TELLURICI O COSMOTERRORISTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

TELLURICI O COSMOTERRORISTI

Ci si interroga sulle intenzioni dei talebani, ma senza particolare interesse al dubbio se cercheranno di esportare il conflitto oltre l’Afghanistan ovvero di rimanere nei confini del loro Stato. La domanda non è peregrina e coinvolge concetti, criteri e presupposti del pensiero politico e del diritto internazionale.

Scrive Schmitt nella “Teoria del partigiano” che il partigiano ha carattere tellurico “Tale caratteristica è importante per definire la posizione del partigiano la quale, a prescindere da ogni mobilità tattica, rimane fondamentalmente difensiva; ed egli deforma la sua natura quando fa propria un’ideologia di aggressività assoluta e tecnicizzata o vagheggia una rivoluzione mondiale…” e aggiunge relativamente a come distinguere il partigiano “è indispensabile fondarlo sul carattere tellurico, per rendere più evidente nello spazio la difensiva, cioè la limitatezza dell’ostilità e preservarla dalle pretese assolute di una giustizia astratta”. Questo lo differenzia da altre “categorie” di combattenti irregolari come il pirata o il corsaro, per necessità non-tellurici in quanto operano in un altro “spazio”, il mare. Tuttavia “Con l’ausilio della motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente. Nelle situazioni provocate dalla guerra fredda egli diventa un tecnico del combattimento clandestino, un sabotatore e una spia… La motorizzazione fa perdere dunque al partigiano la sua connotazione tellurica ed egli finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente su un piano mondiale”.

E con la “motorizzazione” e le possibilità che offre tende ad appannarsi il carattere difensivo del partigiano e della guerra partigiana.

Il connotato difensivo del partigiano non andò smarrito neanche dopo che la guerra partigiana divenne – per lo più – il mezzo di un’ostilità ideologica assoluta come durante la guerra fredda, specie da parte del blocco comunista. In effetti nessuna delle lotte partigiane, né dei capi, giunse a mutarne il carattere prevalentemente difensivo. Né Mao, né Ho Chi Min né il Fln algerino o l’Irgun hanno condotto operazioni offensive nel territorio del nemico.

Questo è cambiato con Al-Qaeda e con parte del terrorismo islamico contemporaneo: ormai è normale che ad un’occupazione militare da parte di una potenza (anche in mancanza) si risponda con attentati terroristici offensivi (dalle Torri gemelle al Bataclàn).

Vent’anni fa, in occasione dell’attentato alle Twin Towers mi capitò di scrivere che il successo dell’attentato era stato determinato: a) dalla sostanziale invulnerabilità di Al-Qaeda, gruppo terroristico senza popolazione e territorio, onde era quanto mai difficile organizzare una reazione b) il tutto lo distingueva dai movimenti partigiani, i quali, come insegna Santi Romano, hanno gli stessi elementi caratteristici dello Stato, solo in misura poco determinata e fluttuante.

Onde se era vero che ciò assicurava a Bin Laden un vantaggio militare, costituiva un handicap politico, impedendone o rinviando sine die la conversione in istituzione.

Non così sembra per i talebani, in questo assai più vicini ai movimenti partigiani “classici”. La prima volta che conquistarono il potere, la dinamica e il contesto sia della lotta contro l’occupante sovietico che della fase successiva per i talebani – come per gli altri movimenti afgani di resistenza, il rapporto con la popolazione e territorio era costituito almeno con i territori occupati dai gruppi etnici di riferimento (per i talebani i pastun).

Il fatto che i talebani avessero così compiuto il percorso “canonico”, diventando forza al governo dello Stato afgano, ne provocò la rovina. Dando protezione e asilo a Bin Laden e rifiutandosi di consegnarlo agli USA, si assunsero così la responsabilità politica, normale nel diritto internazionale, del territorio e di quando vi succedeva.

Da qui l’intervento americano, che, a quanto risulta dai mass-media – non riusciva a pacificare e a controllare (se non in parte) – il territorio del paese – né a consolidare il governo insediato dall’occupante.

Le zone “libere” (ossia controllate dai movimenti di resistenza), probabilmente la maggior parte del territorio, e la popolazione lì residente continuava ad essere il “santuario” dei partigiani. Santuario fluttuante, ma pur sempre accomunante il movimento partigiano all’istituzione statale.

Anche se la resistenza afgana – al contrario di Al-Qaeda così poteva fruire solo relativamente dei suggerimenti di Sun-Tzu. Questi sostiene che di fronte al nemico ci si deve assottigliare… “più del sottile fino a rendersi privi di forma… Soltanto così saremo in grado di diventare gli arbitri del loro (dei nemici) destino” e questo perché “Il Nemico manifesta una forma e con ciò si rende umano. Io invece sono privo di forma”; “dimodoché per quanto concerne la forma dell’azione militare, in guerra cioè, si attinge propriamente l’enfasi con l’assenza di forma”; da ciò conclude “Insomma per quanto concerne l’azione militare una forma siffatta è quella che si assimila all’acqua” (i corsivi sono miei).

Quest’anno la situazione si è ripetuta: i talebani hanno ottenuto il governo dell’Afghanistan: sono così divenuti la classe dirigente dell’istituzione statale. Di conseguenza hanno riacquistato sia la responsabilità conseguente che l’obbligo politico di protezione della popolazione. A quanto risulta, pare abbiano capito la lezione del 1998-2001. Tutto sommato le azioni terroristiche compiute in occasione della sgombero delle forze occidentali e dei loro alleati locali sono state opera di altri gruppi di resistenza islamica, noti per averle praticate anche altrove.

Occorre trarre da ciò che l’insegnamento della teologia cristiana e controriformata, la quale tanto ha influenzato il diritto internazionale westphaliano ha ancora una sua validità: sia che bellum defensivum semper licitum, onde non si può tacciare di jniustus hostis chi difende il proprio territorio e la propria gente; e che fare guerra per violazione dei diritti (non dei propri sudditi o cittadini) ma degli altri (ad vindicandas iniurias totius orbis) è illecito: neque a deo data est necque ex ratione colligitur. E cioè un (aduso) pretesto che cerca di giustificare un intervento militare non meglio argomentabile. Di converso rispondere ad azioni aggressive è sempre consentito.

Così quando sentiamo in TV che i talebani avrebbero imposto il burqa o disposto che le scuole non siano miste, e se ne mena scandalo, mi rallegro. Personalmente sono convinto che facciano di peggio, ma se le malefatte fossero limitate a quelle non posso che riconoscere che condizione della pace è (da sempre) che ognuno decida di come vivere a casa propria.

Teodoro Klitsche de la Grange

Vincere senza combattere. Cultura strategica cinese Alban Wilfert di Alban Wilfert

Alcuni sono preoccupati per il rischio di una guerra imminente tra Stati Uniti e Cina, potenze mondiali all’inizio del 21° secolo. Se la Cina sta investendo sempre di più nel suo esercito, il primo al mondo per numero, è l’unico membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu a non aver sparato un colpo fuori dai suoi confini dal 1988. L’atteggiamento cinese di non fare la guerra si basa su una vecchia cultura strategica caratterizzata da una certa continuità, ma regolarmente rinnovata.

 

Studiare la cultura strategica cinese significa mettere in discussione il modo in cui la Cina affronta la strategia sia come stato dotato di mezzi militari sia come società che produce un pensiero. La strategia, definita da Georges-Henri Soutou come “l’arte della dialettica delle volontà e delle intelligenze che impiega, tra l’altro, la forza o la minaccia di ricorrere alla forza per fini politici”, consiste non solo nell’uso della forza, ma anche nel il suo semplice potenziale, che riesca o meno, che è illustrato dal caso cinese.

Il pensiero strategico antico quanto al centro delle notizie

Il più antico trattato di strategia che ci sia pervenuto, L’arte della guerra di Sun Tzu, proviene dalla Cina. Sembra sia stato scritto intorno al V secolo aC, epoca degli Stati Combattenti, stati principeschi che risolvono le loro controversie con le armi in pugno. La guerra vi passa dalla mischia rudimentale ad una questione di eserciti permanenti, diversificati e professionali, favorevoli all’espressione dei talenti individuali degli ufficiali. Sun Tzu dispensa poi consigli che, se mirano a prevalere in questo nuovo paradigma, lo superano al punto che, più di duemila anni dopo, lo stratega britannico Liddell-Hartscrive che “non sono mai stati superati in ampiezza e profondità di giudizio”. Sun Tzu, infatti, vede la guerra come “una questione di vitale importanza per lo Stato”, onnipresente e non anormale, ma non professa un uso illimitato e permanente della forza. Al contrario, con lui, il combattimento è solo l’ultima risorsa, quando l’uso dell’astuzia, per “attaccare i piani del nemico” e le sue “alleanze”, non è stato sufficiente. . Devi conoscere il tuo nemico, per mezzo di spie. Al contrario, è necessario fingere debolezza quando siamo forti e forza quando siamo deboli. “La guerra si basa sull’inganno” e l’apice dell’abilità è vincere senza combattere, non “conquistare cento vittorie in cento battaglie”. In questo modo, “Un esercito vittorioso è vittorioso prima di cercare il combattimento”. Una guerra prolungata non può essere vantaggiosa per lo stato, quindi prendere una città intatta è meglio che iniziare un lungo e costoso assedio, e “ci sono strade da non prendere, truppe da non colpire, città da non colpire. assalto e terra da non contestare”. L’interesse prevale e il desiderio di sorpresa non deve mai portare a rischi avventati. A volte è meglio lasciare che il nemico prenda una città, per raggiungere obiettivi a lungo termine più importanti, e meglio un generale razionale che disobbedisca al sovrano quando necessario, piuttosto che un signore della guerra senza paura. Soprattutto bisogna sapersi adattare alle situazioni esistenti. Questo consiglio generale permette ai precetti del Maestro Sole un’eterna giovinezza. Il suo pensiero è un pensiero delle variazioni, del circostanziale:

È evidente l’influenza dei tredici capitoli sulla Cina fino all’epoca della Repubblica Popolare Cinese (RPC) che nacque, nel 1949, dalla vittoria dei comunisti nella guerra civile che li opponeva ai nazionalisti del Kuomintang ( KMT). Dopo il disastro di Nan Ch’ang, Mao Zedong preferì seguire il consiglio di Sun Tzu piuttosto che gli ordini del Comitato Centrale del Partito, iniziando dall’ottobre 1934 all’ottobre 1935, la Lunga Marcia, un vasto ritiro di 10.000 km verso il nord-est della Cina volto ad evitare combattere contro un nemico meglio posizionato con l’iniziativa. Mao ha quattro slogan affrontati: “Il nemico avanza – noi ci ritiriamo, il nemico si ferma – lo preoccupiamo, il nemico è esausto – lo colpiamo, il nemico si ritira – lo inseguiamo!” “. In effeti, la manovra permette di passare dialetticamente dalla difensiva alla controffensiva, un tempo sulle montagne del nord dove la popolazione è favorevole ai comunisti e il nemico lontano dalle sue basi. Lì, fuorviato dall’eccessiva fiducia in se stesso che lo ha guadagnato a furia di perseguire un’Armata Rossa che credeva debole, viene sconfitto.

La strategia che Mao poi fa seguire al regime rimane, tra le righe, intrisa di questo pensiero antico. La “strategia di autodifesa nucleare”, che mira a realizzare una forza deterrente dal debole al forte mediante il possesso di un arsenale nucleare sufficiente a infliggere al nemico danni dello stesso ordine di quello che provocherebbe con un attacco nucleare, dà rinnovata rilevanza al consiglio di usare la forza solo come ultima risorsa.

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Forza dentro, diplomazia e sotterfugio fuori? Cultura strategica in azione

L’impero cinese, che durò dal III secolo aC al 1911, voleva essere tian xia, padrone di “tutto ciò che è sotto il cielo”. Da questa pretesa simbolica di universalità scaturiva una visione concentrica del mondo. Il primo cerchio comprendeva lo spazio imperiale delimitato e l’ultimo l’esterno del mondo cinese; in mezzo c’erano i vicini stati tributari, l’ultimo cerchio in cui l’Impero si riservava il diritto di intervenire. Anche se questo non è un espansionismo in stile occidentale, dal momento che la Cina non ha imposto la sua cultura agli altri con la forza, la sua strategia difficilmente si è discostata da questa concezione. La spedizione dell’ammiraglio Zheng He in Africa nel XV secolo non ha mai visto un futuro: l’ultimo intervento cinese al di là dei mari risale al XVII secolo. A volte ancoraMao Zedong come Tchang Kaï-shek ha quindi cercato di unificare il Paese con l’uso della forza, la Cina volendo essere uno Stato multinazionale comprendente minoranze etniche: è fuori discussione per lei lavorare per compromessi con i “briganti”. separatisti “che potrebbero minare lo Stato. La notizia ci mostra quali atrocità possono provocare sulla popolazione uigura.

I passati interventi esterni della Cina hanno risposto alla stessa logica: evitare il caos interno. L’invio di truppe in Corea nel 1950 mirava a stabilizzare il regime contro le forze interne “controrivoluzionarie” che potevano emergere rafforzate da una vittoria del campo capitalista. L’uso della forza all’estero, anche per le ostilità ideologiche della Guerra Fredda, risponde a un preciso obiettivo strategico, legato all’interno della cerchia ristretta.

Le grandi vittorie cinesi sono però frutto della diplomazia. Nel 1997 e nel 1999, Hong Kong e Macao sono state rispettivamente cedute dal Regno Unito e dal Portogallo, unendo la RPC con lo status di regioni amministrative speciali (SAR) che consente loro di mantenere le loro specificità e la loro autonomia per 50 anni. Tuttavia, il giorno stesso di queste retrocessioni, l’Esercito Popolare di Liberazione (APL) entrò in questi territori, contrassegnandoli come appartenenti alla cerchia unificata ex-imperiale. Nel 2019 e nel 2020, le proteste di Hong Kong vedono Pechino minacciare di impiegare l’esercito in caso di richiesta del governo locale, lo status di SAR subordinando ad esso l’uso della forza militare e quindi ostacolando una cultura strategica che lo prevede, anche per il mantenimento dell’ordine – ricordiamo la repressione di piazza Tienanmen. Questo è il principio di Deng Xiaoping, “un paese, due sistemi”, che dovrebbe valere anche per Taiwan.

One China: cultura strategica messa alla prova della questione taiwanese

La questione taiwanese è una delle maggiori questioni strategiche nella Cina contemporanea. Recuperata dal Giappone nel 1945, Taiwan fu vinta alla fine della guerra civile dal KMT, sconfitto in terraferma, che prese Taipei come sua capitale provvisoria. Taiwan è, oggi, l’unica vestigia del regime nazionalista, e il suo governo continua a sostenere di essere “Repubblica di Cina”, non riconoscendo la RPC, mentre quest’ultima considera l’isola di Taiwan come propria. La “politica della Cina unica”, secondo la quale sia la terraferma che l’arcipelago taiwanese fanno parte dello stesso Paese, paradossalmente è un consenso su entrambi i lati dello stretto, ma i due regimi ovviamente differiscono su chi dovrebbe governare questa Cina. .

Come raggiungere allora l’unità? “La politica migliore è mantenere intatto lo stato”, ha affermato Sun Tzu: sarebbe costoso e rischioso per i due regimi rivali fare i conti l’uno con l’altro mentre mirano all’unità cinese. Prima è necessario “attaccare la strategia del nemico” poi “fargli rompere le sue alleanze”. Infatti, la RPC si afferma rapidamente come una potenza geopoliticamente incomparabile rispetto alla sua rivale, e si impegna in un gioco performativo sul principio di una Cina, ponendosi come prerequisito per l’apertura di relazioni bilaterali con qualsiasi paese terzo. come unico governo della Cina. Nel 1971 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo riconobbe come tale, portandolo a sostituire il regime nazionalista nel Consiglio di Sicurezza. La visita del 1972 del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon rappresenta una vittoria diplomatica e strategica. Sette anni dopo, gli Stati Uniti a loro volta riconobbero il regime, promulgando ilTaiwan Relations Act che li impegna a “garantire la sicurezza dell’isola, della sua gente, del suo sistema economico e sociale”. Ricordano così a Pechino che, se viene riconosciuto come il governo legale della Cina, questo non potrebbe necessariamente costituire un assegno in bianco per un’invasione. La RPC non ha raggiunto pienamente i suoi fini diplomaticamente, quindi si impegna in spese militari e dimostrazioni di forza. Che abbia o meno intenzione di attaccare Taiwan, sa che abbassare la guardia correrebbe il rischio di una dichiarazione di indipendenza, in cui l’isola sarebbe invasa dalla legge anti-secessione del 2005.

Questi ultimatum da entrambe le parti sembrano impedire qualsiasi uso della forza e vedono il perpetuarsi di una Taiwan di fatto indipendente se non de jure, ma non si tratta di un vero e proprio status quo: di comune accordo, i legami tra le due sponde sono sempre più vicino, la circolazione di capitali e turisti tra continente e arcipelago aumenta. Le economie guadagnano in integrazione, favorendo una possibile futura unificazione secondo il principio “un Paese, due sistemi” rispettoso delle loro differenze. La RPC diluisce gradualmente il suo rivale in sé, dandogli un cappio a lungo termine. Negoziando con il KMT anche quando quest’ultimo è all’opposizione, gioca sulle divisioni politiche taiwanesi. Se, secondo Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi,

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Sviluppo pacifico?

La Cina sembra ancora fedele al principio di non ingerenza negli affari di un Paese situato al di fuori del mondo cinese, in linea con la natura ormai illegale dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. In questo contesto, la cultura strategica cinese oggi conosce per la sua declinazione il concetto di “sviluppo pacifico”, sviluppato intorno al 2005 all’interno della rete di istituti di ricerca e think tank cui si ispira il Partito Comunista Cinese (PCC) per la sua strategia estera. e teorie americane delle relazioni internazionali. Questo approccio prevale nella ricerca “di una situazione quanto più favorevole possibile ai suoi interessi economici e strategici”.

Nel 2013, denunciando l’ancora significativa presenza americana nella regione indo-pacifica, Xi Jinping ha proposto ai Paesi della regione “principi fondamentali per la strategia di buon vicinato”: lo sviluppo di relazioni amichevoli, la ricerca della sicurezza e della prosperità comune, relazioni vantaggiose e non esclusive. I paesi dell’Asia sarebbero legati da una “comunità di destino” nei loro rispettivi interessi. In effetti, l’integrazione delle rispettive economie è evidente, soprattutto a favore della Cina. Allo stesso tempo, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, creata nel 2001, le consente di rafforzare le sue relazioni con i suoi vicini, a fronte di una NATO presente in Asia centrale. Ci sono inclinazioni cinesi non per l’espansionismo, termine usato da alcuni pensatori americani, ma per proteggere i confini. È un “pericoloso gioco delle alleanze” quello della Cina, che porta aiuti economici e militari a un Pakistan con cui condivide una certa animosità per l’India, mantenendo così un “triangolo nucleare” tra le tre potenze. Il PLA non gioca un ruolo minore negli equilibri geopolitici regionali, come dimostra la strategia della “collana di perle”, consistente nella creazione di basi navali nel Mar Cinese Meridionale e nell’Oceano Indiano. Alcuni di loro situati nei territori di altri paesi e in aree contese, costituiscono staffette cinesi in tutta la regione. Nel 2017, per la prima volta, è stata aperta una base militare terrestre al di fuori della Cina, a Gibuti. La Cina è stabilita al di là dei mari, minacciando gli stati confinanti sconsiderati di attaccarlo. Si tratta di raggiungere un’egemonia regionale, la cui manifestazione è in parte di natura militare. Il decimo dei Trentasei stratagemmi, trattato cinese del Medioevo riscoperto nel XX secolo, raccomanda di “nascondere una spada in un sorriso”. La cultura strategica cinese, che promuove non solo la diplomazia, ma attraverso di essa una forma di doppio gioco, trova oggi, nella geopolitica dell’Indo-Pacifico, un terreno favorevole per la sua espressione.

Oltre la guerra, ai confini del mondo

La Cina è in prima linea nell’anticipare la guerra futura. La sua cultura strategica ha subito un significativo rinnovamento intellettuale subito dopo la Guerra del Golfo, con la pubblicazione dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsuidi La guerra fuori dai confini. Gli ufficiali del PLA prendono atto del fatto che, d’ora in poi, “l’umanità dà a qualsiasi spazio il senso di un campo di battaglia”, che ora è “ovunque”. La nuova guerra sarà caratterizzata da un crescente offuscamento dei suoi confini con la non guerra, sarà “qualcosa che non abbiamo mai considerato come guerra”, mobilitando risorse civili preesistenti in campo cibernetico, finanziario o commerciale, nelle mani di un “combattente digitale”. Senza una forma chiara, la guerra sarebbe ormai “fuori limite”, ed è una “nuova arte della guerra” – noteremo il riferimento a Sun Tzu -, che comprende tutti questi campi, che dovrebbe essere padroneggiata per vincita. Ci deve essere una coerenza, un uso combinato ponderato di questi mezzi basati su una “singola volontà”, dicono, usando le parole di Yu Fei, generale del XII secolo. Si attualizza così una cultura strategica che promuove l’uso delle armi solo se gli approcci non militari si sono rivelati inefficaci e raccomanda l’uso combinato della “forza ordinaria” (Cheng) e della “forza straordinaria” (Ch ‘i). La forza è ormai solo un frammento, un aspetto tra gli altri della guerra.

Lo ha capito bene lo Stato cinese, che investe costantemente in settori destinati a essere al centro della prossima guerra, in primis quello spaziale. Nel 2007 ha dimostrato, con la distruzione con un lancio di missili anti-satellite di uno dei suoi dispositivi, situato a 850 km di distanza, le sue capacità di attacco nello spazio, che investe e militarizza a tal punto da competere con gli Stati Uniti: vi ha lanciato 260 tonnellate nel decennio 2010-2020. Dal 2015, la forza di supporto strategico, una nuova componente del PLA, è responsabile dello spazio, oltre che del dominio cibernetico. Innovando in termini di pensiero e progresso tecnologico e scientifico, la Cina si sta affermando come una potenza leader in vista delle ostilità, militari e non, a venire.

Da alcuni decenni, infatti, il pensiero strategico cinese investe anche il campo dell’economia e del commercio, che ormai sono un mezzo privilegiato di espansione. Conosciamo i successi della politica economica e commerciale portata avanti dalla RPC dagli anni 1970. Nel 2013 è stato presentato il progetto One Belt One Road (OBOR), ora Belt and Road Initiative (BRI), che mira a sviluppare il commercio interno al continente eurasiatico attraverso un “corridoio economico” che collega la Cina all’Europa occidentale attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente, attraverso grandi progetti infrastrutturali. Questa “nuova via della seta”, così chiamata in riferimento a un tempo glorioso per la Cina, concretizza la “Grande Strategia Nazionale” definita dal generale Liu Yazhou, che chiamava nel 2001 ad “avanzare verso ovest” attraverso un “ponte terrestre tra Europa e Asia” per neutralizzare l’accerchiamento americano della Cina. Questa riflessione, radicata nel XXI secolo, non è da meno parte della tradizione di una strategia che preferisce aggirare il confronto frontale, facendo prendere in prestito beni e servizi a strade non controllate dagli Stati Uniti. Oltre agli interessi commerciali, spetta infatti alla Cina affermarsi come potenza indipendente, a capo di un ordine internazionale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti. Non tutti gli stati interessati vi aspirano, alcuni lo vedono come un mezzo per la Cina al servizio dei suoi soli interessi, non ignorando l’arte dell’ambiguità e dell’occultamento che è al centro della sua cultura strategica. .PCC , dal 2007, del soft power cinese, con lo sviluppo, prima nel sud-est asiatico, di istituti Confucio e scambi con università e centri culturali. Nel 2008 il Paese ha ospitato i Giochi Olimpici e l’Esposizione Universale, in linea con la diplomazia del ping-pong che ha contribuito al suo riavvicinamento con gli Stati Uniti. La Cina, che sa che in URSS mancava il soft power, ha compreso l’interesse di questo processo che, pur non violento, non va contro la sua tradizione strategica.

La Cina vuole la guerra? Niente è meno sicuro. La cultura strategica cinese promuove il dirottamento piuttosto che il confronto, mira a raggiungere i suoi obiettivi senza ricorrere alla forza. Questo pensiero trova oggi espressione concreta negli obiettivi della Repubblica Popolare Cinese sulla sua regione, obiettivi di unità ed egemonia, ma non di conquista. Forse non accetterebbe il colpo di una guerra frontale, convenzionale, contro gli Stati Uniti: infatti, i suoi obiettivi strategici non sono questi. Di fronte a una potenza americana che dedica enormi risorse alle guerre all’estero senza necessariamente raggiungere i propri fini, la Cina può segnare punti contestando l’ordine internazionale. È tanto, se non di più, per questa sua strategia a lungo termine che per la sua forza bruta, che sarebbe sbagliato sottovalutarla.

https://www.revueconflits.com/vaincre-sans-combattre-la-culture-strategique-chinoise/

Quanto sono realmente l’Europa e la Francia dipendenti dagli Stati Uniti? Intervista

Quanto sono realmente l’Europa e la Francia dipendenti dagli Stati Uniti?

Joe Biden ha intrapreso un importante tour europeo. Mentre la sua elezione ha sollevato le speranze di una luna di miele riconquistata dopo la presidenza Trump, i suoi primi 10 mesi in carica hanno smorzato le speranze.

Atlantico: Joe Biden inizia un nuovo tour diplomatico in Europa. Come scrive Gilles Paris su Le Monde, “Joe Biden aveva sbandierato il ritorno della leadership americana, ma tarda a manifestarsi”. È questa un’opportunità per l’Unione europea di accettare l’idea di un ritiro degli interessi statunitensi nei confronti del vecchio continente? Quanto è stata forte la disillusione dopo 10 mesi di presidenza Biden?

Cyrille Bret: In un anno, gli europei sono passati da un entusiasmo eccessivo a un’amarezza impotente nei confronti della presidenza Biden. Nell’autunno del 2019, gli europei hanno chiesto l’elezione di Joe Biden contro il presidente uscente Donald Trump. La speranza ha lasciato il posto al sollievo durante il periodo di transizione tra novembre e gennaio. Il candidato Biden aveva infatti promesso rispetto ai suoi alleati europei e asiatici durante la sua campagna. Ho quindi segnalato quanto fossero eccessive le speranze riposte in Joe Biden. Joe Biden è molto più gentile di Donald Trump. Il suo attaccamento al collegamento transatlantico è reale. Tuttavia, come ogni presidente americano, il suo obiettivo primario è la difesa e la promozione degli interessi nazionali americani, non di quelli europei..

Il tour autunnale in Europa di Joe Biden sarà molto diverso dal suo tour primaverile in cui ha incontrato i capi di stato e di governo della NATO e dell’Unione Europea. Oggi gli europei hanno visto che il ritorno degli Stati Uniti negli affari mondiali si concentrerà sull’Asia e darà priorità alla rivalità con la Cina. Dovrebbero risolversi ad affrontare l’ovvio: la presidenza Biden non intende investire troppo nelle aree e nelle questioni di interesse essenziale per gli europei: i rapporti con la Russia, l’instabilità in Medio Oriente. , la destabilizzazione dell’Africa settentrionale… Tuttavia, la fine della luna di miele arriva in un momento poco favorevole a questa consapevolezza: da un lato,

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Oggi la delusione è forte a Parigi o a Berlino ma non può essere tradotta in una generale presa di coscienza europea.

Gérald Olivier:  Quando Biden evoca un ritorno degli Stati Uniti sulla scena internazionale, in realtà parla di un ritorno agli organismi internazionali.

Questi includono un ritorno all’accordo di Parigi sul clima, un possibile ripristino dell’accordo nucleare nei confronti dell’Iran, o addirittura il reinserimento degli Stati Uniti nell’Organizzazione mondiale della sanità.

Biden vuole che gli Stati Uniti rientrino nel gioco internazionale e mettano in risalto la loro diplomazia, piuttosto che la loro potenza militare. Questo ritorno sulla scena diplomatica è accompagnato dal continuo ritiro dal campo militare. La partenza frettolosa dall’Afghanistan è un esempio calzante. Gli Stati Uniti non intendono più essere i poliziotti del mondo e inviare i propri soldati a combattere lontano dal continente americano.

È tempo che gli europei si rendano conto che la guerra fredda è finita da trent’anni e che in un momento in cui gli Stati Uniti si ritirano da alcuni teatri, colgono l’occasione per ritirarsi dagli Stati Uniti… Gli europei stanno finalmente costruendo questa Europa della Difesa di cui parlano da trent’anni. L’esperienza passata suggerisce che questo non accadrà. La protezione della NATO è troppo pratica e troppo economica per rinunciarvi.

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Anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rinnovato l’impegno degli Stati Uniti nel quadro dell’articolo 5 della Carta della NATO, impegno che Donald Trump aveva, per un po’ di tempo, messo in discussione, e gli europei si sentono perfettamente rassicurati.

Fino a che punto l’UE può fare a meno degli Stati Uniti?

Cirillo Bret:Gli Stati Uniti sono un alleato perfetto per gli europei per affrontare le diverse sfide contemporanee. La compenetrazione delle economie europea e americana, la vicinanza dei sistemi politici, il reciproco fascino culturale ei molteplici scambi tra società civili hanno creato per due secoli legami potentissimi tra le due sponde dell’Atlantico. D’altra parte, l’atlantismo beato sopravvaluta il “bisogno dell’America” ​​degli europei. Gli europei hanno fatto molto affidamento sugli Stati Uniti per la rivoluzione digitale e continuano a dipendere da GAFAM per molte infrastrutture e servizi nel settore. Allo stesso modo, in campo militare, molti Stati europei hanno riposto la loro fiducia nella protezione americana quasi più che nelle proprie forze armate.

Quando si parla di “bisogno dell’America”, è importante distinguere tra dipendenza irrazionale e convergenze reali. Oggi gli europei hanno bisogno degli Stati Uniti in molti campi tecnologici, militari e finanziari. Ma hanno anche bisogno urgente di rendersi conto dell’asimmetria del rapporto con Washington. Le priorità dell’America dalla presidenza Obama riguardano l’Asia, non l’Europa. Aspettarsi tutto da Washington è la strada più breve verso l’amarezza geopolitica.

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Gérald Olivier: L’Unione europea non può permettersi di fare a meno degli Stati Uniti, dal punto di vista politico, economico o militare.

Oltre ai paesi dell’Unione Europea, gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale di molti paesi europei, Francia in testa.

Il mercato americano e quello europeo sono i due maggiori mercati mondiali, tra i due blocchi più ricchi del pianeta.

Si tratta di un rapporto economico privilegiato ed essenziale, che si coniuga con un rapporto culturale e strategico.

Sul fronte della difesa, è molto più economico per gli Stati europei fare affidamento sulla protezione americana che finanziare la propria protezione. La Francia è l’unica vera potenza militare nell’Europa continentale (a parte la Russia ovviamente, ma quest’ultima occupa lo spazio eurasiatico).

Sul fronte economico , attraverso il suo mercato interno, come ha bisogno l’Unione Europea dell’estero e degli USA in particolare?

Cirillo Bret: Il commercio non è solo un pilastro essenziale delle relazioni transatlantiche, ma anche uno dei motori dell’economia mondiale perché rappresenta oltre il 40% del commercio mondiale nel 2021. Fornisce 8 milioni di posti di lavoro ed è estremamente diversificato. Per garantire la sua autonomia strategica in campo militare, medico o informatico, l’Europa non ha bisogno di rinunciare alle sue esportazioni e alle sue importazioni verso gli Stati Uniti in generale. Piuttosto, deve proteggere alcuni dei suoi interessi chiave. In materia digitale, deve recuperare risolutamente attraverso la tassazione dei GAFAM ma soprattutto degli investimenti interni. In campo giuridico, gli europei devono anche contrastare l’ambizione americana di imporre tutti i loro standard al di fuori del proprio territorio.

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Gérald Olivier : Siamo in un mondo globalizzato, un paese che aspira a una posizione di potere non può accontentarsi delle relazioni regionali. Gli Stati Uniti e l’Europa sono partner importanti. Gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale dell’Europa. È un cliente di prim’ordine per la Germania, in particolare per l’industria automobilistica ed elettronica. Europa e Stati Uniti sono i due blocchi più sviluppati e più ricchi del mondo. Hanno quindi bisogno di un rapporto d’affari sereno e aperto. L’Europa rappresenta anche una quantità significativa di esportazioni americane. La Francia è solo il 5° cliente degli Stati Uniti ma rimangono partner estremamente importanti.

Sul piano militare, fino a che punto l’Europa ha bisogno degli Stati Uniti? Dovremmo distinguere la loro capacità di rispondere alle minacce sul loro territorio, ad esempio nei confronti della Russia, dalla loro capacità di proiettarsi nei teatri di operazioni estere?

Cyrille Bret: In quest’area, gli europei hanno soprattutto bisogno di sviluppare i propri obiettivi strategici, le proprie capacità e le proprie operazioni. Le capacità di proiezione esterna dell’America sono sia quantitativamente che qualitativamente incomparabili. Ma gli europei sono intrappolati in un circolo vizioso: più si affidano agli Stati Uniti, meno si affidano a se stessi.

Gérald Olivier: Militarmente, l’Europa ha bisogno degli Stati Uniti al 100%. Non esiste un esercito europeo. Le capacità di proiezione dell’Europa sono estremamente limitate. Gli Stati Uniti, inoltre, hanno un certo disprezzo verso gli eserciti europei, ad eccezione dell’esercito francese. Qualunque siano le relazioni tra Francia e Stati Uniti, c’è un vero rispetto da parte dei militari americani nei confronti dei loro omologhi francesi, perché riconoscono il loro know-how, la loro esperienza sul campo e le loro capacità di adattamento. .

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Se consideriamo che esiste ancora uno spazio che possiamo chiamare “il mondo occidentale”, le cui nazioni condividono alcuni valori come l’attaccamento a un’economia di mercato, il rispetto delle libertà individuali, l’idea di governo del popolo da parte del popolo, al contrario di stati autoritari o totalitari, come la Russia o la Cina, allora potremmo concepire un approccio comune tra Stati Uniti ed Europa di fronte a questi avversari. Questo è esattamente ciò che vogliono gli Stati Uniti. Ma l’Europa non vede le cose allo stesso modo e considera, ad esempio, la Cina, come un partner del futuro, che può permetterle di guadagnare molti soldi e che non percepisce come un avversario esistenziale. …

In cambio, quello che si può rimproverare agli Stati Uniti, è una tendenza a non prendere in considerazione i paesi europei. Dall’inizio degli anni 2000, gli Stati Uniti hanno stabilito un’alleanza politica e militare con Australia, India e Giappone, nel mirino della zona indo-pacifica. Questa alleanza quadrilatera esiste ancora. La logica avrebbe voluto che la Francia, che è una potenza legittima nell’Indo-Pacifico attraverso le sue posizioni all’estero, fosse invitata a essere partner di questa alleanza. Non è successo. Idem ora con l’Aukus! Gli Stati Uniti si sono ritirati nel mondo “anglosassone”, ignorando i suoi legittimi partner nell’Europa continentale. Questo è un errore strategico, che maschera anche le rivalità economiche.

https://atlantico.fr/article/decryptage/a-quel-point-l-europe-et-la-france-sont-elles-vraiment-dependantes-des-etats-unis-joe-biden-emmanuel-macron-donald-trump-paris-washington-diplomatie-geopolitique-cyrille-bret-gerald-olivier?utm_source=sendinblue&utm_campaign=A_quel%20point%20lEurope%20et%20la%20France%20sont-elles%20vraiment%20d%C3%A9pendantes%20des%20%C3%89tats-Unis%20?&utm_medium=email

Stati Uniti, il rattoppo peggio dello sbrego_con Gianfranco Campa

Il declino di un paese e la degenerazione di un conflitto politico si notano spesso più dal carattere grottesco di episodi secondari che dalla drammaticità dei grandi eventi. E’ lo spettacolo che ci sta offrendo la campagna elettorale in Virginia. Sino a poche settimane fa l’esito appariva scontato, del tutto a favore del candidato democratico. Non è più così. E alla pochezza e goffaggine del candidato si è aggiunto la scarsa influenza dei big della politica, a cominciare da Obama, nel condizionare il giudizio degli elettori; l’azione di uno di essi, niente meno che il presidente Biden, appare addirittura controproducente. L’esito delle elezioni in Virginia rischia di condizionare pesantemente il comportamento di tutti i rappresentanti del Congresso i quali, schierati nel partito democratico, devono però tener conto della importante quota di elettorato fedele a Trump che li ha votati. Un domino che rischia di trasformare un presidente smarrito in un’anatra zoppa già all’inizio del suo mandato. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Mafia, società e uomini dello Stato. Spunti dalle “considerazioni del Generale dei Carabinieri Mario Mori”

Dal 26 al 29 ottobre il quotidiano “Il Riformista” ha pubblicato un memoriale del Generale dei Carabinieri, ex-comandante del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), Mario Mori a seguito della sua assoluzione definitiva dalle gravissime accuse di “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Una macchia indelebile, una nemesi crudele che avrebbe potuto colpire il generale e tutta la squadra che, sotto la guida dei giudici Falcone e Borsellino, era riuscita ad arrestare il capo di “Cosa Nostra” Totò Riina; quell’arresto avrebbe dovuto essere solo una tappa di un filone di indagine che mirava a scoprire e colpire la fitta trama di legami costruite dalle associazioni mafiose con gli ambienti imprenditoriali e delle pubbliche amministrazioni. Con l’assassinio di Falcone e Borsellino, la repentina chiusura delle inchieste nelle principali procure siciliane e i processi a carico dei singoli componenti dell’intera squadra, nel frattempo disciolta, impegnata in indagini così delicate, quell’arresto così clamoroso e promettente si rivelò in realtà l’annuncio dell’epilogo di una vicenda appena agli albori e conclusasi con la beffa, da vedere quanto determinata da coincidenze o da calcolo politico, di una possibile fine ignominiosa dei protagonisti sopravvissuti di quell’azione di indagine giudiziaria. L’assoluzione clamorosa del generale Mori, sia pure ormai attesa, ha goduto dei riflettori del sistema mediatico per non più di un paio di giorni. Meriterebbe ben altra attenzione. Il memoriale sembra cadere nell’ombra del dimenticatoio nel momento stesso della sua uscita. Si fa fatica addirittura a reperire copia fisica del quotidiano che ha ospitato il documento. Una volta terminata la pubblicazione e attesi e rispettati i diritti di esclusiva detenuti dal quotidiano, i blog di “Italia e il mondo” e del “corriere della collera” di Antonio de Martini hanno deciso di pubblicare a loro volta il testo con l’auspicio che siano numerosi i siti editoriali disposti a diffondere il memoriale. Nella loro linearità le considerazioni del generale Mori offrono numerosi spunti di riflessione, di azione politica ed anche di politica giudiziaria riguardo alla natura delle organizzazioni mafiose, alla rappresentazione agiografica del potere mafioso come minaccia ed antitesi al potere dello Stato, alla natura stessa del, per meglio dire dei poteri giudiziari i quali più che indipendenti, si rivelano essere autonomi e partecipi a pieno titolo delle dinamiche politiche e di potere, anche le più profonde ed oscure. Rappresentazione appunto agiografica che nella loro immagine più lineare sono offerti come corpi estranei, in quella più sottile sono evidenziati solo nel loro aspetto di poteri autonomi con la funzione militare ad oscurare il resto. E’ il terreno di pascolo sul quale per decenni si sono nutriti i cosiddetti “professionisti dell’antimafia”, così bene inquadrati da Leonardo Sciascia. Se i classici ambiti di azione legati alla droga e ai traffici illeciti, pur clamorosi nelle loro dimensioni, contribuiscono a rafforzare questa rappresentazione limitativa del potere mafioso, la sua implicazione diretta e fondamentale negli appalti e nelle attività imprenditoriali lascia intuire e intravedere una ben altra natura riguardo ai suoi legami con i centri di potere e alle dinamiche di conflitto, collusione e compenetrazione nella società e negli apparati statali. Prospettive “inedite” che dovrebbero vellicare la curiosità dell’opinione pubblica e di chi ha il potere di intervenire. Sarebbe il modo migliore di cercare di uscire dalla commedia degli inganni e di rendere onore e giustizia a quei funzionari che si sono esposti a mille pericoli e che hanno rischiato invece di finire nell’onta, non solo nell’oblìo. Con i nostri mezzi alquanto irrisori cercheremo di offrire il contributo possibile alla chiarezza. Una chiarezza che dovrebbe ormai essere cristallizzata anche in qualche nome e cognome, per quanto di persone ormai attempate_Giuseppe Germinario

Considerazioni

Nelle interminabili discussioni con critiche, originate dall’attività operativa del ROS dei Carabinieri nel contrasto alla mafia, il punto di partenza è sempre costituito dalla mancata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Quale protagonista di quei fatti espongo in merito la mia versione. Subito dopo la cattura del capo di “cosa nostra”, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione, ubicata a Palermo in quella via Bernini 54, ma al momento non individuata precisamente, perché inserita in un comprensorio – delimitato da un alto muro di recinzione – costituito da una serie di villette indipendenti. Prospettata dal cap. Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava della considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo “covo” non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nella proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione avrebbe dovuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione. L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa, dopo circa ventiquattro ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, “bruciò” l’obiettivo, e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa. A questo punto anche le indagini che ci eravamo prefissi di svolgere in copertura divennero molto più difficili, stante l’eco addirittura internazionale della vicenda. Malgrado queste difficoltà, la cattura del Riina non rimase un fatto episodico, perché attraverso alcuni “pizzini” trovatigli addosso, fu possibile risalire alla cerchia stretta dei suoi favoreggiatori, procedendo in successione di tempo al loro arresto. La perquisizione della villetta abitata dai Riina venne eseguita solo dopo alcuni giorni su iniziativa della Procura della Repubblica di Palermo, in un quadro di scollamento tra le attività della magistratura e della polizia giudiziaria. Noi eravamo convinti di potere sempre agire nell’ambito delle iniziative preliminarmente concordate, mentre la Procura era sicura del mantenimento del controllo sull’obiettivo. L’equivoco diede luogo all’apertura di un procedimento giudiziario che i sostituti procuratori incaricati, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, proposero per due volte di archiviare, ma il Gip, attraverso un’ordinanza di imputazione coatta, decise per l’apertura del processo, con l’ipotesi, a carico mio e del cap. Sergio De Caprio, di favoreggiamento di elementi di “cosa nostra”. La vicenda penale si concluse con la nostra piena assoluzione, perché “il fatto non costituisce reato”. Nella motivazione, la 3° Sezione penale del Tribunale di Palermo, sulla decisione volta a dilazionare la perquisizione, sosteneva testualmente: “ … Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni 2 espresse dagli organi di Polizia Giudiziaria direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella ( moglie del Riina, ndr) che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere o occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che avrebbero potuto fare nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata e le frequentazioni del sito.” Sull’ipotesi, emersa già anche in quel processo, di una trattativa condotta dal Ros con uomini di “cosa nostra”, il Tribunale la escludeva con queste considerazioni: “ … La consegna del boss corleonese nella quale avrebbe dovuto consistere la prestazione della mafia è circostanza rimasta smentita dagli elementi fattuali acquisiti nel presente giudizio”. A conferma dell’approccio sempre manifestato, fondato cioè sulla convinzione della nostra non colpevolezza, la Procura di Palermo non interpose appello. Malgrado l’esito processuale, che non avrebbe dovuto concedere ulteriori margini di discussione, “la mancata perquisizione del covo di Riina” rimane tuttora un postulato per coloro che sostengono il teorema delle mie responsabilità penali nell’azione di contrasto a “cosa nostra”. In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte – contenente chissà quali segreti – che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boos e a nulla vale presentare la fotografia, scattata anni dopo e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro. Nell’ipotesi peggiore, l’attività investigativa mia e dei militari che comandavo è considerata sostanzialmente criminale. Bene che vada, la tecnica operativa attuata dal Ros, mutuata dal Nucleo Speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è definita come autoreferenziale, quindi non perfettamente in linea con i canoni stabiliti dalle norme procedurali. Di fronte a queste accuse che considero ingiuste, ritengo di dovere fare alcune considerazioni. Le critiche che mi vengono rivolte, relative alle indagini svolte dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sono sostenute per lo più da persone che, all’epoca, in quella primavera/estate del 1992, se non erano minorenni, certamente non hanno avuto nessuna partecipazione e conoscenza vissuta degli eventi, per cui esprimono giudizi senza avere presente la realtà di quei drammatici mesi. La società nazionale ed in particolare i siciliani, già profondamente colpiti dal tragico attentato di Capaci, accolsero attoniti la nuova strage di via D’Amelio. Chi si trovava allora a Palermo poteva 3 constatare l’angoscia e la paura diffuse, non solo tra i cittadini comuni, ma anche in coloro che per gli incarichi ricoperti avevano il dovere di contrastare con ogni mezzo “cosa nostra”. Ricordo in particolare come alcuni magistrati sostenessero che era finita la lotta alla mafia e parlassero di resa; ho ancora ben presenti tutti quei politici, giornalisti ed esperti che esprimevano il loro sconfortato pessimismo, valutando senza possibilità di successo il futuro del contrasto al fenomeno. Anche molti colleghi, tra le forze di polizia, avevano iniziato a privilegiare il più prudente e coperto lavoro d’ufficio rispetto alle attività su strada. Nessuno, comunque, a livello di magistratura ma anche da parte degli organi politici competenti, ovvero delle scale gerarchiche delle forze di polizia, ritenne, in quei giorni, d’impartire direttive o delineare linee d’azione investigative aggiornate per contrastare più efficacemente l’azione criminale di “cosa nostra”. Le istituzioni sembravano dichiararsi impotenti contro l’attacco mafioso. In particolare erano scomparsi dalla scena i protagonisti dell’antimafia militante. In questa sfacelo generale alcuni, e tra questi i Carabinieri del Ros, ritennero invece un dovere, prima morale e poi professionale, incrementare l’attività investigativa, nel rispetto della propria funzione e per onorare la memoria dei morti nelle due stragi. Decisi così d’iniziativa, ma nella mia competenza di responsabile di un reparto operativo dell’Arma, di attualizzare e rendere più incisiva l’attività d’indagine, costituendo un nucleo, comandato dal cap. Sergio De Caprio, destinato esclusivamente alla cattura di Riina ed autorizzai il cap. Giuseppe De Donno a perseguire la sua idea di contattare Vito Ciancimino, personalità politica notoriamente prossima alla “famiglia” corleonese, nel tentativo di ottenere una collaborazione che consentisse di acquisire notizie concrete sugli ambienti mafiosi, così da giungere alla cattura di latitanti di spicco. Si tenga conto che il cap. De Donno, negli anni precedenti, aveva arrestato Vito Ciancimino per vicende connesse ad appalti indetti dal Comune di Palermo, ma se si voleva ottenere qualche risultato concreto, non si poteva ricercare notizie valide tra i soliti informatori più o meno attendibili, ma avvicinare chi con la mafia aveva sicure relazioni. A proposito del contatto con Vito Ciancimino non posso essere criticato per un’attività riservata nella ricerca di notizie e di latitanti; infatti le norme procedurali consentono all’ufficiale di polizia di ricercare e tenere rapporti con quelli che ritiene in grado di fornirgli informazioni. Ciancimino quindi, libero cittadino in attesa di giudizio, era una potenziale fonte informativa e per questo avvicinabile in tutta riservatezza dalla polizia giudiziaria, così come previsto dall’art. 203 del nostro codice di procedura penale. Molti, però, mi imputano il fatto di non avere avvertito l’autorità giudiziaria competente del tentativo di convincere l’ex sindaco di Palermo alla collaborazione. Del tentativo ritenni di dovere rendere edotte alcune cariche istituzionali. La dott. Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ne fu informata nel corso del mese di giugno 1992, sino dai primi approcci tentati dal cap. De Donno col figlio del Ciancimino; il magistrato ne parlò a sua volta col ministro Claudio Martelli e con il dott. Borsellino. Nel luglio 1992 avvisai personalmente il segretario generale di palazzo Chigi, l’avv. Fernanda Contri, che comunicò la notizia al presidente del Consiglio dei Ministri, Giuliano Amato. Nell’ottobre successivo ne parlai 4 ripetutamente all’on. Luciano Violante, nella sua qualità di presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Tutti questi contatti hanno avuto conferme da parte degli interessati nei dibattimenti processuali che mi hanno riguardato. Le personalità qui citate rivestivano cariche istituzionali e avevano funzioni che mi consentivano di riferire loro notizie riservate sulle indagini che stavo svolgendo. Se qualcuno di costoro, peraltro, avesse ravvisato qualche comportamento illecito nel mio comportamento, avrebbe avuto l’autorità, anzi l’obbligo, di denunciarlo immediatamente ai miei superiori, ovvero alle autorità politiche da cui dipendeva la mia scala gerarchica, ma questo non avvenne. La mia scala gerarchica, per suo conto, sulle indagini svolte, così come previsto, eseguì successivamente un’indagine amministrativa che si concluse senza rilevare elementi censurabili nella mia condotta. Rimane però il fatto di non avere informato la Procura della Repubblica di Palermo per un tentativo certamente non di routine che prevedeva, per me e De Donno, e questo deve essere chiaro, anche significativi rischi personali, visto che ci eravamo presentati con i nostri nomi e le nostre funzioni ad una persona legata strettamente ai “corleonesi”, avendogli precisato, dopo i primi approcci, che il nostro intento finale era quello di ottenere la cattura dei latitanti mafiosi di spicco. Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del gen. Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singole aspetti. Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati. Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, ad un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti. Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina. Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perchè sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il così detto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione. Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti. Per la prima volta, con il sostegno convinto e fattivo di Giovanni Falcone, si sviluppò un’indagine specifica relativa alle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici, partendo dagli interessi mafiosi. Emerse allora il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) imprenditoria e politica, come sino ad allora ritenuto, non erano affatto vittime, ma partecipi dell’attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. 5 Si arrivò così a risultati concreti addirittura prima, come sostenuto dallo stesso dott. Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali, che l’inchiesta milanese “mani pulite” prendesse corpo e producesse i suoi effetti pratici. Infatti, all’inizio di febbraio 1991, il dottor Falcone, nel lasciare il Tribunale di Palermo per il ministero della Giustizia, chiese di depositare l’informativa riassuntiva sull’indagine che era già stata preceduta da una serie di notazioni preliminari, redatte dal cap. De Donno su aspetti particolari dell’inchiesta, tra cui quelli relativi alle attività di politici apparsi nel corso degli accertamenti. Giovanni Falcone spiegò che la consegna formale fatta nelle sue mani ci avrebbe in parte protetti dalle polemiche che l’indagine avrebbe sicuramente creato. Appena ricevuta l’informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco. Da quel 17 febbraio 1991, per mesi, malgrado le insistenze del cap. De Donno e mie, non si seppe più nulla dell’inchiesta, e questo anche se, il 15 marzo 1991, in un convegno tenutosi al castello Utveggio di Palermo, a proposito della nostra indagine, Giovanni Falcone avesse affermato: “ … Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagine a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno …”; e proseguendo: “Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di fare emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica … ” Il 2 luglio 1991, infine, furono emesse cinque ordinanze di custodia cautelare per quattro imprenditori siciliani più Angelo Siino. Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e sopratutto dove questa poteva portare, perchè alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati. Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica. Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il ROS. Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto. Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater),attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “ quel santo cristiano di Giammanco ”. Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati ed investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. 6 Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992. Nel periodo compreso tra le due stragi si sviluppò una significativa serie di vicende riguardanti le indagini del Ros, e precisamente: . 19 giugno 1992, due ufficiali del Ros, i capitani Umberto Sinico e Giovanni Baudo, informano direttamente il dott. Borsellino di avere ricevuto notizie confidenziali circa la preparazione di un attentato nei suoi confronti, precisando e che in merito erano stati formalmente allertati gli organi istituzionali competenti per la sua sicurezza; . 25 giugno 1992, Paolo Borsellino mi chiede un incontro riservato che si svolge a Palermo nella caserma Carini, presente anche il cap. De Donno. Il magistrato, che già aveva ottenuto dal ROS il rapporto “mafia e appalti” quando era a Marsala – in merito ci sono le dichiarazioni processuali a conferma da parte dei magistrati Alessandra Camassa, Massimo Russo e Antonio Ingroia, oltre a quelle dell’allora maresciallo Carmelo Canale – sostiene di volere proseguire le indagini già coordinate da Giovanni Falcone che gliene aveva parlato ripetutamente e sollecita, ottenendola, la disponibilità operativa del Cap De Donno e degli altri militari che avevano condotto l’inchiesta; . 12 luglio 1992, la Procura di Palermo, con lettera di trasmissione a firma Giammanco, invia quasi per intero l’informativa Ros sugli appalti ad altri uffici giudiziari siciliani “per conoscenza e per le opportune determinazioni di competenza”. Per un’indagine basata sull’ipotesi di associazione per delinquere di tipo mafioso (416 bis c.p.) la procedura adottata implica, da parte della Procura mandante, il sostanziale cessato interesse per gran parte dell’indagine, infliggendole un colpo praticamente mortale; . 13 luglio 1992, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti; . 14 luglio 1992, in una riunione dei magistrati della Procura di Palermo, Paolo Borsellino chiede notizie sull’inchiesta e afferma che i Carabinieri sono delusi della sua gestione. Dalle successive dichiarazioni al CSM da parte dei presenti a quella riunione, emerge che nessuno gli dice che ne è già stata proposta l’archiviazione (Guido Lo Forte era tra i presenti); . 16 luglio 1992, si tiene a Roma una cena tra Paolo Borsellino, l’on. Carlo Vizzini, e i magistrati palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso dell’incontro, a riguardo c’è la testimonianza processuale di Carlo Vizzini, il dott. Borsellino parla diffusamente dell’indagine mafia e appalti individuandola come una delle possibili cause della morte di Giovanni Falcone. Il dott. Lo Forte non informa il collega che due giorni prima, insieme al dott. Roberto Scarpinato, ne aveva chiesto l’archiviazione. Anche il giornalista Luca Rossi testimonierà in dibattimento di avere avuto, in quei giorni, un incontro con Palo Borsellino che gli parlò dell’inchiesta mafia e appalti. Vale la pena altresì ricordare, come risulta dalle plurime testimonianze dei suoi colleghi, tra cui Vittorio Aliquò, Leonardo Guarnotta, e Alberto Di Pisa, che il dott. Borsellino ritenesse come l’interesse mostrato dall’amico Giovanni Falcone per l’indagine fosse una delle possibili cause della morte di quest’ultimo; . 19 luglio 1992, al primo mattino, il dott. Borsellino riceve la telefonata del procuratore Giammanco che gli conferisce la delega ad occuparsi delle indagini relative alla città di Palermo e alla sua provincia. Nel pomeriggio il magistrato viene ucciso da un’autobomba unitamente ai cinque agenti della sua scorta; . 22 luglio 1992, tra giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, il procuratore Giammanco inoltra al Gip del Tribunale di Palermo la richiesta di archiviazione per mafie e appalti; 7 . 14 agosto 1992, il Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, firma l’archiviazione dell’inchiesta. La decisione passa inosservata nella completa distrazione propria del periodo ferragostano. Sulla base di questa sequenza di fatti ed alla luce dei successivi sviluppi investigativi, si dovrebbe chiedere ai magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo perché, il 14 luglio 1992, nella loro riunione, non fu detto a Paolo Borsellino che c’era già una richiesta di archiviazione per mafia e appalti e per quali motivi si voleva chiudere l’indagine, e inoltre perché il procuratore Giammanco non sia stato mai formalmente sentito su queste vicende. In particolare, poi, al dott. Giammanco, vissuto sino al 2 dicembre 2018, viste le polemiche nel frattempo insorte e protratte nel tempo, si sarebbe dovuto chiedere di: .. spiegare il motivo per cui solo il 19 luglio (Giorno dell’attentato di via D’Amelio), previa una telefonata di primo mattino, concesse a Paolo Borsellino la delega ad investigare anche sui fatti palermitani; .. commentare l’affermazione fatta da Giovanni Falcone alla giornalista Liana Milella, quando, riferendosi alle determinazioni assunte dalla Procura della Repubblica di Palermo sull’inchiesta mafie e appalti le definì: “Una decisione riduttiva per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”; .. chiarire i termini dell’appunto rinvenuto nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale si evidenziavano le pressioni del dott. Giammanco sul cap. De Donno al fine di chiudere l’inchiesta mafia e appalti, giustificate dal procuratore come richieste pervenute dal mondo politico siciliano che altrimenti non avrebbe più ottenuto i fondi statali per gli appalti; .. smentire eventualmente le dichiarazioni di Angelo Siino che, nel corso della sua collaborazione, sempre ritenuta fondamentale dalla Procura della Repubblica di Palermo, affermò di avere avuto l’informativa mafia e appalti pochi giorni dopo il suo deposito e che il documento gli era pervenuto, attraverso l’on. Salvo Lima, dal dott. Giammanco. Infine mi piacerebbe conoscere perchè le dichiarazioni di alcuni magistrati della Direzione Distrettuale di Palermo che il 29 luglio 1992 e nei giorni a seguire, sentiti dal Consiglio Superiore della Magistratura, avevano riferito della riunione della DDA di Palermo, tenutasi il 14 luglio 1992, e nella quale Paolo Borsellino aveva chiesto notizie sull’indagine mafia e appalti, non sono state oggetto di nessun accertamento. Si tenga poi conto che queste dichiarazioni, si sono conosciute solo a distanza di molti anni ed esclusivamente per l’iniziativa dell’avv. Basilio Milio, mio difensore, che, dopo avere collezionato negli anni vari dinieghi dalla Procura di Palermo, qualche mese orsono ha finalmente avuto accesso ad un fascicolo processuale che ha trovato presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta e qui le ha rintracciate. Così le ha potute presentare nel corso del recente dibattimento davanti alla Corte di Assise di Appello di Palermo relativo alla presunta trattativa Stato/mafia, rendendole finalmente pubbliche. Per concludere questo argomento sottolineo che le perplessità nei confronti di alcuni indirizzi assunti dal dott. Giammanco nella gestione della Procura di Palermo, non costituivano solo una convinzione mia e di qualche altro ufficiale del Ros, ma erano radicate anche in una parte dei magistrati appartenenti al suo ufficio, che diedero anche vita a significative e pubbliche azioni di contestazione, senza che però in prospettiva, anche dopo l’arrivo del nuovo procuratore capo, il dott. Giancarlo Caselli, qualcuno ritenesse di svolgere accertamenti su quanto in quell’estate del 1992 era successo. Dopo pochi mesi, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera, dal carcere e tramite i suoi avvocati, manifestò la volontà di collaborare, ma visti respinti i suoi tentativi di essere 8 ascoltato dalla Procura della Repubblica di Palermo, riferì i fatti da lui conosciuti al cap. Giuseppe De Donno e al sostituto procuratore Felice Lima della Procura della Repubblica di Catania. Quest‘ultimo, al termine degli accertamenti conseguenti alle dichiarazioni del collaborante, inoltrò al Gip del Tribunale di Catania la richiesta di ventitré ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altro, ma venne fermato dal proprio procuratore capo, il dott. Gabriele Alicata, che si rifiutò di firmare il provvedimento e decise, anche qui, di frazionare l’inchiesta in tre distinti segmenti: . a Catania, rimase la parte riguardante un ospedale cittadino che portò all’arresto di Carmelo Costanzo, il cavaliere del lavoro che, insieme ai colleghi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci e Mario Rendo, costituiva il gruppo dei così detti ” quattro cavalieri dell’apocalisse” e delle cui attività si era a suo tempo interessato anche il generale Dalla Chiesa. Oltre al Costanzo furono arrestati un ex presidente della Provincia e alcuni membri di una Usl locale; . a Caltanissetta, venne avviata la parte che riguardava le accuse del Li Pera a quattro magistrati della Procura della Repubblica di Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte, Ignazio De Francisci e il procuratore capo Pietro Giammanco. L’inchiesta si concluse con l’esclusione di ogni responsabilità a carico degli indagati. Anche l’addebito, rivolto al Giammanco, di avere ricevuto denaro per ammorbidire gli esiti di mafia e appalti fu archiviato; . a Palermo, toccò specificatamente la parte relativa a “cosa nostra”, che portò alla successiva emissione di un’ordinanza di custodia cautelare intestata a Salvatore Riina più ventiquattro, in pratica il gotha mafioso palermitano, escludendo quindi ogni responsabilità della componente politica. In nessuno di questi tre filoni operativi fu richiesta la partecipazione dei militari del Ros che pure avevano svolto, in esclusiva, tutte le precedenti indagini. Il conflitto interno alla Procura di Catania si concluse con la richiesta da parte del dott. Lima del trasferimento al Tribunale Civile. Il comportamento del cap. De Donno, ritenuto scorretto dalla Procura della Repubblica di Palermo, fu segnalato alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che definì la pratica senza riscontrare alcun comportamento irregolare da parte dell’ufficiale. Sulla propaggine catanese di mafia e appalti, meglio su tutta la vicenda, mi sembra appropriato concludere citando le parole dette dal dott. Felice Lima, il 4 maggio 2021, davanti alla Commissione d’inchiesta dell’Assemblea Regionale Siciliana: . “ … Io avevo le stesse carte dei colleghi palermitani, ma mentre sul mio tavolo queste carte portarono i frutti contenuti in quelle duecentotrenta, non mi ricordo, pagine di richiesta, a Palermo non era praticamente successo niente, anzi c’era stata una dolorosa, dal mio punto di vista, richiesta di archiviazione”. Per completare la narrazione sulle indagini da me coordinate nel settore degli appalti pubblici, c’è da aggiungere che, vista l’impossibilità di proseguire questa tipologia di inchieste in Sicilia, sempre nel corso del 1992, spostai il reparto del cap. De Donno a Napoli, dove fu riproposta la stessa ipotesi investigativa, questa volta applicata alla camorra. Lo spunto ci proveniva dalla segnalazione di minacce e intimidazioni con danneggiamenti, di chiara origine camorristica, rivolte a tecnici e cantieri della Impregilo, società impegnata nella costruzione della linea ad alta velocità Roma-Napoli (TAV). Da una serie di riscontri ottenuti, si constatò che, anche qui, l’interesse verso gli appalti pubblici da parte di appartenenti alla camorra era prioritario. Concordammo con due magistrati illuminati, il procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova e il responsabile di quella Direzione Distrettuale Antimafia, Paolo Mancuso, una linea di lavoro che prevedeva l’inserimento fittizio di un nostro uomo nel contesto operativo dei lavori della TAV, con la funzione di 9 eventuale catalizzatore degli interessi illeciti, presentandolo come rappresentante dell’Associazione Temporanea d’Imprese (ATI) aggiudicataria del complesso dei lavori. In breve, il nostro uomo, il sedicente ing. Varricchio, in realtà il t. col. Vincenzo Paticchio del Ros, fu contattato da elementi del clan camorristico degli Zagaria, egemone nella zona di Casal di Principe, e si dichiarò disposto ad accettare un confronto che consentisse un “sereno” svolgimento delle attività. La richiesta dei criminali prevedeva la dazione del tre percento dell’importo dei lavori. Vi erano inoltre altre percentuali da prevedere per la componente politica e per il mondo imprenditoriale. Varricchio accettò, ma pretese che tutte le richieste fossero in qualche modo formalizzate. Alcune di queste vennero ufficializzate nel corso di riunioni, tenutesi presso l’hotel Vesuvio di Napoli e coordinate dal geometra Del Vecchio, che prese fedelmente nota dei nominativi delle imprese segnalate, delle loro richieste e da chi venivano sponsorizzate. Il geom. Del Vecchio era in effetti un abilissimo maresciallo del ROS. Tutte le operazioni furono registrate in audio e video e l’indagine si concluse con il rinvio a giudizio di camorristi , imprenditori e politici, tra cui anche il vice presidente della Regione Campania. Nel processo vennero condannati gli imprenditori e i camorristi, mentre i politici risultarono assolti in quanto “vittime di un’attività di provocazione”. Ancora mi domando che differenza effettiva ci fosse tra politici, camorristi ed imprenditori, visto che analogo era stato il loro comportamento. Lo svolgimento dell’indagine condotta d’intesa con la Procura della Repubblica di Napoli dimostrò comunque che un’inchiesta nel settore degli appalti, anche con la normativa degli anni novanta, poteva essere portata avanti se c’era coordinamento e unità d’intenti tra magistrati requirenti e investigatori. All’Università Federico II di Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio, si tennero per anni lezioni su quella nostra indagine. ***** Nel lungo tempo trascorso da quell’anno 1992, ho avuto più volte la possibilità di parlare con gli ufficiali che svilupparono con me quelle indagini sugli appalti. Il confronto ci ha portati ad una serie di conclusioni: . il business nazionale della criminalità organizzata mafiosa era costituito dal condizionamento degli appalti che si affiancava, a livello internazionale, con quello costituito dal traffico delle sostanze stupefacenti; . il condizionamento degli appalti pubblici non costituiva solo l’obiettivo principale dei gruppi mafiosi, ma era fonte di guadagno illecito anche per molti imprenditori e politici, da considerare quindi non vittime ma partecipi dell’attività criminale; . stroncare l’inchiesta mafia e appalti, sorta ancora prima di “mani pulite”, evitava di collegare i due procedimenti giudiziari che in effetti sono stati condotti in maniera separata. Solo anni dopo, Antonio Di Pietro ha riferito dell’intenzione di Paolo Borsellino di unificare gli sforzi per gestire le rispettive inchieste, ravvisandovi una strategia unica. Lo stesso dott. Di Pietro ha ricordato di avere ricevuto dal cap. De Donno la sollecitazione ad interessarsi dell’inchiesta siciliana a fronte dell’inerzia di quella magistratura; . l’inchiesta sviluppata dal Ros a partire dal 1990, coordinata e sostenuta da Giovanni Falcone, si è integrata senza soluzione di continuità con quella di Catania diretta dal dott. Felice Lima, e seppure stroncata con la 10 stessa tecnica usata a Palermo, ha consentito di evidenziare anche nella parte orientale dell’isola la presenza al tavolo degli appalti pubblici degli stessi attori: mafiosi, imprenditori e politici; . le inchieste sugli appalti, demolite in Sicilia, hanno invece avuto più ampi sviluppi in altre zone del paese; . alcuni esponenti della magistratura siciliana hanno consentito, con le loro decisioni, che le inchieste sul condizionamento degli appalti pubblici abortissero nella loro fase iniziale. Prima che tutti i protagonisti di queste vicende siano scomparsi, saremmo ancora in tempo per analizzare e valutare le ragioni delle loro decisioni; . io e Giuseppe De Donno siamo vivi perché la morte di Paolo Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione. Eliminato il magistrato, è stato facile neutralizzare tecnicamente l’indagine che stavamo sviluppando, senza provocare altri omicidi che avrebbero potuto indirizzare in maniera più precisa le indagini sui fatti di sangue di quell’anno: omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci, strage di via D’Amelio e omicidio di Ignazio Salvo. Tutto ciò premesso, appare assolutamente necessario che su quanto esposto vi sia un chiarimento, insistentemente richiesto anche da altre parti coinvolte. Il lungo tempo trascorso potrà contribuire a più distaccate e serene valutazioni che, però, appaiono tuttora necessarie, perché troppe morti le hanno segnate indelebilmente. ***** A conclusione di queste brevi note voglio esprimere una considerazione di carattere personale. Il Ros, costituito il 3 dicembre 1990, è un reparto investigativo a competenza nazionale che si interessa dei fenomeni di grande criminalità. Negli anni in cui era da me diretto, come peraltro avviene tuttora, conduceva indagini rapportandosi con le Procure della Repubblica più importanti del paese, tutte coordinate da magistrati di grande qualificazione professionale. Ebbene nelle numerose attività sviluppate, solo in Sicilia, si sono verificati fatti che hanno dato origine a polemiche e inchieste di rilevanza penale, protrattesi addirittura per oltre un ventennio. Ora se è nella forza delle cose che, per attività così delicate, si possano verificare singoli episodi di contrasto, frutto di incomprensioni e anche di errori umani tra i responsabili delle operazioni, l’ampiezza temporale delle tre inchieste, svolte in successione nei confronti miei e di alcuni ufficiali da me dipendenti, appare oltremodo indicativa, e tale da presentarsi non come il riflesso di convincimenti supportati da documenti e riscontri maturati nel tempo, ma piuttosto come l’attuazione, da parte di alcuni magistrati, di un predeterminato disegno di politica giudiziaria. I tre procedimenti, sempre derivati dallo stesso contesto investigativo, per cui più di un giurista di fama ha parlato di ” bis in idem”, volendo così indicare la riproposizione, esclusa dal nostro codice, degli stessi fatti in procedimenti diversi, sono sfociati in processi che si sono sin qui conclusi con l’identico risultato: assoluzione perché il fatto non costituisce reato. All’esito di questi ripetuti e conformi esiti processuali o siamo di fronte a un caso di clamorosa insufficienza professionale da parte di chi li ha aperti e sviluppati, ovvero le inchieste sono state 11 condotte interpretando illogicamente o sovradimensionando gli esiti investigativi acquisiti che, infatti, non sono stati condivisi dalla magistratura giudicante. Ritengo che non si possa assolutamente parlare di mancanza di professionalità, ma invece la spiegazione vada ricercata in un approccio dei magistrati requirenti basato sulla volontà di intervenire processualmente in un campo, quello politico, che non compete al loro ordine, ma è esclusivo ambito del potere legislativo ed esecutivo. Il magistrato, nel nostro ordinamento, deve valutare e giudicare i fatti accertati, così come afferma specificatamente l’art. 1 del nostro Codice Penale. A lui non compete in alcun modo tentare ricostruzioni più o meno avventurose in base a proprie convinzioni ideologiche che, in definitiva, portano solo a sovvertire l’equilibrata ripartizione dei poteri su cui si regge ogni democrazia compiuta.

https://corrieredellacollera.com/2021/10/29/concluso-il-caso-mori-si-riapre-il-caso-mori/#comments

https://leorugens.wordpress.com/2021/10/30/de-martini-non-dice-mai-fesserie-in-politica-estera-vediamo-dove-va-a-parare-con-la-vicenda-di-mori/

Perché le rivolte in Medio Oriente falliscono?_ Di  Hilal Khashan

Perché le rivolte in Medio Oriente falliscono?

I governi della regione hanno escogitato un sistema per schiacciare qualsiasi seria richiesta di cambiamento.

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Le rivolte del 2010-11 contro i regimi arabi autocratici hanno sbalordito il mondo. Gli oligarchi al potere nella regione erano noti per reprimere sistematicamente anche le più piccole manifestazioni di malcontento pubblico. Quando la rivolta in Tunisia si è verificata nel dicembre 2010, si è diffusa quasi istantaneamente, dal Marocco sull’Oceano Atlantico al Bahrain sul Golfo Persico. Commentatori politici stupiti hanno parlato dell’ascesa della tigre sunnita dormiente e dell’alba della democrazia in tutta la regione. Ma l’euforia non durò a lungo. Il Deep State arabo, con la sua macchina di coercizione e la sua rete di alleati locali, ha represso le proteste e schiacciato ogni tentativo di rovesciare i regimi. L’ingerenza straniera e la mancanza di una visione condivisa da parte degli attivisti arabi hanno anche contribuito a garantire che i disordini pubblici non avrebbero minacciato la sopravvivenza del regime.

primavera araba
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Macchinario di coercizione

Tra gli anni ’30 e ’60, organizzare un colpo di stato di successo in Medio Oriente era relativamente facile. Anche un piccolo gruppo di ufficiali dell’esercito potrebbe rovesciare un regime; avevano solo bisogno di comandare truppe sufficienti per impadronirsi del palazzo presidenziale o reale, del ministero della difesa e del ministero delle comunicazioni per controllare le articolazioni del sistema politico. In Iraq ci sono stati sei colpi di stato negli anni ’30, uno (un fallito golpe filo-nazista) nel 1941 e molti altri negli anni ’50 e ’60. La Siria ha visto tre colpi di stato nel 1949 e più negli anni ’50 fino al 1970. L’Egitto e la Libia hanno avuto rispettivamente un colpo di stato nel 1952 e nel 1969.

Ma nel 1970, l’era della sovversione del governo terminò, tranne che in Sudan, che subì un colpo di stato nel 1989. I governanti militari arabi avevano finalmente imparato come prevenire i tentativi di rovesciamento rafforzando la loro presa sull’esercito e sulla società. In Egitto, gli ufficiali che organizzarono il colpo di stato del 1952 istituirono il Consiglio del Comando Rivoluzionario sotto la guida di Gamal Abdel Nasser. Negli anni successivi divenne più sofisticato, adottando il titolo di Consiglio Supremo delle Forze Armate. In Siria, il presidente Hafez Assad ha epurato l’esercito e posto in posizioni di comando colleghi ufficiali alawiti, che controllavano le forze armate e nominavano funzionari leali per controllare il sistema politico. In Iraq, Saddam Hussein, salito al potere con un colpo di stato del 1968, ha eliminato brutalmente tutta l’opposizione all’interno del partito Baath al potere alla fine degli anni ’70 e ha fatto affidamento esclusivamente sul sostegno degli arabi sunniti della sua città natale di Tikrit per mantenere il controllo. Come altri governanti arabi, Saddam creò una forza speciale, chiamata Guardia Repubblicana, che divenne la componente più potente e fidata dell’esercito. In Libia, Moammar Gheddafi, che ha rovesciato la monarchia nel 1969, ha creato i reggimenti di Gheddafi per prevenire controcolpi e rivolte religiose militanti.

In Iran, dopo aver ispirato la Rivoluzione Islamica nel 1979, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini non si fidava dei militari e ordinò che i suoi massimi comandanti fossero giustiziati e molti altri licenziati. Khomeini mise in dubbio la lealtà dell’esercito, che aveva abbandonato lo scià dopo aver ucciso migliaia di manifestanti in quello che divenne noto come il Black Friday nel settembre 1978. Khomeini concentrò quindi la sua attenzione sulla formazione di un’unità d’élite delle forze armate chiamata Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica come così come la milizia Basij, un ramo dell’IRGC – entrambi responsabili della difesa del regime dalle minacce esterne e interne.

I governanti della regione avevano stretto un patto con la loro gente: il governo avrebbe provveduto ai bisogni di base del pubblico in cambio della loro disponibilità a rimanere fuori dalla vita politica. Ai cittadini sono stati essenzialmente promessi alloggi a basso costo, alimenti di base sovvenzionati, cure mediche gratuite e istruzione attraverso il college. Coloro che non hanno accettato l’accordo, tuttavia, hanno subito una punizione severa. In questo modo, sono stati costretti a consentire ai regimi di mantenere il potere ultimo virtualmente incontrastato.

I regimi repubblicani arabi hanno anche stabilito solide alleanze interne per aiutare a contenere eventuali disordini potenziali. In Siria, Hafez Assad ha cooptato la classe imprenditoriale sunnita a Damasco e Aleppo e ha dato loro mano libera nella gestione dell’economia. Ha messo sunniti in posizioni di governo di primo piano, anche se sotto l’occhio vigile dei lealisti alawiti. Suo figlio Bashar ha portato avanti la sua eredità, cooptando le tribù arabe sunnite nella regione di Jazeera per tenere a bada i curdi e dare legittimità al suo regime. Ha anche liberalizzato l’economia siriana e ha collaborato con la classe imprenditoriale sunnita. In Egitto, il presidente Hosni Mubarak ha permesso alle forze armate di essere coinvolte nell’economia. La firma degli accordi di Camp David nel 1978, la fine della guerra con Israele e l’assassinio del presidente Anwar Sadat da parte delle truppe dell’esercito rinnegate convinsero Mubarak a occuparsi dell’esercito con questioni economiche per evitare che tramasse per rovesciarlo. Anche in Arabia Saudita, il regime ha chiuso un occhio davanti agli ufficiali che intraprendono opportunità di affari e guadagnano commissioni. In Iran, gli ayatollah hanno gareggiato con la business class dei bazar senza sfrattarli dal mercato. Hanno anche introdotto sussidi alimentari, anche se l’economia ha sofferto a causa delle sanzioni statunitensi.

Negli ultimi anni, tuttavia, la stagnazione economica della regione ha ridotto la gamma dei sistemi di welfare del governo per la maggior parte dei paesi del Medio Oriente, portando spesso a disordini pubblici. I regimi hanno compensato la loro ridotta capacità di provvedere alle loro popolazioni aumentando il loro uso di tattiche coercitive a livelli senza precedenti.

Paesi potenzialmente instabili
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Opposizione divisa

I leader autoritari della regione – siano essi repubblicani, monarchici o rivoluzionari islamici – hanno distrutto le società civili dei loro paesi, trovando varie giustificazioni per la loro repressione dell’opposizione. I leader arabi e iraniani hanno accusato le voci dissenzienti di agire per conto dell’imperialismo occidentale e del sionismo. Dopo la schiacciante sconfitta dell’Egitto nel 1967, Nasser represse tutte le critiche, affermando che nessun individuo dovrebbe distrarsi dagli sforzi per liberare il territorio occupato. In Iraq, Saddam ha ritratto i dissidenti sciiti come agenti iraniani. Poi, quando le milizie filo-iraniane hanno preso il potere dopo l’invasione statunitense nel 2003, hanno respinto le richieste dei sunniti di un equo accordo di condivisione del potere, definendoli agenti degli Stati Uniti, del sionismo e dei movimenti islamici radicali.

Allo stesso tempo, le forze di opposizione non sono riuscite a presentarsi come un blocco unito. In Iran, i riformisti articolano programmi diversi. In Iraq, coloro che chiedono il cambiamento attraversano lo spettro politico per includere comunisti, nazionalisti, gruppi arabi sunniti tradizionali e sadristi, sostenitori del religioso sciita anticonformista iracheno Muqtada al-Sadr. Sadr è in disaccordo con le milizie filo-iraniane, ma è anche attento a non inimicarsi Teheran, suggerendo che molti movimenti sciiti sono sostenuti dall’Iran.

Poco dopo l’inizio della rivolta siriana, i gruppi contrari al regime hanno iniziato a organizzarsi in Europa e in Turchia, tenendo numerosi incontri lì per cercare di concordare una nuova forma di governo per sostituire il regime di Assad, se fosse crollato. Alla fine, non sono riusciti a mettersi d’accordo su nulla. In Egitto, i movimenti che hanno partecipato alla rivolta per rovesciare Mubarak avevano poco in comune. Ciò ha spianato la strada ai militari per facilitare l’elezione del candidato dei Fratelli Musulmani Mohammad Morsi, in modo che potesse accelerare la sua eventuale estromissione. L’esercito era intenzionato a sbarazzarsi di lui, credendo che la sua visione del mondo fosse incoerente con la sua visione dell’Egitto. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha radunato tutti i movimenti della società civile contro Morsi nel luglio 2013 e lo ha rovesciato. Ha poi messo a tacere questi movimenti, ribellandosi ai liberali e ai laici.

Inizialmente, sembrava che la rivolta in Tunisia fosse l’unica riuscita negli stati arabi. A tempo debito, tuttavia, anche questo non è riuscito a innescare alcun vero cambiamento. Le forze politiche emerse nel Paese dopo la caduta del governo del presidente Zine El Abidine Ben Ali si sono rafforzate, togliendo spazio politico a Ennahda, primo partito a formare un governo dopo le proteste. Alla fine, la politica tunisina ha raggiunto un’impasse e il pubblico è diventato disincantato dalla politica di partito. Anche il presidente politicamente indipendente, Kais Saied, ha seguito un percorso che assomigliava a quello dei precedenti governanti autocratici.

Intervento Straniero

L’ultimo fattore che ha portato alla fine delle rivolte arabe è stata l’ingerenza straniera. In Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti erano allarmati dalla caduta di Mubarak e dall’ascesa della Fratellanza. Dopo che Morsi fu rovesciato, diedero ad Abdel-Fattah el-Sissi miliardi di dollari per sostenere il suo regime. In Siria, gli Stati Uniti, Israele e gli Emirati Arabi Uniti non volevano vedere il crollo del regime di Assad. In effetti, le loro politiche in Siria differivano poco da quelle di Russia e Iran, il cui sostegno ha assicurato che il governo di Assad rimanesse al potere. In Libia, gli attacchi aerei della NATO hanno distrutto la macchina militare di Gheddafi, ma l’ingerenza straniera di Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Turchia ha mantenuto il paese diviso e in subbuglio. Nello Yemen, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno contribuito a sconfiggere una rivolta e poi hanno intrapreso una guerra contro i ribelli Houthi, che inizialmente hanno abilitato prima di rivoltarsi contro di loro. Le probabilità sono che lo Yemen sarebbe scivolato nell’anarchia anche senza l’intervento straniero, ma i suoi vicini arabi hanno certamente aggiunto benzina sul fuoco. In Bahrain, la maggioranza sciita oppressa ha guidato una rivolta nel febbraio 2011, che è stata sedata dai sauditi. Hanno distorto le richieste di equità e giustizia dei bahreiniti presentandole come parte di uno stratagemma iraniano per destabilizzare il paese.

La regione è lungi dall’essere pronta per insurrezioni di successo e le comunità politiche con un senso di visione nazionale devono ancora emergere. La risoluzione dei problemi interstatali in sospeso della regione, come le questioni curda e palestinese, deve precedere qualsiasi cambiamento interno. Comprensibilmente, i paesi aspirano a usare le proprie capacità economiche e tecnologiche per esercitare la propria influenza. Tuttavia, l’ideologia politica avvolta nel determinismo religioso è una ricetta per perpetuare il conflitto e bloccare le prospettive di sviluppo economico e politico.

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Il passato impensabile: per una narrativa europea critica, di Hans kundnani

Un articolo interessante nell’individuare alcuni  de”i punti ciechi” dell’universalismo europeista; molto meno nel tentativo generico di riproporlo. Si tratta comunque di un dilemma attualmente irrisolvibile per vari motivi: per il peccato originale costitutivo della Unione Europea, nato come conseguenza di una sconfitta e di una occupazione militari; per l’inesistenza di una nazione europea e di una formazione egemonica interna ad essa capace di plasmare una sufficiente identità ed una missione comune. Un universalismo quindi figlio di una abdicazione ad un ruolo autonomo piuttosto che di una vocazione imperialista. Da sottolineare anche che i residui impulsi veterocolonialisti presenti in Europa posero freni alla costruzione europea, in particolare alla CED (Comunità di Difesa Europea) sponsorizzata dagli americani, piuttosto che incentivarne la costruzione. Uno dei motivi che indussero alla tiepidezza di Francia e Gran Bretagna verso la CED fu appunto che avrebbero dovuto indebolire pesantemente il proprio complesso militare nelle colonie, una volta constatata la trazione statunitense della costruzione europea e la priorità strategica riservata al nemico sovietico. Giuseppe Germinario

Come Luuk van Middelaar ha recentemente sostenuto in una discussione con Pierre Manent per Le Grand Continent , l’Europa ha bisogno di una “storia”. Tale narrazione, che lega il presente al passato, secondo van Middelaar, è sia “il carburante di qualsiasi forma di organizzazione politica” sia anche una “bussola” di cui l’Europa ha bisogno per “guidare la sua azione sulla scena internazionale”. “Senza una storia”, ha scritto, “non sai dove stai andando, da dove vieni, non hai criteri per giudicare un’azione o per decidere cosa fare. In altre parole, senza una narrazione, l’Europa – con cui van Middelaar intende presumibilmente l’Unione europea – mancherebbe sia di una direzione che di una fonte di energia.

Mi sembra che questo appello piuttosto disperato a una narrazione sia esso stesso sintomatico di un problema in Europa. Dopotutto, una volta l’Unione aveva una narrativa abbastanza avvincente basata sull’idea di un “modello europeo”, incentrato sull’economia sociale di mercato e sullo stato sociale. È stato un discorso basato su una reale offerta ai cittadini europei di una qualità della vita e di un senso di solidarietà. È importante notare, tuttavia, che questa era un’idea dell’Europa e di ciò che rappresenta, facendo attenzione a non definirla in relazione a un Altro. Piuttosto, si basava su un rapporto speciale tra Stato, mercato e cittadini che aveva prodotto crescita economica e coesione sociale, in altre parole un modello civico.

Tuttavia, nell’ultimo decennio questo modello è stato svuotato della sua sostanza ed è diventato meno credibile. Mentre l’Unione, guidata dalla Germania, ha lottato con una serie di crisi, a partire dalla crisi dell’euro nel 2010, ha cercato di diventare sempre più “competitiva”, il che, in pratica, ha portato al ricorso all’austerità e alle riforme strutturali. In questo contesto, c’è stata anche una reazione populista contro il modo di governo tecnocratico rappresentato dall’Unione. È a causa della perdita di credibilità di questa narrazione precedente, incentrata su un modello socio-economico e sulle modalità di governo dell’Unione, che i “pro-europei” hanno finito per cercare di definire l’Europa in termini culturali – realizzando ciò che ho proposto chiamare la svolta di civiltà del progetto europeo .

Questo cambiamento si può osservare anche nell’evoluzione dell’idea, portata avanti in particolare da Emmanuel Macron, di una “Europa che protegge”. Quando usa per la prima volta il termine, dopo essere stato eletto presidente nel 2017, lo intende in senso lato nel senso di protezione contro le forze di mercato. Macron vuole riformare la zona euro e creare un’Europa più redistributiva; in un certo senso è un’idea di centrosinistra. È solo dopo che il cancelliere Angela Merkel ha respinto – o meglio semplicemente ignorato – le sue proposte di riforma della zona euro, che reinventa questa idea di “Europa che protegge” dandole un sapore culturale. Sotto la pressione dell’estrema destra in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno, ciò da cui oggi si cerca di proteggere i cittadini europei sembra essere meno il mercato che l’islamismo.

Questa richiesta piuttosto disperata di una narrazione è essa stessa sintomatica di un problema in Europa.

HANS KUNDNANI

La maggior parte degli “europeisti” è cieca a questo pensiero di civiltà che si insinua nel progetto europeo – e talvolta volontariamente, perché se ne ammettessero l’esistenza, dovrebbero criticare gli altri “europeisti”. Ciò che distingue van Middelaar dagli altri è che ne è un attivo sostenitore. Fa esplicitamente “appello a una storia più lunga, a una civiltà più ampia per aprire l’immagine di sé dell’Europa”. In altre parole, vuole che l’Europa si consideri un quasi-stato di civiltà; van Middelaar non vede alcun problema a questo riguardo nel ragionamento in termini di Huntington. Al contrario, tenderebbe a pensare che questo sia esattamente ciò di cui l’Europa ha bisogno.

L’Unione come distillato della storia europea

Van Middelaar afferma che l’Europa deve riscoprire la sua storia pre-1945, dalla quale si è “tagliata fuori”. Invidia il modo in cui i leader americani, cinesi e russi sono capaci, secondo lui, di porsi come “portavoce di una storia lunghissima” e di “incarnare contemporaneamente la modernità del loro Paese facendo riferimento a un passato. “. Ritiene che i leader europei siano incapaci di farlo perché immaginano che la storia europea su cui possono fare affidamento – cioè la storia dell’Unione stessa – “è iniziata solo con la Dichiarazione Schuman del 1950.

L’argomento del rifiuto da parte dell’Europa della propria storia, che anche l’onorevole van Middelaar ha avanzato in un altro articolo all’inizio di quest’anno, non è privo di fondamento. L’anno 1945 è spesso visto nell’immaginario collettivo come una sorta di “anno zero” europeo, il momento in cui l’Europa ha posto fine alla sua disastrosa storia di conflitti e ha ricominciato da capo. A partire dalla creazione della Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA), la storia ci dice che gli europei hanno trasformato le relazioni internazionali in Europa per rendere impossibile la guerra tra stati-nazione e in particolare tra Francia e Germania – è l’idea dell’Unione Europea come progetto di pace. Questo spiega perché molti “europeisti” pensano che l’Altro dell’Europa di oggi è il proprio passato – come afferma Mark Leonard.

Tuttavia, se è vero che i “filoeuropei” vedono l’inizio dell’integrazione europea come una rottura con la storia dell’Europa prima del 1945, anche su questa storia si sono costantemente affidati, tanto per legittimare che con una funzione di pathos. In particolare, invocano costantemente l’Illuminismo, che sarebbe alla base dei “valori europei” difesi dall’Unione, e figure come Erasmus, il cui nome designa il programma di scambio studentesco finanziato dall’Unione che ha vocazione a creare “élite pro-europee”. Ma invocano anche figure più problematiche della storia europea – basti pensare al Premio Carlo Magno, ad esempio, assegnato in nome dell’incarnazione di una visione medievale dell’identità europea, sinonimo di cristianesimo e definita in opposizione all’Islam.

Quindi, affermare, come fa van Middelaar, che “l’Europa si è tagliata fuori dalla sua storia” è troppo semplicistico. Al contrario, i “pro-europei” vogliono avere entrambe le cose quando si tratta della storia del continente – e il modo in cui “dimenticano” la storia europea è molto più specifico di quanto afferma van Middelaar. I “pro-europei” vogliono davvero tagliarsi fuori da quelle che considerano le parti più oscure della storia europea, in particolare il nazionalismo – e vedono l’integrazione europea come un’espressione di questo rifiuto. Ma vedono anche l’Unione come l’incarnazione di ciò che è buono nella storia europea, in particolare le idee dell’Illuminismo. In altre parole, immaginano l’Unione come la soluzione di una storia europea distillata – o, per dirla in altro modo, come il prodotto delle proprie lezioni.

L’Europa come sistema chiuso

L’aspirazione a distillare il meglio della storia europea non è di per sé negativa. Il problema, tuttavia, è che quando “pro-europei” come van Middelaar cercano di farlo , si basano generalmente su una visione idealizzata e semplicistica della storia europea. In particolare, tendono a immaginare l’Europa come un sistema chiuso, ovvero come una regione con una propria storia autonoma, separata dalle altre regioni. Riduce la storia europea a una narrazione lineare che va dall’antica Grecia e Roma all’Unione europea, al cristianesimo e all’Illuminismo. Ignora le numerose influenze esterne esercitate sull’Europa, in particolare quelle dell’Africa e del Medio Oriente.

Peggio ancora, così come questo approccio esclude la presenza della non-Europa all’interno dell’Europa, esclude anche quella dell’Europa nella non-Europa, cioè le interazioni degli europei con il resto del mondo al di là dei confini geografici dell’Europa. Tuttavia, l’incontro degli europei con le popolazioni dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe dal XVI secolo in poi ha chiaramente modellato cosa significasse “essere europei”. Fu durante questo periodo che apparve una nuova versione moderna dell’identità europea, più razziale che religiosa, in altre parole, meno sinonimo di cristianesimo che di bianchezza. La stretta relazione tra questi due termini – “europeo” e “bianco” – è chiaramente visibile nel contesto coloniale.

Così come questo approccio esclude la presenza della non-Europa all’interno dell’Europa, esclude anche quella dell’Europa nella non-Europa, cioè le interazioni degli europei con il resto del mondo al di là dei confini geografici dell’Europa.

HANS KUNDNANI

Una delle conseguenze di questa tendenza dei “pro-europei” a vedere l’Europa come un sistema chiuso è il modo in cui, fin dall’inizio, il progetto europeo si è basato esclusivamente sull’apprendimento delle lezioni “interne” del mondo. – ovvero ciò che gli europei si sono fatti gli uni agli altri, e in particolare i secoli di conflitti interni al continente culminati nella seconda guerra mondiale. La narrativa ufficiale dell’Unione non ha quasi mai tentato di trarre le lezioni “esterne” della storia europea, cioè di ciò che gli europei hanno fatto collettivamente al resto del mondo. Dalla metà degli anni Sessanta, L’Olocausto è stato anche sempre più integrato nella narrativa ufficiale dell’Unione – Tony Judt ha persino sostenuto che la memoria dell’Olocausto è diventata il “biglietto d’ingresso europeo contemporaneo”. Ma il progetto europeo non è mai stato informato allo stesso modo dalla memoria del colonialismo.

Questa tendenza a vedere l’Europa come un sistema chiuso porta anche a un resoconto distorto delle idee universaliste che i “pro-europei” credono di difendere e di come sono state propagate al resto del mondo. La rivoluzione haitiana è un buon esempio. Per lungo tempo è stato cancellato dalla storia delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo. Eppure, come mostra la storiografia recente, era molto più vicino alla realizzazione delle aspirazioni universaliste dell’Illuminismo rispetto alle rivoluzioni americana o francese. Pertanto, la storia della diffusione dei moderni valori europei basati sull’Illuminismo nel resto del mondo deve includere il modo in cui i non europei hanno combattuto contro gli europei in nome di questi valori.

Una storia seria dell’Europa deve essere onesta anche sull’Unione stessa, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra la fase iniziale dell’integrazione europea e la decolonizzazione. Non solo questi due fenomeni coincidevano – quando fu firmato il Trattato di Roma nel 1957, la Francia era nel bel mezzo della sua brutale guerra coloniale in Algeria – ma anche, come hanno dimostrato Peo Hansen e Stefan Jonsson, l’integrazione europea è stata concepita in parte come un mezzo per il Belgio e la Francia per consolidare i loro possedimenti coloniali nell’Africa occidentale. In altre parole, lungi dall’essere un progetto postcoloniale, figuriamoci anticoloniale, l’integrazione europea fa parte della storia del colonialismo europeo. È quello che si potrebbe chiamare il “peccato originale” dell’Unione europea.

La storia della diffusione dei moderni valori europei basati sull’Illuminismo nel resto del mondo deve includere il modo in cui i non europei hanno combattuto contro gli europei in nome di questi valori.

HANS KUNDNANI

Un passato “utilizzabile”

Questo ci porta alla questione dell’obiettivo del “racconto” che van Middelaar vuole sviluppare. Si tratta di adottare un atteggiamento più trasparente e onesto sulla storia reale dell’Europa e della stessa Unione? O si tratta piuttosto di creare miti capaci di solidificare un “noi” in nome del quale i leader europei potrebbero parlare, come sembra suggerire van Middelaar? Il tentativo di strumentalizzare la storia e creare un passato “utilizzabile” è ciò che ha sostenuto la costruzione della nazione europea del XIX secolo. Ciò che van Middelaar sembra voler fare è replicare questo progetto a livello dell’Unione – in altre parole, costruire una regione piuttosto che una nazione – nel 21° secolo.

L’importanza di queste domande sull’identità è in parte spiegata dal fatto che le società europee ora hanno molte più persone con origini in altre parti del mondo rispetto all’Europa. Si potrebbe quindi pensare che l’obiettivo politico di una narrativa europea dovrebbe essere quello di migliorare la coesione sociale nelle società ora multiculturali. La visione più complessa della storia europea che ho proposto – quella in cui l’Europa non è vista come un sistema chiuso e dove sono riconosciute le sue interazioni, buone e cattive, con il resto del mondo – aiuterebbe a compiere questo sforzo.

Ma ciò che interessa davvero all’onorevole van Middelaar è qualcos’altro. La ragione per cui pensa che l’Europa abbia così tanto bisogno di una narrazione è in realtà più esterna che interna. Vuole che gli europei creino un’agenzia europea per agire – “agire e […] difendere gli interessi in quanto europei” – in un mondo in cui l’Europa è sempre più minacciata. In questo senso, le sue argomentazioni sono tipiche degli attuali dibattiti di politica estera europea che vertono su “autonomia strategica”, “sovranità europea” e Handlungsfähigkeit , ovvero “capacità di agire”, ovvero potenza europea. Ma se questo è l’obiettivo di creare una narrazione, la tendenza sarà inevitabilmente quella di semplificare e distorcere la storia europea, in breve, di creare miti..

Particolarismo e universalismo

In fondo, la questione più interessante – ma anche più difficile – sollevata dalla discussione tra van Middelaar e Manent riguarda il rapporto tra particolarismo e universalismo nell’idea di Europa. Gli europei hanno sempre considerato universali le proprie idee e i propri valori – che tuttavia sono emersi in circostanze specifiche della storia del continente. Era anche la base dell’idea di una “missione civilizzatrice” europea. Questa missione civilizzatrice è stata un elemento straordinariamente continuo nella storia dell’idea di Europa, anche se il suo contenuto è cambiato nel tempo da una missione religiosa a una razionalista, razzializzata, poi, nel dopoguerra e nel postcoloniale periodo, a una missione tecnocratica.

Molti “pro-europei” semplicemente non riconoscono la tensione tra particolarismo e universalismo e quindi sostengono che non c’è alcun problema nel considerare i “valori europei” come valori universali. Van Middelaar riconosce che questo è troppo facile – ad esempio, riconosce come, durante il periodo medievale, “europeo” e “cristiano” fossero “quasi intercambiabili”. C’è quindi qui una sorta di riconoscimento di ciò che Paul Gilroy chiamava “la particolarità che si nasconde sotto le pretese universalistiche del progetto illuminista”. La questione, però, è come risolvere questo complesso rapporto tra particolarismo e universalismo nell’idea di Europa – come “posizionarsi di fronte all’universale”, per dirla con le parole di van Middelaar. .

Se i valori europei di oggi sono radicati nelle idee illuministe, come affermano i “pro-europei”, la sfida è capire l’eredità di tali punti ciechi nel loro stesso pensiero.

HANS KUNDNANI

Un modo per farlo è abbandonare del tutto ogni aspirazione all’universalismo e adottare una sorta di relativismo. Vi alludono alcuni analisti di politica estera europea, che si considerano realisti . Esortano gli europei a perseguire semplicemente i loro interessi particolari – comunque li definiscano – e ad abbandonare ogni aspirazione a diventare un ” potere normativo ”  . »Che revisiona la politica internazionale a immagine dell’Unione. In un mondo anarchico in cui l’Europa è sempre più minacciata, sostengono che gli europei dovrebbero rinunciare all’idea di fare ciò che è bene per il mondo intero e semplicemente fare ciò che è bene per loro. In altre parole, propugnano una sorta di europeismo spudorato.

Né Manent né van Middelaar arrivano a tanto. Entrambi sembrano volere che gli europei abbraccino, o rivendichino, una sorta di particolarismo, ma da una prospettiva di civiltà piuttosto che realistica. Ad esempio, van Middelaar vuole che gli europei possano parlare della “peculiarità del loro modo di vivere” come pensa che facciano gli americani e dice che non dovrebbero “cancellare” le origini cristiane di questo modo di vivere. Ma allo stesso tempo, non sembra nemmeno voler rinunciare all’idea dell’universalismo europeo: ripete che i valori elencati nell’articolo 2 dei trattati europei sono valori universali. Non è quindi chiaro come concili particolarismo e universalismo.

Invece di ripiegare su narrazioni di civiltà e creare miti sull’Europa, un modo migliore per risolvere il dilemma sembra piuttosto adottare un approccio più critico alla storia europea – e alla storia dell’Unione stessa – come un passo verso un universalismo veramente universale. Un tale approccio segue generazioni di pensatori, molti dei quali provengono da tradizioni radicali antimperialiste e nere, che hanno cercato non di rifiutare le aspirazioni universaliste ma di realizzarle. In particolare, implica confrontarsi con la storia dell’Europa in tutta la sua complessità, comprese le sue interazioni con il resto del mondo e i modi in cui l’Europa non è stata all’altezza della sua retorica universalista.

Implica anche un approccio più critico alla storia dell’Illuminismo rispetto a quello di molti “pro-europei” che invocano l’Illuminismo ma sembrano ignorare le complessità della loro storia. Come ha dimostrato Susan Buck-Morss1, sebbene il contrasto tra libertà e schiavitù fosse al centro del pensiero illuminista, “i filosofi illuministi europei insorsero contro la schiavitù , tranne dove essa esisteva letteralmente “. Rousseau, ad esempio, non aveva nulla da dire sul codice nero che, ad Haiti e altrove, teneva gli esseri umani in catene reali piuttosto che metaforiche. Se i valori europei di oggi sono radicati nelle idee illuministe, come affermano i “pro-europei”, la sfida è capire l’eredità di tali punti ciechi nel loro stesso pensiero.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/10/26/le-passe-impense-pour-un-recit-critique-europeen/?mc_cid=7fd03f228e&mc_eid=4c8205a2e9

PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARTECIPAZIONE ELETTORALE E DEMOCRAZIE LIBERALI

L’articolo, sintetico ed efficace di Riccardo Scarpa pubblicato dall’Opinione del 21 ottobre 2021, sulla “deriva oligarchica” di elezioni cui partecipa all’incirca il 40% degli elettori, induce a qualche ulteriore riflessione.

La prima: è sicuro che qualsiasi regime politico, anche non democratico, si regge (anche) sul consenso dei governati. Questo può desumersi laddove siano monarchie ed aristocrazie da vari “indici”. Il principale dei quali è l’obbedienza, il non dissenso (o il dissenso parziale e contenuto). In quelli democratici c’è un “indice” in più, peraltro numerico: le elezioni. Se il corpo elettorale è svogliato e renitente, significa quello che Scarpa ha ben espresso: che è un’oligarchia, non di diritto, ma di fatto. E che una democrazia che suscita tanta indifferenza sia in buona salute è difficile sostenerlo: anche perché fino a qualche decennio fa nella deprecata “prima repubblica” eravamo abituati a percentuali di partecipazione al voto almeno doppie.

In secondo luogo: siamo abituati a distinguere tra democrazia e liberalismo. Ci sono state nella storia democrazie poco o punto liberali e stati liberali poco (o punto) democratici. Tra cui il Regno d’Italia, almeno fino al suffragio universale maschile (1913). Ciò non toglie che democrazia e liberalismo, facili a distinguersi concettualmente, si siano per lo più accompagnati nella storia. Anche un regno del XIX secolo, in cui votava il 5% (o anche meno) dell’elettorato maschile era più democratico di una monarchia del settecento, quando non c’erano votazioni né rappresentanza (in senso moderno) dei governati.

Com’è noto uno dei pensatori liberali cui si deve la più accurata distinzione tra libertà degli antichi (a un dipresso = democrazia) e libertà dei moderni (sempre a dipresso di prova – liberalismo) è Benjamin Constant nel discorso “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”. Constant sostiene che nelle antiche polisScopo degli antichi era la divisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una medesima patria; questo essi consideravano la libertà. Scopo dei moderni è la sicurezza nelle gioie private, ed essi chiamano libertà la garanzie accordate da parte delle istituzioni a tali gioie” mentre nella società moderna “serve a tale libertà, un’altra organizzazione rispetto a quella che poteva andar bene alla libertà antica…all’interno del tipo di libertà di cui noi siamo gelosi, più l’esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà tempo per dedicarci ai nostri interessi privati, più la libertà ci diverrà preziosa. Da ciò deriva, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da sé”; onde il sistema rappresentativo è essenziale alla libertà dei moderni.

Ma c’è un rischio, sostiene il pensatore svizzero “Poiché da ciò che la libertà moderna differisce rispetto all’antica deriva la minaccia di un pericolo di specie differente. Il rischio a cui sottostava la libertà antica era che, attenti ad assicurarsi solo la partecipazione al potere sociale, gli uomini cedessero a poco prezzo i diritti e i godimenti individuali. Il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico. I depositari dell’autorità non mancano di esortarci a far ciò. Essi sono così ben disposti a risparmiarci ogni tipo di pena, eccetto quella di obbedire e pagare”. E ambedue, l’obbedire e il pagare gli italiani hanno sopportato nella seconda repubblica, assai più che nella prima. Ma non è solo questo l’inconveniente: più grave, perché la partecipazione è necessaria alla libertà politica: “La libertà politica, sottoponendo a tutti i cittadini, senza eccezioni, la considerazione e lo studio dei propri più sacri interessi, aumenta il loro spirito, nobilita i loro pensieri, stabilisce tra di loro una sorta di uguaglianza intellettuale che fa la gloria e la potenza di un popolo. Osservate come una nazione si rafforza non appena un’istituzione le consente l’esercizio regolare della libertà politica”, quella libertà che in Italia è temuta come la peste dall’establishment. Tant’è che si vota il meno possibile e, quando lo si fa, si contraddice alle indicazioni dell’elettorato. Per cui dopo un elogio della partecipazione e del patriottismo, Constant afferma che “Ben lungi, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, occorre piuttosto, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro” perché “Occorre che le istituzioni si occupino dell’educazione morale dei cittadini. Nel rispetto dei loro diritti, avendo riguardo della loro indipendenza, senza ostacolare le loro occupazioni, esse devono comunque consacrare l’influenza di cui dispongono alla cosa pubblica, chiamare i cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni, e formandoli in tal modo, per mezzo della pratica, a queste elevate funzioni, donar loro al contempo il desiderio e la possibilità di adempierle”. E questa consapevolezza dello “Stato rappresentativo” come sintesi di democrazia e liberalismo è patrimonio comune dei liberali successivi, a partire da Orlando, Mosca, Croce.

Per cui opporre democrazia e liberalismo significa depotenziare complessivamente la sintesi politica; estraniare i cittadini dallo Stato e ridurli a meri sudditi (privati). Far combattere la democrazia con la libertà vuol dire indebolire lo Stato: cioè proprio quanto vogliono i poteri forti, non democratici e assai poco liberali.

Teodoro Klitsche de la Grange

Sudan, perché il colpo di stato?_di Bernard Lugan

Al di là dei commenti speciosi e superficiali dei media, gli eventi in corso in Sudan sono l’esatta ripetizione di quanto accaduto in Egitto tra il 2011 e il 2013.

In Egitto, lasciando defluire il corso dell’ondata della “primavera araba”, l’esercito ha deposto il maresciallo Mubarak, cedendo apparentemente il potere ai civili. Pensando di aver vinto, il presidente Morsi ha poi commesso diversi errori politici sotto l’occhio vigile dell’esercito che ha lasciato il movimento rivoluzionario a dividersi. Poi, nel 2013, di fronte all’esasperazione della popolazione a causa della penuria che era stata in gran parte organizzata da loro, l’esercito ha ripreso il potere. Alla fine della “primavera araba”, chiusa la parentesi civile, il generale al-Sisi era dunque succeduto al maresciallo Mubarak… ( vedi a questo proposito il mio libro Storia dell’Egitto dalle origini ai giorni nostri ).

In Sudan, nel 2019, l’esercito ha dovuto affrontare a sua volta una grande protesta popolare. Non volendo affrontare direttamente la folla, lasciò che quest’ultima cacciasse dal potere il generale Omar al-Bashir. Ma, proprio come in Egitto, ha mantenuto il controllo del gioco attraverso la creazione di un Consiglio sovrano presieduto dal generale al-Burhane e un governo di transizione, composto per metà da soldati e da civili,  presieduto da Abdallah Hamdok.

Come in Egitto, l’esercito ha lasciato che la situazione degenerasse mentre spingeva la componente civile del governo all’errore. Questo è stato tanto più facile per lui in quanto il paese è in bancarotta da quando l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011 lo ha privato di circa il 75% delle sue entrate petrolifere. Il debito pubblico è colossale, le carenze apocalittiche e, come se non bastasse, il polmone del Paese che è Port Sudan sul Mar Rosso, collegato a Khartoum da una ferrovia, vera arteria vitale del Paese, è regolarmente bloccato dall’insurrezione dell’etnia Bedja che vive nell’entroterra.

Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, giudicando il momento favorevole a salvaguardare gli interessi dell’esercito, il generale al-Burhane ha preso formalmente il potere che già esercitava in gran parte tramite il Consiglio di Sovranità. Il momento era cruciale perché la componente civile dello Stato minacciava doppiamente i suoi interessi:

– Economicamente perché, come in Egitto, qui, in Sudan, sono le forze armate i veri attori economici del Paese.

– Giudiziariamente a causa dei crimini commessi durante la guerra in Darfur. Crimini che hanno portato l’ex presidente Omar al-Bashir ad essere incriminato dalla Corte penale internazionale. Tuttavia, la componente civile del governo ha acconsentito alla sua consegna a questo tribunale; decisione che molti militari hanno visto come un insulto. Ma anche come una minaccia perché tutti gli alti ufficiali dell’esercito sudanese hanno partecipato a questi terribili eventi.

La forza dell’esercito sudanese è paragonabile a quella dell’esercito egiziano? Se è così, come in Egitto, dopo il teatro delle ombre civile, un generale sarà quindi succeduto a un generale …

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono. Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro) di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

 

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono.
Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro)

di Davide Gionco
24.10.2021

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana? I redditi, al netto dell’inflazione, sono inferiori a quelli del 1990; la disoccupazione è in aumento: la povertà è in aumento; le imprese falliscono; i nostri giovani emigrano; chi resta non si sposa e non fa figli, perché il futuro è troppo incerto.
Chi ci governa ci prende in giro, decantando una strabiliante ripresa del 6,1% nel 2021, dopo che nel 2020 il PIL era sceso del -8,9%.
2020 100 x (1-0,089) = 91,1%
2021 91,1 x (1+0,061) = 96,7%
Significa che in due anni il PIL è sceso di (100-96,7) = -3,3%.
Un disastro in un paese già provato da 20 anni di politiche di austerità.

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana?
La risposta è semplice e coincide con la risposta alla domanda: cosa fare per
aumentare la redditività delle imprese, garantendo nello stesso tempo maggiori profitti per il proprietario e migliori retribuzioni per i dipendenti?
1) Abbassare le tasse sugli utili di impresa
2) Abbassare le tasse sui redditi dei lavoratori
3) Mettere più soldi nelle tasche dei clienti, affinché facciano più acquisti
Siccome molte imprese lavorano come fornitori dello stato, dobbiamo aggiungere anche:
4) Aumentare gli investimenti pubblici

L’abbassamento delle tasse sugli utili di impresa lo si può fare riducendo le aliquote. Le imprese avranno più soldi per fare fronte ai nuovi investimenti, oltre che per remunerare l’attività.
Lo stesso dicasi per l’abbassamento delle aliquote di tassazione dei redditi, che consentiranno di aumentare la remunerazione netta dei lavoratori, i quali, a loro volta, avranno più soldi da spendere per le loro necessità, come clienti, il che farà aumentare la produzione delle imprese ed i loro utili. Anche una riduzione dell’IVA sortirebbe l’effetto di ridurre i prezzi di acquisto di beni e servizi e, quindi, di aumentare le vendite, con vantaggio delle imprese e dei loro dipendenti. L’aumento di produzione porterà evidentemente anche a nuove assunzioni.
L’aumento degli investimenti pubblici (manutenzione del territorio, delle strade, degli edifici pubblici, nuove opere, nuovi servizi, ecc.) porterà ad un aumento delle commesse per i fornitori, con nuove assunzioni di personale e maggiore redditività per le imprese.

Fino a qui ci arrivavamo tutti… La domanda che sorge spontanea è: dove trovare i soldi per far quadrare il bilancio di uno stato che taglia le tasse ed aumenta gli investimenti?
Stando alla narrativa dell’informazione “mainstream” non è possibile creare denaro “dal nulla”, motivo per cui nessun governo al mondo si permette di abbassare le tasse e di aumentare gli investimenti per far crescere la propria economia. I più informati sanno che in realtà non è così, perché in paesi che dispongono di una propria banca centrale, come ad esempio gli USA che nel 2020 hanno fatto un deficit di bilancio del 15% sul PIL, totalmente finanziato da nuove emissioni di dollari della Federal Reserve (FED), che hanno appianato le mancate entrate fiscali e gli stimoli per la crescita del governo Trump.
L’informazione “mainstream” continua a supportare gli
inutili tentativi dei vari governi che, da quasi 30 anni, tentano di far ripartire l’economia mantenendo il bilancio in sostanziale equilibrio (se non in attivo). Per contro alcuni economisti di stampo keynesiano, in genere ignorati dai mass-media, richiamano l’importanza per uno stato di disporre di una propria banca centrale in grado di finanziare i deficit di bilancio del governo, necessari per rilanciare l’economia in tempi di crisi. Nel caso dell’Italia, quindi, la soluzione prospettata da questi economisti è l’uscita dall’Eurozona, con il ritorno alla lira e nazionalizzazione della Banca d’Italia.

In realtà la soluzione al problema della crescita economica potrebbe essere, per entrambe le “fazioni”, molto più semplice di quanto immaginiamo.
Per comprendere la soluzione dobbiamo prima di tutto comprendere come funziona una moneta. E’ qualcosa che non si insegna a scuola e, da quanto ho avuto modo di leggere sui testi utilizzati nelle facoltà di economia, neppure agli studenti di economia.

Il funzionamento di una moneta è molto semplice: c’è una centrale di emissione, c’è un meccanismo che ne garantisce la circolazione (per lo scambio di beni e servizi e per il risparmio) e c’è una centrale di ritiro finale, al termine della circolazione.


Funziona cosi per tutte le monete:

Moneta

Centrale di emissione

Meccanismo di circolazione

Centrale di ritiro

Euro

BCE che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a BCE i titoli in scadenza

Dollaro

FED che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a FED i titoli in scadenza

Sesterzio

Imperatore Augusto conia monete

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse all’imperatore

Credito bancario

Banche che fanno credito

scambio beni e servizi

rimborso alle banche del mutuo

Titoli di stato

Tesoro

aste dei titoli, mercato dei titoli

Tesoro paga i titoli in scadenza

Bitcoin

Software crittografico

soprattutto riserva di valuta

convertibilità in dollari/euro

Ticket restaurant

Sodexo li vende a imprese

buono sconto ristorante

Sodexo li converte in euro e paga il ristorante

Fiche del casinò

Casinò

Pagamenti partita di poker

Casinò li converte in euro

Solo una nota tecnica per chi non lo sapesse: oggi i nuovi euro creati dalla BCE vengono messi in circolazione acquistando titoli di stato emessi dal Tesoro. Quando i titoli arrivano alla scadenza, la BCE incassa dal Tesoro il capitale in euro più gli interessi ed emette nuovi per euro per acquistare i nuovi titoli . Lo Stato usa una parte della raccolta fiscale (centrale di ritiro) per pagare gli interessi in euro sui titoli in scadenza, mentre la quota capitale viene finanziata principalmente da nuove emissioni.

La centrale di ritiro garantisce è ciò che garantisce la spendibilità certa di una moneta. Ad esempio in Albania è obbligatorio pagare le tasse in lek, quindi il popolo abanese effettua la maggior parte dei pagamenti in lek, sapendo di poterli certamente spendere per pagare le tasse (centrale di ritiro).
In Italia non è vietato fare pagamenti in dollari. Se un turista straniero ci paga in dollari, li accettiamo solo perché siamo sicuri di poterli convertire in euro, con cui siamo sicuri che potremo pagare le tasse. Se non fossero convertibili, non li accetteremmo.
L’esistenza della centrale di ritiro fa sì che quella moneta assuma valore anche (e soprattutto) per lo scambio di beni e servizi, la cui produzione, se ci pensiamo bene, è il
valore economico reale (valore di utilità), mentre la moneta ha solo un valore giuridico e finanziario.

Ritornando all’obiettivo della sovranità monetaria, nulla vieta allo Stato di costituire una nuova centrale di emissione di moneta e di creare una propria centrale di ritiro, al fine di dare origine ad una nuova moneta.
Ad esempio l’economista Nino Galloni propone di emettere delle stato-note parallele all’euro. I trattati europei vietano ad altri soggetti di emettere euro (che in fatti ha
nno il segno © del copyright), ma non vietano affatto di emettere altre forme di moneta. Se può farlo, ai sensi delle leggi italiane, la Sardex SpA, se lo possono fare con il Bitcoin e con le fiche del casinò, evidentemente anche lo Stato ha il potere giuridico di farlo. Nulla glielo vieta.
A quel punto, basta creare il meccanismo di ritiro, che potrebbe essere la possibilità di pagare le tasse in quella valuta, ed il gioco è fatto.

La mia opinione sulle stato-note è che, pur essendo una soluzione legittima e tecnicamente funzionale, queste potrebbero suscitare sospetti negli italiani, convinti dell’esistenza di una moneta “di serie A”, l’euro, ed di una moneta “di serie B”, le stato-note, per la sola circolazione interna. Per mettere in atto tale soluzione servirebbe una adeguata campagna di informazione a riguardo.

Una soluzione alternativa la potremmo trovare già nella tabella sopra esposta. Fra le varie monete citate abbiamo incluso anche i titoli di stato. Di per sé le teorie economiche odierne già comprendono i titoli di stato nella massa monetaria “M3”, il che significa che i titoli sono una forma di moneta. L’Italia ha ceduto alla BCE la centrale di emissione e di ritiro finale della moneta-euro, ma non ha ceduto ad altri la centrale di emissione e di ritiro dei titoli di stato.
I titoli sono una forma di moneta che ha delle
regole per cui oggi viene utilizzata solo come strumento di risparmio: oggi spendo 1000 euro per acquistare dei titoli, fra 5 anni converto gli stessi titoli in 1025 euro, mantenendo il valore capitale e guadagnando 25 euro di interessi.
Ma se lo Stato decidesse, cambiando le
regole, di iniziare a pagare (in tutto o in parte) i propri fornitori ed i propri dipendenti in titoli di stato (a tasso zero) e se lo Stato accettasse che le tasse vengano pagate (centrale di ritiro) anche in titoli, oltre che in euro, allora in Italia potremmo usare come forma di moneta per lo scambio di beni e servizi direttamente i titoli di stato, senza il bisogno di emettere nuovi titoli da convertire in euro.

Effettivamente ciò che genera il debito pubblico, che ad oggi costituisce un ingombrante fardello per noi italiani, non è l’emissione di titoli in sé, ma è il contratto che lo Stato stipula al momento in cui vende i titoli in cambio di euro, impegnandosi a rimborsare il capitale in euro più gli interessi.
Ma se i titoli vengono usati per pagare beni e servizi ai fornitori ed ai dipendenti dello Stato, il debito è già saldato nel momento dello scambio lavoro/titoli, non c’è alcun impegno a convertirli in euro non si genera alcun debito pubblico.
I lavoratori useranno i titoli per pagare le tasse (centrale di ritiro) e lo Stato, una volta ritiratili, potrà distruggere i titoli al termine della loro circolazione, prima di emetterne di nuovi.

Il vantaggio di questa soluzione è che lo Stato potrebbe emettere sostanzialmente “dal nulla” una maggiore quantità di titoli per coprire il deficit di bilancio, potendo di conseguenza attuare le riforme necessarie per la ripresa economica del paese (riduzione delle tasse, investimenti, ecc.), il tutto senza generare più debito pubblico.

Naturalmente non si può creare ricchezza dal nulla semplicemente stampando banconote o titoli. La ricchezza viene prodotta dai lavoratori che producono beni e servizi. Ma la maggiore disponibilità di denaro in circolazione consentirà, finalmente, di creare nuove opportunità di lavoro per i disoccupati, consentirà di fornire loro una formazione professionale, consentirà di fare investimenti in ricerca, in infrastrutture, rendendo più produttivi i lavoratori ed aumentando la ricchezza di tutti.
Ovviamente l’emissione di titoli dovrà essere commisurata alle necessità economiche del Paese, dato che una emissione eccessiva potrebbe causare dei fenomeni inflazionistici non desiderabili. Non intendiamo affrontare in questa sede la questione dell’inflazione per eccesso di moneta.

In uno scenario del genere l’euro potrebbe continuare a circolare per gli scambi con gli altri paesi europei, per i pagamenti dei turisti stranieri. Lo Stato potrebbe tranquillamente accettare anche gli euro per il pagamento delle tasse, ma non avrebbe bisogno di euro per finanziare le proprie spese sul mercato interno. Gli euro incamerati dallo Stato potranno essere utilizzati per pagare eventuali fornitori stranieri o per regolare il tasso di cambio che, inevitabilmente, si creerà fra i titoli italiani e l’euro.

In conclusione, abbiamo spiegato come gli obiettivi di benessere economico dell’Italia siano certamente perseguibili con una semplice riforma del sistema di emissione, di circolazione (basterebbe una piattaforma elettronica di scambio) e di ritiro dei titoli di stato.
La permanenza nell’attuale situazione di moneta unica fuori dal controllo pubblico non potrà che continuare ad aggravare la situazione di declino e di impoverimento dell’Italia.
La soluzione “tutto-e-subito” di una uscita secca dell’Italia dall’Eurozona, pur se tecnicamente ineccepibile, dovrebbe fare i conti con obiettive difficoltà politiche, sia in Italia, sia a livello europeo.
Una soluzione “pragmatica” di riforma del debito pubblico come sopra illustrato, introdotta con la necessaria gradualità, consentirebbe invece di risolvere rapidamente le disfunzionalità dell’euro-moneta-unica, con vantaggi economici e politici per tutti.

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