La storia dei due vasi cinesi, a cura di Giuseppe Imbalzano

La storia dei due vasi cinesi
Una anziana donna cinese possedeva due grandi vasi, appesi alle estremità di un lungo bastone che portava bilanciandolo sul collo.
Uno dei due vasi aveva una crepa, mentre l’altro era intero. Così alla fine del lungo tragitto dalla fonte a casa, il vaso intero arrivava sempre pieno, mentre quello con la crepa arrivava sempre mezzo vuoto.
Per oltre due anni, ogni giorno l’anziana donna riportò a casa sempre un
vaso e mezzo di acqua.

Ovviamente il vaso intero era fiero di se stesso, mentre il vaso rotto si vergognava terribilmente della sua imperfezione e di riuscire a svolgere solo metà del suo compito. Dopo due anni, finalmente trovò il coraggio di parlare con l’anziana donna, e dalla sua estremità del bastone le disse: “Mi vergogno di me stesso, perché la mia crepa ti fa portare a casa solo metà dell’acqua che prendi”.

L’anziana donna sorrise “Hai notato che sul tuo lato della strada ci sono sempre dei fiori, mentre non ci sono sull’altro lato? Questo succede perché, dal momento che so che tu hai una crepa e lasci filtrare l’acqua, ho piantato semi di fiori solo sul tuo lato della strada. Così ogni giorno, tornando a casa, tu innaffi i fiori.
Per due anni io ho potuto raccogliere dei fiori che hanno rallegrato la mia casa e la mia tavola. Se tu non fossi così come sei, non avrei mai avuto la loro bellezza a rallegrare la mia abitazione”

Ciascuno di noi ha il suo lato debole. Ma sono le crepe e le imperfezioni che ciascuno di noi ha che rendono la nostra vita insieme interessante e degna di essere vissuta.
Devi solo essere capace di prendere ciascuna persona per quello che è, e scoprire il suo lato positivo.
Buona giornata a tutti coloro che si sentono un vaso rotto, e ricordatevi di godere del profumo dei fiori sul vostro lato della strada!

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA …, di FF

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA ALLA LUCE DELLA QUESTIONE (NEO)FASCISTA E DELLA TRASFORMAZIONE IN SENSO ANTISOCIALISTA DELLA SINISTRA EUROPEO-OCCIDENTALE

Non è facile trattare in una semplice nota un argomento come quello che concerne il problema del fascismo e del neofascismo nell’attuale fase storica, contraddistinta da una crisi che non è solo economica ma concerne i fondamenti stessi della civiltà europeo-occidentale. Mi limito quindi ad alcune “sintetiche” (forse, secondo alcuni, anche troppo “sintetiche”) considerazioni di carattere generale. Ritengo comunque necessario, per evitare “spiacevoli equivoci”, precisare che si deve sempre distinguere tra le persone che si definiscono o vengono definite fasciste e neofasciste e, rispettivamente, il fascismo e il neofascismo (e lo stesso vale naturalmente per i nazional-populisti rispetto al nazional-populismo, per i “liberal” rispetto alla sinistra neoliberale, ecc.).

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Il fascismo nella sua fase iniziale (il “sansepolcrismo”, per capirsi) si presentò come una mescolanza, peraltro assai confusa, di elementi social-rivoluzionari e nazionalismo, in un contesto storico sociale completamente diverso da quello che c’era prima della Grande Guerra. Infatti, l’Italia, benché fosse tra i Paesi vincitori, era uscita dalla guerra con le “ossa rotte” sotto il profilo economico, ma al tempo stesso nutriva ambizioni di grande potenza (la “vittoria mutilata”, ecc.). Inoltre, la rivoluzione russa aveva cambiato l’intero quadro geopolitico e ideologico, diffondendo la paura del “pericolo rosso” tra le file della borghesia europea.

Tuttavia, nelle elezioni politiche del 1919 a Milano il fascismo cosiddetto “rivoluzionario” venne nettamente sconfitto e la stessa “impresa di Fiume”, contraddistinta anch’essa da aspetti social-rivoluzionari e sciovinisti, terminò con un sanguinoso fallimento nel dicembre 1920. Il fascismo comunque riuscì a sopravvivere e a rafforzarsi, grazie soprattutto al sostegno da parte del capitalismo agrario (e poi pure del capitale industriale), ossia diventando il “manganello” della borghesia contro i socialisti e i comunisti.

Nel 1921 entrò quindi a far parte dei Blocchi nazionali (una coalizione di destra) conquistando comunque solo 35 seggi (i Bocchi nazionali ne conquistarono in tutto 105, mentre i socialisti ne conquistarono 123 e i comunisti 15). Nondimeno, nel 1921-22 si moltiplicarono le violenze dello squadrismo fascista, appoggiato anche dagli apparati di coercizione dello Stato, contro i quali, come dimostrarono i fatti di Sarzana del luglio 1921, ben poco poteva fare lo squadrismo fascista. La stessa marcia di Roma, difatti, sarebbe miseramente fallita se l’esercito avesse avuto ordine di impedirla (anche se non è assolutamente certo che l’esercito avrebbe obbedito ciecamente a quest’odine; ma i carabinieri avrebbero certo obbedito, e per sconfiggere lo squadrismo fascista i carabinieri sarebbero stati più che sufficienti, se – s’intende – l’esercito non si fosse schierato con i fascisti).

Il fascismo quindi non conquistò il potere ma si alleò con il potere (a differenza del nazismo, anche se lo stesso nazismo, ispirandosi al fascismo, sfruttò le “debolezze” della repubblica di Weimar, inclusa la mancanza di un forte apparato di coercizione statale, a causa delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles; ma se durante il regime fascista le camicie nere giuravano fedeltà al re, durante il regime nazista le SS e la Wehrmacht non giuravano fedeltà al Kaiser ma solo ad Hitler).

Il regime fascista comunque non fu certo un regime social-rivoluzionario (lo stesso Stato corporativo fu nella sostanza un fallimento, tranne per il grande capitale), nonostante il “dirigismo” (una scelta giusta e, in un certo senso anche inevitabile) degli anni Trenta (una politica economica che avrebbe però dato i suoi migliori frutti nel dopoguerra). Difatti, nonostante la relativa modernizzazione attuata negli Trenta (sia pure in un quadro di “irreggimentazione” delle masse), il regime fascista non ebbe nemmeno il totale controllo degli apparati dello Stato – tranne una fascistizzazione superficiale, che in pratica era frutto del “matrimonio di convenienza” del fascismo con la monarchia e il grande capitale – come avrebbero dimostrato la disastrosa impreparazione bellica e la ancora più disastrosa e perfino criminale impreparazione (geo)politica e strategica che portarono il Paese sull’orlo della catastrofe già nella primavera del 1941(evitata solo per l’intervento in Africa Settentrionale dei tedeschi) e poi al totale sfacelo all’inizio del 1943.

“Scaricato” dalla monarchia e dal grande capitale (che però pensavano a salvare sé stessi più che a salvare il Paese mettendo fine ad una ignominiosa alleanza che aveva ridotto il nostro Paese a semplice strumento della politica di potenza nazista), il fascismo si dissolse di colpo nell’estate del 1943, e solo per l’incredibile viltà e/o irresponsabile negligenza dei vertici politici e militari – che non diressero, com’era loro preciso dovere, la battaglia di Roma contro i tedeschi, ma lasciarono senza ordini l’esercito, tradendo così l’intero Paese non certo la Germania nazista – si crearono le condizioni per una guerra civile, in cui “riemersero” pure alcuni aspetti del cosiddetto “fascismo movimento” ma in un contesto “segnato” irrimediabilmente dalla alleanza con i tedeschi  e dalle stragi nazi-fasciste, nonché dai fallimenti del “fascismo regime”, di modo che, al di là delle intenzioni di alcuni fascisti, la repubblica sociale tutto poteva essere fuorché una repubblica socialista.

Il vero patriottismo fu dunque quello della Resistenza (scelte diverse si possono comprendere tenendo conto solo del contesto storico, dacché non sono giustificabili sotto il profilo politico), che seppe scrivere delle pagine di storia di alto valore politico e morale, anche se non riuscì ad evitare che il nostro Paese venisse trattato come un Paese sconfitto (un “trattamento” che ha “pesato” non poco nella storia della I Repubblica e di cui ancora oggi l’Italia paga le conseguenze).

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In sostanza, il fascismo “morì” nell’estate del 1943, e la repubblica sociale fu solo, per così dire, una “appendice storica” di un movimento e di un regime politicamente e storicamente “defunti”.

Lo stesso neofascismo quindi è un fenomeno nettamente distinto dal fascismo e comprende aspetti così diversi – una caratteristica comunque dello stesso fascismo – che lo fanno apparire come un fenomeno storico e politico tutt’altro che “unitario”. Comprende “nostalgici” ma pure filonazisti, antisemiti e filo-sionisti, atlantisti e anti-atlantisti, e via dicendo. Peraltro, si dovrebbe pure distinguere tra “semplici nostalgici” e la cosiddetta “destra sociale” più attenta a “valorizzare” gli elementi social-rivoluzionari (ma sempre “in chiave” antisocialista) presenti nel “fascismo movimento” che non la politica del regime fascista. (Un discorso diverso vale per coloro che identificano nel nichilismo il nemico da combattere, e, quindi – basandosi soprattutto sulla storia comparata delle religioni, le opere di Jünger, ecc. – privilegiano un approccio di tipo esistenziale al Politico. Ma in questo caso non si tratta di neofascismo, bensì di una forma di “anarchismo di destra” – inteso come una  sorta di “via esistenziale” anti-nichilista, contrassegnata da una particolare concezione della “trascendenza” – sempre che non si “intrecci” – e non mancano numerosi esempi di tali “intrecci” – con posizioni neofasciste o addirittura esplicitamente filo-naziste).

Ma, oltre al fatto di “richiamarsi” a questo o quell’aspetto del regime fascista o nazista, ciò che accomuna le diverse forme di neofascismo è l’odio per il socialismo e il comunismo nonché l’esaltazione di qualità cosiddette “virili” (compresa la concezione secondo cui l’uso della forza è “positivo” in quanto tale), che si accompagna non raramente ad un disprezzo per la “ragione” (nel senso di “logon didonai”) che può giungere a negare l’identità sostanziale del genere umano.

Di conseguenza anche il volontarismo e l’irrazionalismo sono tratti costitutivi delle varie formazioni neofasciste, benché si debba tener presente che c’è pure un neofascismo più “moderato” (perlopiù atlantista e filosionista), che non è ostile alla democrazia liberale nella misura in cui sia radicalmente antisocialista e anticomunista. Insomma, l’anticomunismo (incluso, al di là di certi “equivoci lessicali”, l’antisocialismo) sembra essere il tratto distintivo delle varie forme di neofascismo e questo “minimo comune denominatore” ((si badi, necessario ma non sufficiente per definire il neofascismo) ha reso (e rende) possibile pure l’alleanza tra il neofascismo e il liberalismo più marcatamente anticomunista e antisocialista.

Ovviamente, si deve sempre tener conto dei diversi contesti storici. Si pensi ad esempio all’America Latina ovverosia al cosiddetto “fascismo di mercato”, agli “squadroni parafascisti”, ecc. In Europa e soprattutto in Italia, “patria del fascismo”, il neofascismo si è manifestato e non poteva che manifestarsi in forma diversa. In particolare in Italia, oltre ai “nostalgici” (presenti una volta soprattutto nel Movimento sociale italiano) c’è stato un neofascismo ben più “aggressivo”, che si ispirava più al nazismo che al fascismo, e che oltre a scontrarsi nelle piazze e nelle scuole con le varie formazioni comuniste negli anni di piombo, è stato “usato” in chiave anticomunista da centri di potere atlantisti per attuare la “strategia della tensione”, compiere atti terroristici, ecc. (una strumentalizzazione indubbiamente favorita dalle caratteristiche del neofascismo, ossia dal culto della forza e dall’odio per il comunismo oltre, che, almeno in certi casi, da una forma di nazionalismo estremista).

D’altra parte, pure il neofascismo ha “mutato pelle” per così dire, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della I Repubblica e la nascita del “berlusconismo”. Da un lato il neofascismo “moderato” si è riciclato in forma nazional-liberale mirando a rappresentare i “valori” della cosiddetta “maggioranza silenziosa” (media e piccola borghesia) secondo gli schemi concettuali “semplicistici” del berlusconismo. Dall’altro, terminato lo scontro con il comunismo a livello mondiale, i vari gruppetti neofascisti sono diventati sempre più “marginali” e politicamente “insignificanti”.

Del resto, il neofascismo, in tutte le sue forme, in Italia (ma pure in Europa) non può che essere “politicamente parassitario”, non avendo un progetto politico che possa essere condiviso dalla maggioranza degli italiani (e degli europei). Deve quindi necessariamente “appoggiarsi” a qualche formazione liberal-democratica o indossare le “vesti liberal-democratiche” per potere contare sul piano politico.

La crisi del sistema neoliberale, soprattutto a partire dal 2007-08, ha però nuovamente cambiato il quadro politico non solo in Europa ma pure in America, facendo crescere su entrambe le sponde dell’Atlantico una forma particolarmente “aggressiva” di populismo di destra, che, per semplicità, si può definire nazional-populismo. Si è cioè venuta a formare una situazione che offre anche ai gruppetti neofascisti l’opportunità di stabilire nuove alleanze con formazioni politiche nazional-populiste (in cui sono presenti ancora dei “semplici nostalgici”), giacché il nazional-populismo si configura come un estremismo di centro, contraddistinto da un radicale antistatalismo, da anti-intellettualismo e da antisocialismo, nonché, perlomeno in alcuni casi, da una certa xenofobia.

Peraltro, il nazional-populismo trae vantaggio pure dalla progressiva “involuzione” politico-culturale della sinistra, che in buona misura si è trasformata nella “guardia bianca” del grande capitale, rinunciando a rappresentare non solo gli interessi dei ceti sociali subalterni ma pure della piccola e di parte della media borghesia, ossia di ceti sociali penalizzati da una globalizzazione che favorisce soprattutto il grande capitale “transnazionale” o “cosmopolita”.

In questo senso l’accusa generica di fascismo nei confronti dei nazional-populisti può favorire paradossalmente solo i neofascisti e lo stesso nazional-populismo. L’ideologia “politicamente corretta” della sinistra neoliberale porta difatti a formulare dei paragoni e dei giudizi privi di ogni fondamento, che non solo non spiegano le ragioni della nascita e della diffusione del nazional-populismo, ossia del malcontento popolare a causa dei danni causati dall’attuale sistema neoliberista, ma al tempo stesso spingono la piccola borghesia e perfino buona parte dei ceti sociali subalterni ancor più verso le posizioni del nazional-populisti in quanto, in pratica, il nazional-populismo è rimasto l’unico soggetto politico a rappresentare gli interessi di questi ceti sociali.

Il fatto che il nazional-populismo proponga una “terapia” che è se non peggio altrettanto perniciosa del male che dovrebbe curare, dovrebbe invece far comprendere che solo non ignorando le ragioni del malcontento popolare e rappresentando gli interessi dei ceti sociali medio-bassi e subalterni secondo una prospettiva che riconosca il primato della funzione pubblica, e di conseguenza riconosca allo Stato il ruolo di mettere il mercato al servizio della collettività, è possibile sconfiggere il nazional-populismo e al tempo stesso relegare in un ruolo” marginale” e politicamente “insignificante” lo stesso neofascismo.

Cercare quindi di combattere il nazional-populismo senza “accorgersi” del pericolo che rappresenta la sinistra neoliberale equivale a farsi soffocare dal “boa neoliberale” per sfuggire alla “tigre” o, se si preferisce, al “gatto selvatico” nazional-populista. Del resto, se si dovesse usare il termine fascista allo stesso modo dei “liberal”, non sarebbe difficile definire pure questi ultimi “liberal-fascisti”, dato che controllano quasi tutti i gangli vitali dello Stato e della società civile (industria culturale, media, sistema educativo, ecc.), di modo da reprimere ogni forma di “dissenso”. Il neocapitalismo “a guida culturale gauchista” è una realtà che non lascia ormai spazio (politico-culturale) a nessun’altra “voce”. Certo vi è pur sempre la “rete”, ma com’è noto, “in rete” vi è tutto e il contrario di tutto, di modo che è sempre più difficile distinguere tra (la poca) informazione e (la molta) disinformazione.

Di fatto, la sinistra neoliberale (ma anche in questo caso si deve ricordare che non tutte le persone che si definiscono ancora di sinistra si identificano con le posizioni della sinistra neoliberale) non è l’erede della sinistra storica né, a maggior ragione, della Resistenza. Anch’essa ha “mutato pelle” con la fine della I Repubblica (e invero il mutamento era già cominciato alla fine degli anni Settanta) e ormai, dopo tre decenni (un periodo quindi più lungo dello stesso ventennio fascista), può non vedere che il “re è nudo” solo chi non vuole vederlo.

D’altronde, se l’irrazionalismo è tratto distintivo del nazional-populismo, la razionalità meramente strumentale che caratterizza la sinistra neoliberale è anch’essa “negazione” di quella idea di “polis” come spazio sociale e politico della ragione che la civiltà europea ha ereditato dalla cultura greca. Una razionalità al servizio del grande capitale, e che si configura quindi come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (c’è differenza tra dominio e controllo), è una razionalità “dimidiata” che alimenta essa stessa le peggiori forme di irrazionalismo e di alienazione (la sinistra europea, difatti, tranne alcune importanti eccezioni, cerca, tutt’al più, di porre la tecnologia sociale e lo stesso “agire comunicativo” al servizio dei cosiddetti “diritti individuali” – che concernono soprattutto determinati gruppi di pressione -, a scapito dei diritti sociali ed economici, nonché del benessere morale e materiale dell’intera collettività).

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Non è quindi questione di scelta tra nazional-populismo e sinistra neoliberale. Entrambi sono parte dello stesso sistema neoliberale, anche se la sinistra neoliberale occupa i “piani alti”, e l’alternativa non può certo essere quella di “invertire le posizioni” o addirittura di cercare riparo nei “bassifondi” del sistema neoliberale. Occorre piuttosto avere il coraggio civile e intellettuale di “staccare la spina”, ossia di compiere una sorta di “delinking, in un’ottica che sappia ridefinire la concezione socialista tenendo conto del quadro geopolitico mondiale.

La lotta per l’egemonia a livello mondiale, infatti, nella misura in cui si configura come uno scontro tra la potenza (ancora) egemone (ovvero gli Stati Uniti) e un centro di potenza anti-egemonico (la Cina) caratterizzato da una società “con” mercato anziché “di” mercato (e che ripropone quindi la questione della pianificazione, sia pure in un’ottica diversa da quella che contraddistinse il “socialismo reale”), acquista un significato politico che non si può ignorare, nemmeno alla luce della sconfitta del “socialismo reale” e della stessa fine della socialdemocrazia. In questo senso, “staccare la spina” non equivale a muoversi nel “vuoto”, ma piuttosto significa che si deve agire in una fase storica che proprio perché è estremamente “fluida” lascia ancora spazio per costruire una valida e realistica alternativa all’attuale società di mercato neoliberale.

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2020/11/nota-sulla-tentazione-nazional.html

La guerra economica da ieri ad oggi, Di Frédéric Munier

La guerra economica non è una novità: alcuni la fanno risalire ai Fenici! Sembrava a suo agio durante il boom del dopoguerra, ma non era mai scomparsa del tutto. Lo shock petrolifero del 1973 e soprattutto la globalizzazione le hanno dato una crescita eccezionale.

In De Esprit des lois , Montesquieu ha affermato che “l’effetto naturale del commercio è portare la pace. Due nazioni che negoziano insieme diventano reciprocamente dipendenti: se una ha interesse a comprare, l’altra ha interesse a vendere. Il commercio sarebbe quindi un antidoto alla guerra. Con la globalizzazione, alcuni potrebbero aver creduto che questa pacificazione sarebbe stata realizzata: mentre Alain Minc celebrava una “globalizzazione felice”, Francis Fukuyama vedeva nella fine della guerra fredda e nella generalizzazione del capitalismo liberale una “fine del mondo”. ‘storia’. Sulla scia dei classici, questi autori credevano che un mondo di crescente interdipendenza fosse portatore di una pace duratura.

Vent’anni dopo, tuttavia, sembra che il pianeta non sia così. La guerra tradizionale non è scomparsa, tutt’altro, soprattutto in Europa, dall’ex Jugoslavia all’Ucraina. Quanto alle relazioni economiche tra gli Stati, non assomigliano a un “commercio morbido”. Inoltre, nel 1990, Edward Luttwak aveva proclamato l’era della geoeconomia quando Bernard Esambert pubblicò The World Economic War.. Eccedenze tedesche contro deficit francesi, dollaro debole contro euro forte, difficili negoziati tra Stati Uniti e Unione Europea sul tema del trattato transatlantico, avidità di ricchezza africana… il mondo ora sembra un’arena. La guerra economica è onnipresente tanto che l’espressione è vittima del suo successo. Occorre quindi definire con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico, valutarne il reale ambito, i suoi mezzi di azione.

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La guerra economica è figlia della globalizzazione

Se la guerra economica nel senso più ampio del termine non è nuova, la sua forma contemporanea ha radici relativamente recenti. Possiamo considerare che dopo la seconda guerra mondiale, con la rinascita di un sistema monetario internazionale e la firma degli accordi GATT nel 1947, le regole per la concorrenza commerciale tra economie in gran parte nazionali furono stabilite all’interno del blocco occidentale. . Così, le lotte economiche che hanno avuto luogo in questi anni sono state confinate in un’arena di dimensioni limitate.

Inoltre, quando Bernard Esambert pubblicò Le Troisième Conflit mondial nel 1968 , tracciò i contorni di una guerra economica con virtù positive: non solo questa guerra “morbida” sostituì la guerra reale in Occidente, ma fu anche uno stimolo per i paesi industrializzati, impegnati in una proficua competizione per tutti. Inoltre, la guerra fredda ha costretto le nazioni del blocco occidentale a una solidarietà di fatto che ha ulteriormente limitato gli effetti delle loro rivalità economiche.

È stato proprio questo equilibrio a essere rotto nel 1991 con la caduta dell’URSS e la fine del comunismo. Da quel momento in poi, nulla ha ostacolato il modello capitalista e di libero scambio che, fino ad allora, rappresentava solo uno dei due sistemi economici all’opera sul pianeta. D’ora in poi l’arena è globale e quasi nessuno contesta le regole del gioco, allo stesso tempo la fine della guerra non fa scadere, tutt’altro, le politiche di potere; li sposta dal terreno militare e geopolitico (scontro di blocchi, conflitti periferici, ecc.) al terreno economico e commerciale (rivalità tra poteri sulle risorse, lotta per la quota di mercato, ecc.). Secondo Luttwak, ” in futuro sarà forse la paura delle conseguenze economiche a regolare le controversie commerciali, e certamente più gli interventi politici motivati ​​da potenti ragioni strategiche [1]  ”. Mentre probabilmente Luttwak sottovalutava l’importanza che avrebbero mantenuto le questioni geopolitiche, ha puntato il dito sulla nuova dimensione della nostra globalizzazione: quella della competizione tra le nazioni. Lungi dal pensare come gli uomini dell’Illuminismo che il commercio ammorbidisce i costumi, crede che il commercio sia solo una delle modalità della guerra quando il suo lato armato si indebolisce.

La dichiarazione di guerra

Vincitori della guerra fredda, gli Stati Uniti sono stati i primi a fare il punto sul cambiamento che il mondo stava attraversando. E’ vero, avevano praticato nei decenni precedenti il ​​versamento di parte del capitale militare verso le proprie aziende per promuovere la ricerca e lo sviluppo e per meglio armarle nella competizione internazionale. Fondamentalmente, la guerra fredda ha dato loro l’opportunità di sovvenzionare interi segmenti della loro economia per le migliori ragioni.

All’inizio degli anni ’90, l’argomento geopolitico è crollato; il discorso economico rimane in tutta la sua purezza. Carla Hills, rappresentante commerciale degli Stati Uniti, non dice allora: “Apriremo i mercati esteri con il piede di porco, se necessario”? Quanto a Bill Clinton, appena eletto, crede che ogni nazione sia ormai in competizione con le altre sui mercati mondiali. Nello stesso anno, il Segretario di Stato Warren Christopher dichiarò ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva essere elevata al primo posto della politica estera degli Stati Uniti.

In altre parole, i vincitori della Guerra Fredda hanno ufficialmente dichiarato guerra economica al resto del mondo. La prospettiva è certamente ampiamente liberale; ognuno ha le sue possibilità e può vincere a questa partita, ma il discorso è ambiguo perché si tinge di difesa degli interessi nazionali. Alla fine mescola una retorica che è sia liberale che mercantilista, principi che sono difficilmente compatibili agli occhi degli economisti ma perfettamente legittimi per i politici.

Lo stato , comandante in capo della guerra economica

Su questo punto Bernard Esambert non ha dubbi. Perché un Paese possa combattere nella guerra economica, ha bisogno di uno Stato, “un signore della guerra risoluto, che conosca il mestiere delle armi e che ridia morale e spirito di conquista all’economia”.

Eppure negli anni ’80 e ’90, nell’era del neoliberismo e del consenso di Washington, lo stato era stato malmenato; era visto come un ostacolo allo sviluppo economico, quindi il presidente Reagan non aveva paura di affermare che “il problema è lo Stato”. La globalizzazione finanziaria, la transnazionalizzazione delle imprese, l’intensificazione del commercio internazionale hanno suonato la campana a morto per questa reliquia del passato. Tuttavia, è quasi una logica freudiana di ritorno del represso a cui stiamo assistendo oggi, ancor di più dalla crisi economica del 2008: nel 2009, The Economist non ha esitato a coprire ”  The Return of the Nazionalismo economico“. Non solo lo stato ha resistito alla pozione neoliberista, ma ora sta tornando in auge. Lo Stato ha continuato a svolgere il suo ruolo di supervisione dello spazio privato creando un ambiente legale, fiscale e infrastrutturale favorevole alla promozione dell’economia. Nel contesto attuale, gli Stati hanno, inoltre, assunto il ruolo di leader militare, nella conquista dei mercati e delle risorse, sia per assicurare il loro potere sia per l’arricchimento delle loro imprese e dei loro concittadini.

Questo perché lo Stato ha un certo numero di prerogative o capacità di cui le aziende sono prive per natura. Lo Stato, per usare l’espressione di Philippe Delmas, è un “maestro degli orologi [2]  “: solo può pensare a lungo termine, finanziare a lungo termine quando le aziende prediligono il breve o il medio termine. Inoltre può predisporre costosi strumenti al servizio delle proprie aziende per distinguere i settori del futuro, i campi in cui hanno interesse ad investire; in breve, lo stato ha una visione molto migliore del campo di battaglia di qualsiasi delle sue truppe. L’esempio giapponese del MITI, spesso qui citato, ha un valore paradigmatico. Ma la Commissione di pianificazione creata per la liberazione in Francia aveva ambizioni simili.

 

È anche lo Stato che guida le dinamiche di domani fissando degli obiettivi: così, la strategia di Lisbona che i paesi membri dell’UE hanno adottato nel 2000 intende fare dell’Unione “la prima economia della conoscenza” entro il 2010 collegando esplicitamente questo obiettivo a quello della piena occupazione. Solo uno Stato può affrontare questo tipo di compiti, la cui portata supera di gran lunga le capacità di finanziamento e le motivazioni di un’impresa. Aggiungiamo a questo che i capi di stato, generali in capo della guerra economica, talvolta guidano le operazioni sotto le spoglie di un VRP: si ricorda come Margaret Thatcher fosse personalmente impegnata nella negoziazione di un contratto aeronautico con Arabia Saudita negli anni ’80, pochi anni prima che Bill Clinton adottasse la stessa strategia di vendita nei confronti di Riyadh. È ovvio che il peso di un capo di Stato o di governo può essere decisivo in questo tipo di trattativa.

Leggi anche:  Industria francese e commercio internazionale: la Francia deve rispondere alla guerra economica

Compagnie, semplici soldati?

Gli stati non fanno guerre senza truppe. Queste sono imprese, grandi e piccole. Bernard Esambert vede in esso “  i combattenti della guerra economica […] se sono al fronte esportando in maniera massiccia, dietro difendendo un mercato regionale o se attraversano i confini atterrando su territorio “ nemico ” come le multinazionali  ”. Se l’immagine è attraente, lascia da parte alcuni elementi fondamentali del dibattito sulla guerra economica.

Il primo riguarda una questione semplice ma allo stesso tempo tremendamente delicata in un’epoca di globalizzazione: la nazionalità delle aziende. Non è illusorio dire che sempre più società multinazionali, di proprietà di capitali stranieri, siano francesi? Nel 2012, più della metà del capitale del CAC 40 era detenuta da residenti stranieri. Si può immaginare un esercito i cui soldati sarebbero stati pagati dal campo di fronte? Aiutare le società cosiddette “nazionali” ha ancora senso in questo contesto?

Infatti, gli economisti hanno dimostrato che, nonostante la logica della transnazionalizzazione, l’idea di “nazionalità delle imprese” non era obsoleta [3]. Primo, perché un certo numero di società strategiche sono tutelate dagli Stati: direttamente quando sono azionisti – nel caso di Areva, Thalès o anche Dassault in Francia – indirettamente quando sono garanti della loro indipendenza dalle società estere. Ricordiamo quindi che nel 2006 l’amministrazione Bush ha costretto la compagnia Dubai Port World a vendere ad AIG International la gestione dei sei maggiori porti americani effettuata dalla compagnia P&O che DPW aveva acquistato. Allo stesso modo, nel 2005 è stato impedito alla società pubblicitaria China National Offshore Corporation di acquistare la società americana Unocal. Cosa significa questo se non che gli Stati riconoscono facilmente le società nazionali, anche se la loro capitalizzazione è ormai internazionale?

Quindi, anche nell’era dei ”  Global Players  “, si può parlare di nazionalità delle imprese. Se ci limitiamo ad alcuni esempi francesi, il tasso di partecipazione degli investitori francesi nel 2010 è stato il seguente: totale, 30%; Vivendi, 36%; Universale, 45%; Danone, 49%; BNP-Paribas, 39%; Crédit Agricole 44%, ecc. Questi esempi sono sufficienti a dimostrare che i titolari nazionali, se sono effettivamente in minoranza, costituiscono nondimeno la base dell’azienda. Quanto a manager e direttori, quasi tutti sono francesi. La capitale è internazionale ma l’azienda resta francese sia agli occhi dei suoi manager, dei suoi dipendenti che dei suoi azionisti stranieri.

Infine, possiamo assimilare le attuali grandi compagnie, a maggior ragione le FMN, alle legioni del tardo impero romano  ; misti, variegati, composti da quadri romani e truppe barbare, sono comunque l’esercito dell’Impero. Le aziende attuali, nonostante la loro natura globale, mantengono comunque un punto d’appoggio nazionale. Inoltre, il recente salvataggio di Peugeot intorno a un’alleanza tra la famiglia, lo Stato francese e il produttore cinese Dongfeng dimostra che l’idea di un’azienda nazionale non è morta con la globalizzazione, è solo  più complessa che in passato.

I nuovi obiettivi della guerra economica

La guerra economica contemporanea può essere letta come un conflitto tradizionale, con i suoi obiettivi di guerra. Il primo è simile per le vecchie potenze industriali a un imperativo difensivo: salvare posti di lavoro nell’industria. Questa sfida è diventata un’ossessione poiché le delocalizzazioni o il subappalto in paesi con bassi costi salariali stanno dissanguando i nostri paesi industrializzati.

 

Perché questa ossessione per i lavori industriali nel nostro mondo terziarizzato? Questo perché le nostre società postindustriali, nel senso che la maggior parte del PIL non proviene più dal settore secondario, sono tuttavia industrializzate come non lo sono mai state. Non solo i lavori industriali generano posti di lavoro terziario ma, inoltre, ce ne sono molti che richiedono una qualifica. Bernard Esambert parla di una “simbiosi industria-servizio” per designare questa coppia formata dall’industria high-tech e dal settore dei servizi che l’accompagna. Perdere le prime a vantaggio delle nuove potenze industriali significa perdere le seconde e rischiare di regredire, per non parlare del rischio di disoccupazione o sottoccupazione, che nessuna democrazia può sopportare a lungo termine. I sostenitori della guerra economica quindi ritengono che l’occupazione industriale debba essere difesa e persino mantenuta. Al di là dei dibattiti economici sul loro rapporto costi-benefici, la distruzione di posti di lavoro è difficile da accettare agli occhi degli elettori e, quindi, dei responsabili delle decisioni. Comprendiamo quindi lo zelo, almeno a parole, di Nicolas Sarkozy per salvare la fabbrica Gandrange o quella di François Hollande a Florange.

L’altro obiettivo della guerra, decisivo per gli Stati, non è più la difesa, ma la conquista dei mercati e delle scarse risorse. Bernard Nadoulek ha chiaramente dimostrato l’intensificazione della guerra per il controllo delle risorse naturali [4] , principalmente gli idrocarburi.

Niente forse di meglio di questo esempio illustra agli occhi dei suoi sostenitori l’evidenza della guerra economica: il petrolio è una risorsa scarsa e limitata. Ogni goccia guadagnata da uno viene persa dall’altra. Pertanto, poiché è la base dello sviluppo, è necessario che ogni Stato garantisca un approvvigionamento sicuro e continuo. La feroce lotta che Stati Uniti e Cina stanno conducendo per il petrolio africano ma anche per le altre risorse del sottosuolo di questo continente ne è un esempio. Assente dall’Africa 25 anni fa, la Cina è ora il suo terzo partner commerciale dietro Stati Uniti e Francia; per due terzi importa petrolio, ma anche metalli, cotone e pietre preziose.

Guerra economica per risorse scarse

Questa guerra per le risorse naturali è teatro di un’inversione dei rapporti di forza tra i paesi occidentali da un lato e paesi emergenti e / o in via di sviluppo dall’altro. L’ascesa della Cina , dei BRICS, l’ascesa dei fondi sovrani nei paesi arabi esportatori di petrolio lo dimostrerebbero. Nella guerra economica, le risorse sono potenti munizioni. E tutto suggerisce che questo conflitto si intensificherà.

L’Agenzia internazionale dell’energia stima che il fabbisogno energetico aumenterà del 50% entro il 2030, in particolare a causa della crescita indiana e cinese. La ricerca delle materie prime diventerà, infatti, un tema cruciale per gli Stati. Già nel 2007, il Committee on Critical Mineral Impacts on the US Economy ha pubblicato un rapporto in cui elenca undici minerali che sono particolarmente cruciali per l’economia americana a causa della loro scarsità, del loro bisogno nelle industrie ad alta tecnologia … il più ambito, è il rodio, utilizzato in particolare nei convertitori catalitici, e trovato in Russia ma anche in Sud Africa, un alleato molto migliore di Mosca. Metallo raro, è oggi oggetto di lotte in cui Stati e multinazionali combattono fianco a fianco. Garante dell’economia nazionale,

 

Sotto la “scarsità di risorse” compaiono anche le aziende che stanno diventando oggi, più che mai, preda non solo delle controparti private ma anche degli Stati. In quanto tale, la crisi ha facilitato l’ingresso nel capitale di aziende molto grandi dei paesi del sud via i potenti fondi sovrani. I grandi fondi di investimento degli Emirati Arabi Uniti, in particolare Dubai e Abu Dhabi, hanno ampiamente investito a favore della crisi economica in prestigiose società in difficoltà: EADS, AMD, Sony, Citigroup … Il fondo sovrano cinese detiene quanto a lui quasi il 10% di Morgan Stanley. Quanto al fondo Singapore, è entrato allo stesso livello nel capitale di Merril Lynch. Qui troviamo l’idea di rivoluzione nella gerarchia Nord / Sud, cara a Bernard Nadoulek; essere un vincitore nella guerra economica non è dato in eredità. I nuovi arrivati ​​stanno scuotendo la vecchia gerarchia. Si stima generalmente che l’Arabia Saudita sia responsabile del 5% del PIL degli Stati Uniti grazie alla creazione di ricchezza resa possibile dall’uso del petrolio arabo.

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Infine, c’è una merce rara e strategica che costituisce un obiettivo relativamente nuovo della guerra: l’informazione. Ora è importante che le aziende e gli Stati conoscano i loro avversari, il loro esatto livello tecnologico, la loro strategia, al fine di essere in grado di anticiparli. A volte parliamo di guerra cognitiva per designare l’arma principale della guerra economica. Éric Delbecque, specialista in intelligenza economica, afferma che “in un gioco competitivo duro che impone uno stile di gestione strategico reattivo e preciso, anche l’acquisizione di informazioni ad alto valore aggiunto si rivela essenziale per lo sviluppo dell’attività economica. che l’accumulazione di capitale finanziario e il coordinamento delle competenze umane [5] “. Se gli Stati vogliono oggi aiutare le loro imprese a conquistare quote di mercato, devono dotarsi di programmi di intelligence economica, pena il rimanere notevolmente indietro in una forma di lotta che appare sempre più cruciale.

Nel commercio multilaterale, oppositori multilaterali

Il nostro tempo è tessuto di contraddizioni; da un lato, gli Stati tengono un discorso ufficiale sostenendo, a volte con sfumature, un multilateralismo sostenuto dalle principali istituzioni internazionali come l’ONU, l’OMC, il FMI … Dall’altro, tutti vedono chiaramente che gli Stati si stanno sviluppando ragionamenti abbastanza diversi. L’imperativo della solidarietà in campo finanziario, auspicato dal G20, risponde alla necessità di non perdere quote di mercato in un contesto di tensione. Nel pieno della crisi, i Quaderni della Competitività titolava: “Alla conquista dei mercati esteri. Approfitta della globalizzazione e recupera la crescita ”. Inoltre, lo Stato sostiene i suoi imprenditori attraverso Ubifrance, l’Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese, che riporta direttamente alla Segreteria per il commercio estero. Basti dire che la logica mostrata e assunta è proprio quella di una guerra economica.

Uno stato schizofrenico quindi? Diciamo piuttosto uno Stato emerso dalla logica della Guerra Fredda in cui l’appartenenza a un blocco implicava un comportamento almeno benevolo, se non unito, nei confronti dei suoi partner. Spetta a Christian Harbulot aver meglio mostrato questo passaggio dal manicheismo della Guerra Fredda alla guerra economica multilaterale che gli Stati stanno conducendo oggi. Secondo lui, la coppia alleato / avversario ha sostituito quella partner / concorrente. Questa trasformazione di possibili alleanze è accoppiata, secondo Harbulot, con una riorganizzazione del campo dei partner e dei concorrenti in termini geografici. I due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti a tre blocchi: il primo è l’area degradata del mondo occidentale da cui si possono eventualmente estrarre gli Stati Uniti, il secondo è lo spazio di manovra ampliato delle nuove potenze, il terzo, infine, è lo spazio di sopravvivenza di altri paesi. Ciascuno di questi spazi segue strategie di potere molto diverse. Inoltre, i membri di ogni blocco non sono necessariamente alleati come abbiamo appena visto.

Pertanto, qualsiasi affermazione perentoria diventa impossibile. Gli Stati Uniti e la Cina stanno conducendo una guerra implacabile per le risorse dell’Africa. Ma la Cina, attraverso l’acquisto di titoli del Tesoro USA, è il Paese che permette agli Stati Uniti di vivere di credito. Per quanto riguarda gli IDE americani, svolgono un ruolo significativo nella crescita cinese. Un altro esempio, Cina e Taiwan sono nemici politici ma partner economici… Christian Harbulot ha proposto un’immagine della guerra economica mondiale che riproduciamo qui. Fornisce una migliore comprensione delle ragioni e dei problemi che strutturano questo conflitto agli occhi delle persone coinvolte.

Armi e parate di guerra economica

Se la guerra economica è una lotta, si basa sulle armi e sulle parate. Nel contesto di una guerra coperta, un gran numero di strumenti sono utili come armi. Il primo di tutto è senza dubbio l’allenamento; nelle nostre società in costante cambiamento, la formazione iniziale aiuta a creare una forza lavoro o manager preparati al cambiamento.

Allo stesso modo, l’importanza data alla ricerca è fondamentale. Dal 2010 la Cina ha più ricercatori degli Stati Uniti, anche se questi ultimi godono, grazie alla pratica della fuga dei cervelli , delle menti più acute del pianeta. In questo ambito è fondamentale la collaborazione pubblico-privato; negli Stati Uniti, il Bayh-Dole Act del 1980 prevede che i brevetti finanziati con fondi pubblici – da università o centri di ricerca pubblici – siano assegnati principalmente sotto forma di diritti esclusivi a società private americane.

In altre parole, agli occhi degli Stati in guerra economica, la ricerca dei brevetti è davvero un affare nazionale, una garanzia di produttività, un’arma decisiva nella prospettiva di una lotta commerciale tra le nazioni. Questi strumenti si mettono al servizio della competitività, questa capacità di affrontare la concorrenza sui mercati esterni ed interni. Non c’è dubbio in questo campo che l’Agenda 2010 proposta dal Cancelliere Schröder dal 2003 al 2005 abbia restituito alla Germania il vantaggio che le consente di raccogliere favolosi avanzi commerciali, compreso quello del 2013 che, con quasi 200 miliardi di euro, è il più grande mai registrato nella sua storia… a scapito dei suoi vicini europei, Francia compresa.

 

L’ultima arma della guerra coperta si basa sull’intelligence economica. È simile sia a un’arma, a uno stivale segreto – che anticipa il movimento del nemico per sorprenderlo e rubargli la vittoria – ma anche a una tattica di difesa – anticipando un rischio di alleanza, praticando disinformazione, proteggiti dalla concorrenza conoscendo i progressi dei tuoi principali avversari. Gli Stati Uniti sono gli attori principali di questa guerra dell’informazione. Ora sappiamo che la NSA, inizialmente creata in una logica di controspionaggio durante la Guerra Fredda, avrebbe utilizzato la rete Echelon per conoscere la posizione dell’Unione Europea nel 1994 durante i negoziati finali dell’Uruguay Round. Nel 2014, il New York Times ha rivelato che l’Agenzia aveva spiato uno studio legale americano che difendeva un paese straniero in una controversia commerciale con gli Stati Uniti … L’informazione è diventata una delle questioni chiave nella guerra economica .

Dalla guerra coperta alla guerra aperta

Man mano che gli stati passano dalla guerra coperta alla guerra aperta, le armi cambiano. Questi attacchi possono assumere la forma di ritorsioni geoeconomiche in risposta a una crisi geopolitica; questo è attualmente il caso dell’embargo su frutta e verdura tra Unione europea e Russia.

Anche le restrizioni volontarie all’importazione sono simili a misure di ritorsione. Il noto esempio delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti alle auto giapponesi negli anni ’80 testimonia la violenza del conflitto. Di fronte alla crescita delle vendite di auto giapponesi, Washington ha cercato di proteggere i ”  Tre Grandi  “. Piuttosto che procedere unilateralmente, il governo statunitense ha chiesto ai giapponesi di limitare le loro esportazioni. Tokyo ha preferito negoziare questa misura perfettamente anti-liberale piuttosto che correre il rischio di imporre restrizioni ancora più sfavorevoli: questo è l’ accordo di restrizione volontaria del 1980.

Un certo numero di controversie tra Stati portano all’adozione di picchi tariffari come ritorsione; gli Stati Uniti hanno quindi deciso nel gennaio 2009 di triplicare i dazi doganali sul Roquefort in risposta al divieto di esportazione in Europa di carne bovina contenente ormoni. In ognuno di questi casi, il miglior attacco è stato la difesa.

Quando si preoccupano di evitare conflitti frontali, gli Stati preferiscono un approccio alternativo che consiste nel facilitare l’assalto delle loro aziende sui mercati esteri. Per questo il potere politico è l’ardente promotore delle sue imprese. Questa vecchia pratica è stata sistematizzata negli Stati Uniti sotto forma di “diplomazia commerciale”. Ciò si basa su tre principi: preparare il terreno liberalizzando il commercio con il paese di destinazione; utilizzare l’intelligence economica, l’intelligence industriale e commerciale per fornire alle aziende americane tutti i dati sul campo da conquistare; infine, allestire strutture ad hoc come la War room. Questa strategia pubblica offensiva è interamente al servizio delle società private che sono la forza degli Stati Uniti. È nello stesso spirito che Washington sta ora aumentando la firma di trattati bilaterali di libero scambio: con la maggior parte dei paesi dell’America centrale negli anni 2000, con il Marocco nel 2006, la Corea del Sud nel 2010. Ma le due questioni principali che li occupano ora sono il trattato transpacifico da un lato e il trattato transatlantico con l’UE dall’altro.

Leggi anche:  The Art of Economic Warfare, di Christian Harbulot

Infine, c’è un’ultima arma che, singolarmente, è oggi quasi prerogativa di pochi paesi emergenti: i fondi sovrani. Anche se lo negano, questi fondi prendono piede in gruppi a volte strategici e aiutano a guidare la loro strategia.

Strategie di difesa

Per affrontare questi pericoli, coloro che sono coinvolti nella guerra economica hanno sviluppato politiche simili a scudi o persino contrattacchi. In un contesto in cui le barriere doganali sono storicamente basse, ci sono altri mezzi per preservare il suo mercato: sussidi all’esportazione, standard, favoritismi dati alle aziende nazionali in una forma o nell’altra (pensiamo allo Small Business Act che riserva -United alcuni appalti pubblici alle PMI) … tutti i mezzi sono buoni.

È il caso del denaro, che è stato a lungo e continua ad essere un’arma difensiva nelle mani degli Stati, in particolare sotto forma di svalutazione. Il Regno Unito ci ha fornito un recente esempio dell’uso geoeconomico che si potrebbe fare di una valuta: nel pieno della crisi, Londra si è lasciata sfuggire la sterlina mentre l’euro è rimasto forte. In questo modo, le esportazioni britanniche sono state stimolate. Potremmo riprodurre l’analisi per lo yuan o anche per lo yen in un momento in cui Shinzo Abe ha lanciato una politica di espansionismo monetario.

Per i grandi Stati occidentali si tratta prima di tutto di proteggere i propri mercati in un momento in cui il protezionismo di vecchio tipo è quasi bandito. Per i paesi emergenti, la posta in gioco è diversa: aumentando il numero delle fonti normative (statali, internazionali, private, pubbliche, ecc.), Indeboliscono il sistema giuridico universale progettato dagli Stati dominanti. Paradossalmente, il desiderio di unificare il commercio mondiale ha portato a una frammentazione giuridica di quest’ultimo.

 

Le regole del commercio sono diventate in pochi decenni un campo di battaglia. Ne è testimone l’emergere in Francia della nozione di “patriottismo economico”. Diffusa nel 2005 da Dominique de Villepin, allora Primo Ministro, la dottrina del patriottismo economico si basa sull’idea che spetterebbe allo Stato difendere le aziende considerate appartenenti a settori strategici. In pratica, il successo è misto: se Suez si era sposata con GDF nel 2008 per far fronte a un potenziale acquisto da parte dell’italiana Enel, Arcelor è stata assorbita da Mittal.

Ma colpisce il fatto che l’idea trascenda le divisioni politiche: Arnaud Montebourg, durante il suo breve soggiorno a Bercy, fece adottare un “decreto Alstom” che estendeva il decreto Villepin a nuovi settori, sottoponendo così gli investimenti stranieri in Francia a autorizzazione del governo. Non è esclusa la Germania di Angela Merkel, che ha anche indicato di voler vigilare sugli investimenti di fondi sovrani in società tedesche. Attraverso questi esempi, troviamo il tradizionale antagonismo tra economisti e politici: i primi insistono sul costo economico e sociale della guerra economica e sul protezionismo che essa genera, i secondi sottolineano l’indipendenza e il potere nazionale.

Considerando il pianeta nel 2014, si è tentati di concludere che la guerra ha un futuro radioso; guerra economica, ovviamente, ma anche guerra tradizionale. Forse più grave, è possibile che le guerre economiche di domani degenerino in conflitti armati. Il “dolce mestiere” caro a Montesquieu sembra lontano. Forse più che mai il mondo assomiglia alla descrizione di Nietzsche in The Will to Power  : “Un mare di forze in tempesta e flusso perpetuo, eternamente mutevole, eternamente declinato con giganteschi anni di ritorno regolare. ”

 


  1. Edward Luttwak, Il sogno americano in pericolo , op. cit., p. 40.
  2. Philippe Delmas, The Master of Clocks: Modernity of Public Action , Parigi, Odile Jacob, 1991.
  3. A questo proposito si veda Elie Cohen, La Tentation hexagonale: sovereignty put to test of globalization , Paris, Fayard, 1996.
  4. Bernard Nadoulek, L ‘ É popée des civilisations , Parigi, Eyrolles, 2005. Possiamo anche fare riferimento, dello stesso autore, a “La guerra economica mondiale per il controllo delle risorse naturali”, Géoéconomie , n ° 45, p. 23-32.
  5. Éric Delbecque, Economic Intelligence , Parigi, PUF, 2007, p. 29.    https://www.revueconflits.com/guerre-economique-histoire-mondialisation-entreprises-etats-frederic-munier/

EUROPRONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

EUROPRONI

L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.

Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.

Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.

Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.

Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.

Ma la questione che qui affronto è diversa: per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).

Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.

Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.

Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?

Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.

Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.

Teodoro Klitsche de la Grange

fuochi che si riaccendono, di Bernard Lugan

Alla fine del 2020, due “vecchi” conflitti  africani si stanno riaccendendo:
1) A nord, la tensione è aumentata improvvisamente tra ilMarocco e l’Algeria

dopo che il Polisario ha deciso di tagliare i corridoi di collegamento stradale

dal Senegal e dalla Mauritania al Mediterraneo. Tuttavia, l’unica domanda che

vale la pena porsi è se il Polisario ha agito di propria iniziativa, o se l’esercito

algerino lo ha spinto a testare la volontà marocchina.

Domande correlate: quale controllo l’Algeria esercita realmente su alcuni diverticoli

delPolisario che ha aderito allo Stato islamico (Daesh)? Alla fine del
conto, è ancora il Polisario utile al “sistema” algerino?
2) Nella regione del Corno, l’Etiopia è di nuovo protagonista con la secessione del

Tigray.
Stiamo affrontando un fenomeno di tipo jugoslavo, con lo smembramento di un paese multietnico, un mosaico di popoli che hanno perso la propria coesione?
Dalle sue origini al 1991, l’Amhara ha svolto questo ruolo; successivamente dal 1991 al 2019, sono subentrati i Tigrini. Oggi, etno-matematicamente forti, gli Oromo si stanno gradualmente affermando.
Ma i Tigrini non vogliono essere soggetto ai loro ex servi …
Fortunatamente per il potere centrale, l’odio degli Amhara verso i loro cugini tigrini è talmente viscerale che sono alleati congiuntamente al potere degli Oromo.
Fino a quando ? E’ la questione delle questioni…
Interviene la crisi algerino-marocchina in un contesto politico algerino che fa

venire in mente la fine del periodo Bouteflika. Infatti, dal 2013, data del primo colpo di quest’ultimo, l’Algeria è una barca alla deriva; non è più governata.
Dopo le grandi manifestazioni dell ‘”Hirak” interrotte dal Covid 19, una vera “grazia divina” per il “Sistema”, la “nuova Algeria” annunciata dal presidente Tebboune apparve rapidamente per quello che era, l’estensione gerontocratica dell’Algeria di Bouteflika.
Infatti, ‘ tre gerontocrati che gestiscono il “Sistema” sembrano tutti arrivati alla fine del loro” orologio biologico “.

75 anni anni, il presidente Tebboune è ricoverato in Germania, mentre il generale Chengriha, capo di stato maggiore di 77 anni in Svizzera. Quanto a Salah Goujil, il presidente del Senato, l’uomo destinato ad assumere il periodo di transizione in
caso di scomparsa del presidente, ha 89 anni ed è anche molto malato …
In questo periodo di fine regno, i clan dei giannizzeri sono pronti a regolare i conti, a tagliarsi la gola a vicenda per afferrare i resti di potere. Quello del generale Gaïd Salah è stato liquidato politicamente e riguardo agli altri due clan sembra che stiano aspettando
la scomparsa del presidente
Tebboune:
– L’ex DRS (i Servizi), quello dato per distrutto, dimostra che è ancora potente
nonostante l’incarcerazione del suo
leader principale.
– Quella del suo nemico, il generale Benali Benali, circa 80 anni,
il più vecchio ufficiale nel grado più alto e leader dell’esercito algerino
della potente guardia repubblicana.
Per tutti, l’alternativa è semplice:
prendere il potere o finire il loro giorni in prigione …
Bernard Lugan

MEGLIO DENG, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO DENG

Diceva Deng Tsiao Ping, con un’espressione rimasta famosa, che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi. Con ciò il grande statista, padre dell’attuale potenza (e “sistema) cinese, cui è riuscita la conversione di un immenso paese da una economia agraria (e povera) a una post-industriale, intendeva che, nella scelta e selezione delle classi dirigenti, la capacità di raggiungere gli obiettivi fissati e/o voluti (dall’agente) debba prevalere su quello della conformità ad imperativi – nella specie politico-ideologici – ma potrebbero essere anche a fondamento religioso, estetico o della corrispondenza ad una “causa” (e ai relativi “precetti”) – intesi come superiori e determinanti.

Quando, da tanto tempo, e se in particolare con la pandemia del Covid, si ammira (anche) la capacità della Cina di affrontare con efficacia le conseguenze del virus, le spiegazioni (prevalenti) hanno carattere ideologico: la possibilità di un regime autoritario che comanda senza o pochi limiti – naturali a quelli di sistemi più rispettosi dei diritti individuali. Salvo poi a mettere in guardia contro il consenso all’autoritarismo che ne può derivare. Giustificazione (e preoccupazione) declinata in diverse forme, non esclusa – anzi forse la più ricorrente – del comunismo che, per le proprie istituzioni-tipo (centralismo, gerarchia, assenza di opposizione politica) è ancora (in parte) vivo nel sistema cinese.

Non si può escludere del tutto l’incidenza di tale fattore: anzi occorre concordare che è una componente importante del successo. Tuttavia si pensi a cosa sarebbe successo in Cina se il grande paese fosse stato fermo al comunismo agrario di Mao-Dse-Dong: il Covid avrebbe fatto un’ecatombe o comunque causato una mortalità assai superiore, un po’ come capitato all’India – paese per dimensioni demografiche paragonabili – la cui percentuale di decessi (e contagiati) da Covid è assai peggiore di quella cinese: per cui anche lo sviluppo economico (e di condizioni di vita) dovuto all’abbandono del modello comunista e l’adozione di un “socialismo di mercato” ha avuto conseguenze positive nel contenimento della pandemia.

Senza insistere nell’elencare cause concorrenti (probabili o possibili), occorre considerare quanto può aver inciso la massima – pragmatica e laica di Deng sul modello di sviluppo.

E qua occorre rifarsi a Max Weber. Scriveva il grande sociologo che “come ogni azione anche l’agire sociale può essere determinato” in modo “razionale rispetto allo scopo” ossia da aspettative sul successo rispetto al fine voluto e considerato razionalmente; ovvero “in modo razionale rispetto al valore – dalla credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalle sue conseguenze”; e poi affettivamente (da affetti e da stati attuali del sentire); o tradizionalmente (da un’abitudine acquisita). Pur non potendosi escludere contaminazioni tra i diversi tipi (per cui spesso l’agire è determinato in base sia a valori quanto allo scopo, ovvero razionale rispetto ai valori, ma allo scopo (scelto) per i mezzi da impiegare1.

Tuttavia, sostiene Weber “Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò poiché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore” (il corsivo è mio); il quale di solito è “la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta conformità al dovere”.

Proprio l’attenzione dell’agire razionale rispetto allo scopo ai (probabili) risultati e la valutazione decisiva (per confermarne la congruità) delle conseguenze rende, a un tempo, tale agire più “utile” e più verificabile. Se per giudicare una razionalità rispetto al valore è sufficiente confrontare valori e (intenzioni) dell’agire, nel primo caso sono le conseguenze, il risultato/i concreto/i a misurarne la validità – e quindi l’effettiva razionalità. Per cui una comunità che tenga nella maggiore considerazione – ed orienti le scelte dei dirigenti – in base alla massima di Deng ha una superiore capacità di affrontare la realtà e conseguentemente l’emergenza (cioè la fortuna machiavellica), predisponendo argini, terrapieni e canali per contenerne l’effetto distruttivo.

Dai risultati economici (e non solo) della Cina negli ultimi quarant’anni (dopo la “sterzata” di Deng) risulta che il “criterio del gatto”, evidentemente applicato, ha contribuito all’eccellenza cinese. Dato che a partire dagli anni ’90 è cominciata la stagnazione-recessione dell’Italia, occorre vedere quale dei tipi weberiani dell’agire sociale sia stato qui più praticato (e predicato). Scriveva Weber che “Per agire «sociale» si deve però intendere un agire che sia riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo”; per chiarire quale sia il criterio (prevalente) applicato può dare un notevole aiuto l’immagine e i messaggi comunicati dalla classe politica (più che dalla classe dirigente). I quali prevalentemente sono riconducibili alla “razionalità” rispetto al “valore”. È chiaro che i valori sono, in parte, col tempo cambiati. Un tempo prevalevano bontà, rivoluzione, socialismo, comunismo, resistenza, nazione, potere, cristianesimo, libertà, costituzione (e così via), dopo il crollo del comunismo, buona parte dei “vecchi” sono stati sostituiti dal mercato, dai diritti dell’uomo, dall’ambiente.

È interessante notare come, con qualche eccezione, pur cambiando i valori di riferimento (in particolare a sinistra, più colpita dal crollo del comunismo) l’attitudine (e perfino l’apparenza) a propagandarli sia cambiata – o sia mutata di poco. Tra le rarità (parzialmente) contrarie rispetto alla regola Berlusconi, il quale rivendica per se d’essere l’ “uomo del fare” (anche se, spesso, quel fare era il minimo sindacale).

Tutti (quasi) gli altri, ancor più quelli dell’area sinistra appaiono nel linguaggio, nella mimica e nell’immagine dei predicatori2.

Tali prediche, come scriveva Hobbes sono il mezzo di comunicazione dei sacerdoti i quali hanno il compito di persuadere ed insegnare (la parola di Cristo) ma cui Dio non ha mai dato il potere di costringere, concesso al potere temporale. Questo così ha la responsabilità: a predicare fa bene ma dimezza (almeno) la propria funzione: che è quella di proteggere, anche con la forza.

Diversamente dalla razionalità rispetto allo scopo, quella ai valori si misura sulla conformità della condotta ai valori (indipendentemente dalle conseguenze) e sull’intenzione dell’agente, ossia sulla “purezza di cuore”. È chiaro che con un criterio del genere, ogni profeta disarmato (scriveva Machiavelli), ogni predicatore di successo diventa un buon governante.

Certo si potrebbe notare che spesso su quelle buone intenzioni si sono costruite fortune (economiche), come recita un detto americano sul bene perseguito dai quaccheri. Ma questo è un altro – anche se assai spesso ricorrente – discorso.

Resta il fatto che conformare la propria condotta non al perseguimento degli interessi concreti della comunità, ma ai valori esternati è una buona strada per “trovare la ruina più tanto che la preservazione sua”, predicando una condotta sostanzialmente indifferente al concreto risultato – il bene comune – (concreto) degli individui e dell’insieme sociale. Per cui portarlo a modello diventa la via maestra per la decadenza della comunità: come applicare il detto di Deng inverso.

Il solo predicarlo (prevalentemente) è già un errore, perché induce il pensiero che per ben governare occorre essere buoni (predicatori): a comportarsi di conseguenza si agevola l’emergere di una classe dirigente composta di simil-preti, buoni ma poco utili, con parecchi ipocriti che vi si nascondono. Proprio la categoria che assicura quanto capitato all’Italia, che da trent’anni ristagna. Meglio meno buone intenzioni e prediche, ma più risultati.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Ovvero, come scrive Weber: “individuo che agisce può – prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di «imperativi» e di «esigenze» – disporre gli scopi concorrenti e contrastanti, considerati” per cui “di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione principio dell’«unità marginale»” Wirtschaft und Gesellshaft trad. it. Economia e società, vol. I, Milano 1980, p. 23.

2 D’altra parte già un secolo orsono il Presidente Wilson, con la sua insistenza sui principi da applicare nella pace di Versailles appariva a un acuto economista come J. M. Keynes un “predicatore presbiteriano”; quando Keynes descrive Wilson è palese – riportandolo alla pagina di Weber sui “tipi ideali” dell’agire – che non aveva coordinato scopo e mezzi. Perché sostiene Keynes “non aveva nessun piano, nessun progetto, non idee costruttive di sorta per rivestire di carne viva i comandamenti che aveva tuonato dalla Casa Bianca. Avrebbe potuto fare un sermone su ognuno di essi o rivolgere all’Onnipotente una solenne preghiera per il loro adempimento; ma non era in grado di formulare la loro concreta applicazione allo stato effettivo dell’Europa”, v. ora trad. it. in J. M. Keynes Sono un liberale?, Milano 2010, p. 43.

MORTE E LIBERTA’_DI Pierluigi Fagan

MORTE E LIBERTA’. Mi si è presentata ieri, plasticamente, la radicalmente differente forma delle società tra quella cinese e quella occidentale. La cosa di per sé non farebbe notizia, ma per un aspetto induce a riflessione. Ieri infatti abbiamo qui da noi contato 993 morti per Covid in un solo giorno, che si sono sommati a gli altri 57.000 cumulati nei nove mesi precedenti. Solo ieri 3000 negli USA per più di 280.000 in totale. Ormai siamo assuefatti a questo monotona contabilità, la diamo per “naturale”, un accidente del destino che tocca sopportare.
Ma la mattina di ieri, mi ero anche letto un reportage dalla Cina dell’inviato di Repubblica F. Santelli, che è anche l’inviato stabile della testata nel Paese di Mezzo. Mi spiace citare un “articolo a pagamento”, ma proverò ad accennarne il contenuto perché dà da pensare. Il giornalista racconta del suo recente rientro in Cina dall’Italia. Tamponato prima di partire, pluritamponato al suo arrivo e comunque obbligato come chiunque entri in Cina ormai da mesi, a 14 giorni di reclusione in un Covid hotel per ultima sicurezza. Purtroppo, però, lì giunge l’esito dei tamponi fatti all’aeroporto: positivo. Fortunatamente asintomatico, si farà 40 giorni di reclusione in 18 mq (foto allegata) in un’altra struttura dedicata, senza luce naturale ed alcun contatto umano (si comunica via smartphone coi medici) in attesa dell’allineamento in negativo di tre tamponi (nasale, faringeo, anale), ripetuti due volte. A quel punto, si torna al Covid hotel e si torna liberi solo dopo altri 14 giorni e tamponi negativi finali, 54 giorni, quasi due mesi e solo perché positivo.
Naturalmente, il reportage fa senso se lo si legge, se si leggono i particolari della fredda reclusione ed i “modi” cinesi, senz’altro efficienti ma decisamente poco caldi e simpatetici. Ma lo stesso giornalista, immaginando un ipotetico dialogo con una autorità cinese, osserva che tutto questo sta da una parte con 4.634 morti su 1,4 miliardi di persone mentre dall’altra, la plurima salvaguardia delle nostre libertà sociali ed individuali (la cui limitazione ci fa per altro molto infuriare), presenta un conto di 58 mila morti su 60 milioni. Altresì, noi viviamo in emergenza permanente, salvo un po’ di allentamento estivo, ormai da mesi, mentre i cinesi dopo più di due mesi di blocco ferreo, ora sono tornati ad un vita normale. Diversi quindi distribuzione, peso e durata dei sacrifici, da una parte a salvare dalla morte, dall’altra a salvare la libertà.
Detto ciò occorre aggiungere due considerazioni. La prima è che le cifre riportate vanno prese a grana grossa. C’è chi obietterà che il computo dei morti da noi è viziato e chi invece sa che le morti sono sottostimate, così come altri, poco inclini alla riflessione, diranno che le morti cinesi sono ampiamente sottostimate. Saranno sicuramente sottostimate ma non cedo di molto per semplici ragioni logico-logistiche-statistiche sulle quali però eviterei un inutile dibattito. Mi spiace aver perso la fede nel dialogo ma dopo mesi di estenuanti discussioni con contatti che pure ritenevo razionali se non intellettualmente coltivati, mi sono reso conto non solo che ad alcuni mancano nozioni basiche ad esempio di statistica e logica elementare, ma ciò che è peggio non hanno nessuna intenzione di acquisirle sebbene uno spenda anche tempo per condividerle per comune spirito di ricerca. Alla fine la sproporzione evidente c’è comunque ed i due diversi “modi” si stagliano con sufficiente chiarezza e contorni precisi.
La seconda considerazione è l’evitare comparazioni con giudizio. Intendo il fatto che “società cinese” o “società occidentale” sono due interi da prender complessivamente e tra loro incommensurabili, il come si è trattata la pandemia dipende da un gran numero di fattori, anche storici, culturali, antropologici oltreché politici ed economici. Quindi, anche ogni “giudizio” su quale dei due modi sia migliore è improprio. Probabilmente un occidentale inorridirebbe sul dispotismo del modo cinese ed un cinese inorridirebbe sull’egoismo individualista occidentale. Marziani non coinvolti in senso valoriale a fare da terzi, non ne abbiamo.
Ad un cinese coinvolto nella “lotta di popolo contro il nemico virale” in cui ognuno si sacrifica per un bene superiore di tipo collettivo, come dice il Ceccarelli, una società in cui migliaia di famiglie ancora dopo nove mesi piangeranno i loro morti addirittura sotto Natale nel mentre altri insorgono perché non liberi di farsi la meritata sciata a Courmayeur o Cortina, sembrerà una società di animali pazzi. Così ad un occidentale, il ferreo e spersonalizzato, kafkiano per certi versi, controllo panoptico delle invisibili autorità cinesi che per salvare la normalità sociale non si fanno scrupolo di sacrificare la normalità individuale.
Poco peso hanno in termini di differenza le considerazioni sul benessere del sistema economico. E’ stata ed è una preoccupazione simile per le autorità dei due sistemi culturali anche se alla riprova dei fatti, il modo cinese che inizialmente qui sembrava scriteriato, si è poi rivelato il più logico dal punto di vista di tecniche gestionali epidemiche. La terapia d’urto che praticamente elimina il virus dalla circolazione nelle reti sociali salvo chiusura ermetica o molto controllata dei confini, si è rivelata la più logica ed efficace rispetto a quella della gestione con convivenza controllata nel lungo periodo, anche dal punto di vista del bilancio economico.
Se dunque ci siamo vietati l’inutile “Barabba o Gesù?” facendo della retorica comunitaria che sogna una società social-confuciana piuttosto che della retorica libertar-individualista che accetta di pagare i suoi prezzi in nome di diverso paradigma, perché scrivere un post? Ce lo dice il giornalista di Repubblica con cui concordo: “ La pandemia è un evento unico, un groviglio di fattori biologici, statistici, sociali, economici, politici e culturali. Sfida le nostre categorie e il nostro senso comune. Poteva essere l’occasione di fare un passo in avanti nella comprensione della complessità, invece mi sembra che, ancora più di prima, abbiamo urgenza di risposte semplici, ricette assolute, responsabili da accusare, immunizzazioni veloci.”
Ecco, questo sì. Penso che alla fine anno, il prezzo complessivo dell’evento che si conta in morti, debilitati di medio-lungo periodo, disoccupati, nuovi poveri, imprese fallite o seriamente compromesse, vari problemi psichici ed un lungo disagio personale e collettivo diffuso, andrà pesato e valutato se invitabile o diversamente gestibile. Ma tale riflessione abbisognerà di una mentalità in grado di tenere assieme quel “groviglio di fattori” perché sprecheremmo il prezzo pagato se continuassimo ora ad evidenziare un punto, ora l’altro in un infinito girotondo delle opinioni, alcune anche immotivatamente urlate in stato di evidente disagio psico-cognitivo. Se è vero che “ciò che non ti uccide, ti rende più forte”, se cioè l’esperienza, spesso soprattutto quella negativa, è severa maestra di cose che ignoravamo, occorrerà una posata riflessione, prima ancora che sul cosa abbiamo fatto e come l’abbiamo fatto, sulla nostra capacità di assumere quel “groviglio di fattori” che compongono ogni problema complesso.
Converrà farlo perché la nostra era sarà connotata da un gran numero di problemi fatti di “grovigli di fattori” e se di tali problemi vogliamo darci comune condivisione per poi dibatterli e deciderne le possibili soluzioni, sarà il caso di porci prima il problema di “adeguamento delle nostra mentalità alle cose”. Se le cose sono complesse, la nostra mentalità ha parecchio lavoro da fare.

Soft power: attrazione e manipolazione _ Di François-Bernard Huygue

La nozione di soft power evoca dolcezza, assenza di costrizioni, seduzione. Tuttavia, se vediamo in esso il potere di modificare la volontà degli altri, è un passo strategico tanto quanto l’ hard power . Si tratta di conquistare “cuori e menti” con tutti i mezzi. Il soft power , l’effetto e l’opinione, si trova da qualche parte tra l’attrazione e la manipolazione.


 

Se siamo d’accordo sul fatto che il potere si acquisisce o aumenta lavorando contro o eliminando la concorrenza, considera il soft power come una forma lieve di propaganda e di formattazione delle menti, che non è tutto la definizione data da Nye. In particolare come l’estensione, dopo la caduta del Muro, della “diplomazia pubblica” della Guerra Fredda che avrebbe propagato, soprattutto verso l’Oriente, una cultura e un’informazione capaci di sovvertire la rigida ideologia marxista.

 

Il contenuto e il vettore

Da una prospettiva persuasiva, la prima idea è inviare un messaggio convincente ai suoi destinatari stranieri, anche se significa acquisire i media per questo. Chiamiamola strategia di contenuto e vettoriale. Questo è ciò che hanno fatto gli Stati Uniti creando radio multilingue come Voice of America o Radio Liberty, le cui onde radio hanno attraversato il Muro per combattere l’ideologia sovietica . Oggi il Global Engagement Center svolge più o meno la stessa funzione di azione contro-narrativa e psicologica, prima contro il jihadismo e poi contro la propaganda russa. Il messaggio strettamente politico è tanto più efficace quando è combinato con la popolarità dei prodotti culturali ” tradizionali “.  “, Quelli che piacciono a tutti, come i blockbuster del cinema o la musica” giovane “che seduce oltre i suoi confini. Secondo la formula 2H / 2M (Harvard e Hollywood, McDonald’s e Microsoft), l’eccellenza accademica e tecnologica completa il consumo culturale quotidiano per dare la migliore immagine.

Oltre al messaggio e ai media, l’influenza richiede relè e codici. Si tratta quindi di favorire i gruppi e le istituzioni che a loro volta promuoveranno i vostri valori e le vostre idee, per scommettere su persone, standard o comportamenti al servizio a priori dei vostri obiettivi. E se possibile formattare fonti di informazione prestigiose e credibili. Per imporre il suo “software” insomma.

Pertanto la classifica annuale dei paesi, ”  The Soft Power 30  ” (Portland public diplomacy center), classifica i paesi in base a criteri oggettivi (relativi a società, digitalizzazione, società, livello di istruzione, ecc.). ) ma anche soggettiva, misurata da sondaggi in 25 paesi: buona opinione su cultura, cucina, politica estera, ecc. Sorpresa, è la Francia ad essere la numero 1 nel 2017. Tuttavia, precisa lo studio, ciò è in gran parte dovuto alla sconfitta del Fronte nazionale, all’elezione di Macron e alla probabilità di riforme ”  pro-business e pro. -USA  “. Quindi ad un’immagine aperta e moderna tipica della visione occidentale dominante in contrasto con quella degli Stati Uniti appesantita dall’elezione di Trump, La Francia in qualche modo incarna l’ideale americano meglio dell’America “piegata”.

Leggi anche:  Russia: soft power negativo?

Le armi del soft power

In generale, i criteri di ranking internazionale, quelli delle università o delle riviste, dei ristoranti o dei film, la predominanza di una modalità gestionale o contabile, la tendenza ad adottare sistemi di  common law(una legge anglosassone in cui prevarranno giurisprudenza e contrattuale), tutto ciò contribuisce, se non a servire direttamente gli interessi americani, almeno a unificare le abitudini mentali delle classi superiori, già favorevoli alla globalizzazione occidentale. Ciò può essere integrato in modo più deliberato portando le élite nelle sue università o individuando elementi promettenti della futura arena internazionale e familiarizzando con il suo sistema. In quest’area, la Francia, il paese per eccellenza della diplomazia culturale che ha inventato l’Alliance Française, per propagare la nostra lingua e la nostra influenza culturale tra le élite straniere dal 1884, difficilmente può obiettare.

Mentre gli individui ei loro codici mentali possono trasmettere l’influenza di un paese, le organizzazioni – società di comunicazioni o gruppi di cittadini – lo fanno con professionalità. Esistono generalmente tre metodi principali: agire principalmente diffondendo idee (il modello del think tank ), inviando un messaggio persuasivo e difendendo gli interessi con i leader (questo è il lavoro delle lobby ) o con l’opinione pubblica in generale (agenzie pubbliche relazioni o spin doctor ). Infine, le organizzazioni non governative senza scopo di lucro (a differenza delle lobbye agenzie), dovrebbero riunire la buona volontà: agiscono positivamente per promuovere cause e realizzare azioni concrete; possono anche agire negativamente denunciando e combattendo aziende o governi. O anche sostenendo “rivoluzioni di colore”.

 

La patria delle armi di influenza di massa

Queste tre secolari forme di organizzazioni di influenza, anche se non furono inventate dall’altra parte dell’Atlantico, vi fiorirono molto presto, aiutate dal sistema amministrativo. Corrispondono a una predisposizione culturale a far pesare iniziative private sul processo decisionale politico sia internamente che esternamente. Quindi il fatto che ci siano diverse centinaia di think tank negli USA, la maggior parte a Washington, molti con budget di milioni di dollari, mostra il posto di un’istituzione di analisi e orientamento perfettamente integrata. Si è distinta con nomi come Rand , Brookings Institute , Council of Foreign Relations , Carnegie , Heritage…, Fornendo categorie intellettuali e suggerimenti quale all’esercito, quale ai partiti, quale all’amministrazione, quale alle élite internazionali.

Per quanto riguarda le lobby , protette dal Secondo Emendamento, fioriscono negli Stati Uniti dove hanno un’esistenza legale e sono registrate. Si ammette anche che la Corea del Sud o l’ Arabia Saudita hanno la loro a Washington, o che dozzine di lobbisti americani vanno a Bruxelles. Sotto l’etichetta di pubbliche relazioni (un termine la cui paternità andrebbe a Bernays, vedi riquadro), di “comunicazione d’influenza” o “affari pubblici”, anche sciami di farmacie specializzate nella “vendita” di cause politiche, compresa la guerra. Ciò è particolarmente vero per quelle che sono state chiamate “guerre di scelta”, interventi esterni che rispondono a una preoccupazione “morale”.

Senza tornare a prima della caduta del muro, è da più di un quarto di secolo che i conflitti ispirati (in teoria) dalla sola preoccupazione dei diritti umani, sono stati preceduti da una campagna di giustificazione – e quindi di demonizzazione del avversario designato come quello dell’umanità. È affidato a professionisti. A seconda del periodo, per contratti del valore di milioni di dollari con l’esercito statunitense o con oppositori o governi in esilio kuwaitiani, bosniaci, afgani, iracheni, kosovari …, sarà il Rendon Group, Hill & Knowlton , Karl Rove o Alastair Campbell (rispettivamente spin doctordi GW Bush e Tony Blair). E a seconda dell’epoca, l’opinione internazionale crederà che l’esercito di Saddam sia il quarto al mondo (e che scolleghi gli incubatori a Kuwait City), che Milosevic abbia aperto campi di concentramento, che il Kosovo sia pieno di fosse comuni. Albanesi, che Saddam è a poche settimane dall’avere la bomba atomica e altre armi di distruzione di massa … Allo stesso modo, questi spin doctor forniranno aiuti ai governi alleati in tempo elettorale come l’Iraq, progetterà strumenti di lotta ideologica per la deradicalizzazione dei jihadisti o, più sottilmente, come l’agenzia britannica Bell Potinger, girerà falsi filmati islamici per il Pentagono (un conto di milioni di dollari).

Quanto alle ONG, con il doppio vantaggio della loro presenza sul campo e della rispettabilità morale, si prestano a potenti effetti leva. Già nel 1961, USAID ( Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale ), che avrebbe dovuto combattere la povertà, aiutare le popolazioni e promuovere la democrazia e lo sviluppo economico, e finanziare le ONG, è noto come uno strumento per contrastare l’influenza sovietica. Le finanze di USAID in particolare (parallelamente alle più grandi società statunitensi) fanno leva su fondazioni come il famoso National Endowment for Democracy che guida azioni per esportare la democrazia liberale.

La Freedom House , una ONG fondata durante la seconda guerra mondiale e finanziata dal governo federale e da varie fondazioni, che stabilisce classifiche di libertà nel mondo e aiuta movimenti e governi nel rispetto dei diritti civili, è un altro buon esempio, lei afferma che ”  il dominio dell’America negli affari internazionali è essenziale per la causa dei diritti umani e della libertà  “.

In un altro registro, ONG come UANI ( United Against a Nuclear Iran ) possono essere strumenti di pressione (per timore in particolare di denunce pubbliche) contro aziende non americane tentate di commerciare con Teheran.

Quello che c’è in comune tra tutte le forme di influenza, che implicano tutte la diffusione di informazioni sugli eventi e la loro interpretazione, è che riflettono le relazioni tra interessi nazionali (come evidenziato da compresi i finanziamenti pubblici diretti o indiretti) e le convinzioni. Queste – certamente sincere con molti – riguardano l’eccezione americana o, se si preferisce, l’identificazione delle tradizioni politiche ed economiche di un Paese dai valori universali che è naturale esportare come conforme. alla profonda tendenza delle società umane.

 

Il mezzo è più importante del messaggio?

Il soft power si manifesta in modo più sottile anche dal suo rapporto con la tecnologia dell’informazione sia oggettivamente favorevole alla prima società mondiale dell’informazione sia soggettivamente pensieri come vettori di influenza di questa azienda.

Negli anni ’80, il dibattito sul Nuovo Ordine Mondiale dell’Informazione e della Comunicazione (Nomic) contrappone l’America di Reagan e l’Unesco sostenuti da paesi che lamentano che le informazioni sono prodotte principalmente da agenzie situate negli stati sviluppati e privilegiando il loro punto di vista.

Negli anni ’90, subito dopo la caduta del Muro (che alcuni attribuiranno in parte all’effetto vetrina della televisione della Germania occidentale ricevuta nella DDR), il predominio della CNN – ad esempio il suo monopolio virtuale delle immagini nella prima guerra du Golfe: è ovvio. Un canale satellitare privato fornisce le informazioni al mondo, o almeno ai decisori, e questo ovviamente riflette una visione molto americana di una globalizzazione felice.

Negli anni 2000, Internet, con la sua immaginazione della nuova società digitale e del mondo, era soggetta agli standard tecnici americani, ma questi sembravano trasmettere una visione altrettanto americana del mondo, un misto di ottimismo tecnologico e liberalismo culturale.

Negli anni 2010, soprattutto con la Primavera araba, la convinzione che i social network, impossibili da censurare e favorevoli alle mobilitazioni democratiche, fossero destinati a superare le dittature e promuovere un modello aperto è ampiamente sostenuta attraverso l’Atlantico.

Naturalmente queste tesi saranno spesso contraddette dai fatti: l’apparizione di canali globali non americani come Al Jazeera, la chiusura di alcuni paesi per “balcanizzazione” della Rete, la scoperta che i social network trasmettono anche influenze non americane e discorso populista. Resta il fatto, tuttavia, che l’idea – ampiamente anticipata da Mc Luhan – che i media contino più del messaggio e che una forma di comunicazione porti con sé una forma di rappresentazione della realtà è perfettamente integrata nella politica di influenza americana. Un esempio tra cento: gli Stati Uniti finanziano un equivalente cubano di Twitter, Zunzuneo, nella speranza che uno spazio libero di discussione sollevi automaticamente proteste e faccia cadere il regime, cosa che non è avvenuta.

 

Contro il soft power , il soft power

Né i dollari che finanzierebbero tutto, comprese le rivoluzioni, né le azioni della CIA che si infiltrerebbero in ogni cosa sono spiegazioni sufficienti per l’efficacia del soft power americano: “soft power” non dovrebbe essere usato come un eufemismo chic per cospirazione. Ma non è nemmeno oggetto di un naturale consenso di popoli che, ben informati, aderirebbero a qualsiasi senso della storia. Che si tratti di rovesciare un governo o di formare le élite di un paese, il metodo soft funziona solo dove c’è un vuoto o una contraddizione. L’ascesa di strategie di influenza russa, cinese, indiana … ne è una dimostrazione a contrario . : Il conflitto di valori e visioni del mondo non è stato eliminato a beneficio degli Stati Uniti, né dalle immagini “giuste” né dal consenso online di una società civile planetaria e aperta.

Dopo aver eletto un presidente che è tutt’altro che morbido (almeno a parole), gli Stati Uniti hanno scoperto che questo processo non stava raggiungendo la metà della loro popolazione. È ironico vedere la spiegazione che la signora Clinton, proclamata discepola di Nye, trae da essa: colpa dell’influenza russa attraverso il cyberspazio e i social network populisti che diffondono fake news (e quindi unanimemente ribelle dai media ed élite). Come tutti gli altri, il soft power genera la propria debolezza.

https://www.revueconflits.com/soft-power-influence-strategie-propagande-huygues/

Il potere cinese visto da Washington. Outsider o tigre di carta?_di Florian Luis

Dopo il Giappone, il cui emergere ha destato grande preoccupazione negli anni Ottanta, è oggi la Cina ad alimentare negli Stati Uniti una profusione di analisi tra la comunità degli specialisti delle relazioni internazionali. Dovremmo essere preoccupati per il suo aumento di potenza? Quali sono le sue ambizioni? È inevitabile un confronto? Sono tutte domande alle quali gli osservatori forniscono risposte molto diverse.

Se l’ampiezza del pensiero strategico americano sulla Cina raggiunge oggi proporzioni senza precedenti, va ricordato che non risale a ieri. Già all’inizio del XX °  secolo, l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan , diventato un riferimento strategico oggi in Cina, aveva affrontato il problema dell’Asia e dei suoi effetti sulla politica internazionale(1900). Ha sostenuto a favore di un’intensificazione del commercio tra gli Stati Uniti e la Cina, quest’ultimo paese visto come un potenziale contrappeso al desiderio della Russia di dominare l’Eurasia. Una lezione che verrà appresa tre quarti di secolo dopo da Henry Kissinger che lavorerà nel mezzo della Guerra Fredda per un riavvicinamento innaturale a priori tra Washington e Pechino al fine di privare Mosca di un alleato importante.

Nonostante questo riavvicinamento simboleggiato dalla visita di Nixon a Pechino nel 1972, le relazioni tra Cina e Stati Uniti rimasero tese perché, contrariamente alle previsioni, non sfociò in alcun modo in una “normalizzazione” della Cina. A spese di coloro che, insieme a Fukuyama, hanno visto nella liberalizzazione economica del Regno di Mezzo avviata da Deng Xiaoping il preludio alla sua inevitabile liberalizzazione politica. Al contrario, i gerarchi di Pechino sono riusciti a utilizzare le armi del liberalismo economico per rafforzare meglio il loro modello politico autoritario. Uno sviluppo inizialmente tollerato da Washington, che in genere ha chiuso un occhio sul massacro di Tian’anmen imponendo solo sanzioni minime e temporanee alla Cina.

 

Un confronto inevitabile?

Per molti analisti americani il confronto con la Cina sembra probabile o addirittura inevitabile. Graham Allison, professore di scienze politiche ad Harvard, lo spiega con l’esistenza di una “trappola di Tucidide” ( Trappola di Tucidide ) che vorrebbe che, come l’ex Sparta nei confronti di Atene, l’ascesa cinese finirà per spingere gli Stati- Uniti nel ricorrere alla forza nel tentativo di mantenere la propria supremazia minacciata dall’ambizioso outsider  : Pechino e Washington sarebbero così “destinate alla guerra”. Le ragioni per essere pessimisti sono tanto più forti quanto accompagnate dalla moderazione e del tatto che Graham Allison rende sine qua non per evitare lo scenario peggiore, abbiamo conosciuto meglio di Donald Trump, che ha concentrato la sua campagna su una critica virulenta alla Cina, il tutto in termini molto poco diplomatici (vedi pagina XX).

Da leggere anche:  Cina, Stati Uniti, UE: chi vincerà la guerra?

Nell’ultima edizione di The Tragedy of Great Power Politics, John Mearsheimer fa eco a questa direzione pessimistica affermando che la probabilità che scoppi una guerra tra gli Stati Uniti e la Cina è molto maggiore oggi di quanto non sia mai stata durante la guerra fredda il rischio di una guerra americano-sovietica . In effetti, i territori contesi oggi sono geograficamente e demograficamente relativamente insignificanti (isolotti, territori marginali) che finirebbero per revocare le inibizioni: oseremmo combatterci più facilmente che ai tempi della Guerra Fredda quando era cuore dell’Europa occidentale ad essere in gioco.

Per Mearsheimer, la Cina è impegnata in una classica ascesa al potere che segue fedelmente la strategia una volta adottata da Washington: prima prendere il controllo del suo ambiente regionale al fine di eliminare ogni minaccia nel suo cortile (questa era la funzione della dottrina Monroe), quindi partire per attaccare il vasto mondo sviluppando una capacità di proiezione militare di livello mondiale (questa era la lezione di Mahan). Questo spiegherebbe perché la Cina sta ora cercando di stringere legami con i vicini americani degli Stati Uniti, perché ciò le consentirebbe di costringere Washington a concentrarsi sulla gestione del suo cortile occidentale piuttosto che di quello del lontano teatro asiatico.

Se ci fidiamo di queste fosche previsioni, l’interesse degli Stati Uniti sarebbe in definitiva quello di accelerare lo scontro con Pechino per combattere il prima possibile, finché in possesso ancora di una significativa superiorità militare.

Cina: un colosso dai piedi d’argilla?

Per il saggista asiatico olandese Ian Buruma , le cupe previsioni di Mearsheimer sono infondate perché non tengono conto delle tante debolezze della Cina: se vuole, la Cina ha anche i mezzi? resistere negli Stati Uniti? Con una demografia che invecchia, l’inquinamento endemico e un’economia non così prospera come si potrebbe pensare, la Cina avrebbe, secondo Buruma, molte altre preoccupazioni oltre a sfidare l’egemonia americana globale. Una guerra potrebbe anche fornire un’opportunità per la società civile di ribellarsi al regime comunista.

Un’analisi condivisa da Joseph Nye, che ritiene che sarebbe sbagliato credere che il secolo americano è finita, perché, sia nel campo della morbido e hard power , gli Stati Uniti ancora in gran parte dominano la Cina e nulla suggerisce che può raggiungerli rapidamente. Alcuni come il saggista cinese-americano Gordon G. Chang si azzardano persino a profetizzare un imminente “collasso cinese” ( Collapse of China) causato, secondo lui, da uno shock finanziario. Amitai Etzioni, docente di relazioni internazionali alla George Washington University, sottolinea da parte sua che il potenziale militare cinese non costituisce attualmente una minaccia credibile per gli Stati Uniti, che possono peraltro contare su una solida rete di alleati in Asia. Alleati tanto più leali quanto l’ascesa del potere cinese accresce le loro preoccupazioni. Etzioni ritiene inoltre che se la Cina ha davvero ambizioni revisioniste riguardo ai confini asiatici, non considera l’uso della forza come mezzo naturale per soddisfarli.

Si potrebbero quindi trovare dei compromessi, come spiega l’ex corrispondente del New York Times Howard W. French. Secondo lui, quelli che prevedono una futura guerra tra Cina e Stati Unitifraintendere le ambizioni cinesi. La Cina non è fondamentalmente una potenza imperialista o colonialista. Non pretende, come gli Stati Uniti, di possedere una verità universale di cui dovrebbe garantire la propagazione e la protezione su tutta la superficie del globo (vedi pagine XX e XX). Indubbiamente si considera il Medio Impero, vale a dire il centro del mondo, ma questo non significa in alcun modo che abbia la pretesa di dominarlo. Al contrario, ritiene che al di fuori del centro civilizzato che costituisce il mondo sinizzato, le periferie “barbare” debbano essere pacificate, eventualmente soggiogate dall’imposizione del pagamento di un tributo, ma in nessun caso controllate direttamente con ‘occupazione o interferenza.

C’è quindi spazio per trovare un compromesso e, piuttosto che prepararsi alla guerra, Washington dovrebbe cercare di agire da intermediario tra i suoi alleati asiatici e Pechino con l’obiettivo di raggiungere, attraverso negoziati, un compromesso regionale accettabile tutto, secondo il francese …

Bibliografia

Graham Allison, Destined for War: Can America and China Escape Thucydide’s Trap ?, Scribe, Melbourne-London, 2017. 

Ian Burma, “La Cina e gli Stati Uniti sono diretti alla guerra? “, The New Yorker , 19 giugno 2017.

Gordon G. Chang, The Coming Collapse of China , Random House, New York, 2001.

Gordon G. Chang, Fateful Ties. A History of America’s Preoccupation with China , Harvard University Press, 2015.

Amitai Etzioni, Evitare la guerra con la Cina: due nazioni, un mondo, University of Virginia Press, Charlottesville, 2017.

Howard French, Everything Under the Heavens: How the Past Helps Shape China’s Push for Global Power, Knopf, New York, 2017.

Henry Kissinger, De la Chine , Parigi, Fayard, 2012.

John Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, WW Norton and Co., 2014.

Joseph Nye, il secolo americano è finito? Politica, 2015.

https://www.revueconflits.com/puissance-chinoise-washington-florian-louis/

La Turchia nella NATO, tra utilità e ostilità_ di Hajnalka Vincze

Chi può dimenticare questa scena surreale al termine di una cena della NATO nel maggio 2015 ad Antaliya, o su invito del ministro degli Esteri turco, ospite dell’evento, funzionari dell’Alleanza e dei suoi stati i membri cantano tutti insieme, a braccetto, l’inno di Michael Jackson e Lionel Richie: “We are the world”? Due anni dopo, durante un’esercitazione NATO in Norvegia, l’atmosfera è molto più cupa. I quaranta soldati turchi che vi partecipano sono stati appena ritirati, con effetto immediato, dal loro governo. La causa ? A seguito delle singole iniziative di un tecnico e di un ufficiale norvegese, l’immagine di Ataturk (fondatore della Repubblica di Turchia) è stata proiettata come bersaglio nemico nelle esercitazioni e sulle reti sono stati trasmessi falsi messaggi a nome del presidente Erdogan su aspetti sociali interni della NATO.

Se, nonostante la profusione di scuse pubbliche, l’incidente ha così tanto segnato gli spiriti, è perché è avvenuto in un momento in cui i vari e variegati punti di attrito si erano già notevolmente accumulati tra Ankara ei suoi alleati. . Una tendenza che da allora si è solo intensificata. Dalle incursioni in Siria alle ripetute interferenze negli affari interni dei Paesi europei attraverso le comunità turco-musulmane, passando per l’invio di jihadisti in Libia e Nagorno Karabakh, alla violazione dell’embargo sulle armi destinato a Libia (al punto da sfiorare uno scontro militare con la fregata francese Courbet), il ricatto migratorio all’Unione Europea, il controverso acquisto di un sistema di difesa antiaereo russo e la revisione unilaterale delle zone marittime in Mediterraneo orientale. Non mancano “soggetti irritanti, anche conflittuali” . [1]

(Credito fotografico: Hurriyet Daily News)

Non sorprende che in Europa e negli Stati Uniti stiano sorgendo domande prima inimmaginabili sul posto della Turchia nell’Alleanza, e l’ipotesi di una sospensione del suo status di membro viene talvolta sollevata al massimo livello. [2] Tuttavia, è importante distinguere tra le cose. La NATO non è un blocco monolitico e non tutti gli alleati sono colpiti nella stessa misura dalle azioni e dalle minacce della Turchia. Le reazioni variano, anche se solo in base alla posizione geografica. Notevoli differenze stanno emergendo tra America ed Europa, ma anche tra gli alleati europei. Può l’atteggiamento apertamente provocatorio di Ankara essere anche un utile rivelatore, un catalizzatore per spostare l’equilibrio del potere? E se sì, in quale direzione?

La multiforme utilità dell’alleato turco

La Turchia è uno dei pochissimi paesi della NATO ad aver mantenuto un certo grado di indipendenza. Come ha recentemente spiegato il vice segretario generale dell’Alleanza, Camille Grand: “è sorprendente quando si arriva nella NATO come francesi che per 26 alleati su 29 la politica di sicurezza e difesa è Prodotto NATO al 90% o al 99%. Ci sono tre eccezioni: Stati Uniti, Francia e Turchia, che hanno sempre mantenuto la volontà di avere uno strumento di difesa che possa funzionare al di fuori dell’Alleanza Atlantica – come possiamo vedere oggi ” . [3] È alla luce di questa specificità che possiamo decifrare il ruolo della Turchia come alleato – una curiosa miscela di diffidenza e utilità.

Utilità diretta

Appena entrata a far parte dell’Alleanza nel 1952, la Turchia era considerata un prezioso alleato, sul fianco meridionale dell’URSS, una sorta di “pilastro orientale della NATO” . Con il suo esercito che occupa una posizione chiave nel paese e coltiva stretti legami con l’esercito americano, la sua politica estera era strettamente allineata a quella degli Stati Uniti, come durante la crisi di Suez nel 1956. Ankara era una figura, all’epoca, “miglior studente della classe atlantica” . [4] Nonostante i suoi tentativi di perseguire una politica più autonoma qua e là, e in particolare dall’invasione della parte settentrionale di Cipro nel 1974, la Turchia ha sempre fatto bene. ha svolto il suo ruolo nell’Alleanza, che non è altro che“La funzione geopolitica dell’Impero Ottomano dalla guerra di Crimea: ostacolare la spinta russo-sovietica verso il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente (la cosiddetta strategia dei mari caldi)  ”. [5]

Inoltre, l’esercito turco è uno dei più forti della NATO, il secondo in forza con 750.000 uomini. L’ex capo di stato maggiore degli eserciti francesi, il generale Henri Bentégeat ha osservato che “per averla conosciuta bene, è uno dei rari eserciti europei in grado di combattere”[6] Neanche a lei importa dei compiti. L’esercito turco è tra i primi cinque contributori alle operazioni dell’Alleanza, ha perso 15 uomini in Afghanistan e partecipa a missioni di addestramento in Iraq e stabilizzazione nei Balcani. La Turchia assumerà anche la guida di una task force congiunta ad altissima prontezza (VJTF) nel 2021. È anche uno dei cinque paesi europei dell’Alleanza che proteggono i dispositivi nucleari tattici americani sul suo territorio, in la base di Incirlik, nell’ambito della cosiddetta condivisione nucleare della NATO (sotto il controllo operativo esclusivo degli Stati Uniti). Il paese ospita anche il Comando della Terra Alleata a Izmir, nonché il Centro di eccellenza per la difesa contro il terrorismo (una scelta un po ‘ironica viste le aspre controversie tra esso e altri alleati, se non altro per definire la portata di questo argomento). La Turchia ospita anche, per conto della NATO, una base aerea di sorveglianza in avanti AWACS a Konya, nonché una stazione radar di allerta precoce a Kürecik. Forte di tutti questi punti di forza, si sta permettendo sempre più di perseguire una politica autonoma.

Utilità fortuita

Per puro caso, certe manifestazioni di questa autonomia possono talvolta coincidere utilmente con le posizioni difese dalla Francia. Questo è stato notoriamente il caso del rifiuto di partecipare all’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Più in generale, i due paesi condividono riserve sul vedere la NATO essere troppo coinvolta, e per di più militarmente, in Medio Oriente. Est. Né Ankara né Parigi vogliono apparire lì come un semplice esecutore dell’agenda degli Stati Uniti. Allo stesso modo, i due preferiscono impedire alla NATO, con la sua retorica, di sconvolgere e provocare le potenze nelle loro vicinanze (vicinato nazionale per la Turchia, europeo per la Francia). I due sono quindi anche contrari, per quanto possibile, all’Alleanza che nomina sempre per nome gli avversari.

Un altro tema su cui convergono oggettivamente gli interessi di Ankara e Parigi è quello delle politiche sugli armamenti. Non che la Francia sia un importante fornitore dell’esercito turco, non lo è. I loro approcci sono comunque vicini nel senso che entrambi sono consapevoli dell’importanza fondamentale di un’industria della difesa nazionale. Condividono anche l’esperienza di essere stati tenuti in ostaggio, di volta in volta, dal regolamento ITAR statunitense che richiede l’autorizzazione, caso per caso, ad esportare qualsiasi apparecchiatura che contenga anche un mezzo chiodo di Origine americana. Il blocco del Congresso, in risposta all’acquisto da parte della Turchia del sistema russo S400, mette a repentaglio un accordo di vendita di elicotteri da 1,5 miliardi di dollari (prodotto dalla Turchia ma concesso in licenza per gli Stati Uniti) in Pakistan, con il suo corollario di danni per Ankara in termini di credibilità e immagine. Una situazione ben nota alla Francia, che recentemente ha visto rallentare la vendita di ulteriori Rafale all’Egitto da parte dell’America, idem per i satelliti militari di osservazione diretti negli Emirati Arabi Uniti. Potrebbe quindi emergere una convergenza di vedute tra Francia e Turchia, in un momento in cui si esercita nella NATO una forte spinta americana a favorire programmi “congiunti”, per definizione dipendenti, piuttosto che contributi nazionali.

Utilità paradossale

C’è un terzo modo in cui la Turchia può essere utile, suo malgrado. In effetti, è stata l’invasione turca della Siria nord-orientale, senza consultazione o preavviso, che è servita come ultimo fattore scatenante per il presidente Macron per esporre la sua visione sulla “morte cerebrale” della NATO, in una controversa intervista al settimanale britannico The Economist[7] Leggendo attentamente le parole del presidente francese, è ovvio che le azioni turche erano solo un pretesto. Un’occasione d’oro per attirare l’attenzione sulle disfunzioni dell’Alleanza, sull’inaffidabilità delle garanzie americane e sulla necessità per gli europei di assumere la propria autonomia. Inoltre, non è la prima volta che la Turchia, involontariamente, utilizza argomenti per rafforzare la linea francese all’interno dell’Alleanza atlantica.

All’inizio degli anni 2000, quando è stata lanciata la politica di difesa dell’UE, Ankara ha reso a Parigi un enorme servizio, anche se sperava di fare il contrario. Una delle prime domande all’epoca era l’articolazione tra la nuova politica europea e la NATO. La Turchia, così come la Norvegia, entrambe sostenute dagli Stati Uniti, hanno combattuto, minaccia di veto a sostegno, per ottenere la massima partecipazione degli alleati non membri dell’Unione Europea a questa nuova politica degli Stati Uniti. ‘UNIONE EUROPEA. La Norvegia si rese subito conto della natura controproducente di un simile approccio. D’altra parte, la Turchia è rimasta su questa posizione, di fronte a quella che considerava l’ennesima ingiustizia e umiliazione da parte dell’Europa. L’ostruzionismo turco nella NATO ha dato i suoi frutti: è riuscita a bloccare accordi formali con l’UE, scambi di informazioni, a volte anche la cooperazione nello stesso teatro di operazioni. Ankara impedisce inoltre agli europei di invocare risorse comuni della NATO per condurre un’operazione. Che cosa“Non disturba affatto la Francia o l’Unione Europea, a dire il vero” , secondo il generale Bentégeat, ex presidente del comitato militare dell’Ue. In effetti, il comportamento della Turchia su questo tema è (anche) una dimostrazione su vasta scala degli svantaggi di scommettere su tutta la NATO e, normalmente, un incentivo in più per gli europei a emanciparsi gradualmente da essa.

Ascesa delle ostilità tra alleati

Ci sono molti disaccordi, e stanno crescendo oggi, nelle relazioni tra la Turchia e il resto della NATO. Negli anni si sono accumulate varie e svariate insoddisfazioni da entrambe le parti. Fino ad ora, tuttavia, i rispettivi interessi hanno fatto sì che le due parti ignorassero le differenze e favorissero il mantenimento di questa strana alleanza.

(Credito fotografico: NATO)

Le rimostranze della NATO

Le relazioni sono segnate dapprima da una lunga serie di ambiguità turche, molto poco apprezzate dai partner della NATO. A cominciare dall’offensiva turca in Siria contro le milizie curde alleate della coalizione anti-Daesh, la cui coalizione è guidata dagli Stati Uniti e annovera tra i suoi membri la NATO in quanto tale (che le fornisce il sostegno Aeromobili AWACS). Un’altra spina nel fianco dei rapporti con l’Alleanza, e in particolare con gli Stati Uniti, è l’acquisto da parte della Turchia del sistema di difesa antiaereo russo S400. Nonostante i ripetuti avvertimenti degli alleati occidentali, la Turchia persiste e firma, mentre chiede loro lo spiegamento delle batterie Patriot quando le sue relazioni con Mosca stanno attraversando una fase di tensione. Infine,

Più in generale, le differenze turco-NATO sono evidenti a livello politico-strategico. Anche se l’Alleanza Atlantica è tradizionalmente posizionata contro la Russia e sempre più contro la Cina, Ankara non esita a flirtare con la Shanghai Cooperation Organization (SCO), creata nel 2001 come una sorta di Controparte sino-russa dell’alleanza occidentale. Dal 2012 la Turchia ha lo status di “partner di dialogo” e Ankara aveva più volte espresso l’intenzione di diventare un giorno un membro a pieno titolo dell’organizzazione. Il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu è arrivato al punto di dire:“Con questa scelta dichiariamo di condividere lo stesso destino dei paesi SCO. La Turchia fa parte di una famiglia composta da paesi che convivono non da secoli, ma da millenni. “ Detto questo, la Turchia non intende cambiare un’alleanza con un’altra, ma piuttosto spera di espandere il proprio grado di autonomia. Resta il fatto che gli alleati della NATO non guardano molto favorevolmente alle esercitazioni militari congiunte ad Ankara, nello spazio turco, a volte con i cinesi, a volte con i russi.

Un certo numero di argomenti tecnici, con una dimensione altamente politica, interrompe regolarmente anche le relazioni NATO-Turchia. Al momento dell’istituzione dello scudo antimissile della NATO, la Turchia faceva affidamento sulla posizione geografica ideale di Kürecik, una stazione radar di preallarme, per imporre le sue condizioni: l’Alleanza non nominerà il ‘Iran o Siria (o qualsiasi altro paese vicino alla Turchia) come una minaccia esplicita; i dati raccolti non possono essere trasmessi a paesi terzi (Israele in questo caso); e un alto ufficiale turco sarà permanentemente di stanza presso il Centro di comando della NATO. Per quanto riguarda l’altro grande dossier “tecnico”, il sistema russo S400, l’Alleanza evidenzia i problemi di interoperabilità con i sistemi NATO, ma è l’albero che nasconde la foresta.

La Turchia inoltre non esita a prendere in ostaggio le politiche dell’Alleanza se ritiene che i suoi interessi siano stati danneggiati in un modo o nell’altro. A volte ricorre a minacce di chiusura o restrizione dell’accesso alle basi americano-NATO sul suo territorio. In altri casi, Ankara paralizza per mesi l’attuazione del piano di difesa per la Polonia e gli Stati baltici, blocca tutti i programmi di Partenariato per la Pace che coinvolgono l’Austria, restringe fortemente le possibili aree di consultazione e cooperazione tra UE e NATO, anche se significa generare singhiozzi operativi (come in Kosovo o in Afghanistan). Ciliegina sulla torta, durante la grande epurazione del 2016, a seguito del golpe fallito, Erdogan licenziò da un giorno all’altro la metà dei 300 soldati turchi distaccati nei comandi europei (cosa che non fu priva di problemi di gestione e di competenza, secondo il SACEUR dell’epoca, il generale americano Curtis Scaparotti ). E ancora, l’elenco è tutt’altro che esaustivo.

Le lamentele di Ankara

Da parte turca, l’immagine dell’Alleanza non è affatto più brillante. Secondo l’ultimo sondaggio transatlantico Pew pubblicato all’inizio del 2020, la Turchia è lo Stato membro in cui la NATO è di gran lunga la più impopolare, con solo il 21% di opinioni favorevoli (contro l’82% in Polonia). [ 9] La base del malcontento turco è stata a lungo la sensazione di essere un alleato di seconda classe. I turchi sentono che le politiche e le manovre di altri alleati li smascherano e li mettono in pericolo, senza che abbiano sempre voce in capitolo e senza essere difesi, se necessario, dalla NATO, in tal modo. affidabile e credibile.

In questo contesto, gli alleati sembrano ignorare le preoccupazioni turche su quella che Ankara vede come una minaccia esistenziale per il paese: la sfida curda. Da qui l’estrema tensione all’interno della NATO durante la guerra in Siria sulla definizione di terrorismo. Agli occhi della Turchia la situazione è grottesca: gli Stati Uniti hanno armato e addestrato le milizie curde siriane affiliate al PKK (riconosciuta come organizzazione terroristica sia dall’UE che dall’America), proprio per facilitarne la vita. usandoli come ausiliari in combattimento. Per gli alleati occidentali, l’ossessione curda per Ankara indebolisce la coalizione anti-Daesh e mette così in pericolo la lotta al terrorismo “reale”. La burocrazia della NATO, da parte sua, si nasconde dietro la formula universale:“Stiamo combattendo il terrorismo in tutte le sue forme” .

Di fronte all’aumento delle minacce e alla destabilizzazione del suo vicinato, la Turchia sente di ricoprire nuovamente il ruolo di un alleato affidabile che finirà per fare uno scherzo. Durante la prima guerra del Golfo nel 1991, Ankara accolse le richieste di Washington e le concesse l’uso gratuito della base di Incirlik per le operazioni aeree contro l’Iraq. E questo nonostante la massiccia opposizione dell’opinione pubblica e le dimissioni del Ministro degli Affari Esteri, del Ministro della Difesa e del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Nonostante ciò, è stata espressa riluttanza – in particolare dalla Germania – alla NATO per quanto riguarda la difesa della Turchia (in caso di contrattacco iracheno in risposta ai bombardamenti americani). Alla fine, l’Alleanza ha preso questa decisione, ma la sua credibilità, agli occhi dei turchi, ha subito una grave battuta d’arresto.

Ribellarsi nel 2003, durante i preparativi per l’invasione americana dell’Iraq. La Turchia questa volta ha deciso di non mettere a disposizione di Washington l’uso delle sue basi. Alla NATO, gli Stati Uniti vogliono adottare un piano di difesa per la Turchia, che Francia, Germania e Belgio rifiutano, sulla base del fatto che nelle circostanze ciò equivarrebbe ad avallare in anticipo la bellicosa avventura di America. Ancora una volta, la questione verrà risolta sotto la pressione americana e la Turchia riceverà rinforzi alleati, ma non senza un po ‘di amarezza. Da allora, e poiché la regione si è effettivamente scatenata da questa invasione, l’invocazione da parte della Turchia dell’articolo 4 del Trattato di Washington e la richiesta di dispiegamento di batterie Patriot sono diventate un esercizio quasi regolare. Anche in un modo

L’Alleanza nonostante tutto

Tra Ankara e NATO “è sempre stato un matrimonio di convenienza”, secondo James Jeffrey, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia. Da un lato, la posizione geopolitica unica della Turchia (al crocevia tra Europa, Medio Oriente e Caucaso, controllando l’accesso al Mar Nero) ha reso Ankara un alleato praticamente insostituibile a cui perdoniamo alcuni scherzi. D’altra parte, quella stessa posizione facile da incassare significa che la Turchia è nel mezzo di una polveriera. Ha quindi bisogno di questa alleanza occidentale anche per proteggersi da potenti vicini e come leva aggiuntiva per opporsi a loro. Per la NATO, l’intensificazione, sia per numero che per natura, delle azioni turche negli ultimi anni pone una questione delicata. Come afferma Muriel Domenach, ambasciatore francese presso la NATO:“Come possiamo tenere a bordo un alleato tanto indispensabile quanto indipendente, per non dire incontrollabile  ?  [10] Questo alla fine si riduce a una questione di dosaggio.

Piantagrane, ma a quale scopo?

Secondo il segretario generale aggiunto della NATO Camille Grand,  “in realtà, l’opinione di tutti gli alleati è che mantenere la Turchia a bordo della NATO oggi ha molti più vantaggi di quanto ne abbia. “svantaggi” . [11] Ha anche osservato: “A Bruxelles, alcuni dicono che è un po ‘come era la Francia, vale a dire un alleato che spesso dice di no, che fa domande, che difende i suoi interessi con molta energia ” . Apprezziamo, tra l’altro, l’uso del passato in termini di brio della Francia … Comunque, il confronto si ferma qui. Nel caso francese, le posizioni solitarie e “non ortodosse” facevano spesso parte di un’ambizione europea, mentre nel caso turco l’Europa è più un bersaglio.

(Credito fotografico: Getty Images su www.express.co.uk)

L’Europa nel mirino

Sarebbe difficile ignorare che, per la maggior parte, gli obiettivi turchi sono principalmente contro gli interessi europei. Il rapporto 2020 della Commissione di Bruxelles non dice altro quando osserva: “La politica estera della Turchia è sempre più in contrasto con le priorità dell’UE” . [12] Questo è incredibilmente vero per l’ UE . crisi nel Mediterraneo orientale. Essendo Grecia e Cipro membri dell’Unione europea, qualsiasi tentativo di sgranocchiare i loro confini, marittimi o meno, equivale a mettere in discussione quelli dell’UE. Questo è esattamente ciò che ha sottolineato Clément Beaune, segretario di Stato francese per gli affari europei:“La Turchia sta perseguendo una strategia consistente nel mettere alla prova i suoi vicini immediati, Grecia e Cipro e, attraverso di loro, l’intera Unione europea .  [13] Fin dall’inizio, la Francia ha visto questo come una questione cruciale per la politica europea. di solidarietà “nei confronti di qualsiasi Stato membro la cui sovranità venga contestata” . [14] Il ministro degli Affari esteri greco segue l’esempio insistendo sul fatto che “la Grecia difenderà i suoi confini nazionali ed europei, la sovranità ei diritti sovrani di “Europa” . [15]

Allo stesso modo, a causa dell’apertura delle frontiere interne in Europa, il ricatto migratorio riguarda in ultima analisi l’intera Unione. Minacciare, come fa il presidente Erdogan, di “lasciare andare” l’Europa dei quasi 4 milioni di migranti sul suo suolo è uno strumento di pressione particolarmente potente – e Ankara è pronta a eliminarlo al minimo inconveniente. In particolare, per evitare gravi sanzioni che l’UE potrebbe adottare in risposta alle sue attività ostili nel Mediterraneo, sia che si tratti dell’esplorazione di idrocarburi nelle acque territoriali greche e cipriote, sia del suo attivo sostegno alla violazione dell’embargo su armi destinate alla Libia.

Oltre ai trasferimenti di armi, la Turchia vi manda anche uomini. Come spiega il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian: “le forze che sostengono il presidente al-Sarraj sono organizzate dai turchi attorno alle milizie nella regione occidentale della Libia. Sono combattenti filo-turchi pagati e trasportati su aerei dalla zona di Idlib per combattere in Libia, sorvegliati da ufficiali turchi ” . E il ministro a suonare il campanello d’allarme:“È importante che l’Unione europea si renda conto che il controllo di questa parte dell’Africa settentrionale sarà assicurato da attori che non hanno gli stessi standard di sicurezza di noi né gli stessi interessi. Ci sono rischi qui per l’Europa in termini di sicurezza e sovranità, che si tratti di flussi migratori incontrollati o di minacce terroristiche “ . [16] Inutile dire che il pericolo che l’Europa sia in balia di potenze straniere che sarebbero in grado di aprire o chiudere a piacimento queste fonti di instabilità. L’ultimo affronto, Ankara ha rilevato l’addestramento della guardia costiera libica: un progetto in cui l’UE aveva già investito anni di sforzi e quasi 50 milioni di euro. [17]

Infine, gli europei subiscono l’interferenza turca nei loro affari interni, che prende il posto delle comunità turco-musulmane installate sul loro suolo. I governi che cercano di resistere, ad esempio vietando le campagne politiche interne turche sul loro territorio, sono descritti da Ankara come fascisti, nazisti, razzisti e islamofobi. È stato a causa di tale “attrito” in vista del referendum costituzionale turco del 2017 che Germania, Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno impedito che il vertice NATO del 2018 si tenesse in Turchia. Se le sporgenze di Erdogan sono solo la punta dell’iceberg, non sono meno istruttive. Che dire, infatti, di un alleato, che chiede agli immigrati di origine turca di avere tanti figli per vendicarsi delle ingiustizie e diventare“Il futuro dell’Europa  ?  [18] O chi lancia avvertimenti pericolosi: a meno che non cambino atteggiamento nei confronti della Turchia, gli europei non saranno in grado di camminare in sicurezza per le strade … [19]

La pretesa del presidente turco di essere la punta di diamante del mondo musulmano lo aveva già portato a importare queste questioni di “civiltà” nell’Alleanza. Anche se gli alleati erano impegnati contro i terroristi Daesh, gli ufficiali turchi, su istruzioni del loro governo, passavano il loro tempo a impedire che i documenti dell’Alleanza avessero alcun legame tra terrorismo e Islam. ] Allo stesso modo, Erdogan ha cercato di bloccare, nel 2009, la nomina di Anders Fogh Rasmussen alla carica di Segretario generale della NATO. Il suo crimine? Dopo la pubblicazione delle caricature di Maometto su un quotidiano danese, Rasmussen, allora primo ministro, non si scusò (a sufficienza) con il mondo musulmano. In particolare, ha avuto l’audacia di affermare:“In Danimarca attribuiamo un’importanza fondamentale alla libertà di espressione” . Anche se si è affrettato ad aggiungere: “Detto questo, rispetto profondamente i sentimenti religiosi degli altri. Da parte mia, non avrei mai scelto di disegnare simboli religiosi in questo modo ” . Tuttavia, è stato necessario l’intervento del presidente Obama perché Ankara revocasse il suo veto.

Europei con abbonati assenti

Certamente, la stessa Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, fa l’osservazione sulla Turchia: ”  se siamo geograficamente vicini, la distanza tra noi sembra continuare a crescere” . Per lo scenario più chiaro, quello in cui la Turchia minaccia esplicitamente i confini europei, ci assicura: “I nostri Stati membri, Cipro e Grecia, potranno sempre contare sulla totale solidarietà europea per tutelare i loro legittimi diritti in questo settore. di sovranità “. Tuttavia, anche su questo tema, pochi Stati membri, a parte la Francia, sono presenti quando si tratta di tradurre in azione questa proclamata solidarietà. Sia attraverso l’imposizione di sanzioni, sia attraverso adeguati schieramenti militari, come l’invio di navi da guerra francesi e aerei da combattimento nell’area. I partner europei vestono la loro inerzia dietro la facile formula secondo la quale “non dobbiamo soprattutto alienare la Turchia” . Tuttavia, non si dovrebbe scavare troppo in profondità per trovare altri motivi.

La Germania è un caso da manuale. È estremamente discreta sui temi più sfortunati che coinvolgono la Turchia, pur offrendo i suoi servizi di “mediazione”. Strana confusione di ruoli da parte di Berlino che, pur assumendo la presidenza di turno dell’Unione Europea, preferisce non prendere posizione quando un alleato extracomunitario, la Turchia, usa manovre intimidatorie per per quanto riguarda due paesi dell’UE, Cipro e Grecia. Inoltre, piuttosto che parlare a sostegno dei suoi partner dell’UE, la Germania sembra prevenuta a favore dell’altra parte. A causa degli strettissimi legami economici e migratori che si sono intessuti tra Berlino e Ankara, oggi è troppo esposta alle pressioni turche per poter agire come arbitro imparziale. Ospita una diaspora turca di circa 4 milioni di persone,

Per finire, la Germania e la maggior parte dei paesi europei hanno in mente un’altra considerazione quando sono riluttanti a rispondere seriamente alle provocazioni del presidente Erdogan. La cancelliera Merkel è arrivata a un vertice dell’UE dedicato a rispondere alle provocazioni turche, dicendo fin dall’inizio che non aveva intenzione di colpire troppo duramente le sanzioni perché, ha voluto ricordare : “La Turchia è un alleato della NATO”. Il desiderio di non seminare discordia nell’Alleanza ha la precedenza, come spesso, sugli interessi propriamente europei. Gli alleati europei non vogliono in particolare indebolire ulteriormente una NATO già vacillante (recentemente sotto i colpi del presidente Trump) ma che considerano ancora, a torto oa ragione, la garanzia ultima della loro difesa.

L’America con le sue priorità

L’Alleanza, per definizione, non è mai stato il forum più in grado di arginare le inclinazioni turche, per il semplice motivo che la Turchia, in quanto Stato membro, ha proprio lì il diritto di veto. Al di là di questa verità lapalissiana, è la posizione degli Stati Uniti che spiega ampiamente il silenzio e la procrastinazione della NATO sui numerosi fascicoli controversi che coinvolgono l’alleato turco. Di questi, solo due sono considerati dall’America come problemi seri. La prima è la questione curda, con Washington che difficilmente si rende conto che le preoccupazioni di Ankara ostacolano i suoi piani e le sue attività nella regione, sia in Iraq che in Siria. Il secondo riguarda l’acquisto da parte della Turchia del sistema di difesa antiaereo russo S400.

Ironia della sorte, anche su questi due temi che si oppongono soprattutto turchi e americani, sono ancora gli europei a rischiare di pagarne le spese. Quando la NATO ha rifiutato di designare le milizie curde siriane come gruppi terroristici, è stato il piano di difesa per i paesi baltici e per la Polonia che è stato tenuto in ostaggio per molti mesi dalla Turchia. Allo stesso modo, se gli Stati Uniti spingono per l’imposizione di sanzioni contro i turchi a causa dell’acquisto di attrezzature russe, una delle prime ritorsioni di Ankara contro “l’Occidente” sarà necessariamente ricorrere a al ricatto migratorio alle frontiere dell’UE, ancora una volta. L’Europa, geograficamente esposta e politicamente paralizzata, è l’obiettivo ideale della Turchia.

A parte la questione curda e l’S400, gli Stati Uniti guardano altri soggetti da lontano, avendo in mente le proprie priorità. Tutto ciò che aiuta a isolare la Russia, arginare la Cina e mantenere l’Europa sotto tutela è il benvenuto. La Turchia occupa una posizione chiave su tutti e tre i fronti: guardiano sul fianco meridionale della Russia, tenendo lo stretto del Bosforo e dei Dardanelli; un collegamento cruciale nei piani della Cina per la Nuova Via della Seta; e fonte permanente di confusione nelle ambizioni della difesa europea, Ankara ha quindi ancora molte carte in mano.

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Da questo panorama complesso emerge un fatto ovvio: NATO ed Europa non sono la stessa cosa. La presenza della Turchia nell’Alleanza atlantica, e la distanza geografica dagli Stati Uniti, fanno sì che per gli europei la NATO non sia, lontano da essa, il foro ideale per trattare argomenti che riguardano Ankara. È anche con questa idea in mente che la Grecia ha insistito su un dettaglio significativo nel trattato UE. In particolare inserire, tra gli obiettivi della politica estera e di sicurezza, la “salvaguardia dell’integrità dell’Unione”, in altre parole la difesa delle frontiere esterne. Questo elemento – peraltro spesso ignorato, eppure ricco di possibili ramificazioni – è stato aggiunto nel Trattato di Amsterdam del 1997, su esplicita richiesta di Atene, che non è affatto sfuggita ai leader turchi.

Non appena la Turchia se ne è impossessata, con gli accordi NATO-UE sospesi per l’approvazione di tutti gli alleati, una delle condizioni poste da Ankara è stata la promessa che le forze dell’Unione Europea non saranno mai usate contro uno Stato membro. dell’Alleanza. La Turchia voleva impedire alla Grecia, poi affiancata da Cipro dopo la sua adesione all’UE, di poter coinvolgere militarmente l’intera Unione nelle loro controversie. Al termine di due anni di trattative, è stata fatta la promessa, con lo strano impegno, richiesto dalla Grecia in nome del principio di reciprocità, che nemmeno la NATO attaccherà mai un Paese dell’Unione Europea. Ad ogni modo, questi dettagli dicono molto sulla netta distinzione tra le due organizzazioni, nonostante il fatto che 21 stati siano membri di entrambe. Sul caso turco,

Per Washington, a differenza dell’Europa, l’importanza della questione turca è abbastanza relativa. L’America può permettersi un approccio più distaccato e più libero. Certo, Ankara è un alleato di prim’ordine nel contrastare le inclinazioni russe, iraniane o cinesi, o anche le timide ambizioni europee di autonomia strategica. D’altra parte, è improbabile che gli Stati Uniti si trovino sotto la pressione diretta della sicurezza sia ai suoi confini che al loro interno, a causa di possibili animosità della Turchia. Il loro principale avversario è la Cina, e in una certa misura ancora la Russia. L’America sta osservando attraverso questo prisma le manovre in Medio Oriente, in termini di concorrenza, isolamento e contenimento da Mosca e, soprattutto, Pechino. Finché la Turchia contribuisce, avrà il suo posto nella NATO, rimarrà un utile alleato. Ma le sue azioni non devono disturbare troppo la disciplina dell’Alleanza, che spinge gli europei a prendere le distanze, il che impedirebbe il loro reclutamento dietro Washington, sotto la bandiera della NATO, nella competizione tra le grandi potenze. Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta rispose al giornalista che gli chiedeva cosa influenzi maggiormente la politica del governo: Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta rispose al giornalista che gli chiedeva cosa influenzi maggiormente la politica del governo: Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta ha risposto al giornalista che gli ha chiesto cosa influenza maggiormente la politica del governo:“Gli eventi, mio ​​caro ragazzo, gli eventi” …

(Hajnalka Vincze, Turchia nella NATO, tra utilità e ostilità, Nota IVERIS, 26 novembre 2020)

Note:
[1] Audizione di Jean-Yves Le Drian, ministro per l’Europa e gli affari esteri, davanti alla commissione per gli affari esteri dell’Assemblea nazionale, Parigi, 7 ottobre 2020.
[2] Ministro degli affari esteri degli Stati Uniti John Kerry aveva già lanciato l’idea di una sospensione nel 2016 e il ministro della Difesa Mark Esper ha rivelato alla fine del 2019 che anche lui aveva avvertito Ankara che il suo mantenimento nella NATO era in pericolo. Da parte della Francia, l’ex presidente François Hollande, chiede di sospendere la partecipazione turca alla NATO. Per il ministro Le Drian serve una “grande spiegazione”, perché “non sappiamo più se la Turchia è nell’alleanza, fuori dall’alleanza o al suo fianco. “
[3] Tavola rotonda all’Assemblea nazionale, 27 novembre 2019.
[4] Jean-Sylvestre Mongrenier, Lo stato turco, il suo esercito e la NATO: amico, alleato, non allineato?, Hérodote 2013/1.
[5] Idem.
[6] Tavola rotonda all’Assemblea nazionale, 27 novembre 2019.
[7] Trascrizione: Emmanuel Macron nelle sue stesse parole (francese) – Intervista del presidente francese a The Economist, 7 novembre 2019.
[8] Audizione di SE Ismaïl Hakki Musa, ambasciatore turco in Francia, alla commissione per gli affari esteri e la difesa del Senato, 9 luglio 2020.
[9] NATO vista favorevolmente negli Stati membri, Pew Research Center, 9 febbraio 2020.
[10] Audizione di Muriel Domenach alla Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato, 18 dicembre 2019.
[11] Tavola Rotonda all’Assemblea Nazionale, 27 novembre 2019.
[12] Rapporto sulla Turchia 2020, Commissione europea, 6 ottobre 2020.
[13] Audizione di Clément Beaune, Segretario di Stato per gli affari europei, alla Commissione per gli affari europei dell’Assemblea nazionale, 17 settembre 2020.
[14]
Comunicato stampa dell’Elysee, 12 agosto 2020. [15] Alleati della NATO si scontrano nel Mediterraneo, Fr24news, 26 agosto 2020.
[16] Situazione nel Mediterraneo – Audizione di Jean-Yves Le Drian, Europa e Affari Esteri, alla Commissione Affari Esteri e Difesa Nazionale del Senato, 8 luglio 2020.
[17] Nicolas Gros-Verheyde, La formazione della Guardia Costiera libica: nelle mani dei turchi? Cattivo segnale per gli europei, Bruxelles2, 25 ottobre 2020.
[18] “You Are the Future of Europe”, Erdogan Tells Turks, New York Times, 17 marzo 2017.
[19] Erdogan avverte che gli europei “non cammineranno sani e salvi” se l’atteggiamento persiste, mentre la discussione continua, Reuters, 22 marzo 2017 .
[20] Kamal A. Beyoghlow, Turchia e Stati Uniti sul Brink, US Army War college, gennaio 2020, p44.

https://www.iveris.eu/list/notes/525-la_turquie_dans_lotan_entre_utilite_et_hostilites

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