosi verso nuove fonti energetiche non-intermittenti, in sostituzione progressiva di quelle fossili, e verso le tecnologie di recupero dei materiali da reimmettere nei cicli produttivi. Superamento delle condizioni materiali del trattato di pace/resa della seconda guerra mondiale, non più con le conseguenze della NATO, che potrà pure essere “cerebralmente morta” (Macron), ma questo non significa che gli USA abbandonino le loro basi in Italia. Per accompagnare gli USA a questo esito, per noi strategico, è necessario rinegoziare le intese bilaterali escludendo qualsiasi presenza di forze militari straniere sul nostro territorio, con l’obiettivo di conquistare agibilità politica autonoma nei confronti dei Paesi europei e mediterranei e commerciale con il resto del mondo. 13

BIBLIOGRAFIA

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Europa e Turchia in rotta di collisione sullo sfruttamento del Gas Naturale nel Mediterraneo Orientale? – di Piergiorgio Rosso

Europa e Turchia in rotta di collisione sullo sfruttamento del Gas Naturale nel Mediterraneo Orientale? – di Piergiorgio Rosso

Nel luglio 2019 i ministri degli esteri della UE hanno deciso di sanzionare la Turchia qualora continuasse le attività di perforazioni esplorative al largo di Cipro, considerate dall’UE “illegali”. Le sanzioni non sono ancora state attivate. Da notare che le prime analisi sismiche eseguite dai turchi nella zona di interesse economico (EEZ) cipriota risalgono al 2014 (!!) La Turchia ha risposto che le sue operazioni si svolgono in acque appartenenti alla sua piattaforma continentale o in zone di interesse dei Turco-Ciprioti.

La UE non ha oggettivamente molte frecce al suo arco: si consideri che la Turchia ospita ca. 3,5 milioni di rifugiati e che l’UE paga la Turchia per evitare che questi proseguano il loro viaggio verso l’Europa. Senza dimenticare che Istanbul è un partner NATO.

Peraltro anche la Turchia non ha molte strade per assicurarsi lo sfruttamento dei giacimenti che dovesse trovare: carente di tecnologia propria e non potendosi affidare alle società occidentali del settore oil&gas, dovrebbe rivolgersi ai russi. Mosca sarebbe però riluttante verso una collaborazione che la costringerebbe a rompere con i ciprioti con i quali ha storici rapporti di tipo economico e culturale-religioso. E’ dunque probabile che si arrivi ad un compromesso che permetta alla Turchia di godere di una parte della ricchezza energetica che il Mediterraneo Orientale promette di contenere. La questione vera si giocherà dunque sul percorso che il gas naturale cipriota – ma anche quello israeliano – seguirà.

Abbiamo già discusso ampiamente qui e qui le implicazioni industriali e geopolitiche del progetto di gasdotto EastMed. Di nuovo c’è che Turchia e Libia – o meglio il governo riconosciuto di Al Sarraj (GNA) appoggiato dalla Fratellanza Musulmana – hanno stipulato proprio nel novembre 2019 un Memorandum d’Intesa che definisce i reciproci confini marittimi (vedi figura 1).

Figura 1 – Piattaforma continentale libica e turca

Se non fosse chiaro il “disegnino” – che si sovrappone al percorso dell’EastMed – il Ministro degli esteri turco ha dichiarato: “ …questo accordo rappresenta anche un messaggio politico per il quale la Turchia non può essere esclusa nel Mediterraneo Orientale e nessun progetto potrà essere portato a termine in questo settore senza la partecipazione turca …”. In pratica un blocco al progetto se non il definitivo de profundis.

Sembra evidente che la Turchia stia perseguendo in modo determinato i suoi interessi strategici per esercitare nella zona influenza ed egemonia al di là della questione del gas naturale cipriota.

Reindirizzare sulla penisola anatolica – sfruttando il gasdotto esistente TANAP – il gas che in futuro si potrebbe estrarre nel Mediterraneo Orientale rappresenta un ovvio obiettivo sia per soddisfare il fabbisogno energetico interno sia per guadagnare una posizione di hub, cioè di intermediario fra paesi produttori – Azerbajan, Cipro, Israele – e consumatori dell’Europa Centro-Orientale.

D’altra parte è altrettanto evidente che con il Memorandum e con l’intervento militare decisivo in Libia, la Turchia potrà inserirsi nel gioco esteso che vede competere nel Mediterraneo Orientale USA, Russia, Israele, Egitto, Arabia Saudita, Emirati, tagliando fuori UE, Grecia e Cipro praticamente impotenti nella zona.

E l’Italia? Non pervenuta …

Il Potere e l’Emersione/Caduta delle Nazioni, Di George Friedman

[Traduzione di Piergiorgio Rosso]

Qui sotto un interessante articolo di George Friedman che pone al centro la questione tra percezione e realtà di potenza nelle dinamiche geopolitiche. L’attenzione ovviamente si rivolge al confronto tra Stati Uniti e Cina, ovvero tra la potenza storica e quella emergente nel nuovo millennio. Un salutare invito al realismo dei rapporti di forza, ma anche una eccessiva schematicità, al limite della sicumera che lo spinge a glissare sul dirompente conflitto interno alle classi dirigenti americane e a quello potenziale e più sottotraccia che potrà investire quello cinese nel prossimo futuro. Un confronto che comunque, a prescindere dall’esito, non potrà ormai più ricacciare la Cina ad un ruolo marginale. Una dinamica che potrebbe mettere a nudo anche sorprendenti collusioni fra settori dei rispettivi gruppi dirigenti. Buona Lettura_Giuseppe Germinario

Il Potere e l’Emersione/Caduta delle Nazioni

Di George Friedman – 5 maggio 2020 – https://geopoliticalfutures.com/power-and-the-rise-and-fall-of-nations/
La settimana scorsa sono apparso su una stazione televisiva turca e ho parlato con un gruppo di imprese in Svizzera. La stessa domanda è stata al centro di entrambi gli eventi: a seguito della crisi del coronavirus, la Cina sostituirà gli Stati Uniti come potenza guida nel sistema internazionale? Era una domanda sconcertante dal mio punto di vista, ma il fatto che due gruppi intelligenti l’abbiano sollevata significa che deve essere capita o, se ciò non è possibile, almeno esaminata.

Percezione e Realtà

Non è una domanda nuova per me. Gli Stati Uniti sono da sempre stati visti come la potenza egemone e confrontata con le altre potenze emergenti. Con una certa regolarità la pubblica opinione americana e di altri paesi, arrivava alla conclusione che gli USA erano in declino e stavano per essere sorpassati da uno sfidante qualche volta dal punto di vista economico, qualche volta da quello militare, altre volte ancora in maniera coperta.

Negli anni cinquanta c’era una certa dose di maccartismo nel sostenere che gli USA fossero in declino e l’URSS stavano sorpassandoli. Quando i sovietici lanciarono lo Sputnik e mandarono Yuri Gagarin nello spazio, molti nel mondo erano convinti della superiorità sovietica, e molti negli Stati Uniti andarono nel panico a proposito della mancanza di enfasi sulla educazione scientifica. Quando gli USA furono sconfitti in Vietnam molti, anche fra gli analisti americani esperti,   conclusero che fossero in ritirata. Quando Nixon fu spodestato, il sospetto divenne certezza. Per quanto riguarda la Cina il fatto che avrebbe sorpassato gli USA economicamente era largamente accettato verso la fine degli anni ’90 ed i primi anni 2000. La velocità di crescita cinese era alta perché era stata preceduta dal disastro maoista. Estrapolando su questa base il PIL cinese avrebbe superato quello combinato del resto del mondo, incluso gli Stati Uniti.

Per buona parte del mondo il declino degli USA era auspicato ai fini della loro propria emersione. In altri casi era schadenfreunde [così nel testo. In tedescogodimento per le disgrazie altrui” – NdT]. In altri casi ancora era l’amarezza di vecchie potenze che stavano per essere rimpiazzate da una nazione che loro vedevano come del tutto inadatta all’egemonia.

Gli Usa erano al centro del sistema globale e la speranza che fallisse faceva vedere ogni errore come segno del collasso americano. Speranze simili riguardarono la Grecia alessandrina, Roma, l’Inghilterra e l’impero ottomano. Ogni passo falso ed ogni sfortuna era sottolineata come evidenza che la loro caduta era imminente. Nel tempo tutti questi imperi caddero, ma durarono per diversi secoli.

Le anticipazioni non derivavano da analisi spassionate ma dalla speranza. Come poteva Roma sopravvivere all’assalto di Annibale o i sovietici a quello di Hitler?

La percezione pubblica del potere è radicata in eventi che potrebbero avere poco a che fare con il potere. La realtà del potere può essere semplicemente definita come la capacità di costringere gli altri ad agire secondo i vostri desideri, anche contro i loro stessi interessi. Questa è un’equazione complessa. Da un lato è una definizione di come le nazioni possono costringere i comportamenti. Dall’altro lato c’è la valutazione da parte dell’oggetto del potere, se sia maggiore la pena della resistenza o la pena della capitolazione. Tutto questo può essere compreso solo nei dettagli: le nazioni coinvolte, cosa viene loro chiesto, l’intensità della pena e così via.

Ma gli strumenti generali del potere possono essere facilmente compresi. Esiste il potere militare, che è in definitiva la minaccia o la realtà della morte e della distruzione fisica. Esiste quindi un potere economico, che è il dolore che può essere inflitto da una vasta gamma di azioni economiche, come l’embargo di prodotti necessari o la manipolazione della valuta. Questo tipo di potere non infligge morte, ma limita la vita minacciando di infliggere povertà o abbassare il tenore di vita.

Il terzo tipo di potere è politico. È la manipolazione del sistema politico o dell’opinione pubblica in un paese da parte della minaccia o dell’applicazione della forza militare, l’imposizione di sofferenze economiche o la creazione di un senso della realtà che fa reagire l’opinione pubblica in modi che indeboliscano la nazione.

Il potere non è semplicemente la capacità di forzare, a volte comporta l’uso di incentivi. Entrambi possono costringere a cambiamenti nell’azione. Il potere non deve essere esplicito. Il programma spaziale sovietico diede ai sovietici un’influenza aprendo le porte alla possibilità che il potere sovietico ad un certo punto nel futuro non lontano avrebbe travolto il potere americano. Quella percezione, che in retrospettiva era assurda, nel breve periodo era molto reale. Le nazioni che avevano sottovalutato il potere militare sovietico rispetto al potere militare degli Stati Uniti dovevano rivalutare la loro posizione ed essere aperte ai desideri sovietici. Anche senza essere un uso diretto del potere, l’evento Sputnik-Gagarin ha generato un potenziale spostamento del potere che ha portato alcune nazioni a modificare le loro relazioni. Il potere in tutte le sue dimensioni è più sottile dell’uso diretto della forza o del potere economico.

Il quarto tipo di potere è la gestione delle percezioni. L’Unione Sovietica è crollata nel 1991. Diciassette anni dopo, nel 2008, la Russia è andata in guerra con la Georgia. Questo conflitto non ha invertito il catastrofico crollo dell’Unione Sovietica, le sue cause erano ancora lì. Ma la Russia non poteva permettersi di essere vista come debole. La guerra georgiana non ha spostato in modo significativo il potere relativo della Russia, ma ha cambiato la percezione del potere russo. Allo stesso modo, l’intrusione in Siria ha fatto ben poco per rafforzare la potenza russa, ma ha generato una percezione di una maggiore potenza russa. L’applicazione diretta del potere – il potere militare in questo caso – non è necessaria per cambiare le percezioni. Dato che le azioni della Russia erano più propaganda che risultati militari, l’uso della propaganda (ora chiamato guerra ibrida per qualche ragione) può in alcuni casi creare percezioni utili senza l’applicazione del potere reale.

Cina e USA

Questo ci riporta all’inizio e all’idea che la Cina sostituirà o sta per sostituire gli Stati Uniti come principale potenza globale. Militarmente, gli Stati Uniti controllano gli oceani Atlantico e Pacifico. La Cina non controlla nessuno dei due. Da un punto di vista militare, può usare missili e innescare uno scambio nucleare, ma ha una marina limitata e una forza missilistica vulnerabile. La Cina, quindi, non è nemmeno vicina ad essere una potenza globale.Economicamente, il PIL degli Stati Uniti prima del coronavirus era di $21 trilioni. La Cina era di $14 trilioni. Entrambe le economie si sono ovviamente contratte, ma non ci sono prove che le contrazioni trasformeranno sostanzialmente il divario tra di loro. Circa il 19% del PIL cinese proviene dalle esportazioni, di cui circa il 5% è destinato agli Stati Uniti. Circa il 13% del PIL degli Stati Uniti proviene dalle esportazioni, circa la metà delle quali è destinata al Nord America e solo lo 0,5% delle quali va in Cina. La Cina ha una popolazione molto più grande degli Stati Uniti, quindi il suo reddito pro capite è molto più basso degli Stati Uniti. Ciò significa che l’impatto di una contrazione economica sugli standard di vita sarà molto maggiore negli Stati Uniti, dove il cuscinetto è maggiore, rispetto alla Cina.In termini di potere politico, la Cina si è messa in una posizione pericolosa. Non è riuscita a disinnescare i sospetti statunitensi sul comportamento e le intenzioni cinesi. Inoltre, non ha gestito con successo i negoziati commerciali con gli Stati Uniti. Ciò significa che la Cina ha lasciato che aumentassero le tensioni economiche e militari proprio con il suo cliente più importante. In un momento di contrazione economica in cui le importazioni statunitensi diminuiranno, la Cina affronta minacce sproporzionate a causa della sua dipendenza dalle esportazioni.Il punto forte della Cina è la dipendenza da una catena di approvvigionamento che si basa su manodopera a basso costo. Ma il coronavirus ha dimostrato alle aziende che hanno creato la catena di approvvigionamento, che un’eccessiva dipendenza da qualsiasi paese, come nel caso dell’industria farmaceutica americana, può distruggere un’azienda. La crisi ha trasformato questo in una debolezza, piuttosto che in una forza, poiché le imprese americane spostano le loro catene di approvvigionamento dalla Cina. In alcuni casi, questa non è una cosa complessa o costosa da fare.

 

La Cina si concentra sulla percezione per compensare la debolezza. Idee strane come la costruzione di un sistema di trasporto via terra verso l’Europa (ovvero la Belt and Road Initiative) sono volte a dimostrare le capacità di una nazione. La doccia di prestiti sui paesi fa lo stesso, anche quando i prestiti non si materializzano completamente. A costi relativamente bassi, la Cina si posiziona come un potere finanziario. Allo stesso modo, i movimenti militari statunitensi nel Mar Cinese Meridionale non hanno lo scopo di esercitare il potere degli Stati Uniti, ma di creare la percezione di una forte potenza navale.

Pio Desiderio

La Cina è economicamente e militarmente molto più debole degli Stati Uniti. Ma la sua manipolazione della percezione del suo potere è abile, tanto che i turchi e gli europei tendono a vedere il coronavirus come una transizione al potere cinese. Si dice che la percezione sia realtà. Non lo è davvero. A un certo punto, la finzione del potere porta un avversario a credere in quel potere, e ciò può portare a un conflitto economico, politico o militare che il potere percepito non può vincere. La guerra sulle percezioni va bene per guadagnare tempo. Ma se seguita troppo a lungo, alla fine il guerriero della percezione è creduto, gli viene messa paura e poi ingaggiato. Ora che siamo nel mezzo della crisi del coronavirus, gli Stati Uniti hanno inondato il paese di denaro-stimolo e ciò avrà conseguenze. Così sarà per la contrazione dell’economia cinese, insieme alla preoccupazione politica interna per l’affidabilità del governo cinese in un momento in cui è davvero importante. Mentre ci vorranno diversi anni prima che entrambi i paesi si riprendano, l’idea che la crisi abbia aperto le porte al dominio cinese è strana o forse un pio desiderio. La sofferenza è reale, ma l’ordine delle cose è forte.

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